Ho incontrato Giovanni Gazzoli, medico a Goiania, mentre stava facendo le valigie dopo otto anni di lavoro in Brasile. Fra gli scatoloni mezzi imballati e le stanze semivuote dell’appartamento, in bilico tra un futuro in Italia e un passato pieno, speso per combattere le tante lebbre del Brasile, ho acceso il registratoreQuali sono le tue mansioni?
Allora… prima faccio un po’ di storia. Mi sono laureato a Bologna in Medicina e all’epoca avevo già deciso, avendo fatto una tesi di Patologia Tropicale, di lavorare nella cooperazione sanitaria internazionale. Subito dopo la laurea ho fatto una specialità in Belgio di Patologia Tropicale e da lì ho mandato il mio curriculum a varie organizzazioni non governative tra le quali ha risposto l’AIFO, che mi ha dato la possibilità di lavorare in un progetto cofinanziato dal Ministero degli Affari Esteri italiano nello stato di Bahia (che è uno degli stati che compongono gli Stati Uniti del Brasile) in appoggio al programma di controllo organizzato dallo stato per l’eliminazione della lebbra. Il Brasile è il secondo paese al mondo come numero di casi, dopo l’India.

C’è ancora tanta lebbra in giro?
Parecchia: ci sono circa quarantaquattromila casi nuovi in Brasile attualmente. C’è un programma a livello mondiale che prevede di arrivare a meno di un caso ogni diecimila abitanti, questa è la meta dell’OMS (Organizzazione Mondiale della Sanità), attualmente in Brasile siamo sui cinque casi ogni diecimila abitanti.

Che cos’è la lebbra?
La lebbra è una malattia contagiosa dovuta ad un batterio, si chiama micobatterio lepre. E’ una malattia oggi completamente curabile. Uno dei più grandi problemi che ci sono attualmente è in relazione al preconcetto molto alto sulla lebbra, per cui è difficile arrivare a curare il paziente. Infatti la cura della lebbra non è riducibile, appunto, alla somministrazione del farmaco perché dal punto di vista sociale la situazione è ancora grave: il malato di lebbra può perdere il lavoro, ha problemi in famiglia, viene discriminato. Si può anche guarire dalla lebbra ma ci si porta dietro questo stigma. I primi sintomi della malattia sono a livello cutaneo, sono delle macchie insensibili. Non è una malattia dermatologica però, ha una predilezione per i nervi dell’apparato nervoso periferico, delle braccia, delle gambe e anche a livello oculare. Può portare delle infermità, se non ben controllata la malattia può causare delle deformità.

Quanti di questi quarantamila casi all’anno riescono ad essere curati?
Tutti sono in trattamento con polichemioterapia, è una selezione di tre farmaci, clofazimina, dapsone e rifampicina, che curano la malattia. C’è un abbandono, diversificato a seconda degli stati brasiliani, causato dal mancato accesso ai servizi, dal pregiudizio e dall’inefficienza del sistema sanitario brasiliano soprattutto in alcune aree sperdute, all’interno degli stati. C’è una media di 20/25% di abbandono della cura ma ci sono degli stati che arrivano anche al 40%.
Il servizio dovrebbe recuperarli, ma molti danno l’indirizzo sbagliato, per non far sapere dove abitano; gli spazi sono immensi e non c’è il personale per recuperare queste persone. Oggi in Brasile è in atto un processo di municipalizzazione, di decentramento: mentre prima era tutto in mano ai federali, alla Fondação National da Saude. Adesso il Sus, il Sistema Unico di Salute brasiliano, prevede il decentramento. I municipi saranno responsabili del proprio territorio ma siamo in una fase di transizione, non hanno personale adeguato, non hanno esperienza. Ancora oggi, in Brasile, è difficile stabilire il futuro del controllo dell’hanseniasi, come viene chiamata la lebbra, nonostante sia in diminuzione la prevalenza, cioè in diminuzione il numero dei casi registrati, e sia aumentato il numero di casi curati. Fino agli anni ottanta la lebbra veniva curata nei lebbrosari, che poi sono stati chiusi; adesso la lebbra è curata nei servizi normali, ma l’incidenza è ancora molto alta soprattutto per i bambini al di sotto dei quindici anni e questo indica che il batterio è ancora in atto. La trasmissione è ancora molto attiva. I farmaci sono donati dall’OMS gratis, o meglio da una organizzazione la ILEP (International Federation of Anti-Leprosy Associations) una federazione di associazioni di cui fa parte anche l’AIFO, che distribuisce la cura contro la lebbra. L’incidenza, che si costruisce considerando i nuovi casi in un anno, è molto elevata: cerchiamo di far prendere coscienza ai segretari municipali che la lebbra è un problema di salute pubblica.

Dare una informazione può aiutare molto contro il pregiudizio. Prima mi hai fatto vedere un testo di una canzone, un cordel…
Sono delle canzoni scritte dai cantastorie nordestini, che anche da noi c’erano in sud Italia, una specie di teatrino con due chitarre, per fare sensibilizzazione, comunicare; funzionava, si faceva nelle fiere e avvicina molto la popolazione.

Oltre a queste iniziative?
L’AIFO lavora dal 1961 nel campo della eliminazione della lebbra. Nei primi anni passava fondi ai missionari che lavoravano in servizi e nei lebbrosari; dalla fine degli anni settanta sono iniziati i progetti di cooperazione vera e propria con personale espatriato come me, di collaborazione tecnica, e attualmente l’AIFO ha venti progetti nell’ambito del controllo della lebbra con segreteria di stato, ha una collaborazione diretta con il Ministero della Sanità, abbiamo cinque progetti in cooperazione con cinque segreterie statali, Distretto federale dove c’è Brasilia, Bahia, Parà, Acre e Goias, più altri progetti con istituzioni religiose, movimenti popolari brasiliani e organizzazioni non governative tipo il MORHAN – Movimento de rehentegração das pessoas com hanseniasi, che lotta contro la discriminazione, che è nato per volontà di persone che hanno sofferto di hanseniasi di persona. Il problema principale, come dicevo, è raggiungere il paziente nella vastità del territorio brasiliano: paziente che in genere non ha nemmeno i soldi per il biglietto dell’autobus per raggiungere di persona il Servizio di Salute. In alcune zone dell’Amazzonia in cui non esiste l’autobus, magari occorre un giorno in barca per arrivare al centro sanitario.

Su una rivista brasiliana ho letto che metà della popolazione è povera o molto povera. Questa fascia della popolazione è garantita dal sistema sanitario?
Purtroppo no. Ufficialmente è dichiarata coperta dal servizio sanitario ma in realtà la copertura sanitaria non esiste, non essendo una priorità la salute pubblica. Le municipalità brasiliane sono più interessate ad avere un ospedale funzionante che non a sviluppare progetti di prevenzione, che eviterebbero che le persone arrivino all’ospedale: l’ospedale ha un maggiore impatto politico sulla popolazione. Tieni conto poi che gli ospedali ricevono i pazienti ma la maggior parte delle volte con carenza di personale e senza gli adeguati farmaci. Ti faccio un esempio: qui a Goiania, una città abbastanza attrezzata che ha un milione di abitanti, capitale dello stato di Goias, non esiste acqua potabile per tutti, con i conseguenti risvolti sulla salute pubblica. All’interno del territorio, nella vasta campagna, ci sono villaggi con case in fango e paglia non solo senza acqua potabile ma senza nemmeno i servizi igienici, canalizzazioni delle fognature, ecc.
In questa realtà difficile l’AIFO finanzia attività di formazione del personale locale, attività di prevenzione delle incapacità, attività di trattamento, riabilitazione e prevenzione – sensibilizzazione sanitaria. Il pensiero di Raoul Follerau è lottare contro tutte le lebbre (contro tutte le forme di discriminazione), ed è per questo che dal 1996 l’AIFO opera su tre settori: lebbra, infanzia e riabilitazione su base comunitaria, promuovendo e finanziando corsi di formazione tenuti da personale brasiliano (tutti settori non ritenuti prioritari). Come medico mi spetta la supervisione amministrativa e tecnica di tutti i trentatré progetti e, pur viaggiando all’interno del Brasile, praticamente compio, con l’aereo, in un anno l’equivalente di due volte il giro del mondo. Poi per arrivare in certi posti sperduti ho viaggiato anche in asino!

Che cosa è per te fare riabilitazione?
Si pensa sempre alla riabilitazione guardando ad un aspetto della persona, quello fisico. Anche qui nei paesi in via di sviluppo, del cosiddetto terzo mondo, (espressione che non mi piace sia perché penso che il mondo sia uno solo, sia perché questa distinzione – primo, secondo e terzo – è stata fatta da chi ha i soldi: i paesi in via di sviluppo sono in realtà i paesi sfruttati) se noi aspettiamo che i grandi centri riabilitativi, con una visione meccanicistica, risolvano i problemi, non ci siamo. Bisogna guardare alla riabilitazione da un punto di vista della globalità della persona.

Sono arrivato che stai facendo gli scatoloni…Quale tipo di sintesi, anche a livello personale, faresti di questi otto anni di esperienza?
Sono stati anni importanti, duranti i quali ritengo di avere instaurato un tipo di cooperazione paritaria, cercando di non pensare solo ai rapporti costi benefici finali ma osservando anche, nella realtà locale, lo sviluppo quotidiano, in relazione alla globalità dei fattori esterni. Spesso si pensa solo al proprio progetto perdendo di vista la visione d’insieme, ciò che ci accade intorno. Uno dei più importanti lavori condotti è stato mettere in contatto tra loro associazioni non governative o istituzioni religiose, isolate sul territorio, con le competenti istituzioni a livello locale e, tramite le mie conoscenze del funzionamento dell’amministrazione ministeriale, si sono sviluppati rapporti di collaborazione tra istituzioni locali e federali. Questo credo che sia uno dei punti di forza del mio lavoro, anche se non era previsto negli obiettivi iniziali. Non ci limitiamo a contare il numero di malati curati o quello di personale formato, pur essendo importante, sarebbe limitativo. Aver contribuito a far crescere una nuova risposta a livello comunitario è più importante.

Oltre al lavoro, a livello personale, quanto di Giovanni è diventato brasiliano e
come vedi il tuo ritorno nel vecchio mondo?
Mi considerano brasiliano, mi sono calato definitivamente nel modo di essere e di vivere, però conosco anche il mio mondo e ci ritorno abbastanza consapevole delle difficoltà che dovrò affrontare. Penso che la cosa più importante, ma anche più difficile, sia poter mettere a disposizione l’esperienza acquisita qui, in Italia e in Europa, dove sta sviluppandosi adesso una società multirazziale. Il Brasile è un mistura di razze ma c’è una fortissima distinzione di classi (non razzismo diretto alla razza, ma alla classe economica di appartenenza).

Quando approfondisti i tuoi interessi sulle malattie tropicali cosa ti aspettavi? Avevi già l’idea di fare qualcosa di simile a quello che hai fatto?
Quello che mi ha spinto a fare Medicina è stata la conoscenza di colleghi che avevano condotto, anche prima della laurea, esperienze nelle zone più povere del mondo, analoghe alla mia. La possibilità di fare qualcosa di efficace in zone difficili mi ha sempre stimolato. Lavoravo in una parrocchia che aveva connessioni con missionari…è stata facile la scelta, poi con mia moglie siamo partiti per il Brasile.

E’ interessante vedere le motivazioni…
Sì, ma se uno aspetta di avere la motivazione, che deve crescere…non lo so…è una decisione tua, personale senz’altro, ma la scelta avviene per i tuoi contatti per le tue amicizie, attraverso la tua sensibilità ai problemi internazionali, attraverso il tuo sentirti un po’ mondiale…viene dall’esperienza dagli stimoli che uno riceve, chissà… per fortuna, o chissà per sfortuna…Potrei essere stato utile anche in Italia. L’esperienza brasiliana può essere molto utile in Italia.

Parlavo con Claudio Batista docente all’Università di Porto Alegre, che il Brasile è un paese molto ricettivo, anche troppo per alcuni versi, in grado di fare molti passi in avanti. Anche tu sei ottimista in questo senso?
Il grande problema del Brasile, oltre quello sanitario, è quello dell’educazione. Oltre il 17% della popolazione è analfabeta totale (considerando anche chi sa scrivere solo il proprio nome, si arriva quasi al 25%). La gestione politica è terrificante: i sindaci non sono i gestori del territorio bensì i veri e propri padroni; affiggono ancora i manifesti con scritto “Questo l’ho fatto io”. Qui si vota ancora la persona, non un’idea politica. Durante le campagne elettorali i dentisti lavorano a più non posso: il sindaco paga i dentisti per mettere a posto i denti alle persone dicendo loro che è lui che paga. C’è una voluta mancanza della partecipazione della maggior parte delle persone alla vita politica e sociale del Paese. I ricchi (che sono ricchissimi concentrano una quantità di risorse sproporzionata, la classe media fa di tutto per sopravvivere ed i poveri sono abbandonati a se stessi.

Qual è la cosa del tuo lavoro che è riuscita meglio e quella che è riuscita peggio?
La cosa venuta meglio è avere avuto la possibilità di conoscere tutte le realtà e di poter trasmettere quello che è l’AIFO ai progetti. Per esempio un mese fa abbiamo fatto l’incontro di tutti i responsabili di progetto qui a Goiania ed è stato un momento molto importante; abbiamo avuto la possibilità di trasmettere il messaggio dell’AIFO e di uniformizzarlo. Una carenza, una cosa che non siamo ancora riusciti a fare è sviluppare una rete progettuale nuova con le istituzioni; per esempio, lavoriamo con altre ONG o con movimenti locali, radicati sul territorio, ma è una strada da sviluppare.

Il popolo brasiliano è ottimista o pessimista?
Secondo me nessuno delle due. E’ fatalista. Ci sono delle aree talmente degradate ed abbandonate che la popolazione non ha nemmeno l’idea di cosa potersi aspettare di meglio, tipo piantare qualche albero e iniziare una sorta di piantagione. Sono abbastanza fatalisti nel senso che non sanno cosa potersi aspettare di meglio e si accontentano di quello che hanno. Un famiglia nata e vissuta da sempre in una capanna di paglia, senza acqua, nell’interno del Piauì, nel mezzo del Sertão bahiano, cosa si aspetta? Quelli invece accorsi dalle campagne verso le grandi città hanno a che fare con i problemi della delinquenza, della disoccupazione e conducono una vita di rassegnazione. Arrivano in città attratti da un sogno e vanno a fine nei quartieri periferici con capanne che sono peggiori di quelle che hanno abbandonato, con l’aggravante che non sanno come “districarsi” nella vita cittadina. Tutto ciò genera violenza: i bambini di strada potrebbero anche tornare a casa se non incontrassero lì una situazione anche peggiore rispetto alle incertezze della strada.

Di che cosa ha bisogno il Brasile?Hai tre minuti di tempo per rispondere…
Beh insomma, è un po’ difficile…(ride). La questione del bisogno è una questione universale. I bisogni per arrivare alla felicità delle persone sono gli stessi in tutto il mondo; il Brasile ha bisogno di maggiori possibilità di avere una chance di ricercare la felicità, di esprimere la propria idea. Esistono però bisogni primari legati alla sopravvivenza quotidiana che portano in secondo piano altri bisogni, eppure il Brasile è l’ottava potenza industriale nel mondo anche se al 79° posto per qualità della vita (l’Italia è 18° e primo è il Canada).

Mi rendo conto sempre di più che le distanze geografiche sono immense, il Brasile è 28 volte l’Italia…
Considera però questo: non è che chi abita nel suo piccolo abbia una visione più ristretta di chi vive in città. Se prediamo un Caboclo (un ex-indigeno che vive sui fiumi dell’Amazzonia) che pesca e vive in un ambito ristretto, ha una coscienza dell’ambiente, e quindi una consapevolezza di se stesso, della Natura in cui vive, molto più forte di quella di un impiegato che abita in città. Pur senza avere conoscenza delle dimensioni del Brasile, dell’esistenza di Brasilia, pur avendo bisogni completamente differenti dall’impiegato, ha una coscienza del proprio essere maggiore. Questi indigeni, pur vivendo isolati, hanno una sensibilità maggiore e non paragonabile a quella della maggior parte della borghesia o del turista medio. Pensa all’italiano che viene in Brasile per turismo sessuale e comincia a lamentarsi del caffè sulla Varig (la compagnia aerea di bandiera). Quale sensibilità può avere? La sensibilità cioè non viene solo dalla tua partecipazione attiva alla vita sociale, dal tuo essere persona impegnata; ma viene anche dalla relazione tra te a la Natura.

Tornando al personale…
Spero in Italia di potere mettere a frutto l’esperienza acquisita qui. Spero. Un progetto di cooperazione è valido se tu porti qualcosa dove vai ma anche se riesci a riportare qualcosa di utile al mondo dal quale sei partito.

Dimmene una.
Secondo me l’idea di mondialità del Caboclo, di cui parlavamo prima, è un idea utile da riportare in Italia. Si crede che il poveretto africano o brasiliano siano più limitati, ma non è così.

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