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autore: Autore: Viviana Bussadori

Editoriale

Inutile meravigliarsi dei toni da bar (senza offesa per i bar e i lorofrequentatori) che i politici nostrani hanno ormai adottato per portare voti alproprio schieramento. Si era già capito due anni fa e puntuale arriva laconferma: il linguaggio della politica non conosce mezze misure e, allontanatosidalle iperboliche costruzioni sintattiche dell’altro ieri, è piombato nellarissa verbale o, quando va bene, nelle frasi fatte, preferibilmente di areasportiva.
L’interpretazione buona è che essendosi accorti che il livello culturale degliitaliani è ancora bassino (per i due terzi della popolazione la licenza mediainferiore è il massimo livello di studio!) abbiano deciso di utilizzare unlinguaggio più vicino alla gente. (Per l’interpretazione cattiva invece ognunoè libero di sbizzarrirsi come vuole).
Ma torniamo al rapporto degli italiani con la lingua che, lo apprendiamo da unafonte autorevole quale può essere Tullio De Mauro, registra aspetti abbastanzasconcertanti. Quasi il 14% della popolazione, tanto per cominciare, utilizza ildialetto non solo all’interno delle mura domestiche ma anche al di fuori. E unitaliano su 10 ha serie difficoltà a capire la lingua nazionale.
Meravigliati? Depressi? Consolatevi pensando che, fino a tempi neanche tropporemoti, l’italiano veniva utilizzato solo in Toscana e a Roma e che solo 40 annifa sei persone su dieci non erano in grado di esprimersi e di comprendere questanostra bistrattatissima lingua.
Cosa ha contribuito al miglioramento? Ma la televisione naturalmente alla quale,per essere onesti, occorre affiancare anche la radio, almeno fino a quando nonè stata soffocata, nelle usanze, dalla tv. Oggi però anche su questo fronte ilpanorama è in desolante calo qualitativo anzi, più che un calo una vera epropria picchiata. Della tv di servizio non rimangono che poche briciole e glispazi con qualche velleità culturale sono il più delle volte relegati ad orariimpossibili. E consoliamoci per la seconda volta ricordando che il calcio,almeno per i prossimi tre anni, non ce lo leverà nessuno. Così potremoarricchire ancora un po’ il nostro vocabolario di derivazione calcistica, giàzeppo di "discese in campo" e "salvataggi in corner".
Vabbè, ma allora? Allora rimane la carta stampata, i periodici, i quotidiani, ilibri.
Come lettori di quotidiani, tanto per cominciare, ce la caviamo maluccio vistoche in Europa (dati Fieg e Istat dell’88) l’Italia si colloca solo al 17° postocon una media nazionale di 117 copie ogni 1.000 abitanti; davanti a noi anche laGrecia. Il tutto con buona pace di Hegel che definiva la lettura del quotidianoa inizio giornata come la preghiera laica del mattino.
Dal fronte librario si levano invece le grida di dolore degli editori. Le scarsevendite lamentate trovano una immediata conferma: quasi il 60% delle famiglieitaliane ha sugli scaffali di casa meno di 25 libri; il 23% poi risolve ilproblema ancora più drasticamente visto che non ne possiede affatto.
Che gli italiani non siano dediti alla lettura non rappresenta certo unanovità. Che a questa disabitudine corrispondano veri e propri guasti nellaproprietà di linguaggio invece, si pensa un po’ meno.
Alessandro Manzoni aveva ben presente il problema della lingua e non solo perquestioni legate alla sua poetica. L’obiettivo era quello di trovare ma . Cosìscrisse il suo romanzo popolare, i Promessi Sposi, utilizzando un vocabolario di8.949 parole. Ben poche se si pensa che lo Zingarelli (e non è l’opera piùcompleta attualmente in commercio) contiene 127 mila voci. Tantissime se siconsidera che i Promessi Sposi furono scritti oltre un secolo e mezzo fa. Sipuò dire che il tempo è passato invano visto che ancora oggi il"vocabolario di base della lingua italiana", quello che secondo DeMauro è posseduto con certezza da chi ha fatto almeno la terza media, ècomposto da 6.700 parole. Ma per essere proprio certi di venire capiti daqualcosa come il 66% degli italiani, ci suggerisce il linguista, occorrescendere ancora: 2.000 parole, quelle del "vocabolario fondamentale".
Il dubbio è inevitabile: tra queste 2.000 parole ci saranno anche gli improperiche l’attuale classe politica si lancia con sempre maggiore frequenza?
Anzi, il dubbio è atroce. Che questa politica del vituperio sia l’unica stradarimasta per farsi capire in Italia? Per vincere le elezioni?
Non scherziamo.

Figli deformi se usi l’ecstasy

“Figli deformi se usi l’ecstasy”; “Paralizzato alle gambe? Allora non le serve il computer”; “Alpinista scala il Bianco con arto-protesi in titanio”… Titoli di quotidiani, un po’ sempre i soliti potremmo dire ma non è superfluo riflettere ancora una volta su un tema importante e, forse non a caso, troppo spesso ristretto ai “teorici della comunicazione”.
Le notizie pubblicate sui quotidiani e trasmesse dai telegiornali lasciano una traccia abbastanza labile nella nostra memoria, anche quando si tratta di fatti abbondantemente trattati e che colpiscono la nostra emotività. Quanti terremoti ci sono stati nel 1999 e dove? In che mese sono iniziati i bombardamenti sulla Serbia? A quanto ammonta l’ultima Finanziaria? Insomma è stato dimostrato che conserviamo una memoria dei fatti importanti, di quello che sta accadendo e quindi che è necessario sapere solo per pochi giorni. Poi, sotto l’incalzare di nuove notizie dimentichiamo buona parte delle informazioni che, fino a pochi giorni prima, stavano al centro dell’attenzione nostra e dei grossi mezzi di informazione.

Chi ci suggerisce la nostra percezione del mondo?

Questa constatazione, supportata da numerosi studi, non deve però portare a concludere che l’effetto dei mezzi di informazione e, in senso più ampio dei mezzi di comunicazione di massa, sia ininfluente su di noi. Se spostiamo la nostra attenzione dal breve al lungo periodo e dal contenuto delle informazioni ai modelli della realtà che i contenuti veicolano la questione si pone in modi completamente differenti. Perché non si parla più di ricordi ma di rappresentazioni, della percezione che le persone hanno della realtà. Ed ecco che i mezzi di comunicazione assumono un ruolo molto rilevante perché essi sono una delle fonti principali che contribuiscono a costruire la nostra percezione del mondo in cui viviamo, i modelli a cui ci ispiriamo e che fanno da sfondo a tutta la nostra vita.
Questa influenza infine è più forte negli ambiti, rispetto alle situazioni e alle categorie, di cui non possediamo una conoscenza diretta; ciò che sappiamo, o meglio ancora quella “vaga idea” che ci costruiamo, è ancora di più sul lungo periodo un prodotto dei modelli che i mezzi di comunicazione ci propongono.
Si arriva così al tema che più ci sta a cuore: l’handicap, in particolare l’handicap acquisito, e l’idea che nel tempo il comune cittadino può costruirsi di questo mondo, che nella maggioranza dei casi, non rientra nella sua esperienza diretta.

Temi preferiti? La scuola e poi la cronaca nera

Abbiamo fatto un esperimento: abbiamo cioè raccolto tutti gli articoli relativi all’handicap pubblicati da metà settembre alla fine di ottobre (1999 naturalmente) sulle pagine di cinque quotidiani: Avvenire, Il Sole 24 Ore, La Repubblica, Resto del Carlino e l’Unità. Un monitoraggio su un frammento di stampa quotidiana, in un frammento temporale di un mese e mezzo, senza nessuna pretesa di scientificità, da cui comunque sono emersi dati che ci è parso significativo commentare.
Gli articoli raccolti sono in tutto ventitré, dal trafiletto di poche righe all’approfondimento di mezza pagina; ma a parte il dato quantitativo, che in questa sede interessa relativamente, ci pare più importante sottolineare gli argomenti trattati.
Il tema maggiormente trattato è quello che gravita attorno alla scuola: in tre articoli viene affrontato il problema della carenza di insegnanti di sostegno (“Bufera sui corsi per insegnanti di sostegno”), due di questi raccontano casi di alunni e studenti “lasciati” a casa per questo problema (“La scuola ha pochi insegnanti e lui tiene a casa la figlia Down””, “Un insegnante per il figlio disabile”). A fare notizia è inoltre, seppure in pochissime righe, una manifestazione avvenuta a New York da parte di studenti disabili che hanno vivacemente protestato per “…il debutto in cattedra di Peter Singer”, professore di bioetica “… che teorizza l’eutanasia per i neonati handicappati”.
Tre pezzi sono dedicati ad un “classico” del rapporto handicap/informazione: i casi di violenza e rifiuto. Altre indagini sulla stampa quotidiana condotte dalla redazione di Hp hanno evidenziato come i casi di violenza sessuale che hanno come vittime o come “protagonisti” le persone handicappate abbiano una elevatissima probabilità di diventare notizie. I toni degli articoli che ne conseguono sono spesso scandalistici e l’immagine che se ne ricava è sempre e comunque quella di una sessualità negata, distorta, pericolosa.

La normalità impossibile

L’handicappata o l’handicappato, con una normale vita di relazione e magari con figli, vengono percepiti spesso come protagonisti di eventi straordinari, sicuramente fuori dalla norma. Nell’immaginario delle persone prevale lo stereotipo dell’impossibilità sia rispetto all’affettività sia, e forse ancora di più, rispetto alla procreazione.
Il percorso psicologico che attraversa, legandoli, concetti come handicap – diversità – mostruosità – devianza si ripropone senza mezzi termini in un altro articolo censito nel corso di quest’ultima ricerca. Il titolo è chiaro ed emblematico nel suo condensare tutti questi stereotipi: “Figli deformi se usi l’ecstasy – Con la droga delle discoteche parti a rischio”. Senza entrare nel merito della scientificità della notizia ci pare evidente come l’articolo sia impostato sul meccanismo della colpa a cui corrisponde la punizione della nascita del figlio deforme.
Tornando agli articoli sulla violenza segnaliamo in particolare il caso, verificatosi e Genova, di un uomo, parzialmente immobilizzato a causa di un ictus, che, nel tentativo di difendere un disabile, è stato malmenato da un gruppo di giovani.
Sul lavoro sono invece stati censiti due articoli entrambi sul processo di riforma del collocamento obbligatorio; in tutti e due i casi si tratta di pezzi con un approccio tecnico-informativo come sottolinea anche il fatto che siano stati pubblicati l’uno su Il Sole 24 Ore, l’altro sulle pagine economiche de l’Unità. Segnaliamo come, al di là del periodo limitato preso in esame, difficilmente appaiano sulle pagine dei giornali articoli che parlano di esperienze di inserimento lavorativo; che sia il riflesso della crisi che attanaglia tutto il mercato del lavoro? Oppure i fatti positivi, normali, non fanno notizia?
Sul fronte tecnico segnaliamo infine un articolo sulla razionalizzazione della spesa assistenziale e uno sulla ripartizione del fondo della Regione Lazio per l’istituzione del Servizio di aiuto personale agli handicappati gravi. In entrambi i casi si tratta, ancora una volta, di pubblicazioni apparse sulle pagine de Il Sole 24 Ore.

Le inchieste di Avvenire

Avvenire pubblica nella rubrica “Società” due approfondimenti a distanza di dieci giorni. Il 5 ottobre esce una articolo su mezza pagina in cui viene raccontata la visita in un istituto della Moldavia che ospita bambine e ragazze disabili. Il resoconto è agghiacciante: 203 “pazienti”, Down, psicotiche, oppure con deficit fisici; 11 infermiere e un medico in tutto. Sporcizia, miseria, fame e abbandono. Praticamente una anticamera della morte per queste bambine e ragazze le cui famiglie “… non avevano soldi per mantenere queste figlie malate in un paese in cui è difficile sfamare i figli sani”. L’articolo dell’Avvenire è una forte e pesante denuncia di una situazione ben conosciuta in Europa rispetto alla quale, complici i problemi in cui versa la piccola ex repubblica dell’Urss, nessuno riesce o vuole fare nulla.
Il secondo approfondimento, del 25 settembre, è un articolo su un tema completamente diverso. Racconta un’esperienza condotta nel trentino dove un gruppo di operatori e guide alpine realizzano escursioni in montagna con persone psicotiche. All’interno dell’articolo si legge: “… è un’esperienza di vita ‘normale’, in un clima di fiducia. La montagna ricrea le relazioni, favorisce i ricordi (…) provoca angosce e aiuta a superarle”.
E sempre in montagna sono ambientate le gesta di un uomo che, con un arto in titanio, ha scalato il Monte Bianco. A lui e alla sua impresa, che lui stesso definisce il raggiungimento di nuove “normalità”, sono dedicati due brevi articoli.

Orizzonti tecnologici

Restando sempre nell’ambito dei deficit acquisiti dalle pagine del Resto del Carlino arriva la storia di un ventiduenne, Paolo, che a causa di un incidente stradale è paralizzato da un anno e mezzo. Il giornalista gli fa una intervista tramite una chat line visto che Paolo, immobilizzato dalle spalle in giù, ha trovato in Internet un modo per continuare a studiare, per scrivere agli amici. Grazie ad un programma di riconoscimento vocale utilizza il computer, muove il mouse, spedisce fax, messaggi di posta elettronica e viaggia in Internet. L’articolo, oltre alla vicenda umana di questo ragazzo che è simile a quelle di molti altri disabili che grazie alla tecnologia riescono a comunicare, a studiare, a mantenere relazioni con altre persone, mette in luce un problema per nulla irrilevante: il costo delle bollette e l’assenza di qualunque agevolazione da parte delle compagnie telefoniche, o delle Istituzioni.
Per restare in tema, sempre dal Resto del Carlino nella rubrica intitolata “Il caso della settimana”, veniamo a conoscenza di quanto accaduto ad un disabile con invalidità certificata del 100%: anche se il Ministero delle Finanze, nelle istruzioni per la compilazione del modello 730/99, indica di riportare le spese per i sussidi informatici rivolti a facilitare l’autosufficienza e l’integrazione, questa persona non si è vista riconosciuto il rimborso Irpef sull’acquisto del computer. Questo, naturalmente, per una persona che nel pc, nel modem, in Internet e nella posta elettronica potrebbe trovare strumenti indubbiamente validi per colmare qualche svantaggio. La risposta dell’esperto riportata a fianco non chiarisce come stiano effettivamente le cose.
Segnaliamo un altro articolo legato alla paraplegia e relativo ad un intervento chirurgico realizzato in Francia, all’Institut Propara di Montpellier. A un uomo di ventotto anni, paralizzato alle gambe da nove in seguito ad un incidente d’auto, è stato recentemente collocato nell’addome un impianto elettronico che funziona da centralina di elettrostimolazione nervosa e muscolare e che riceve gli impulsi dagli elettrodi collocati sulle gambe. Una nuova speranza per i para e tetraplegici? L’equipe smorza un po’ i toni dell’entusiasmo spiegando che “… perché l’operazione abbia successo (…) è necessario prima di tutto valutare lo stato dei muscoli, che deve essere ancora buono, e poi considerare la gravità della lesione a livello del midollo spinale. E bisogna ricordare che – prosegue l’intervistato – il paziente avrà sempre bisogno di sostenersi con le stampelle”. Aggiungiamo solo che il risultato conseguito con questo intervento è la prima tappa di un progetto, intitolato con dubbio gusto “Stand up and walk”, cioè “Alzati e cammina”, iniziato nel 1996 e in cui sono già stati investiti molti miliardi. E’ stato stimato che solo in Francia il 10% dei paraplegici potrebbe ricorrere all’intervento.
Gli ultimi due pezzi censiti dalla nostra mini ricerca sono stati dedicati al tema della mobilità: uno di questi, uscito sull’inserto Metropolis dell’Unità, affronta il tema dell’accessibilità dei centri urbani e sottolinea come una città attenta a questi problemi si trasformi immediatamente in una città più vivibile per tutti. Le difficoltà nella fruizione dell’ambiente, sei servizi e delle opportunità, non sono infatti appannaggio esclusivo di chi utilizza una carrozzina per spostarsi ma anche delle persone anziane, dei bambini, di chi è temporaneamente limitato nella mobilità, del genitore che spinge il passeggino.

La realtà vera e quella dei mass media

Non vogliamo concludere questo articolo con i soliti commenti sulla stampa cattiva e i giornalisti frettolosi e incompetenti. Al di là di tutte le considerazioni che si possono fare e che sono già state fatte sul rapporto tormentato tra informazione e categorie “deboli”, riteniamo importante non dimenticare mai quanto descritto nelle prime righe: tutti noi rispecchiamo le idee, i modelli, le mode e i luoghi comuni del mondo in cui viviamo e oggi più che mai i mass media sono potenti strumenti di costruzione delle nostre rappresentazioni della realtà. In altri termini i mass media costruiscono nel tempo, in quindi in modo non percepibile, gli schemi con cui decodifichiamo i fatti, con cui ci poniamo di fronte a situazioni e persone rispetto alle quali non abbiamo grosse conoscenze dirette. Occorre insomma stare molto attenti a non confondere “la realtà” con l’immagine della realtà che i mezzi di comunicazione di massa ci propongono: non è affatto scontato che le due cose coincidano.

Enter: un progetto europeo per l’inserimento lavorativo di persone svantaggiate

Le analisi, le riflessioni e le metodologie che accompagnano i percorsi formativi rimangono spesso in un circuito di “addetti ai lavori” mentre ciò che emerge è solo il risultato finale (il corso di formazione professionale, le persone inserite nel mondo del lavoro, eccetera).
Ci sembra utile invece fare conoscere le risorse e le prassi significative che hanno accompagnato la realizzazione di un progetto europeo fondato sulla ricerca di nuovi percorsi per la formazione e finalizzato all’integrazione di persone in grave stato di disagio.
Enter, questo il titolo del progetto, è stato finanziato dall’Unione Europea nell’ambito del programma di iniziativa comunitaria denominato “Integra”. Ha visto la stretta collaborazione di un gruppo di enti bolognesi e si è basato sull’elaborazione e sperimentazione di percorsi innovativi per la formazione e l’inserimento lavorativo di dodici persone in grave condizione di disagio sociofamiliare e di esclusione sociale.

Lo scenario del progetto

La situazione vissuta da parte delle persone svantaggiate è la inoccupazione o disoccupazione di lungo periodo; si tratta di lavoratrici e lavoratori non più in cerca di impiego per mancanza di prospettive, motivazioni e strumenti di riorientamento ed adeguamento delle risorse personali.
A questo si sommano le prerogative del mondo produttivo bolognese (in prevalenza piccola e media industria) caratterizzato da una forte specializzazione e qualità: a settori tradizionalmente forti come la meccanica di precisione e l’automazione si è affiancata una realtà di terziario avanzato che ha sospinto verso l’alto i requisiti di professionalità e la selettività dell’accesso occupazionale.
La difficoltà di reinserimento occupazionale nasce quindi sia dalla forte diffidenza presso le imprese sulla reale tenuta ai ritmi produttivi di un lavoratore da tempo collegato ad abitudini di vita deresponsabilizzanti, dall’altro dall’effettiva difficoltà di tali persone ad assumere la necessaria flessibilità ed impegno nella costruzione di professionalità specifiche da reinvestire.
Su questo sfondo si colloca il progetto Enter che ha avuto come obiettivo l’elaborazione e la sperimentazione di percorsi innovativi di intervento formativo e di inserimento lavorativo in grado di coniugare tutte le risorse presenti sul territorio per promuovere un rinnovamento culturale che concepisca l’integrazione delle persone svantaggiate come un fattore di sviluppo ed opportunità di crescita per tutta la collettività.
Si è trattato quindi di una azione complessa che, secondo le priorità dell’Iniziativa Comunitaria Occupazione, agisse in una logica di intervento a più dimensioni e livelli e coinvolgesse in ambito territoriale e comunitario una pluralità di attori e competenze coordinate; l’obiettivo strategico era ovviamente quello di un’integrazione degli esclusi a partire dal tessuto socioeconomico delle comunità locali.

Lo studio e ricerca

Significativa in questo contesto è stata la fase di studio e ricerca che si è proposta in generale l’acquisizione di strumenti per la conoscenza e l’analisi della realtà dell’esclusione sociale con particolare riferimento alle problematiche occupazionali e formative. La motivazione principale di tale fase è stata quella di giungere alla individuazione di modelli che saranno la base per la progettazione operativa della sperimentazione da realizzare nell’azione di formazione degli operatori e dei formatori e nelle attività di orientamento, osservazione, formazione ed inserimento lavorativo delle persone in grave situazione di disagio sociale.

L’accompagnamento nell’inserimento lavorativo

Questa fase, apparentemente di secondaria importanza, si è rivelata invece assai significativa e, per certi aspetti, ricca di sorprese. A livello progettuale doveva consistere soprattutto nell’attività di abbinamento delle borse lavoro e nell’accompagnamento alla ricerca di una occupazione. L’esperienza condotta dall’Associazione Piazza Grande nell’affiancamento a sei donne, ha evidenziato la necessità di un sostegno anche rispetto a tutta un’altra serie di problematiche che non erano state inizialmente previste.

Di seguito alcune interviste attraverso le quali la redazione di HP ha cercato di evidenziare alcune prassi ed esperienze significative del progetto Enter (*).

(*) Il sito del progetto Enter è visibile partendo dall’home page dell’Associazione CDH, e cliccando sul logo dell’iniziativa, all’indirizzo http://asp4free.ravenna2000.it/cdh-bo/

Nuove sensazioni

R. V., due sole lettere, una sigla per indicare un ambito tecnologico vastissimo; è la realtà virtuale, è il nuovo “media”, è la nuova frontiera della conoscenza e della comunicazione. E’, sicuramente per i profani, qualcosa dai contorni indefinibili, basti pensare alla quantità di applicazioni in cui viene sperimentata: architettura, intrattenimento, medicina, marketing, addestramento, solo per citare i più conosciuti.

Poi, accanto al progresso tecnologico, ci sono (ci saranno) i risvolti che la realtà virtuale determinerà rispetto ai nostri rapporti, alla nostra percezione del mondo…
Ma come possiamo definire la realtà virtuale?
"E’ un ambiente – spiega Luigi Taruffi, vice-presidente della Società Italiana Realtà Virtuale – che può essere simulato o lontano e in cui ci si immerge sensorialmente. Nel primo caso si tratta di un ambiente creato artificialmente, nel secondo di un ambiente vero. La persona interagisce con questo ambiente, vi si sposta e può persino modificarlo)". "Per certi versi – spiega invece Ferdinand Vandamme del BIKIT (Babbage Institute for Knowledge and Information Tecnologies di Ghent in Belgio) – la realtà virtuale assomiglia a qualcosa che può essere
equiparato ad un film; anche in questo caso infatti si tratta di una realtà filtrata dalla nostra mente, l’uomo deve utilizzare la sua fantasia per crearsi una illusione della realtà".
Niente di nuovo dunque? In un certo senso è proprio così visto che la realtà virtuale utilizza tecnologie già esistenti da tempo (dai computer ai monitor). In particolare – spiega Francesco Antinucci dell’Istituto di Psicologia del CNR di Roma – si tratta "… dell’ultimo stadio di uno sviluppo continuo lungo due direttrici alla base di tutta l’evoluzione recente della tecnologia informatica: da un lato l’incorporazione dei mezzi visivi a livelli sempre più realistici (visione percettivamente reale), dall’altro, l’interattività sempre più spinta verso livelli naturalistici (azione motoria diretta".
II risultato è dunque una estensione dei nostri sensi che ci con sente ad esempio di esplorare ambienti lontani, irraggiungibili (pensiamo ai fondali oceanici) o semplicemente a noi reclusi perché non in grado di muoverci agevolmente. Stiamo parlando della telepresenza, ovvero della possibilità di entrare in contatto con situazioni realmente esistenti senza spostarci ad esempio dalla nostra abitazione. Quindi uno strumento indispensabile per effettuare ricerche, esplorazioni e addestramenti in situazioni pericolose eliminando ogni rischio. La realtà virtuale inoltre sta trovando molteplici applicazioni rispetto ad esempio alla riabilitazione e alla formazione delle persone disabili. In quest’ultimo settore in particolare – spiega Vandamme – è possibile fare sperimentare agli handicappati strumenti che ne agevolano il lavoro, macchine e
ausili che sarebbe molto costose acquistare senza poi avere la certezza che si adattano perfettamente alle loro esigenze. Inoltre per un disabile è possibile imparare ad esempio ad usare una carrozzina in tutte le situazioni tipo in cui in seguito può venirsi a trovare, senza però correre rischi circa la sua incolumità". Dal punto di vista tecnologico quindi siamo di fronte ad un notevole progresso, alla possibilità di ampliare enormemente le nostre conoscenze, di avventurarci in mondi altrimenti irraggiungibili. Ma, come sempre accade, ogni scoperta oltre alle conseguenze tecnologiche appunto, determina anche delle modificazioni ad un differente livello: quello del nostro modo di vivere, di comunicare con gli altri, di relazionarci al mondo. Quali i cambiamenti con cui dovremo confrontarci in un futuro che, alla luce della rapidità con cui la realtà virtuale si perfeziona, non sarà nemmeno troppo lontano? Non c’è il rischio che la realtà virtuale, intesa come ambienti e situazioni che il soggetto può scegliere e modificare, finisca per rappresentare una scappatoia di fronte alla realtà vera che invece, innegabilmente, è spesso dura e difficile da affrontare?
Per la cultura occidentale – risponde Ferdinand Vandamme – la sfida più forte è come assicurare che il mondo delle immagini non venga utilizzato solo per ipnotizzare ma anche per pensare; quindi occorre fare sì che la realtà virtuale diventi un beneficio in più. Comunque siamo consapevoli che si tratta anche di un pericolo in quanto aumenta la capacità ipnotica delle immagini e in quanto può determinare anche maggiore solitudine nell’uomo. Però – spiega Vandamme – siamo di fronte ad un passo simile a quello già verificatosi nella storia dell’umanità quando dalla comunicazione orale si passò alla comunicazione scritta, un fatto questo che ha determinato maggiore arricchimento culturale e al tempo stesso minori contatti tra le persone e quindi maggiore solitudine.
Indubbiamente più drastica la risposta di Luigi Taruffi: "E’ un falso – sostiene – affermare che la tecnologia modifichi le situazioni sociali; tutto dipende da come gli strumenti vengono utilizzati. Relativamente alla realtà virtuale occorre pensare all’impatto sociale, all’impatto sulle persone e sul loro modo di lavorare, mentre si stanno facendo e sperimentando le diverse applicazioni".
D’accordo. Ma i rapporti interpersonali? Il sesso virtuale? L’eventuale fuga dalla realtà?
"Per me – spiega Taruffi – l’elemento essenziale è la qualità della comunicazione che a sua volta dipende dal contenuto dell’informazione; è questa la parte qualificante dei rapporti al punto che vedere per la prima volta una persona con la quale ho avuto diverse decine di rapporti telefonici non determina nessuna modificazione. Il sesso virtuale invece è qualcosa che suscita tanto interesse ma che è poi destinato a spegnersi nel giro di poco tempo, come del resto è già accaduto negli Stati Uniti. Ritengo però – afferma Taruffi – che per le
persone che vivono in maniera problematica la sessualità, intesa come possibilità di accedere a questa realtà, sia meglio la realtà virtuale piuttosto che niente".
L’impressione, dopo questo breve excursus nella realtà virtuale, è che possano delinearsi due fronti, una rivisitazione degli apocalittici e integrati descritti da Umberto Eco. "La realtà virtuale – afferma Luigi Taruffi – è sicuramente controllante ma, a mio parere, è anche poco controllabile nella misura in cui è in mano a individui che pensano mondi virtuali utilizzando la loro creatività". Comunque, come è giusto che sia, la ricerca va avanti. Non possiamo non sfruttare la realtà virtuale – sostiene Vandamme – perché altrimenti l’Europa sarebbe ben presto una colonia del sud est asiatico". Che si tratti di un fatto scientifico, politico, economico o qualcos’altro ancora poco importa. E chissà, forse tra pochi anni queste macchine fantastiche saranno diventate un bene di consumo, come la tv, come il computer o il cellulare; oggi comunque il costo va dai 20 milioni in su.

Corpi in scena

Una storia curiosa quella della Societas Raffaello Sanzio di Cesena, fondata da due coppie di fratelli, Claudia, Romeo, Chiara e Paolo quando l’età media si aggirava attorno ai venti anni. Era il 1981, ovvero l’anno in cui la compagnia è nata dal punto di vista formale anche se, come sottolinea Romeo Castellucci, il regista, “Ci siamo trovati a praticare l’idea del teatro senza neppure esserne del tutto coscienti”. Da allora sono state portate in scena oltre venti rappresentazioni, una decina tra oratorie e interventi drammatici e sono stati realizzati altrettanti cortometraggi.

Ma la storia della Societas Raffaello Sanzio è soprattutto caratterizzata dal percorso di rottura e superamento con le consuetudini del linguaggio teatrale: dalle immagini alla parola, dal rapporto con il pubblico alla presenza scenica dell’attore.
Nasce così un teatro che abbandonando l’interpretazione per concentrarsi sull’aspetto visivo, fa del corpo, delle sue componenti comunicative e della sua eventuale diversità, un elemento essenziale. Il discorso sfocia nella realizzazione, nel 1992, dell’Amleto "autistico" e nell’Orestea, in scena a partire dal mese di aprile, in cui il ruolo centrale, quello del re, viene ricoperto da Loris, un ragazzo mongoloide.
Con Romeo Castellucci abbiamo cercato di approfondire il significato di queste due opere e come l’elemento diversità entra nel loro teatro.

Domanda. Il corpo e la diversità nel teatro della Societas Raffaello Sanzio: possiamo chiarire questo concetto?
Risposta. Per noi stare sulla scena significa innanzitutto starci con il corpo che contiene già in sé la comunicazione più potente del teatro. La scelta di portare in scena un corpo che ha delle qualità particolari è stata così praticamente inevitabile perché attraverso la sua diversità è possibile la metafora e il linguaggio del corpo stesso. Molto spesso abbiamo fatto ricorso anche alla metafora della malattia, della patologia ma mai in senso esistenziale; il corpo segnato per noi diventa soprattutto una occasione di rifondazione del linguaggio.

D. Perché portare in scena un Amleto con tratti autistici?
R. Nell’Amleto autistico l’essere sulla scena in modo "autistico" rappresentava per noi un discorso sul linguaggio che era necessario reinventare; significava arrivare ad un grado zero di comunicazione per poi ripartire con un progetto di rinascita del linguaggio. La metafora dell’autismo infantile è stata perfettamente calzante per questo percorso.
Inoltre la persona che ha interpretato per l’appunto il personaggio di Amleto conosceva bene questa realtà in quanto aveva lavorato proprio con bambini autistici.

D. Nel personaggio di Shakespeare avevate riscontrato tratti autistici?
R. Senz’altro ci sono elementi simili ma abbiamo fatto il percorso inverso riscontrando nell’autismo una problematica molto vicina al dilemma di Amleto. Il suo "essere o non essere" sul piano linguistico è in realtà una domanda secondo noi addirittura coincidente con l’autismo.

D. Una domanda che però voi avete trasformato in essere e non essere…
R. E’ la forma della neutralità che rappresenta una scelta tra le più radicali; il nostro Amleto, ma a nostro avviso in modo sotterraneo anche quello di Shakespeare, compie questa non scelta che è ricchissima di conseguenze. Una scelta di neutralità, e quindi di non diretto antagonismo rispetto alla vita, che comporta un esodo da se stessi; un modo di porsi che non ha un valore negativo ma al contrario una maggiore apertura, maggiori potenzialità.

D. Parliamo ancora di diversità: nell’Orestea di Eschilo, che andrà in scena a giorni, recita un attore disabile. Puoi parlare di questa esperienza?
R. Stiamo lavorando con Loris, un ragazzo mongoloide, ma soprattutto una persona straordinaria di cui il lavoro e noi avevamo bisogno. Loris interpreta la parte di Agamennone, quella cioè del re dei greci e lo fa essendo proprio il re, partendo dalla rappresentazione e arrivando alla realtà. Ha un atteggiamento regale, una camminata monarchica come solo le persone mongoloidi riescono generalmente ad avere. Insomma Loris ha in se, come qualità fisiche, i segni, i tratti, che servivano per l’Orestea. Ha la qualità "mitica" del suo essere, che dal punto di vista dello stare del corpo sulla scena a noi normali non è possibile. Per questo dico che non poteva esserci una presenza più efficace e più aderente di lui sul palcoscenico.
Loris entra in scena, con un costume che tra l’altro si è disegnato lui stesso, e fa tutto quello che vuole ma non per un discorso spontaneistico, che per noi sarebbe di un moralismo inaccettabile, ma perché è totalmente padrone di quella parte. Al punto che diventa anche padrone del tempo di quella scena che a volte dura due minuti, a volte quindici; ed è giusto così perché lui è il re.
Nella rappresentazione comunque non c’è nessun discorso sulla patologia, che poi a mio avviso non è nemmeno tale; non c’è alcun giudizio in questo senso anche perché, grazie alla presenza del corpo, questo giudizio cade automaticamente.

D. Oltre all’Orestea è imminente anche la prima di un’altra vostra rappresentazione, Buchettino di Perrault, pensata e rivolta ai bambini. Cosa significa per voi lavorare con l’infanzia?
R. Per noi è indispensabile proprio perché l’infanzia è fuori dal linguaggio; il bambino è colui al quale è ancora possibile una comunicazione vera, non mediata da forme intellettualistiche e che si gioca soprattutto attraverso la sensazione.
Buchettino è una fiaba sonora in cui il pubblico infantile viene accolto in una grande stanza dove ci sono molti letti. Si ricrea così l’atteggiamento tipico dell’ascolto della fiaba che è la dimensione del letto e dei momenti che anticipano il sogno. Questa stanza nel contempo è scenografia e platea perché ogni spettatore, ogni bambino con il suo letto, entra direttamente nella scena. Poi ci sono i suoni, i rumori che fuoriescono dalle quattro pareti. Insomma è una esperienza nuova anche per noi.

Per informazioni: Societas Raffaello Sanzio, via Serraglio 2 – 47023 Cesena. Tel. 0547/25.560-66

Ciak, c’è l’handicap in TV

La pubblicità non esiste solo per commercializzare beni di consumo. Strategie, marketing e mass media al servizio della comunicazione sociale: parlano due creativi."Oggi – secondo Marco Mignani della R.S.C.G. di Milano – trovare spazi gratis per questo tipo di promozione è diventata un’impresa. Non era così invece nel 1972 quando realizzammo la prima campagna in Italia a scopo sociale".
Eppure la R.S.C.G., ovvero Roux, Séguéla, Cayazac, Goudard da nomi dei fondatori (e chi conosce un minimo la storia della pubblicità saprà che si tratta di grandi nomi) non è certo l’ultima arrivata. Anzi. In Italia, dove esiste da nove anni è oggi la dodicesima agenzia del mercato con una lista-clienti che investe annualmente nei mezzi di comunicazione 140 miliardi. L’agenzia è inoltre il primo gruppo europeo ed il settimo gruppo mondiale.
Ma facciamo qualche nome evocatore: Citroen, Voiello, Zucchetti, Foxy, Palmera…e le dimensioni della R.S.C.G. sono subito chiare.
A fianco di questi clienti poi tre realtà sociali: Telefono Azzurro, Associazione Italiana Contro l’Epilessia, Vidas (Volontari di Assistenza Domiciliare ai malati terminali di cancro).
"Ho iniziato quasi venti anni fa – racconta Marco Mignani – con una pubblicità a favore dell’Associazione Lombarda Lotta all’Epilessia, realtà che in questi anni si è ampliata fino a divenire l’odierna Associazione Italiana Contro l’Epilessia".
In tutto sono state realizzate quindici differenti campagne sempre veicolate attraverso la stampa. Perché nessuno spot? Non è solo un problema di costi ma anche di precise strategie: "…quello dell’epilessia -dice Mignani – è un problema da meditare e non da portare in prima pagina. Ed ecco perché qui alla R.S.C.G. abbiamo scelto di utilizzare la stampa e di realizzare manifesti ad altezza d’uomo, leggibili quindi, e non poster a sei metri". Diverso il discorso per Telefono Azzurro di cui l’agenzia ha curato tutte le campagne, dalla nascita nell’87 ad oggi. "Telefono Azzurro – spiega il pubblicitario – è forte di un’onda emotiva molto vasta ed ecco che l’impressione televisiva funziona bene".

EMARGINAZIONE? DIVERSITA’? UN PRODOTTO COME GLI ALTRI

Ma non ci sono solo le grandi campagne nazionali. Grigio, rumore di traffico… indifferenza? Un foglio sgualcito cade a terra. Passano secondi che sembrano eterni. Finalmente una mano irrompe nel campo, prende il foglio, lo stende quasi accarezzandolo. C’è una donna, china su se stessa, abbandonata su una panchina…
Poi la voce fuori campo: "A Modena ci sono ottomilasettecentocinquanta persone che hanno bisogno di aiuto e centocinquantamila che potrebbero aiutarle. Basta poco per dare il sorriso ad una vita stropicciata"… La donna solleva il capo, abbozza un sorriso conteso tra la speranza e l’amarezza.
Questo lo spot che Walter Chietto dell’agenzia bolognese New Image ha realizzato lo scorso anno per la Consulta del Volontariato della città di Modena e che è stato trasmesso dalle reti locali.
Contemporaneamente è stata attivata anche la campagna stampa.
Lo scopo, sensibilizzare e coinvolgere nuove persone, è stato raggiunto se non altro in termini di interesse: molte le richieste di ulteriori informazioni sulle attività alcune delle quali si sono tradotte in aiuti e collaborazioni concrete.
"In fondo – spiega Walter Chietto – abbiamo utilizzato un concetto semplice per veicolare il nostro messaggio: ci sono poche persone che hanno bisogno di aiuto e molte che le potrebbero aiutare.
La difficoltà maggiore – prosegue il creativo – è stata quella di rivolgersi ad un target ampio (tutti possono fare opera di volontariato) e di fare riferimento ad uno stato di bisogno generalizzato: non al tossicodipendente, l’alcolista o alla persona anziana ma ad una condizione più ampia di necessità. Questo d’altra parte ci era richiesto proprio all’organizzazione della Consulta che articola le sue attività in diversi settori di intervento". II mondo della pubblicità dunque offre un’altra immagine di sé; ma c’è poi davvero tanta differenza tra lanciare sul mercato un nuovo prodotto e trasmettere un concetto di tolleranza o informare per fare prevenzione, per aiutare e trovare aiuto? Decisamente no secondo Walter Chietto: "Anche un concetto è un prodotto da vendere. Inoltre – aggiunge – sono quelle rare occasioni in cui anche noi pubblicitari ci sentiamo a posto con la coscienza perché vendiamo qualcosa in cui crediamo in modo particolare".
Dello stesso avviso Marco Mignani. "Non c’è nessuna differenza tra un prodotto e un concetto; è sempre un esercizio di intelligenza, di creatività e di buon senso.
L’unica differenza è che per prodotti commerciali, quindi con un budget, possiamo andare a colpire il target con i mezzi giusti. Nel caso di campagne sociali dove invece è tutto gratis, non possiamo sceglierci ad esempio le testate più idonee. Quindi se mettono a nostra disposizione uno spazio lo prendiamo.
L’impossibilita di dominare il media – aggiunge il creativo – implica poi un’altra ricaduta: la difficoltà a misurare i risultati nel caso di pubblicità sociale. In Italia non c’è una storia della comunicazione sociale, non esistono quindi standard e nemmeno ricerche in questo senso. Solo da poco la Presidenza del Consiglio dei Ministri chiede che ogni campagna sia affiancata da una verifica sui risultati.
Le mie campagne – prosegue – hanno funzionato e non funzionato. Il Telefono Azzurro in questi anni è esploso, ma in primo luogo perché si tratta di una organizzazione che funziona bene.
Ritengo che molte delle campagne di questo tipo che si fanno in Italia siano inutili, talvolta anche dannose. Mi riferisco ad esempio alla campagna contro la mafia di Maurizio Costanzo: è il classico messaggio non meditato".

“Quella violenza sottile”

“La sessualità? È un problema a prescindere. Hai idea di quanta gente c’è, all’apparenza “normale”, che ha problemi di sesso?”.
Eccola. Abbiamo appena iniziato a parlare, c’è ancora qualche imbarazzo, ma Cinzia è già venuta fuori. Con tutta la sua pacata combattività. Ventotto anni. Da otto collabora con una comunità per il recupero dei tossicodipendenti. Un paziente volontariato e, da poco più di due anni, l’assunzione come operatrice.

"C’è questo senso comune – spiega Cinzia – per cui chi è diverso vede raddoppiati i suoi problemi relativamente ad ogni sfera della vita".
Si insinua così l’idea di una violenza sottile non paragonabile a quella sparata a grandi titoli dai giornali come ad esempio l’handicappata prostituita dalla madre, lo stupro perpetrato dall’insano di mente o magari dall’extracomunitario. La chiamiamo violenza ma non è la giusta definizione. È impercettibile e quindi meno facile da combattere e ha il sapore dell’isolamento, della marginalità, del rifiuto.
"Al termine della terza media – racconta Cinzia – ho subito una operazione alla schiena, dopo la quale mi hanno messo un busto di gesso. Poi ho iniziato le superiori: volevo fare l’analista di laboratorio. Quell’inverno era freddissimo; per andare a scuola dovevo fare lunghi percorsi in corriera e con il busto era tutto più difficile. Dopo un paio di mesi comunque c’è chi mi ha fatto capire che era meglio se lasciavo perdere: ad un’analista di laboratorio è richiesto l’uso perfetto di entrambe le mani e questo non è certo il mio caso.
Un fatto oggettivo – spiega – ma quello che mi ha fatto male è stato soprattutto il modo con cui ml è stato detto".
Cinzia comunque ha reagito, a testa bassa: "Adesso gliela faccio vedere io" si è detta e poiché a perdere l’anno non ci pensava proprio ha preparato e superato l’esame integrativo per accedere alla seconda: liceo scientifico questa volta, portato a termine senza difficoltà.
Finito il liceo, dopo una breve parentesi universitaria, Cinzia ha optato per il mondo del lavoro. Prima un anno e mezzo di volontariato in una comunità per tossicodipendenti, poi un corso di formazione per addetti del settore. "Eravamo in undici a frequentare questo corso – ricorda Cinzia – organizzato da una cooperativa in vista dell’apertura di una comunità.
L’esito fu estremamente positivo per me, grazie anche all’esperienza di volontariato appena fatta.
Quando però arrivò il momento di scegliere i componenti dell’equipe che avrebbe gestito il centro la risposta fu: "Andresti benissimo ma noi abbiamo bisogno di operatori alla pari; non possiamo permetterci qualcuno che non sia in grado di svolgere autonomamente tutte le attività". Quella volta non reagii subito, dapprima ci fu un momento di sbandamento".
Ma non è solo la caparbietà che ha sostenuto Cinzia fino ad oggi: il rapporto equilibrato con la famiglia in primo luogo che non le ha mai fatto pesare il suo handicap. Poi il rapporto con se stessa. "Sto bene con me – dice -, anzi, ad essere sinceri mi piaccio". E veniamo agli affetti.
"Certo – ammette – tutti dobbiamo fare i conti con uno stereotipo di bellezza, sia maschile che femminile, portato agli estremi e figuriamoci chi ha dei problemi a livello fisico: o li neghi e fai l’angelo o trovi dei compromessi e ti costruisci delle modalità che sono tue per accedere alle cose più "normali", come l’amore.
Quando avevo vent’anni – racconta Cinzia – mi nascondevo dicendo che a me non interessava avere dei rapporti. Pensavo anche di essere in fondo fortunata ad essere una donna perché ritenevo che l’uomo non potesse esimersi da certe cose come il farsi avanti o l’avere una certa prestanza fisica.
Poi è successa una cosa fondamentale: mi sono presa una cotta per un mio amico. Mi guardavo bene dal dirlo ma la cosa era evidentissima. Alla fine lui ha fatto in modo da farmelo ammettere e, sebbene non sia successo niente, è stato importante tirarlo fuori. La verbalizzazione di questo sentimento mi ha fatto capire che poi non era così assurdo.
Qualche tempo dopo, sull’ambiente di lavoro, ho conosciuto Andrea. Dapprima siamo diventati amici, abbiamo fatto le vacanze assieme. Al rientro dalle vacanze, era settembre, abbiamo continuato ad uscire; ricordo che ero sempre io ad invitarlo. Poi, fu una cosa normalissima, una di quelle sere ci siamo messi insieme".

Corpi in cronaca

C’è una specie di luogo comune che recita pressappoco così: “Le cattive notizie sono buone notizie”. Quindi la notizia di una persona disabile, segregata per anni in un pollaio è proprio ciò che ci vuole per il giornalista a caccia di nuove emozioni; non per sé, si intende, ma per l’amato/odiato lettore, sempre più distratto, sempre più sommerso di messaggi quindi, sempre più sulla difensiva. Ma è sempre così? È sempre vero che quando si tratta di categorie deboli la regola è il sensazionalismo?

Il disabile rifiutato, violentato, nascosto; oppure il disabile eccezionale, laureato, sposato, persino con figli. Quante inesattezze, quante letture parziali. Sono quelle che spesso traspaiono dalle pagine dei giornali, è vero, ma è altrettanto vero che è troppo facile additare i giornalisti come unici responsabili di queste deformazioni. Si rischia di cadere in un altro luogo comune.
Come fruitori di informazioni infatti commettiamo un errore quando facciamo coincidere la notizia di un evento con l’evento stesso. Se da un lato i fatti di cui non abbiamo esperienza diretta esistono solo nel momento in cui ce ne viene data notizia, dall’altro lato non possiamo dimenticare che di quel fatto abbiamo, attraverso i mass media, solo una comunicazione, una rappresentazione.

Alla ricerca del senso comune

Ed eccoci già calati nel senso dell’indagine condotta presso il Centro Documentazione Handicap dell’Aias di Bologna. Due i punti fermi da cui è partito questo lavoro: il primo, il presupposto fondamentale, è che anche la carta stampata contribuisce a creare l’immagine della disabilità che ogni persona possiede e che la "forza" di questa costruzione è maggiore quando non esistono occasioni di conoscenza diretta. Avere a che fare con una persona disabile, per lavoro, per amicizia, o per semplice vicinanza fisica, consente infatti il più delle volte di abbandonare tutta una serie di stereotipi che caratterizzano senza dubbio la nostra cultura. Stereotipi e luoghi comuni che ovviamente anche i mass media assorbono e rilanciano, in un gioco di conferme reciproche che finisce per radicare sempre più le opinioni. A questo poi occorre aggiungere anche la funzionalità che certe immagini hanno nella dinamica di esasperazione dei toni che caratterizza spesso i mass media. Fare audience o aumentare il numero dei lettori significa attirare a sé gli investimenti pubblicitari, significa quindi avere più denaro da investire sul potenziale umano e tecnologico della redazione per potere così essere più competitivi e accrescere l’audience o il numero dei lettori. E così via, in una spirale perversa in cui l’operatore dell’informazione deve andare a caccia dello scoop, del caso eccezionale, emblematico, quello insomma in grado di scuotere le coscienze sempre più assopite del consumatore; e i più deboli a farne le spese.
Alla luce di questi fatti dunque, quale immagine della persona disabile può strutturarsi nell’opinione del "cittadino della strada"? Da cosa può essere caratterizzato, rispetto a questa particolare categoria del disagio sociale (l’handicap è il disagio sociale), l’inafferrabile eppure temibilissimo senso comune? Ecco dunque che ogni singolo item su cui si è imperniata questa ricerca si configura come una lente attraverso cui guardare, o cercare di inferire, le ricadute che nel tempo le immagini proposte dalla stampa possono avere sull’opinione delle persone. Questo naturalmente non può che essere fatto in via ipotetica e con tutti i limiti che comporta il confrontarsi con la soggettività umana.

La struttura dell’indagine

L’obiettivo concreto della ricerca è quello di verificare quanto e come si parla di diversità, partendo da una base di dati piuttosto ampia ed applicando ad essi un criterio di analisi il più scientifico possibile.
II fatto poi che l’indagine si sia sviluppata all’interno del Centro di Documentazione sull’Handicap dell’Aias di Bologna, spiega la scelta della stampa quotidiana e della disabilità quali ambiti di ricerca. Il Centro infatti dispone tra l’altro di un archivio degli articoli pubblicati dal 1983 in poi su una quarantina tra quotidiani e settimanali.
Quali coordinate temporali sono stati prescelti quattro mesi (giugno, luglio, novembre e dicembre) e due anni, il 1990 ed il 1993. Le nove testate su cui si articola la ricerca sono invece state selezionate in base ad un criterio di eterogeneità rispetto alla collocazione territoriale ed ideologica: Avvenire, Gazzetta di Mantova, Gazzetta del Sud, Gazzettino, Piccolo, Stampa, Repubblica, Unità e Unione Sarda; quest’ultima, presente per il 1990 è stata sostituita per l’anno ’93 con il Mattino.
La scelta di due anni tra loro relativamente distanti, il 1990 ed il 1993, risponde dal punto di vista metodologico all’esigenza di verificare se e quanto una serie di eventi abbiano potuto incidere sul rapporto tra l’handicap ed i mass media. Ci riferiamo ad esempio alla carta del doveri del giornalista, ai numerosi dibattiti, alle ricerche promosse dalla Comunità di Capodarco e dai giornalisti del Gruppo di Fiesole, alla legge quadro sull’handicap (L 104/ 91).
Gli articoli pubblicati dalle nove testate nel periodo individuato sono stati schedati secondo una griglia di analisi articolata in 31 item. La prima parte di questi è finalizzata a raccogliere dati di tipo quantitativo (numero totale degli articoli pubblicati e per singola testata, numero di colonne, argomenti trattati).
Altre voci (collocazione del pezzi nelle pagine locali o in quelle nazionali, taglio, settore, genere) si collocano a cavallo tra l’analisi quantitativa e qualitativa. La rilevanza data ai temi è infatti direttamente connessa con l’evidenza fisica all’interno del giornale e della pagina: certe notizie possono avere l’onore di una apertura, altre solo una ventina di righe in taglio basso.
"Categorizzazione" (singolo, gruppo informale o organizzato), "ruolo" (attivo o passivo), "area di significato" (malattia, disagio, riuscita ecc) sono invece item che conducono in modo più specifico all’interno dell’analisi qualitativa.
Un discorso a parte merita invece l’uso dei termini: una persona può essere definita sia disabile che handicappata ma le due parole non sono, contrariamente a quanto si crede, sinonimi. L’item "terminologia" è inoltre un’ottima spia per evidenziare di quali categorie (fisici, psichici, sensoriali) la stampa tende maggiormente ad occuparsi.

Sta davvero finendo la spirale del rumore?

Applicando alla marginalità le logiche generali dell’informazione, quella odierna, così impregnata di mercato, non si può ovviamente evitare di produrre reazioni. Qualche volta si è trattato di polemiche tanto feroci quanto sterili, anch’esse improntate al "chi urla di più"’; qualche altra volta si è trattato invece di un vero e proprio confronto, di un dialogo teso a trovare assieme, operatori dell’informazione e operatori del sociale, nuove strade. I dibattiti, le carte deontologiche, sono solo la superficie sotto cui si muove una crescente attenzione, una sensibilità nuova. C’è poi anche l’impressione che un certo modo di fare giornalismo si stia esaurendo da sé; la spirale del rumore deve necessariamente avere un limite oltre il quale l’informazione azzera se stessa non essendo più credibile in quanto tale. È probabile allora che il mondo giornalistico intraveda nel cambiamento non solo una doverosa forma di rispetto ma anche una necessità.
Si arriva così al secondo punto di questa ricerca, l’ipotesi da verificare: alla luce del dibattito, della presa di coscienza da parte di molti di quanto l’informazione fosse strumentalizzante e talvolta pericolosa, si sono verificati dei cambiamenti? Due anni di distanza sono stati sufficienti per modificare qualcosa nel modo di fare informazione sulla disabilità?

I numeri

L’aspetto quantitativo evoca immediatamente una associazione: "fare notizia". Il personaggio importante quasi sempre fa notizia, di qualunque fatto si renda protagonista, perché "interessa alla gente" e perché è interesse dei giornali dedicargli degli spazi. Il personaggio importante fa notizia "per se"’. Il disabile no. Ci deve essere sempre un qualcosa in più in lui o nelle cose che fa per diventare visibile. Ma questo è normale. Così la relativa sottorappresentazione dell’handicap evidenziata dalla ricerca (612 articoli complessivamente pubblicati, 303 nel 1990 e 309 nel 1993) assume i contorni di un fatto secondario.
Rispetto al dato quantitativo poi i comportamenti delle testate si sono dimostrati molto variegati; c’è chi parla poco di disabilità (la Stampa ad esempio con 41 articoli censiti in due anni) e chi invece ne parla molto (Il Gazzettino con 138 pezzi, sempre in due anni). Poi c’è chi ne parla soprattutto in cronaca locale: l’ambito territoriale, la vicinanza delle persone ai fatti è sicuramente un elemento importante per sensibilizzare, per fare sentire più prossime e meno eccezionali certe realtà. Ma la vocazione localistica di alcuni quotidiani, e la possibilità di fare un lavoro capillare, non si è sempre rivelata sinonimo di attenzione nei confronti di questi temi.
Allo stesso modo la quantità degli interventi non è una garanzia di qualità; ribaltando i termini si può osservare come ad esempio la Stampa, pur occupandosi poco di questi temi, lo faccia poi in modo molto equilibrato e corretto dal punto di vista del contenuti. Qualcun altro invece (Il Gazzettino è il caso più evidente) pubblica una grande quantità di articoli su un evento e non si preoccupa mai di andare a guardare dietro alla facciata delle cose: i problemi, le persone, il significato di quello che viene fatto. Allora, si potrebbe dire, il risultato non è pari allo sforzo (o meglio ancora allo spazio).

D’estate specialmente

Accade spesso che ci siano momenti in cui le notizie sono meno numerose, specialmente in prossimità delle vacanze, sia d’estate che d’inverno. Succede allora che anche temi "dimenticati" facciano comodo in questi frangenti perché comunque le pagine vanno riempite. I mesi prescelti per la rilevazione si avvicinano molto alla tipologia dei periodi di "calma", luglio e dicembre in modo particolare. Il risultato ottenuto sfata però il luogo comune iniziale; soprattutto perché tra un anno e l’altro non ci sono segni di costanza e luglio si rivela effettivamente il mese più prolifico del ’90 ma anche quello meno prolifico del ’93. Novembre è invece alla fine il mese in cui è stato pubblicato di più.
Insomma, almeno per quanto concerne lo spaccato fornito da questa ricerca, non è vero che l’handicap fa notizia quando non c’è niente di meglio e quando, soprattutto, le persone sono assorbite da preoccupazioni ben più grandi: le vacanze, appunto.
"Genere", "taglio", "settore", "immagini"; una serie di item a metà strada tra l’aspetto morfologico e quello connotativo in cui, in definitiva, ciò che conta maggiormente nel tempo è il livello più profondo. Chi legge il giornale non è ovviamente portato a cogliere gli aspetti strutturali ma questo non significa togliere loro importanza. Anzi, quanto più lavorano "all’insaputa" del lettore, tanto più è fondamentale vederli anche come vere e proprie sottolineature.
I termini "articolo" o "notizia breve" sono ovviamente molto generici e constatarne la quantità (rispettivamente il 48,7% ed il 25,2% di quanto pubblicato) non è di per sé molto illuminante. Tutto cambia se però lo si raffronta alle altre categorie, se insomma lo si guarda in negativo; "articolo" non è "inchiesta", non è "intervista", non è "scheda", non è "redazionale" (si tratta di categorie che hanno registrato percentuali pressoché irrisorie). Non è insomma tutto ciò che, almeno dal punto di vista teorico, implica un minimo di approfondimento.
A che serve versare del denaro a favore della ricerca sulla distrofia muscolare se poi non si sa nemmeno cos’è la distrofia muscolare? Se non si sa che cosa cambia nella vita delle persone che, all’improvviso, vedono completamente cambiata la loro vita? E che significato ha il gesto del "cittadino"? A cosa serve se poi davanti ad una carrozzina, quando va bene, non si sa che fare?
Forse anche i giornalisti qualche volta non sanno che differenza c’è tra cerebroleso ed epilettico, tra autistico e dislessico. il problema non è tanto sapersi destreggiare tra gli specialismi (per quelli ci sono le persone che lavorano già nel settore) quanto piuttosto riuscire a dare un’immagine più completa delle cose.
Così è importante ospitare le opinioni dei lettori (è uno del generi più utilizzati dalle testate), dare spazio alle loro idee, ma lo sarebbe anche utilizzare al meglio gli strumenti che il giornalista ha a disposizione per ampliare le conoscenze, anche quelle del disabile che scrive in redazione; il giornalista, proprio per la posizione che occupa, può infatti raccogliere informazioni e interpellare persone molto più di quanto il singolo possa fare. Il che non significa certo promuovere un’inchiesta ogni qualvolta si verifica un caso. Significa invece una maggiore precisione, quella ad esempio che viene riservata a tanti altri temi. Fare il paragone con lo sport, in questi giorni "mondiali", è davvero troppo facile.

L’immagine oscura

L’immagine dovrebbe avere la funzione di aggiungere significato al testo, di rafforzarlo, di amplificarne l’impatto emotivo; oppure dovrebbe servire da alleggerimento. Le foto censite per questa ricerca non sono poche anche in relazione al tipo di quotidiani esaminati; tutti prediligono infatti lo stile sobrio, fatto di titoli ma soprattutto di testo, secondo quella che è poi la tradizione del giornalismo italiano.
Dal punto di vista qualitativo si possono suddividere in due macro-categorie: le immagini di persone e quelle di situazioni. Nel primo il lavoro delle redazioni è caratterizzato da un buon grado di specificità, favorito dalla presenza di un soggetto identificabile e quindi facilmente fotografabile. I problemi emergono invece quando, anziché di una persona, occorrerebbe la foto di un ambiente, di un contesto di vita: allora le immagini diventano generiche, talvolta ripetitive, inefficaci. Quante volte la stessa foto, il disabile di spalle, la carrozzina, vengono utilizzate per documentare fatti molto diversi tra loro? Anche questo concorre a rafforzare gli stereotipi, la percezione dell’handicappato come essere solitario, lontano, imperscrutabile. Il suo mondo è là, ben distinto dal nostro. È fatto di carrozzine, oscure pratiche riabilitative, silenzi. Poco viene fatto per farci avvicinare; le immagini di Marcello Manunza (il ventiseienne di Chiavari uscito dopo tre anni dal coma e la cui vicenda ha avuto un’attenzione grandissima da parte di tutti i quotidiani), esanime, circondato, difeso e quindi anche isolato dalle braccia della madre o dal cordone di volontari che lo assistono è uno degli esempi più forti di questa tendenza.

Oggetto, soggetto o protagonista?

La storia di una notizia è in realtà un gioco a tre: c’è chi la elabora, chi la fruisce, chi ne è (o ne dovrebbe essere) il protagonista. Tra due di questi tre poli si instaura però una dinamica circolare: il giornalista confeziona la notizia per il quotidiano, il telegiornale o il radiogiornale e nel fare questo, oltre che da altri fattori tipici del lavoro di redazione, è condizionato dalla consapevolezza che quella notizia è anche un prodotto "da vendere". Dal fatto si passa cosi a una notizia elaborata secondo criteri che per il giornalista corrispondono ai desideri del lettore. Anche se si tratta di una semplice presunzione, basata sul "fiuto" o su valutazioni professionali, questo meccanismo pone il destinatario in una posizione di forza; egli è l’acquirente che ha diritto alla merce dell’informazione. Elemento debole del "gioco" rischia così di essere il soggetto delle notizie: questo è particolarmente evidente quando si tratta di una persona appartenente alle categorie marginali, una persona cioè incapace di autotutelarsi rispetto all’uso (o abuso) che il meccanismo dell’informazione può fare della sua vicenda.

Imparare a comunicare

I numerosi dibattiti sul rapporto tra mass media e marginalità hanno, fra le altre cose, anche il pregio di far confrontare la "base" con il mondo dell’informazione su piani che non siano solo lo scontro diretto. Servono insomma a scardinare quella metà del meccanismo che ha visto il perdurare di due nicchie: quella dell’informazione da una parte e quella del sociale dall’altra. E in questo il privato sociale, e ancora più il mondo dei servizi, hanno avuto la loro fetta di responsabilità; hanno coltivato la cultura del "fare" e tralasciato quella del "dire" per poi accorgersi, spesso in ritardo, i tempi erano cambiati. L’informazione non è uno specifico ma qualcosa che attraversa in modo trasversale tutta la società; non è il sapere di pochi ma la risorsa, la ricchezza implicita in ogni cosa; oggi non basta fare, occorre anche far sapere. Nel frattempo però il mondo dell’informazione si è appropriato di certi temi e lo ha fatto utilizzando categorie inadeguate. I giornalisti erano e in buona parte continuano ad essere impreparati ad affrontare il disagio e, al tempo stesso, quel disagio ben si presta alle logiche del sensazionalismo, della spettacolarizzazione o dei buoni sentimenti.
Il confronto, e forse un po’ di autocritica, hanno portato il privato sociale ad organizzarsi anche dal punto di vista comunicativo, a curare la propria immagine, a saper dare alle proprie iniziative la veste di eventi o comunque di fatti in grado di interessare un più vasto numero di persone.
I risultati traspaiono solo in parte dai dati raccolti per questa ricerca: il privato sociale ad esempio si configura, soprattutto nella cronaca locale, come un interlocutore sicuro per le notizie; queste ultime poi scaturiscono sempre più di frequente da iniziative o da dichiarazioni (quasi sempre in chiave critica), fatto questo che, se opportunamente valorizzato, può effettivamente portare ad approfondimenti e dibattiti. L’essenziale ancora una volta è che le cose non si fermino alla sfuriata del disabile, dell’associazione o, perché no, dell’amministratore; il rischio infatti è che i problemi vengano perennemente percepiti come distanti, senza attinenza con la propria vita e che la disabilità venga alla fine associata alla difficoltà, all’esclusione, all’ingiustizia.

Così vicini, così lontani

Non è casuale allora che, alla fine, la maggior parte degli articoli esaminati ci rimandi del disabile l’immagine di una persona appartenente ad un gruppo indifferenziato, ovvero, quell’"altro", quel "lontano" da noi, che non ci obbliga a metterci in gioco.
La stessa indefinitezza che si ritrova nell’uso delle parole. Il disabile rimane ragazzo per sempre (il termine "ragazzo" è il più utilizzato dal giornalisti) e quindi difficilmente potrà condurre una vita "normale", avere un lavoro, sposarsi, fare dei figli, andare in vacanza in albergo anziché in colonia. Anche questo è un luogo comune assai più diffuso di quanto si possa credere.
Si tratta infatti di una abitudine diffusa anche tra coloro che lavorano nel settore educativo e che in teoria non dovrebbero cadere nel "tranello"; eppure sono all’ordine del giorno espressioni del tipo "i ragazzi del centro diurno" in riferimento ad adulti magari di 30-40 anni. Lo stesso meccanismo caratterizza talvolta il comportamento dei genitori che sono i primi a non volere i propri figli crescano; finché saranno ragazzi avranno bisogno di cure e loro potranno così espiare fino in fondo la "colpa" di un figlio diverso.
Così va a finire che l’handicappato è ragazzo, giovane o bambino e solo di rado uomo o donna, cittadino (parola che evoca immediatamente diritti e responsabilità), persona.
Anche questo ovviamente finisce per avere un peso così come ce l’ha un’altra forma di indefinitezza: quella rispetto ad un ruolo il più delle volte non esiste. Il disabile rimane sullo sfondo, relegato ad un ruolo di comparsa, di personaggio trasparente sulla cui esistenza, proprio come in famiglia, sono altri ad intervenire.

Handicap e tangenti. L’ombra della crisi

I risultati ottenuti relativamente agli argomenti più trattati hanno evidenziato soprattutto due cose: il differente orientamento dei singoli quotidiani e il legame di fondo tra i temi dell’handicap e quelli più generali del paese.
Rispetto alla prima i dati hanno evidenziato ad esempio una forte attenzione delle testate a vocazione locale soprattutto per il mondo dell’associazionismo e per i servizi; non è un caso quindi che il privato sociale e le istituzioni (Comuni, Unità Sanitarie Locali, Regioni) siano la fonte preponderante delle notizie proprio in cronaca locale. Si potrebbe trattare di un elemento importante per coinvolgere la cittadinanza attorno a temi come l’assistenza, il lavoro educativo, il problema del "dopo di noi". L’impressione però è che l’estrema superficialità con cui si parla di iniziative e problemi non favorisca in realtà un avvicinamento delle persone ad un mondo le cui caratteristiche appaiono molto slegate dal vivere comune.
Altre testate, essenzialmente la Stampa e l’Unità hanno evidenziato invece uno spiccato interesse per gli aspetti scientifici mentre L’Avvenire, coerentemente con la sua impostazione ideologica, ha privilegiato i temi tra spiritualismo e affettività.
Il secondo aspetto, quello che situa i temi legati alla disabilità alle logiche, alle mode, ai problemi più sentiti del paese è sicuramente un fattore positivo, che avvicina, sotto questo profilo, l’handicap alle cose di tutti i giorni. Peccato però che lo faccia, almeno rispetto ai dati di questa indagine, per eventi non certo qualificanti. Gli scandali scoppiati in alcune sezioni siciliane dell’Aias, la vicenda del falsi invalidi, rientrano a pieno titolo nel filone tangentopoli e rispecchiano l’italianissimo malaffare che tutti ben conoscono. Anche qui è giusto e corretto dare notizia di quanto accade ma occorrerebbe fare più attenzione, tanto per cambiare, alla complessità delle cose: la persona che finge di essere invalida per prendere la pensione di invalidità e magari fare anche del lavoro nero è sicuramente condannabile, ma non bisogna dimenticare che dietro ad ogni falso invalido c’è una commissione composta da almeno 4 persone che quella invalidità l’ha riconosciuta. Alcune testate non hanno ovviamente mancato di sottolineare questo aspetto ma altre non l’hanno fatto; il rischio insomma è quello di fornire dei fatti solo la versione più sensazionalistica (fa un certo effetto un cieco che guida un’ambulanza!) coinvolgendo solo le categorie meno protette e contribuendo così a rafforzare stereotipi del tipo "gli invalidi sono tutti ladri", "i meridionali non hanno voglia di lavorare e quindi si fanno passare per handicappati".
Messi da parte gli scandali c’è poi la crisi economica. Il voler risparmiare sulle pensioni di invalidità ne è un segnale a cui se ne accodano tanti altri, tutti visibili in trasparenza dietro ai temi e al cambiamenti che questi hanno subito a due anni di distanza. Di lavoro e formazione professionale per i disabili se ne è parlato sempre poco ma il tema ha il tracollo nel ’93; solo 5 articoli, 2 del quali dedicati ad iniziative del privato sociale che si spreme alla ricerca di soluzioni; il lavoro non c’è per i "sani", figuriamoci per i disabili.
Mancano i soldi e si guarda al concreto: si parla di più di assistenza (lo smantellamento dello stato sociale incombe ma per ora la politica è quella di salvare il salvabile) e crollano le bandiere degli anni ’80; l’autonomia è un lusso ed i temi ad essa legati non a caso si dimezzano. Abbattere le barriere architettoniche non è più di moda nemmeno per le amministrazioni, adesso "conta" la società civile, il volontariato, la solidarietà.

L’importanza degli "sfondi"

Osservando i risultati dell’item "tono", quello finalizzato a rilevare quindi il modo con cui i giornalisti affrontano i singoli articoli, sembra che quasi nulla si sia modificato. Rimane, per fortuna, una predominanza di articoli scritti con un approccio informativo (51,3%) e quelli di denuncia, malgrado gli scandali e i problemi del 1993, rimangono pressoché sullo stesso livello (23,4% il dato complessivo). Diminuiscono addirittura i toni pietistici (dal 7,6% del ’90 al 4,5% del ’93) ma aumentano un po’ quelli che puntano sulla sensazione (dal 10,6% al 18,4%). Ma niente di eccezionale.
La Carta dei Doveri del giornalista contiene un articolo che si intitola "Diritti della persona"; tali diritti consistono nel non vedere pubblicati i propri dati anagrafici in maniera gratuita, quando cioè non servono all’informazione ma solo al colore.
II dato positivo nel modo di dare le notizie è che, a dispetto dei casi sensazionali che comunque si sono verificati, si è registrato un sostanziale rispetto del diritto alla privacy delle persone coinvolte negli eventi; non sono moltissimi infatti gli articoli in cui sono stati forniti i dati anagrafici dei disabili ma ciò che più conta è che quando è stato fatto non si trattava di situazioni negative, tipo violenze sessuali, fisiche o morali, subite o inflitte.
Ciò che invece si coglie come sfondo complessivo in cui gravita il tema handicap è quello della problematicità; anche in questo caso comunque non si può affermare che i quotidiani non rispecchino la realtà. Essere disabili in una società che persegue i valori dell’efficienza e dell’esteriorità non è sicuramente un vantaggio ma, appunto, un handicap.
L’essenziale in ogni caso sarebbe discostarsi una volta per tutte da quell’alone di malattia, di sofferenza e quindi di istintivo allontanamento, che caratterizza troppo spesso la percezione della disabilità da parte delle persone al di fuori da questo ambito. Questo non vuole dire dipingere la disabilità come qualcosa di "bello" (cercare di rendere l’handicappato gradevole a tutti i costi è rischioso e ingiusto quanto renderlo sgradevole) ma sicuramente cercare di attribuire a questa condizione solo le sue effettive caratteristiche, positive o negative esse siano. I mass media in questa direzione possono dare un contributo fondamentale facendo attenzione certamente a quanto e cosa dicono ma soprattutto al come lo dicono. Nel tempo, a parte i casi eclatanti, forti emotivamente, nel ricordo delle persone non rimangono tanto i fatti ed i concetti quanto piuttosto le impressioni, il contorno delle cose. L’associazione prolungata della disabilità a valori deformati rispetto alla realtà non può insomma che generare e moltiplicare visioni distorte.

Brividi in diretta

Da quando i mass media, la tv in testa, hanno scoperto che le storie al limite (della sofferenza, della violenza, della disgrazia e, perché no, anche della pietà)
fanno audience, o lettori, è nata la moda. Quella che andando a pescare nel torbido delle paure, delle curiosità morbose, del desiderio di emozioni senza rischi, del bisogno di commozione ha poi decretato la nascita di trasmissioni come le già citate "Telefono Giallo", "I fatti vostri", "Ultimo minuto" "Chi l’ha visto", o di approcci come quello incalzante, da scoop mozzafiato, di Giovanni Minoli o ancora dell’informazione all’americana, stile morte in diretta (la tragedia di Alfredo Rampi nel pozzo di Vernicino, il buco in diretta di Claudio trasmesso da Canale 5 nel corso di uno "Speciale News" abbinato al film "Fuga di mezzanotte"). E ancora la trasmissione dei processi a Pacciani, a Bobbit, a Hammer.
Storie, uomini e donne di spalle, che si raccontano, che esibiscono il dolore, giornalisti a caccia della dichiarazione della madre a cui hanno appena ammazzato il figlio, del particolare scabroso, del brivido.
Oggi, o al massimo ieri, qualcuno si è accorto che le regole vanno cambiate, che la curva disegnata dal dolore non è un’iperbole bensì una parabola, che è ora di scendere. Qualcuno si è accorto che il sociale può generare prodotto giornalistici senza passare per forza attraverso lo spettacolo. Che, a guardarci bene, il mondo dell’associazionismo e del volontariato sono molto più ricchi di quanto sembrasse.
Così i più sensibili di una parte ed i più "abili" dell’altra hanno iniziato ad interagire, a collaborare. Il "Coraggio di Vivere" ad esempio per tutto il ’93 si è appoggiato a gruppi di volontariato e associazioni che, in tutta Italia, si occupano dei vari aspetti della marginalità sociale. Esperimenti come questo, che fra l’altro proseguirà anche nel ’94, sono una delle strade da percorrere per cambiare il modo di fare informazione sul sociale, per fornire, finalmente, quadri più completi ed equilibrati, per scavare maggiormente (ritmi e formati permettendo), per far sentire al cittadino un po’ inconsapevole la vera voce di "chi non ha voce".

Eroi per caso

Ci sono però anche un paio di rischi nascosti nelle pieghe del nuovo. Il primo è che anche nelle redazioni si crei una nicchia, quella del sociale appunto, o, come è già stata definita, degli "addetti ai disgraziati"; di quelli cioè che per missione o punizione seguono ogni giorno fatti e misfatti della marginalità in una sorta di routine necessaria. Il secondo è quello più grave ed è quello che porta alla nascita di una nuova categoria, quella degli esperti con un piede nel sociale (da cui provengono) e uno nell’informazione (da cui sono ammaliati); se collaborazione ci deve essere è normale che qualcuno si metta in questa posizione intermedia ma il pericolo, già visibile, è che si formi un’altra casta, ristretta, che nel giro di qualche tempo ri-immobilizzi le cose. Che anche costoro si trasformino soprattutto in divi televisivo-giornalistici, con annessi caratteristici comportamenti, e che si deleghi a pochi la gestione del far sapere in un ambito complesso e mutevole come il disagio sociale.
Che insomma dalla stagione degli anti-eroi si passi a quella degli "eroi per caso" evitando di passare per l’altra strada in grado di cambiare il modo di fare informazione ovvero, la formazione dei giornalisti. È su questo che occorre puntare per dare continuità e consistenza ai piccoli ma significativi segnali di cambiamento perché, da fatto ancora troppo estemporaneo e "di moda", l’attenzione al sociale ed il rispetto dei più deboli divenga un fatto di cultura, giornalistica e, magari, della società intera.
La sfida non è di poco conto adesso che si fanno più chiari gli scenari con cui tutti dovremo confrontarci: lo stato sociale sta per lasciare il posto ad altri modelli. Welfare market, welfare mix o welfare society? Oggi è azzardato fare previsioni su quale sistema verrà ad imporsi ma quel che è certo è che ogni cittadino sarà chiamato ad una maggiore responsabilità rispetto alla sicurezza sociale. Che è di tutti e non solo dei più deboli.

Vestire per nascondere o per punire

Una ricerca condotta da due educatori analizza le informazioni che si possono ricavare dall’abbigliamento dei disabili.

"B. ha venticinque anni ed è affetto da sindrome di Down; contribuisce a fare di lui un personaggio il suo particolare abbigliamento. I pantaloni che indossa sono fuori moda, a campana, mai oltre la caviglia e rigorosamente sorretti da un paio di bretelle con asole al posto dei ganci.
Gli indumenti che sono diventati piccoli sono accomodati dalla madre con aggiunte e riporti laterali, spesso di altri colori e di altra stoffa. È importante dire che i suoi genitori vestono alla stessa maniera".
"M. è una ragazza di ventotto anni; ha una grave cerebro-lesione con tetraparesi spastica a causa della quale cammina a fatica. Spesso è vestita inadeguatamente rispetto alla stagione, soprattutto in inverno. I colori dei suoi vestiti sono spesso sgargianti e abbinati con scarso gusto. Questo modo di vestire non è riscontrabile nel resto della famiglia".
"A. ha venticinque anni ed è affetta da sindrome di Down. Questo il suo "look" quotidiano: camicie coloratissime con colli dalle punte esagerate, gonna svasata e corta a ginocchio, pullover aderenti, calzettoni di cotone o calze di filanca bianche, rosa o azzurre. Le scarpe ortopediche di A. sono di colori vari, sempre molto intensi e spesso sono tinte in famiglia. Porta minuscoli occhiali da vista con Topolino sulle aste laterali".
Brevi profili di giovani disabili, tratteggiati da due educatrici professionali del centro diurno in cui sono inseriti. Maria Grazia e Maria Rita sono partite da quella che definiscono una constatazione quotidiana: "I ragazzi con cui abbiamo lavorato e quelli con cui lavoriamo ora – affermano – sono generalmente "vestiti male"". È nata così una riflessione (sotto forma di tesi) con cui le due educatrici, andando a di là del dato ovvio e superficiale, analizzano le informazioni che si possono ricavare dall’abbigliamento delle persone handicappate.
I protagonisti della ricerca condotta da Maria Grazia e Maria Rita sono proprio loro, i "ragazzi" del centro diurno, handicappati gravi con un’età compresa tra i venti e i trent’anni, non autonomi quindi nemmeno nella scelta dei vestiti. Poi i familiari, soprattutto le madri che nel 90% dei casi si occupano del vestiario dei propri figli.
Quali dunque i tratti salienti del vestiario quotidiano? Le educatrici rilevano una vasta gamma di possibilità tra cui l’inadeguatezza rispetto all’età, alla stagione e alla taglia, la qualità spesso scadente, la foggia fuori moda, la scarsa diversificazione rispetto al sesso che, nel caso delle ragazze, si traduce in un vero e proprio occultamento della femminilità.

L’abbigliamento per leggere il rapporto con la famiglia

Le funzioni canoniche, assolte dall’abbigliamento, vengono indubbiamente stravolte nel caso dell’utenza presa in esame. Il coprire ad esempio si estende fino a diventare un vero e proprio nascondere. L’abbellire è molto relativo viste le caratteristiche del vestiario medio. II richiamo sessuale coinvolge la già difficile percezione della sessualità che rispetto alle persone handicappate tende decisamente ad essere negata. La comunicazione del proprio status sociale non può che rispecchiare quella di una categoria "improduttiva", marginale dal punto di vista economico e scarsamente integrata. L’ultima funzione poi, la comunicazione della personalità, è totalmente disattesa visto che, come sottolineano le autrici, "… la personalità dei nostri ragazzi non è così completa e cosciente da permettere loro la scelta, di conseguenza chi li veste lo fa secondo propri schermi".
Ci troviamo insomma di fronte a una comunicazione mediata, filtrata
da idee e rappresentazioni della famiglia; quindi un ottimo strumento per leggere il rapporto di questi disabili con i genitori.
Secondo le due educatrici si possono verificare tre casi. Nel primo la scarsa cura nel vestiario del ragazzo handicappato si riscontra anche negli altri membri della famiglia: c’è quindi una rappresentazione del modello familiare e, "…nei casi presi in esame si riscontra una relazione positiva fra il ragazzo e la famiglia".
Secondo caso è invece quello in cui, pur in assenza di differenziazioni grosse nell’abbigliamento, viene rilevata una negazione dei bisogni del ragazzo. Questa si manifesta ad esempio attraverso il rifiuto di fare indossare al figlio il bavaglino, un accessorio che denota la disabilità. Siamo di fronte, insomma, ad una negazione dell’handicap.
C’è infine il terzo caso, quelle famiglie che mostrano grosse differenziazioni tra l’aspetto esteriore dei membri, molto curato, e quello dell’handicappato.
"L’atteggiamento generalmente riscontrato nella famiglia- sottolineano Maria Grazia e Maria Rita- è un non voler prendere in considerazione i bisogni del ragazzo perché "tanto è handicappato".

Dall’iperprotettività alla punizione

Concludiamo con altri due brevi accenni alle riflessioni contenute nella ricerca. Alcune abitudini riscontrate, ad esempio l’uso di abiti inadeguati all’età anagrafica (calzoncini corti e calzettoni, cappello con paraorecchie anche a trent’anni) o la quantità eccessiva di indumenti, specie in inverno, sono indici di come la madre viva spesso il figlio come eternamente bambino. Il ragazzo infatti non essendo autonomo nel vestirsi dipende totalmente dalla madre la quale, a sua volta, mette in atto atteggiamenti iperprotettivi.
Altro elemento emerso dall’osservazione: l’abbigliamento dei "ragazzi" tende ad essere curato nei periodi in cui sono tranquilli e dimesso quando manifestano crisi e tensioni. Quale il legame con il nucleo familiare? Secondo le autrici queste oscillazioni riflettono le tensioni vissute all’interno della famiglia: quest’ultima si trova infatti nel difficile ruolo di dover sostenere una comunicazione con i figli che, per il contatto anomalo con la realtà, si basa solo sul contenimento delle ansie, dei "fantasmi".
Le educatrici avanzano dunque un’ulteriore ipotesi che, precisano, è di natura interpretativa e personale: "L’abbigliamento – scrivono infatti – potrebbe essere un modo attraverso il quale "punire" il figlio nel momento in cui vive un malessere che per forza di cose è subito da tutta la famiglia".