Quando sopravvivi a tutto […] restano veramente poche le cose che possano farci paura, ogni tentativo di essere felice ha il sapore disperato dell’ultima volta e allora ti butti senza chiederti come ne uscirai, perché mal che vada il peggio è già accaduto.
(Stefano Bruccoleri, Via della Casa Comunale N°1, Edizioni Senza Dimora, 2009, pag. 2)

 Stefano Bruccoleri è uno scrittore di 42 anni. Oltre a un libro che sta promuovendo in giro per l’Italia, ha un suo blog in internet e svolge anche un’attività di giornalista con una serie di interviste fatte con il telefonino dal nome Ciclo Interviste. Ma ciò che rende particolare l’esperienza di Stefano è che da sei anni non ha un tetto sulla testa e la promozione del suo libro, frutto delle esperienze fatte in questi sei anni e raccontate nel blog, la fa utilizzando come unico mezzo di trasporto una bicicletta attrezzata con un carrellino e una tenda.
 
Parla con piglio deciso ed estrema consapevolezza del suo ruolo di promotore e scrittore. Racconta nel suo libro vicende degne di Kerouac e lo fa con il linguaggio crudo della strada tipico di scrittori come Bunker e Welsh, pur dichiarando – in un capitolo del libro stesso – che gli scrittori che in qualche modo hanno segnato la sua vita sono altri. Ha una vita dura, ma parla e scrive con molta ironia, senza mai annoiare. Spiega che in America è un’abitudine ormai consolidata per gli homeless avere un blog, ma che in Italia lui è stato il pioniere. Va fiero di questo e per gli altri senza tetto sa di rappresentare qualcuno che in qualche modo ce l’ha fatta. Perché nell’epoca del mito dell’uomo che si è fatto da solo, lui lo è veramente.
 
Questo è il tuo primo libro, frutto di una raccolta selezionata del tuo blog. Cosa è per te questo libro?
Il libro è come un mio diario personale. È quello che potresti trovare sul comodino vicino al mio letto se avessi una casa. Leggendolo ci sono le mie esperienze personalissime. Non è scritto in un linguaggio politico, ma ne faccio una questione politica. Per quanto lo stile è quello del diario, nel libro sono raccontate esperienze comuni a molti di quelli che si trovano nella mia condizione di senza dimora.
 
Essendo qualcosa di così personale, è stato difficile scriverlo?
Scrivere qualcosa di autobiografico è davvero doloroso, un’esperienza allo stesso tempo terapeutica e dolorosa. Io già scrivevo, ma avevo bisogno di non perdere le mie relazioni, il rischio maggiore che si corre quando perdi una casa. Ho aperto allora una finestra sul web, per questo e per sopperire al bisogno di scrivere, di svuotarmi, di reagire allo sconcerto di aver perso casa e lavoro. Ho seguito inizialmente questo impulso.
 
Cos’è che secondo te colpisce i tuoi lettori invogliandoli a leggerlo?
I lettori sono abbastanza trasversali, ci sono altri senza dimora che lo vedono come un punto di riferimento, ci sono ovviamente le persone che lavorano nel sociale e quindi sensibili a determinate tematiche, ma anche persone comuni, che scoprono di non essere così lontane da me, che io parlo il loro stesso linguaggio e che condividiamo gli stessi riferimenti culturali e sociali. Il muro tra la mia realtà e quello del lettore viene allora completamente infranto. Lo scalone sociale viene a mancare e il lettore viene automaticamente portato a pensare e a esser consapevole che “può capitare anche a me”.
 
In copertina l’editore è riportato sotto la dicitura Edizioni Senza Dimora. Cosa sono?
Ovviamente non esistono, sono un nome fittizio. Io mi affido per scrivere e comunicare alla semplicità del web. Ma quelli che io considero i miei editori sono proprio le persone che comprano il mio libro e seguono il mio blog. Sono essi stessi che spesso mi danno gli strumenti per accedervi, regalandomi vecchi portatili in disuso, penne internet.
 
Cosa è cambiato per te da quando sei diventato uno scrittore?
Mentre prima ero vulnerabile in qualche modo, ora i rapporti con gli altri sono paritari. Dall’eterna promessa del “fare” – quel ragazzo ha le capacità, potrebbe fare questo e quello – sono passato ad aver fatto. Pur non essendo diventato uno scrittore attraverso i percorsi consolidati, ma sfruttando quelli laterali della mia situazione e pur non avendo un titolo di studio maggiore alla terza media, sono a tutti gli effetti uno scrittore. Mi sono guadagnato il mio livello di rispetto, ho riscattato la mia dignità attraverso il mio costante lavoro. Se un poliziotto mi ferma, cosa che comunque capita raramente, posso dirgli che sono uno scrittore. E per quanto questi possa reagire in modo un po’ incredulo inizialmente, ho il mio libro con cui dimostrarlo.
 
Cos’hai trovato nei dormitori e nei centri diurni, quando ti sei trovato senza casa e senza lavoro?
Ho trovato molti poveri come tossicodipendenti o extracomunitari. Ma anche facce pulite: i nuovi poveri. Persone che fino a poco prima avevano una casa, un lavoro, un televisore e una cravatta. I dormitori sono pieni di persone che provengono dalla “normalità” e che improvvisamente l’hanno smarrita. Se non si hanno solide basi familiari, o si è una persona anziana che vive da sola, perdere il lavoro può significare finire in strada.
 
Com’è il tuo rapporto con gli altri senza tetto?
Il rapporto con gli altri senza dimora è certamente buono e di reciproco rispetto, pur non essendo le uniche persone che frequento. In qualche modo mi vedono come quello arrivato, come un punto di riferimento a cui ispirarsi. In qualche modo la mia personale consacrazione è avvenuta quando sono stato invitato a parlare e presentare il mio libro a una conferenza di responsabilizzazione sugli adulti in difficoltà a Torino. Anche se sulla carta di identità poi ho ancora l’indirizzo fittizio che i senza tetto del comune di Torino hanno e che ha dato il titolo al libro, Via della Casa Comunale N°1.
 
Ti piace la vita che fai, o vorresti fermarti?
Mi piacerebbe rimbambirmi davanti a un televisore con ai piedi delle belle pantofole di velluto a coste. Ma ciò non è possibile. Ho constatato che i servizi sociali sono pressoché inesistenti e incontattabili e la mia unica fonte di entrata fissa è una pensione per invalidità civile di 200 euro che percepisco perché ho contratto l’HIV. Dovendo contare solo su di me per riscattarmi, non posso quindi fissarmi obiettivi a medio o lungo termine. Pedalo promuovendo il mio libro, ma non so dove sarò tra più di due giorni. Al momento in qualche modo mi sento realizzato: ho la mia autonomia dignitosa e persone che mi accolgono, se non offrendomi ospitalità in casa, cenando con loro in pizzeria. 
 
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