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autore: Autore: Renata Piccolo

La comunità come risposta

Oramai da molti anni una delle tematiche legate all’handicap riguarda la possibilità di avere una vita indipendente anche per le persone disabili. Fortunatamente se ne parla molto, esistono anche delle leggi che lo vogliono garantire, ma poco o nulla è stato fatto: evidentemente le persone con qualche deficit sono degli extraterrestri che non possono godere di tale diritto, che tra l’altro per “i normodotati” è addirittura considerato come fondamentale!
Beh…cosa vogliamo di più? Vogliamo delle cure sanitarie gratuite, vogliamo gli ausili per l’indipendenza, vogliamo una famiglia che ci coccoli e ci accudisca, vogliamo le assistenti per alzarci dal letto, …e ora vogliamo anche una casa per essere “indipendenti”? Magari questa dovrebbe essere anche senza barriere architettoniche per poter spostarci liberamente e per uscire ogni qual volta lo desideriamo, non dovrebbe costare molto così le nostre esigue risorse economiche le sfruttiamo per andare ai Carabi l’estate, inoltre dovrebbe essere così e non cosà, eccetera. Quante pretese!
La ricerca di una casa accomuna tutti, abili e non: una volta giunti ad una determinata tappa della vita si decide o, talvolta, si è obbligati, a lasciare la famiglia ed iniziare il percorso della propria vita…Questa scelta personalmente l’ho compiuta cinque anni fa, quando la decisione di cambiare casa, ma soprattutto vita, è stata supportata dal fatto che volevo continuare l’Università e, quindi, in quanto studentessa di Scienze dell’Educazione, potevo usufruire dei posti alloggio garantiti dalle Aziende per il Diritto allo Studio Universitario. Ho scelto così di approdare a Bologna, dove il mio desiderio di indipendenza è stato soddisfatto dall’Arstud che mi ha garantito, fino alla fine dei miei studi, non solo l’assistenza ma anche un posto letto accessibile presso uno dei tanti Studentati presenti in città.
Fortunatamente, ma anche purtroppo, ad un certo punto l’Università termina! E dopo? Si ritorna al paesino, dove non solo non ci sono possibilità lavorative, ma nemmeno offerte culturali interessanti? Si ritorna in famiglia, dove sì hai tutto gratuitamente – assistenza continua, casa, …-ma dove comunque non puoi soddisfare un tuo diritto fondamentale: l’indipendenza e, quindi, l’autonomia, la libertà? Questo perché non ci sono alternative. O meglio le alternative esistono, ma non sono allettanti, almeno per coloro che pur essendo affetti da un deficit non risultano essere totalmente non autosufficienti.
Di fronte a questa personale esigenza, ho analizzato le possibilità esistenti per le persone inabili che aspirano ad una loro indipendenza.

Comunità con la C maiuscola

In Italia si è iniziato a parlare di Comunità fin dagli anni ’70; ciò in seguito allo sviluppo dell’idea di de-istituzionalizzazione: quest’ultima rappresenta propriamente il diritto di ciascuno di vivere in un contesto sociale “normale”. La Comunità nasce, quindi, con gli scopi di fornire servizi inerenti la riabilitazione psicologica e l’inserimento sociale della persona con deficit, oltre ad offrire alla stessa un’abitazione. Essa si sviluppa dall’idea di una vita comunitaria, dove cioè tutto viene diviso con gli altri membri: nel gruppo ciascuno ha la sua funzione e, per questo, la sua presenza è utile anche agli altri.
L’organizzazione della Comunità varia a seconda dei destinatari: persone anziane, bambini in situazione di disagio, disabili, tossicodipendenti, immigrati, …Le fondamenta di ciascuna Comunità sono rappresentate da alcuni principi ispiratori, quali:
– progetto terapeutico: offre un sostegno a quel soggetto che deve modificare il proprio stile di vita, sfruttando le proprie risorse e potenzialità (tossicodipendenti);
– progetto educativo: aiuta a raggiungere determinati obiettivi che, a causa di una possibile crisi esistenziale, possono risultare complicati da raggiungere (minori, disabili psichici);
– scelta esistenziale: si tratta sempre di realizzare dei progetti educativi, rivolti però all’intera esistenza della persona (prendere in affidamento un bambino);
– autogestione: un gruppo di persone decide di vivere insieme sfruttando le risorse pubbliche (anziani autosufficienti, disabili adulti).
A seconda dei principi sopraelencati, esistono diverse forme di Comunità a cui le persone in situazione di handicap possono ricorrere, ovvero:
– Centro Servizio di Pronta Accoglienza: offre tempestivamente ai suoi utenti –adolescenti e adulti- mantenimento e protezione; contemporaneamente si impegna nel cercare risoluzioni definitive alle problematiche emerse. Ad esempio esse si rivolgono ad immigrati da poco arrivati in Italia oppure a famiglie di disabili che ad un certo punto non possono assistere il proprio figlio per motivi di salute, stress psicologico, … Esso può rappresentare anche un momento di formazione e crescita personale del disabile.
– Comunità Alloggio: struttura educativa che sostituisce temporaneamente la famiglia, assicurando supporto psicologico, relazionale e sociale alla persona in situazione di disagio. Ciascuna Comunità Alloggio possiede un regolamento preciso che stabilisce la tipologia degli utenti, le modalità di ammissione, le finalità e i metodi educativi, i rapporti con l’esterno; viene gestita dalle ASL o da soggetti privati.
– Gruppo Famiglia: è una struttura educativo – assistenziale che prende in affido il minore –disabile, l’immigrato, in generale lo svantaggiato- assicurandogli un ambiente familiare idoneo, il mantenimento, l’educazione e l’istruzione. Spesso essi sono rappresentati da famiglie private che vengono sostenute economicamente dai servizi sociali.
– Gruppo Appartamento: è una comunità residenziale autogestita direttamente da disabili adulti in grado di organizzare autonomamente i propri spazi, tempi, assistenza, …
– Residenza Sanitaria Assistenziale (R.S.A.): fornisce accoglienza, prestazioni sanitarie e di recupero a persone non autosufficienti, prive di supporto familiare.
– Istituto Educativo Assistenziale: anch’esso si rivolge principalmente a minori abbandonati, anche con deficit, ai quali vengono offerti accoglienza, mantenimento, vigilanza, custodia, educazione ed istruzione. Esso rappresenta l’alternativa per quei casi che non possono essere dati in affidamento; tale opportunità può essere scelta dalla famiglia o, in casi estremi, dal Tribunale dei Minori;
– Comunità e Case di Cura: sono istituti privati che offrono vari tipi di servizi agli utenti: sostegno psicologico, riabilitazione fisica, assistenza fisica permanente, eccetera.

Le Comunità in Italia

Vediamo, quindi, alcuni casi in cui tali concetti sono stati applicati concretamente all’interno del territorio italiano. L’esempio più eclatante è rappresentato dalla Comunità di Capodarco: nel 1966 un gruppo di tredici persone handicappate, un giovane prete, don Franco Monterubbianesi, e alcuni volontari hanno deciso di vivere in una comunità situata in una vecchia villa abbandonata a Capodarco di Fermo nelle Marche. Oggi questa Comunità è presente in tredici regioni italiane ed è una delle organizzazioni del volontariato più impegnate nella lotta all’emarginazione sociale. I principi basilari condivisi da coloro che aderiscono a questa realtà sociale sono:
– il rifiuto dell’atteggiamento pietistico nei confronti di chi è in difficoltà e il superamento di ogni assistenzialismo;
– lo stile della condivisione, del coinvolgimento profondo con la storia dell’altro, del pagare di persona;
– la territorialità dell’intervento per evitare di chiudersi nella propria struttura ed aprirsi alle realtà circostanti;
– la quotidianità come spazio in cui tutti hanno la possibilità di crescere e di emanciparsi attraverso il lavoro, momenti di vita comune, attività di servizi sociali.
Un’altra realtà comunitaria presente nel Sud Italia è rappresentata dall’Agedi: essa è un organismo non lucrativo di utilità sociale, che si occupa di Self-Help, tra i Soci e, più in generale, tra le famiglie che condividono le problematiche della disabilità. L’Agedi assicura la tutela dei diritti dei disabili e delle loro famiglie attraverso lo Sportello Informativo Handicap, il Servizio di Assistenza e di Sostegno Educativo sfruttando il volontariato, l’Ausilioteca, la Comunità Famiglia: quest’ultima si occupa dell’accoglienza di minori in affidamento, con particolare riguardo ai bambini con gravi disabilità. Al momento sono attive due comunità, una a Sud e l’altra a Nord della città di Reggio Calabria. Ai bambini ospiti delle Comunità Famiglia dell’A.GE.DI. è garantita la fruizione di tutti gli spazi sociali, educativi e, se necessario, riabilitativi presenti sul territorio. L’Agedi ha inoltre costituito la Comunità Dopo di Noi: essa ospiterà quattro persone disabili adulte in situazione di gravità. Ultima esperienza a carico dell’A.Ge.DI. riguarda i Campi Estivi Autogestiti nei quali le famiglie, gli operatori e i volontari condividono un periodo di vacanza al mare.
Una realtà esemplare è situata a Milano, dove sorge la Comunità “Noi come gli altri” che fa capo al Progetto Gabbiano 2000: anche in questo caso l’obiettivo principale è quello di soddisfare le esigenze delle persone disabili e delle loro famiglie; ciò è stato perseguito attraverso:
– Ricerca di un ambiente ampio ed adatto per ospitare le seguenti iniziative.
– Una Comunità alloggio: essa vuole diventare un ambiente reale di vita quotidiana, intrattenendo relazioni col contesto sociale nel quale è localizzato;
– Un Centro diurno educativo polifunzionale: è rivolto a soggetti con handicap medio- grave ed è una struttura integrata non residenziale che accoglie giornalmente soggetti con notevole compromissione dell’autonomia. Propone spazi educativi e ricreativi diversificati il cui obiettivo è la crescita evolutiva dei soggetti e lo sviluppo delle loro capacità residue.
– Un Centro di ascolto per le famiglie. L’elenco delle Comunità e la loro descrizione potrebbe continuare: fortunatamente tali servizi esistono, ma purtroppo sono essenzialmente rivolti a soggetti con disabilità fisica grave oppure con deficit mentale o, infine, a coloro che rimangono privi di famiglia. Esistono ben poche realtà rappresentate da persone disabili adulte che vivono autonomamente, ricorrendo agli altri solo per l’assistenza di cui necessitano.

Comunità come riferimento

Durante una visita di padre Alex Zanotelli presso la Comunità di Capodarco, egli ha fatto notare come la Comunità rappresenti il seme dal quale partire per compiere azioni atte al miglioramento della vita di ciascun individuo: è proprio da questa, infatti, che bisogna partire per progettare gli interventi futuri. Contemporaneamente, però, egli fa notare come oggi il concetto di disabilità sia cambiato, come ha evidenziato recentemente l’OMS; esso inoltre varia anche a livello spazio-temporale: infatti se si considera il Sud del Mondo è importante notare la presenza di persone non necessariamente affette da deficit ma che comunque possono essere considerate come colpite da handicap: basti pensare ai ragazzi che sniffano la colla, alle bambine che si prostituiscono, ai poveri rinchiusi nelle baraccopoli, …Queste nuove forme di handicap debbono essere combattute affrontandole con mezzi diversi da quelle tradizionali, visto che gli utenti sono diversi; ma anche in tal caso, ogni progetto si potrebbe sviluppare dall’idea di Comunità: questa rappresenta il punto di riferimento nel quale avviene l’incontro di persone che possono trovare delle risorse loro utili e, contemporaneamente, sfruttare le proprie mettendole magari a disposizione degli altri.
Quest’ultimo principio è fondamentale per giungere a parlare dell’altra difficoltà che si presenta nel momento in cui il soggetto adulto in situazione di handicap decide di abitare da solo, cercando di migliorare la propria autonomia ed indipendenza: l’assistenza. Questa è sì fornita dai Servizi Sociali di ciascun Comune, ma spesso risulta essere insufficiente ed inadatta. L’alternativa è rappresentata dalle tante Cooperative sociali che offrono tali tipi di servizi: l’unico problema è che queste sono a pagamento, per cui diventano di difficile, se non impossibile, accesso. L’unica alternativa esistente e che sembra anche la più affabile è rappresentata dal volontariato. Il suo principio di base è molto buono, anche se purtroppo non sempre si riesce ad organizzarlo in maniera tale da sopperire alle esigenze delle persone che ne avvertono la necessità; inoltre esso non dovrebbe essere visto come una “prestazione di bontà”, anche perché ciò a lungo andare potrebbe provocare situazioni frustranti sia in chi aiuta sia in chi è aiutato, rischiando che la relazione si interrompa improvvisamente e che il soggetto disabile “rimanga a piedi”!

Ho fatto il mutuo della casa…alla banca del tempo!

Lancio una proposta. Negli ultimi anni in Italia si è iniziato a parlare di Banca del Tempo: è un istituto di credito molto particolare, dove si deposita la propria disponibilità per scambiare prestazioni con altri aderenti usando il tempo come unità di misura degli scambi: in tal modo le persone si ritrovano in una situazione di parità tra loro.
A ciascuno degli aderenti viene intestato un conto corrente e dato un libretto di assegni; l’adesione è volontaria e l’unico obbligo che ne deriva è quello di rendere il tempo ricevuto.
I bisogni e i piaceri depositati nella Banca del Tempo appartengono alla sfera delle relazioni di buon vicinato. Sono cioè azioni semplici di solidarietà tra individui che abitano nello stesso palazzo, nella stessa strada o piazza, nello stesso quartiere, i cui figli frequentano lo stesso asilo o la stessa scuola. Tra gli utenti, però, non sono previsti coloro che si possono trovare in una situazione di disagio: questo erroneamente, perché si ritiene che le persone in difficoltà non abbiano nulla da scambiare con gli altri, che essi cioè non posseggano alcun tipo di risorse che potrebbero essere utili agli altri; tale Banca, cioè, vuole restare libera da vincoli morali, etici o affettivi, instaurando però rapporti solidali e paritari. Penso che tale concetto sia sbagliato e che, anzi, tale metodologia debba essere sfruttata a maggior ragione con le persone a disagio, siano esse disabili, tossicodipendenti, immigrati. Infatti, sfruttando anche le loro capacità, le loro risorse, li si può far sentire importanti, meritevoli senza quindi creare situazioni frustranti o depressive. Tra l’altro questo dovrebbe essere, a mio avviso, il concetto basilare della Comunità che accoglie: colei che cioè offre un servizio agli altri i quali, a loro volta, offrono ulteriori favori. Si ricorda appunto che la Banca del Tempo parte dall’idea che è possibile uno scambio paritario fondato sul fatto che gli individui sono portatori di bisogni ma anche di risorse. I principali vincoli che incontra la banca sono culturali: la nostra società tende a legittimare determinati usi del tempo e non altri, ma anche a legittimare alcune persone e non altre.
In Italia le Banche del tempo avviate e funzionanti sono circa ottanta. La prima è nata nel 1992 a Parma, ma l’antesignana delle banche attualmente esistenti è nata nel 1995 su proposta del Comitato Pari Opportunità del Comune di Sant’Arcangelo di Romagna. Altre realtà hanno avviato il progetto: Milano, Perugia, Padova, Roma, Ivrea, Vercelli, Napoli, Novara, Venezia, Aosta,…

Ami il prossimo tuo…se gli stai vicino!

E’ importante tener presente che i luoghi in cui tali servizi sorgono sono importanti, in quanto tra loro ci può essere uno scambio continuo, di risorse appunto. Questo riguarda anche la Comunità, per tal motivo infatti è importante considerare bene anche l’ambiente fisico nel quale essa sorge: ci può essere cioè uno scambio anche tra l’ambiente e coloro che ci vivono e questo potrebbe arricchire entrambi.
Secondo il mio parere, un errore spesso commesso da coloro che decidono di aprire una Comunità d’accoglienza riguarda la scelta del luogo in cui questa viene situata: molto spesso, infatti, tali centri sorgono in luoghi piuttosto isolati, addirittura lontano dal centro della città. Se da un lato ciò risponde all’esigenza di avere degli spazi ampi, dove è possibile avere a disposizione diverse strutture che offrano i servizi di base – come ad esempio piscine, palestre, sale di ritrovo, cinema,…- dall’altro tale fenomeno porta ad isolare i residenti dal resto del mondo, dalla realtà quotidiana. Questo, non solo crea un distacco fisico, ma anche sociale e quindi, se da un lato rappresenta un beneficio – come quello della casa e dell’assistenza appunto – dall’altro crea uno svantaggio a livello socioculturale: abitando in questi posti isolati, diventerà ulteriormente più difficile andare a prendere un caffè con l’amico, andare a vedere un film al cinema, andare a fare spese, …Il rovescio della medaglia, però, potrebbe essere rappresentato dal fatto che, nel caso in cui tale Comunità sorga nei pressi di un paese, essa può comunque sfruttare le risorse messe a disposizione da quest’ultimo e con questo instaurare un rapporto di scambio reciproco, nel quale chi aiuta è anche chi è aiutato e viceversa. Comunque tali contesti “ristretti” possono ricrearsi anche nel caso in cui la Comunità sorga in città: essa, infatti, può essere dislocata in un determinato quartiere, all’interno del quale può creare una rete di relazioni basate proprio sul sostegno reciproco. Per questo motivo, nel momento in cui si decide di creare una Comunità che ospita, indipendentemente dalla tipologia di utenza, è importante tenere conto di tutta una serie di fattori che apparentemente potrebbero sembrare secondari, ma che in realtà rivestono un’importanza primaria, anche perché potrebbero in futuro trasformarsi in risorse vere e proprie.
Concludendo, si può affermare che alcune opportunità esistono, vanno ampliate, migliorate, sviluppate ma soprattutto messe in pratica. Per questo è necessario l’intervento delle istituzioni, dei Servizi Sociali, …Ricordiamoci che le richieste non sono molto diverse da quelle dei cosiddetti “normodotati”: sono necessarie solamente alcune accortezze in più e, ahimè, qualche soldo in più; ma, più la persona disabile sarà autonoma, minore sarà anche la spesa per il suo mantenimento.

BOX Elenco dei siti Internet sulle Comunità:
1) Associazione di genitori di bambini e adulti disabili
www.agedi.it/chi.htm
2) Associazione "Il gabbiano – Noi come gli altri" Organizzazione non lucrativa di utilità sociale
www.bimbi.it/gabbiano
3) Comunità di Capodarco
www.netonline.it/ospiti/capodarco
4) Comunità di Capodarco di Roma
www.capodarcoroma.org
5) Comunità Piergiorgio ONLUS- la storia
http://www.bte.it/guida/ComunitaResidenziali/comres02.htm
6) Comunità religiosa che offre ospitalità e assistenza a persone disabili e bambini abbandonati
www.villaggiosantantonio.it
7) Casa vacanze estive per disabili; accoglienza di nuove Famiglie presso la comunità Maratanà
http://spazioweb.inwind.it/univcost/giafatto.htm
8) Comunità educativa rivolta a minori disabili
www.regione.umbria.it/infanzia/Glossarioservizi.htm
9) Fondazione Don Carlo Gnocchi
www.dongnocchi.it/accessib/centri/milano1/att_educ.htm
10) Elenco del volontariato italiano su Internet
www.asslink.it
www.citinv.it/volontariato/asslinks.it

BOX Comunità di Capodarco
La Comunità di Capodarco propone servizi sociali, sanitari e formativi ma anche cooperative di lavoro integrate che operano nel campo dell’elettronica, della ceramica, del riciclaggio della carta e del pezzame, delle ricerche sociologiche e statistiche. Tutto ciò è articolato in diversi modi: Comunità residenziali; Gruppi famiglia; Centri di riabilitazione; Centri di formazione professionale; Centri diurni; Cooperative; Laboratori; Centri Studi e servizi culturali.
Recentemente la Comunità si è allargata fuori dai confini nazionali, dando vita alla Comunità Inernazionale di Capodarco (CICa), un’organizzazione non governativa di solidarietà internazionale, che si propone di dare risposte ai problemi dei poveri e degli emarginati di tutti i continenti.

Elenco delle comunità di Capodarco:
Comunità di Rinascita Tolmezzo (UD)
Comunità Gruppo ’78 Volano (TN)
Comunità di Costo Arzignano (VI)
Comunità di Capodarco di Fermo Capodarco di Fermo (AP)
Centro Lavoro Cultura Gubbio (PG)
Comunità La Buona Novella Fabriano (AN)
Comunità Capodarco di Roma Roma
Comunità 21 marzo Terracina (LT)
Comunità La Roccia Aversa (CE)
Associazione Il Solco Lecce
Comunità Progetto Sud Lamezia Terme (CZ)
Comunità Progetto Sicilia Palermo
Comunità di San Giuseppe Linguaglossa (CT)
Comunità Il Seme Oristano
Centro Comunitario Jesus Resucitado Penipe Ecuador
Centro Comunitario Casaccia "Angelo Franco" Ibarra Ecuador
Comunità Internazionale di Capodarco Roma

La donna disabile e il suo diritto alla maternità

Con questo numero di “HP-Accaparlante” si apre una nuova rubrica dedicata alle donne in situazione di deficit. Questo tema merita degli approfondimenti in quanto generalmente non viene molto curato, tralasciando così un aspetto piuttosto importante sia in riferimento al mondo delle donne sia a quello delle persone disabili in generale; in realtà le donne con deficit, proprio per questa loro “doppia appartenenza” possono subire una doppia emarginazione: sia in quanto donna sia in quanto persona disabile. Negli anni ’60 si è verificata una rivoluzione culturale che ha cambiato l’immagine della donna e, grazie a questa, sono stati fatti grossi passi in avanti utili al miglioramento della condizione femminile. Purtroppo però, ancor oggi, pur essendo già entrati nel XXI secolo, la donna subisce ancora delle discriminazioni: all’interno della famiglia, in ambito lavorativo, all’interno della società… Tutto ciò diventa ulteriormente più complicato nel caso in cui la donna sia colpita da deficit: solo negli ultimi anni infatti, si sta parlando di rivoluzione culturale riguardante le persone disabili, ma ancora si dovranno fare enormi passi in avanti! Se le donne oggi possono avere un lavoro, nel quale però possono incorrere in discriminazioni e abusi, le persone con deficit difficilmente trovano un lavoro, soprattutto se di sesso femminile; se le donne riescono a costruirsi una famiglia, anche se poi all’interno di questa possono subire violenze oppure si trovano ad affrontare un divorzio, le donne con deficit difficilmente riescono a costruirsene una perché esse e, in particolare, il loro corpo, sono diversi dalle altre donne, e si sa che l’immagine fisica è solitamente il mezzo principale per instaurare una relazione amorosa! Purtroppo la legislazione italiana non facilita l’inserimento sociale e il raggiungimento della parità da parte della donna disabile. Una testimonianza di ciò è rappresentata dalla recente legge sulla fecondazione assistita, la quale interessa direttamente anche le donne con deficit: essa, purtroppo, complica loro la possibilità di avere un figlio. Tale legge, approvata in prima istanza l’11 dicembre 2003 dalla Camera e il cui voto finale verrà effettuato in febbraio, vieta innanzitutto la terapia alle coppie con malattie genetiche; impedisce eventuali ripensamenti da parte della donna una volta fecondato l’ovulo, essendo anche vietata la diagnosi pre-impianto; essa inoltre prevede solo la fecondazione omologa, per cui se una persona all’interno della coppia è sterile, ai due coniugi o conviventi è preclusa la possibilità di avere figli. Da ricordare, inoltre, che proprio le cellule degli embrioni utilizzate poi per la fecondazione assistita, vengono anche sfruttate per fare importanti ricerche scientifiche, utili ovviamente anche a coloro che sono colpiti da una qualche malattia. Attualmente sono ammesse la ricerca clinica e la sperimentazione sull’embrione, ma solo con finalità terapeutiche e diagnostiche. Spesso, ovviamente per motivi fisici – legati ad esempio alla difficoltà di avere un rapporto sessuale – la donna disabile non può avere un figlio in modo naturale, per cui decide, assieme al proprio compagno, di ricorrere alla fecondazione assistita. Oppure la persona disabile colpita da una malattia genetica o portatrice di questa, pur essendo in grado di concepire un figlio naturalmente, preferisce o meglio preferiva, ricorrere comunque alla fecondazione assistita in quanto le permetteva di conoscere anticipatamente le tare genetiche dell’ovulo fecondato nascoste nel codice genetico dei genitori, e poi eventualmente decidere di procedere all’impianto nell’utero. Ora tutto ciò non è più possibile: la coppia, nel caso di anomalie del feto – purtroppo non sempre riscontrabili – può solamente ricorrere all’aborto terapeutico, e cioè dopo che il feto è già presente nell’utero materno, oppure far nascere un figlio colpito da una malattia genetica! È giusto, a mio avviso, che in questa società capitalista non si permetta di commercializzare anche gli embrioni, però è anche giusto permettere a una donna, colpita o no da una malattia genetica, di sapere se l’ovulo che le verrà impiantato sarà affetto o meno da una malformazione. È giusto che la coppia possa scegliere: ovviamente la donna disabile è libera di continuare la gravidanza, pur sapendo che suo figlio sarà colpito da una malattia; contemporaneamente dovrebbe essere libera di scegliere di non avere quel figlio cercando però di evitare ulteriori traumi che potrebbero essere causati da un aborto terapeutico. Da evidenziare il fatto che, come già enunciato precedentemente, la donna con deficit ha delle difficoltà nel trovare un compagno che scelga di dividere con lei la propria vita, accettando pertanto i limiti di questa donna. Se però la donna riesce a superare tale ostacolo e magari decide di costruirsi una famiglia con la persona che le sta a fianco e insieme decidono di avere un figlio, tale desiderio viene sicuramente ostacolato attraverso tale legge. Da non dimenticare anche altri aspetti susseguenti a questa legge: l’aumento dei tempi di attesa per accedere alla procreazione assistita (da tre-sei mesi si passerà a sei-dodici mesi); i costi che si debbono sostenere (da 3.000 a 10.000 euro attualmente) visto che l’infecondità non è considerata una malattia, per cui il Servizio Sanitario Nazionale non prevede alcun sussidio. Una via d’uscita c’è: andare all’estero; alcuni Paesi si sono già offerti per accogliere gli embrioni già congelati che d’ora in poi non potranno più essere utilizzati in Italia. Questo però non fa che complicare ulteriormente la vita alle persone con deficit facendo intraprendere loro i cosiddetti “viaggi della speranza”, viaggi che magari loro debbono già compiere per altri motivi… Questa legge, quindi, a mio avviso, viola uno dei diritti fondamentali ma anche una delle cose più belle per la realizzazione di una persona: quella di avere un figlio, ovvero di dare alla luce un essere umano!

Il diritto della donna con deficit alla visita ginecologica

A Roma da pochi giorni presso il consultorio familiare diocesano "Al Quadraro" è stato aperto un servizio rivolto specificatamente alle donne disabili.
Tale consultorio attualmente è dotato di un apparecchio ecografico completo di sonde, monitor e stampante a colori, oltre alla presenza di un lettino ginecologico adattato per i vari tipi di deficit fisici; l’ambulatorio, inoltre, è privo di barriere architettoniche e possiede dei servizi igienici adeguati. Infine tale centro è caratterizzato dalla presenza di personale medico volontario, appositamente formato per assistere le pazienti disabili.
L’obiettivo di questo consultorio è quello di "promuovere la salute della donna in tutte le fasi della vita, sia in termini di prevenzione che d’intervento mirati" come spiega la dottoressa Enrica Cichi, responsabile del Centro; e aggiunge: "Si effettueranno interventi sanitari in ambito materno infantile… Tutte le consulenze possono essere accompagnate da un sostegno psicologico, etico e legale, per il singolo e per la coppia, e da una consulenza ostetrico ginecologica e neuropsichiatrica."
Tale consultorio, già attivo sul territorio da ormai dieci anni, è comunque aperto a tutto il pubblico per quattro giorni alla settimana; attualmente ha aperto questa nuova sessione rivolta appunto alle donne con deficit fisico. Per quanto concerne l’assistenza a donne con deficit psichico, il servizio veniva già erogato in passato anche attraverso la presenza di un neuropsichiatra.
È stato raggiunto un traguardo oppure si è creata un’ulteriore divisione tra i cosiddetti "normali" e "disabili"?
Difficile dirlo, anche perché tale valutazione varia a seconda dei diversi punti di vista considerati.
Sicuramente si tratta di un progetto molto innovativo visto che offre non solo consulenza a livello fisico, ma anche psicologico; spesso, infatti, la donna con deficit si trova a dover affrontare diversi ostacoli in tale campo: può risultare complicato fare una semplice visita ginecologica a causa dei suoi impedimenti fisici; ancora più difficile è seguire la maternità della donna disabile o, prima ancora, guidarla nel percorso che la porterà ad avere una gravidanza. E ovviamente, questi ultimi esempi, e non solo, richiedono anche  un sostegno psicologico non essendo situazioni facili da affrontare.
Pertanto è lodevole l’apertura di questo Servizio a Roma. Il problema però è un altro: perchè un solo  Centro in tutta Italia? Tutte le donne disabili si dovranno recare a Roma da oggi in poi per fare una semplice visita ginecologica adeguata oppure, come è più ovvio pensare, le "non – romane" dovranno rinunciare a tale servizio e accontentarsi dei soliti ginecologi, privi di attrezzature adeguate e magari con ambulatori irraggiungibili a causa della presenza di barriere architettoniche?! Da considerare, infatti, che già può essere imbarazzante per una donna dover affrontare una visita ginecologica; tale stato aumenta nel caso in cui si incontrino delle difficoltà nell’eseguire la visita e che talvolta possono addirittura impedire una diagnosi completa.
È particolare anche il fatto che tale Centro sia stato d’iniziativa della Diocesi, in collaborazione con il Comune e la Provincia di Roma. E le Ausl? Perché tale tipo si servizi non vengono erogati dalle Aziende Sanitarie? E perché non sono presenti sull’intero territorio nazionale? A tutte le donne disabili e non, residenti al Nord, al Centro o al Sud dovrebbero essere garantite visite mediche adeguate e soddisfacenti.
Da considerare ovviamente anche il fatto che i problemi che si incontrano nell’affrontare una visita ginecologica possono riguardare anche tutte le altre tipologie di visite mediche. Può capitare, infatti, di incontrare ambulatori caratterizzati da impedimenti architettonici, oppure con lettini troppo alti o troppo stretti, ecc.
Per quanto riguarda, invece, il personale medico e sanitario in generale, tutti dovrebbero avere una preparazione adeguata ad incontrare i vari "tipi" di pazienti, compresi quelli disabili ovviamente. Un’altra osservazione merita il fatto che questi medici impiegati nel nuovo Consultorio fanno del volontariato, rivolto appunto alle donne con deficit. Perché devono essere dei volontari ad eseguire queste visite? Le donne con deficit non dovrebbero essere considerate alla pari delle altre donne e, pertanto, meritare un medico ugualmente retribuito?

L’Europa per le donne disabili

Il 1° maggio di quest’anno sono entrati a far parte dell’Unione Europea dieci nuovi Paesi, ovvero Lituania, Estonia, Lettonia, Polonia, Repubblica Ceca, Cipro, Ungheria, Malta, Slovacchia e Slovenia. Il trattato di Maastricht, che risale al 1992, è il capostipite della nascita dell’Unione Europea, almeno dal punto di vista dell’integrazione politica ed economica tra gli Stati membri, tra cui c’è anche l’Italia come ben sappiamo.
Nell’Unione Europea, secondo gli ultimi dati a disposizione, vivono 42 milioni di persone in situazione di deficit; sicuramente questo dato è aumentato, considerata l’entrata dei nuovi Paesi. Di questi 42 milioni, il 51% sono donne: questo dato è influenzato da diversi fattori, primo fra tutti la maggior longevità della popolazione femminile rispetto a quella maschile. Non è possibile però delineare un quadro generale della situazione di queste donne, in quanto essa varia molto a seconda degli Stati presi in considerazione: sommariamente è possibile affermare che coloro che abitano nei Paesi del Nord Europa vivono in condizioni migliori rispetto a coloro che vivono nei Paesi del Sud, così come  coloro che vivono negli Stati occidentali vivono meglio rispetto a coloro che vivono in quelli orientali. Infatti ancora oggi, a molte donne colpite da disabilità non vengono riconosciuti molti diritti primari, quali il diritto ad avere una famiglia propria (si pensi che alcuni Stati europei vietano alle donne disabili di avere figli e, se ciò dovesse accadere, glieli tolgono!), il diritto al lavoro, ecc. Proprio a causa di queste gravi mancanze, molte donne vengono abbandonate a se stesse e molte preferiscono la morte alla vita: infatti sono molti i casi riscontrati di eutanasia involontaria!
Ma cosa fa l’Europa per le persone disabili e, in particolare, per le donne con deficit?
Nel 1996/97 è sorto il “Forum europeo sulla disabilità” (EDF): esso è composto da organizzazioni che si occupano quotidianamente di disabilità e ha lo scopo di creare un organo consultivo e rappresentativo affinché anche presso l’Unione Europea venga considerata la situazione delle persone con deficit. Il Forum si propone come priorità quella di promuovere i diritti umani delle persone con disabilità; i suoi attuali obiettivi sono: la non discriminazione, l’integrazione della dichiarazione sul mercato unico, una chiara base giuridica per un programma d’azione sulla disabilità. Tali principi sono alla base del Trattato di Amsterdam: con questo la Comunità si impegna nel perseguire la promozione dell’occupazione, il miglioramento delle condizioni di vita e di lavoro, una protezione sociale adeguata, il dialogo sociale, lo sviluppo delle risorse umane, la lotta contro l’emarginazione. Esso inoltre stabilisce che la Commissione Europea, prima di proporre una qualsiasi legislazione riguardante le persone con deficit, è tenuta a consultare le organizzazioni aderenti al suddetto Forum. 
All’interno del “Forum europeo sulla disabilità” è sorto il “Gruppo di lavoro sulle donne e la disabilità”, sostenuto sin da subito dalla Commissione europea nell’ambito del programma Helios II. Gli antecedenti alla nascita di questo Gruppo sono il “Seminario d’esperti delle Nazioni Unite sulle donne disabili”, tenutosi a Vienna nel 1990, e le “Norme standard delle Nazioni Unite sulle pari opportunità per le persone con disabilità”.  Questi due spunti rappresentano la base della  principale opera di questo gruppo, ovvero il “Manifesto delle donne disabili in Europa”, presentato a Bruxelles il 22 febbraio 1997. Come sostiene Lydia Zijdel, Presidente del Gruppo, “questo manifesto è una raccolta  di tutte le raccomandazioni per migliorare la vita di donne e ragazze con disabilità dell’Unione Europea. Lo scopo del Manifesto è quello di informare e far prendere coscienza le donne e le ragazze con problemi di disabilità circa la loro posizione, i loro diritti e le loro responsabilità. Ma è anche quello di informare e sensibilizzare la Commissione europea, il parlamento europeo, i singoli Stati membri e anche i movimenti europei sulla disabilità e i movimenti delle donne circa l’assenza di sensibilità riguardo le donne e ragazze disabili ma anche verso gli uomini e ragazzi”. Attraverso il Manifesto anche le donne con deficit hanno ottenuto il loro riconoscimento, oltre al potere decisionale; per la prima volta sono stati esaminati i bisogni e le situazioni specifiche, prendendo in considerazione anche le diverse culture, razze, religioni, preferenze sessuali, età e tipo di disabilità. Ovviamente i suoi principi base sono la non discriminazione, il rispetto dei diritti umani e delle pari opportunità.
Esaminiamo ora la struttura di tale Manifesto: innanzitutto, all’interno dell’introduzione, viene data la definizione di “donna disabile”: “Le ragazze e le donne con disabilità comprendono le donne con tutti i tipi di disabilità , donne con menomazioni fisiche, uditive, della vista o di altro tipo, comprese quelle affette da malattie mentali o con problemi di salute mentale, deficit intellettivi e malattie croniche come il diabete, le cardiopatie, malattie renali, epilessia, Hiv/AIDS, malattie che, prevalentemente, riguardano le donne come il tumore al seno, l’artrite, il lupus, la fibromialgia e l’osteoporosi”. Il Manifesto si propone altresì di attuare delle azioni di solidarietà o sostegno sia a favore delle stesse donne con deficit sia nei riguardi delle loro famiglie: questo non solo in Europa, ma in tutto il mondo.  All’interno del Manifesto viene principalmente utilizzato il termine “genere”, ben distinto dalla definizione di “sesso”: mentre il “sesso” si riferisce al fattore biologico, il “genere” fa riferimento alla costruzione sociale; inoltre viene incoraggiato un “modello sociale” della disabilità in contrapposizione al “modello medico”. In questo documento viene anche ribadito il concetto di “doppia emarginazione” che fa appunto riferimento alla situazione di molte donne disabili: “Le donne disabili possono subire discriminazioni rispetto a donne e uomini non disabili e anche rispetto a uomini disabili. La lotta per le pari opportunità va condotta pertanto, in maniera simultanea, a diversi livelli e in differenti settori”.
Dopodiché il Manifesto presenta le raccomandazioni relative alle diverse aree tematiche nelle quali esso viene diviso. Tali aree sono:
1. Diritti umani, etica
2. Legislazione nazionale ed europea
3. Convenzioni e altri strumenti giuridici internazionali
4. Istruzione
5. Occupazione, formazione professionale
6. Matrimonio, relazioni sociali, maternità, vita familiare
7. Violenza, abusi sessuali e sicurezza
8. Conferimento di potere, sviluppo dell’attitudine al comando, partecipazione al processo decisionale
9. Donne disabili con differente estrazione culturale
10. Sensibilizzazione, mezzi di comunicazione, comunicazione e informazione
11. Vita autonoma, assistenza personale, bisogni tecnici e assistenza, consulenza
12. Previdenza sociale, assistenza sanitaria e medica, riabilitazione
13. Edifici pubblici, alloggio, trasporti, ambiente
14. Cultura, attività ricreative, sport
15. Il punto focale nazionale sulle donne con disabilità
16. Punti focali internazionali
17. Attività regionali e infraregionali, finanziamento dei progetti
18. Informazione statistica, ricerca.
Inoltre, sempre in ambito europeo, è stato emanata la pianificazione europea riguardante le persone disabili. Tale trattato, stipulato a Siracusa il 18 aprile 1999, per quanto concerne la situazione delle donne con deficit stabilisce i seguenti punti programmatici:
1. Supportare la Conferenza europea delle donne programmata per l’autunno del 2000
2. Lavorare sul progetto di vita indipendente in modo tale da assicurare alle donne disabili l’assistenza personale e perseguire così una vita indipendente e autonoma
3. Sviluppare strategie per far aumentare la consapevolezza tra le donne disabili in modo tale da aumentare e rafforzare le reti
4.Sviluppare una campagna informativa ed educativa  sui temi della bioetica, sugli effetti discriminanti causati dalla sterilizzazione e dall’aborto selettivo, ma anche sul diritto alla vita
5. Assicurare il coinvolgimento delle donne disabili in tutti i programmi e progetti europei
6. Fare indagini sulle prospettive future del Gruppo delle Donne Disabili in Europa in modo tale da aumentare la sua importanza e attività
7. Definire modelli di buone prassi per attuare progetti con diverse reti
Nel 2000 le rappresentanti di diciassette Paesi Europei e di uno africano si sono incontrate in Calabria: in tale occasione è stata ribadita la situazione particolarmente svantaggiata delle donne con deficit, spesso colpite da maltrattamenti e azioni violente. Sono state individuate anche le cause di tale situazione particolarmente difficile: prima fra tutte le guerre, seguite dai pregiudizi sociali e dall’esclusione alla quale spesso tali persone vengono condannate.
Un altro momento importante è rappresentato dal “Congresso Internazionale delle Donne Disabili” tenutosi a Valencia (Spagna) dal 27 febbraio al 1 marzo 2003: in questa occasione è stata affrontata la situazione delle donne disabili considerata nei suoi diversi punti di vista: integrazione sociale, maternità, sessualità, famiglia, istruzione, lavoro, sport, salute. Grazie alla presentazione dei diversi progetti nazionali ed europei e alla discussione comune è stato accordato il seguente programma d’azione: l’abbattimento delle barriere conoscitive esistenti nei confronti delle donne disabili, il combattimento delle discriminazioni e la partecipazione attiva delle donne disabili nei diversi ambiti sociali, il raggiungimento dell’autonomia e dell’indipendenza. A conclusione di tale Congresso è stata assegnata fondamentale importanza alle Associazioni, le quali sono quotidianamente e direttamente impegnate sul campo e, grazie a ciò, esse devono creare una rete di esperienze che a sua volta rappresenterà un punto di partecipazione diretta per le donne con deficit.

I vari aspetti della violenza quotidiana

Il significato della parola “violenza” è “ciò che si fonda sull’uso sistematico della forza fisica e delle armi”; ma anche ciò che “si manifesta o si svolge con impeto furioso, con indomabile forza, con energia incontrollata e distruttrice”.
C’è chi questa irruenza la può solamente subire, chi non ha i mezzi per difendersi: sto parlando della violenza perpetuata nei confronti delle persone disabili. A causa delle loro limitazioni fisiche, ma anche mentali, non vi si possono opporre né tanto meno difendere. In realtà, anche tra le persone con deficit alcune sono violente, per lo più tra coloro che hanno dei deficit mentali – peraltro giustificabili e in parte educabili – ma sicuramente ci sono molte più persone normodotate che, ahimé, infieriscono le loro ire nei confronti delle persone più deboli.
Questa rubrica è dedicata alle donne disabili: purtroppo costoro sono le principali protagoniste di azioni violente. Perché? Perché è più facile? Perché sono donne? Perché, forse, sono più deboli? Perché hanno meno armi di difesa a disposizione? Forse tutte queste domande potrebbero avere una risposta positiva, ma ciò comunque non giustificherebbe assolutamente gli atti violenti esercitati nei loro confronti. Del resto è più facile sfogarsi con le persone più fragili; addirittura, il tutto diventa ancora più facile quando questa violenza non viene neanche compresa, quando non viene identificata come tale. Pensiamo ad esempio alle donne con deficit mentale: un abuso sessuale nei loro confronti può essere interpretato da parte loro addirittura come una “cosa bella” o come una “cosa normale”, nel caso in cui questa venga inflitta costantemente. Costoro, quindi, si ritrovano totalmente prive di difesa personale; per questo tali forme violente, compiute dentro le loro stesse case e purtroppo frequentemente anche all’interno di comunità o centri che ospitano queste persone, restano spesso sconosciute, nascoste e quindi anche non denunciate. Lo stesso destino è spesso riservato anche alle violenze rivolte alle donne con deficit fisico: coloro che non hanno problemi mentali si rendono perfettamente conto di ciò che capita loro, ma possono restare impotenti di fronte a tutto ciò. Questo perché possono non avere contatti esterni, possono essere impossibilitate a cercare aiuti a causa delle loro limitazioni fisiche, oppure “semplicemente” possono non essere in grado di trovare la forza di denunciare tali fatti mostruosi.
Esistono però diverse e infinite forme di violenza: c’è quella più eclatante – abusi sessuali, obbligo alla prostituzione o all’aborto, percosse e molestie – ma esiste anche una violenza più sottile, meno evidente – gli insulti verbali, i maltrattamenti in ambito familiare o da parte delle persone con cui queste donne si trovano a contatto, l’assistenza fisica erogata da parte di persone di sesso opposto, ma anche (e forse è quella più dura da sopportare) la mancata accettazione, e quindi la mancata integrazione, da parte della società (si pensi ad esempio alle difficoltà che può incontrare una donna con deficit nella ricerca di un lavoro). Non è facile, se non addirittura impossibile, valutare quale sia la peggiore: forse però la seconda forma è quella più ipocrita, bieca, anche perché è quella più difficile da considerare come tale e, pertanto, quella più difficile da denunciare. Esistono altresì ulteriori forme di sopruso: dal diritto alla vita irriconosciuto all’attuale esistenza di istituti speciali, dal mancato accesso all’informazione alla mancanza di un’appropriata terminologia nel rivolgersi e nel parlare a donne con disabilità, dall’impossibilità di condurre una vita autodeterminata alla mancata partecipazione alla vita democratica, ai diritti economici e sociali.
Fortunatamente, negli ultimi anni, per aiutare queste persone si sta facendo qualcosa anche a livello istituzionale: si pensi alla Piattaforma d’azione di Pechino, alla Convenzione sull’eliminazione di tutte le forme di discriminazione contro le donne, alla Dichiarazione sulla violenza contro le donne, alla Commissione sulla condizione delle donne istituita dall’ONU, alla Raccomandazione generale n. 19 sulla violenza contro le donne, per non pensare ai trattati più “generali” quali la Dichiarazione universale dei diritti umani, la Convenzione internazionale sui diritti economici, sociali e culturali, la Convenzione internazionale sui diritti civili e politici. Pertanto il Governo e la comunità internazionale si impegnano nell’attuare tutta una serie di azioni per combattere e soprattutto prevenire tali fenomeni. Innanzitutto, però, bisogna inquadrare il più possibile tale realtà, raccogliendo il maggior numero di dati; inoltre è necessario impiegare tutte le risorse a disposizione per portare avanti tale lotta. Ovviamente un passo decisivo e, penso, prioritario consiste nel contribuire al cambiamento della mentalità della nostra società: finché le persone disabili verranno viste come soggetti passivi e non attivi, e finché le donne verranno considerate come inferiori al genere maschile, sarà difficile se non impossibile porre termine a tali fenomeni.
Molto deve essere ancora fatto: facilitare la denuncia degli abusi, avere una maggiore sensibilità e preparazione da parte di coloro che circondano nella loro quotidianità tali persone, dare alle donne stesse una maggiore voce in capitolo, cioè permettere loro di avere una parte attiva nelle questioni che le riguardano direttamente, rafforzare la legislazione che disciplina le aggressioni e gli abusi sessuali, prevedendo pene severe per i colpevoli e supporti efficaci da parte del sistema giudiziario per le vittime; inoltre le organizzazioni e associazioni di disabili dovrebbero inserire nei loro programmi il tema della lotta alla violenza; è importante anche la promozione e l’accessibilità da parte di tutti a programmi di prevenzione e informazione.
Il “Progetto di parere”emanato dal Parlamento Europeo all’inizio di quest’anno – la cui relatrice è Uma Aaltonen – tra i suggerimenti volti al combattere i soprusi verso le donne in situazione di deficit, ricorda anche il “mancato riconoscimento dei diritti sessuali e riproduttivi delle donne disabili”: questo, secondo la relatrice, rappresenta una violazione grave dei diritti fondamentali delle donne con deficit e ciò è principalmente causato dalla considerazione delle donne con deficit come esseri asessuati. Inoltre è presente “l’invito agli Stati membri ad adottare energiche misure contro tutte le forme di violenza nei confronti delle donne e delle ragazze disabili”. In questo Progetto vengono anche riportati alcuni dati: l’80% delle donne in situazione di deficit sono state vittime di violenza; il rischio di violenza sessuale è quattro volte superiore rispetto alle altre donne; addirittura viene riportato il fatto che la violenza può essere anche causa della disabilità stessa. Anche in questa sede viene ribadita la necessità di formare adeguatamente avvocati, procuratori, giudici, coloro cioè che dovranno difendere le donne disabili e far loro ottenere giustizia. Per quest’ultimo punto penso debba essere sostanziale l’apporto dato dalle associazioni di persone disabili, ma anche dalle Case delle donne. A tal proposito ricordo l’importanza di costruire Case d’accoglienza per donne con disabilità: queste sinora non sono presenti in Italia, così come in altri Paesi europei, quali la Spagna e la Germania; in casi di violenza alle donne disabili, l’unica soluzione è rappresentata dal ricorso ad altre Case che accolgono donne prive di deficit colpite anch’esse da forme violente; questa soluzione però non è delle migliori a causa della presenza non solo di barriere architettoniche, ma anche culturali e sociali.
I prossimi 22 e 23 novembre a Cosenza si terrà la conferenza europea dal titolo “Essere donne nella disabilità”, organizzata dal DPI Italia (Disabled People International). Lo scopo dell’incontro è quello di riflettere sui fenomeni della violenza familiare nei confronti di persone con deficit e sulla doppia discriminazione che interessa queste donne. Tale convegno nasce all’interno del Progetto ALBA-Programme Daphne che ha promosso un incontro tra donne in situazione di deficit e madri di figli disabili dei diversi Paesi europei per capire se e come si sviluppa la violenza (fisica, psicologica, morale) intrafamiliare. L’obiettivo di tale incontro è quello di avviare percorsi di emancipazione per le persone con deficit.
Ritengo che appuntamenti di questo tipo siano fondamentali per comprendere, circoscrivere e combattere tali fatti raccapriccianti.

Alcuni indirizzi Internet di approfondimento:

www.europarl.eu.int/meetdocs/committees/femm/20040330/509903it.pdf  
Progetto di parere della Commissione per i diritti della donna e le pari opportunità – Parlamento Europeo

www.edscuola.it/archivio/handicap/index.html 
Presentazione del Convegno di Cosenza

www.dpitalia.org/donne/kit5.htm 
Documenti internazionali sul tema della violenza nei confronti di donne disabili

Una mozione per le donne disabili

Carla Castagna è una donna con disabilità che a livello locale, ma anche nazionale, cerca di far emergere i problemi relativi alla vita della donna in situazione di deficit. Per questo ha presentato al Comune di Torino, dove vive, una mozione per richiamare l’interesse sulla situazione di emarginazione della donna disabile. L’abbiamo intervistata

Da chi è partito questo progetto?
In occasione della festa della donna del 2003, celebrata l’8 marzo, sono stata contattata dal Comitato delle Donne del Quartiere Mirafiori Sud di Torino: costoro volevano dedicare quella giornata alle donne disabili. Io ho dato la mia disponibilità a collaborare e così ha avuto inizio un lungo lavoro. Inizialmente nel Comitato c’era una donna con disabilità sensoriale, la madre di una donna disabile e anche donne con disabilità psico-fisiche. In occasione del primo incontro ognuna parlò di se stessa e di ciò che la colpiva di più nell’ambito di tale tematica. Personalmente ho presentato una relazione politica sul come io interpreto la disabilità, ovviamente prendendo in considerazione le discriminazioni perpetuate nei confronti delle donne disabili. Lo stesso giorno il Presidente della Commissione per le Pari Opportunità  del Comune di Torino mi chiese di presentare una mozione sulla base dei temi da me presentati. Col tempo tale mozione è andata avanti ed è riuscita a superare l’intero iter burocratico: è stata presentata sia alla Commissione per le Pari Opportunità sia alla Commissione per l’Assistenza del Comune di Torino; inoltre è stata introdotta anche all’Inter-Assessorile sulla disabilità, ovvero agli Assessorati alla Casa, alla Viabilità, all’Istruzione e al Lavoro.

Qual è l’intento di questa mozione?
L’obiettivo principale è quello di dare visibilità alle donne disabili e impegnare le amministrazioni e le istituzioni nell’affrontare il tema della disabilità relativa alla donna in modo diverso e nuovo. È fondamentale denunciare la doppia discriminazione cui la donna con deficit è sottoposta e contemporaneamente contribuire alle politiche di inclusione delle persone disabili in generale, e delle donne in particolare.

Quali sono i punti principali della mozione che hai presentato?
La cosa secondo me più eclatante è la richiesta che, a partire dai diritti umani, le Amministrazioni si impegnino ad attuare una legislazione non discriminatoria della disabilità: è importante che queste si impegnino nel far sì che la disabilità non sia considerata solo dal punto di vista assistenziale, ma anche e soprattutto considerando gli aspetti scolastici, lavorativi, sociali. Vorrei porre la questione della disabilità tra i diritti umani.

Nel presentare la tua mozione, hai considerato anche la legislazione pre-esistente?
Certo, innanzitutto sono partita dalla Dichiarazione Universale dei Diritti Umani dell’ONU, per poi considerare l’art. 3 della Costituzione Italiana, ma anche le Regole Standard per l’Uguaglianza di Opportunità delle Persone Disabili approvate dall’Assemblea Generale dell’ONU nel ’93. Inoltre ho considerato la Carta dei Diritti Fondamentali dell’Unione Europea, la Convenzione sull’Eliminazione di Ogni Forma di Discriminazione nei Confronti della Donna, la Risoluzione della I° Conferenza Europea sulla Vita Autodeterminata per le Donne Disabili, il Manifesto delle Donne Disabili d’Europa – Gruppo di Lavoro sulle Donne e la Disabilità, la Dichiarazione e Programma di Azione adottati dalla Quarta Conferenza Mondiale sulle Donne e la Dichiarazione di Madrid del 2002.

A chi hai presentato la mozione? Solo al Comune di Torino o anche ad altre istituzioni?
Personalmente ho pensato di coinvolgere il maggior numero possibile di donne con disabilità, ma anche le Associazioni di disabili e le Associazioni di donne locali. Inoltre, a livello nazionale, la mozione ha visto coinvolti anche la FAIP (Federazione Associazioni Italiane Para-tetraplegici) che comprende ventisei Associazioni, la FISH (Federazione Italiana Superamento Handicap) che rappresenta ventinove Associazioni Nazionali e undici Federazioni locali, il DPI (Disabled People Italia) che appartiene a DPInternational con centotrentadue federazioni di Associazioni e che rappresenta diciassette Associazioni nazionali e tre Comitati territoriali e il CND (Consiglio Nazionale sulla Disabilità) cui aderiscono trentacinque Associazioni nazionali.

A che punto sono i lavori? Cosa avete ottenuto sinora?
Grazie a questa mozione parteciperò al convegno di Paestum sul tema della disabilità al femminile organizzato proprio dal DPI: per questa occasione il Comune di Torino ha concesso il suo patrocinio. Inoltre ho incontrato anche la referente delle Biblioteche comunali di Torino e insieme abbiamo deciso di organizzare degli incontri sul tema della disabilità all’interno delle diverse Biblioteche del Comune. La FAIP di Perugia ha accolto la mozione e l’ha presentata al suo Comune. Inoltre la Regione Piemonte ha presentato un progetto culturale sul tema della disabilità femminile.

Progetti per il futuro?
L’obiettivo è quello di lavorare per cercare di migliorare sempre più la qualità della vita delle donne con disabilità, orientandosi verso il rispetto dei diritti umani e verso l’empowerment della donna disabile. Sinora, soprattutto negli ultimi anni, molte cose sono cambiate ma ancora molto rimane da fare. Speriamo che il vento cambi e che le donne con disabilità non siano più ignorate dalla politica delle donne e da quella delle disabilità.

Quale sarebbe, secondo te, il primo passo da fare per iniziare a migliorare le condizioni di vita della donna disabile?
Si potrebbe partire dal riconoscere che c’è una duplice discriminazione, sia dal punto di vista sessuale che da quello fisico legato alla disabilità; inoltre è indispensabile cercare di rafforzare le donne con deficit: ovvero bisognerebbe attivare delle strategie per dare alle donne con disabilità una maggior autostima, è necessario rafforzare il loro ambiente personale e il loro ambiente circostante. È importante lavorare il più possibile sulla persona stessa.

Qual è, secondo te, la discriminazione maggiore attuata nei confronti della donna disabile?
Purtroppo sono molte, questo anche perché da sempre la donna ha subito molti condizionamenti: si pensi che ancora oggi tante donne con disabilità non escono di casa, non sono state istruite, non hanno un lavoro.

Cosa ti ha portato a interessarti di questo argomento? In generale, di cosa ti occupi nella vita?
Io ho una formazione sociale: sono laureata in Scienze Politiche, indirizzo sociologico, e prima dell’incidente facevo l’assistente sociale presso l’Assessorato per l’Assistenza del Comune di Torino. Pertanto nella mia vita ho visto e ho vissuto entrambi i punti di vista: questo mi ha portato a interessarmi a tale tematica, proprio perché penso che vivendo certe esperienze, le si capisce di più e vi si può agire maggiormente, piuttosto che coloro che fanno questo lavoro ma non ne hanno un’esperienza diretta. Attualmente mi occupo di tutti i progetti prima citati: la collaborazione col Comune di Torino, quella con la Regione Piemonte, quella con le Biblioteche e quella con le Associazioni di donne e di disabili.