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L’approccio ludico nell’educazione alla diversità

Attraverso la conoscenza e l’incontro diretto con gli animatori disabili del Progetto Calamaio del Centro Documentazione Handicap di Bologna è possibile per i bambini e ragazzi delle scuole intraprendere un percorso che porti a considerare la diversità propria e altrui non come limite o minaccia ma come stimolo e ricchezza, a cui si unisca la consapevolezza che le difficoltà, gli handicap, non appartengono solo al disabile ma all’uomo in quanto tale. Le difficoltà che incontrano le persone disabili sono forse di natura diversa in quanto a forma ma non differiscono, nella sostanza, da quelle che ogni uomo e ogni donna si trova ad affrontare nel proprio percorso di vita, e che sono determinate dal contesto, dal proprio carattere e dalla personalità di ognuno, che si originano nelle relazioni sociali, nei rapporti con le istituzioni, nel confronto con le diversità di cui gli altri sono portatori.
Particolarmente interessante e significativa appare la metodologia con la quale gli educatori del Progetto Calamaio, disabili e normodotati, attuano tali percorsi nelle scuole: le attività proposte hanno un carattere ludico, si tratta di giochi – diversi a seconda del grado scolastico e quindi dell’età dei gruppi incontrati – che si pongono la finalità di fare e di conoscere insieme. Nel caso del Progetto Calamaio la scelta di dare una veste ludica alle attività proposte nelle classi non trova la sua motivazione soltanto nel dare una forma divertente e piacevole a specifici apprendimenti, come avviene generalmente quando scelte analoghe sono realizzate in ambito scolastico: la ragione essenziale risiede invece nello stimolare, attraverso il gioco, la reale ed effettiva partecipazione dei bambini e dei ragazzi ad attività che li impegnano non solo dal punto di vista cognitivo, ma anche e soprattutto emotivo, e che li coinvolgono costringendoli a “mettersi in gioco”, poiché nel gioco, il mondo del “come se”, non si può fingere di partecipare, non si può giocare a metà.
Nel gioco si entra in contatto semplice ma profondo con se stessi e con gli altri, si elaborano strategie, percorsi e scelte, e si sperimentano, in senso cognitivo, emozionale e affettivo, vissuti personali la cui influenza sulla formazione e sullo sviluppo è estremamente importante. Da questo punto di vista si può sostenere che: il gioco è importante per il giocatore, almeno nel momento in cui vi si applica; è implicante, sia affettivamente sia cognitivamente; è imprevedibile, costringe cioè a confrontarsi col nuovo e l’incerto poiché, senza una certa dose di imprevedibilità, il gioco diventa piatto e inconsistente.
Tra le varie tipologie d’esperienza che la scuola propone, quella ludica dovrebbe essere maggiormente utilizzata: il gioco si contrappone infatti alla fissità e alla sistematicità delle discipline curricolari, non rimanda a qualcosa di costrittivo e direttivo, ma contribuisce allo sviluppo delle molteplici dimensioni dell’individuo e al conseguimento degli obiettivi educativi e formativi che la scuola persegue. L’attività ludica può quindi correlarsi con quella istituzionalmente prevista e programmata, senza costituirne un ostacolo o una distrazione ma un significativo potenziamento: fondamentale in questo senso è la posizione degli alunni nei confronti del processo formativo che, nel caso del gioco, verrà vissuto come una libera scelta in termini di partecipazione e coinvolgimento.
Se nei Programmi della scuola elementare è possibile rintracciare i fondamenti pedagogici dell’educazione alla convivenza democratica, e la sua inevitabile connessione con il riconoscimento e il rispetto della diversità, il tema del rapporto con l’altro da sé si collega strettamente all’attività ludica, di cui costituisce uno dei tratti essenziali. A partire dalla categoria di giochi che lo psicologo Jean Piaget definisce giochi di esercizio, caratteristici dei primi stadi di sviluppo del bambino, tutta l’attività ludica ha intrinseca nella propria essenza una struttura dialogale: essa implica sempre un soggetto che si relaziona, attraverso le dinamiche di gioco, prioritariamente con se stesso e ulteriormente con gli altri.
La reciprocità rappresenta una categoria essenziale del gioco: qualsiasi attività ludica richiede la presenza, anche simbolica, di qualcosa d’altro, che non deve essere necessariamente una persona ma deve rispondere al movimento del giocatore. Il dialogo che si crea nella situazione ludica è unico e non è rintracciabile in altri contesti di vita: con esso il soggetto cresce, si forma e si educa senza subire imposizioni o prescrizioni esterne; affinché il dialogo con se stesso e con l’altro da sé sia costruttivo, è necessario che i soggetti abbiano scelto liberamente di partecipare poiché, in caso contrario, il gioco si trasformerebbe in un compito da adempiere, perdendo la peculiarità di implicare sempre la libertà di scelta.
Il fatto che la stessa attività ludica comporti un dialogo con se stessi e con gli altri denota la sua qualità formativa: se uno tra i compiti fondamentali dell’educazione è formare all’incontro, abituando ogni soggetto a utilizzare le sue capacità cognitive e relazionali nella dimensione del dialogo, l’attività ludica si propone come tramite per un rapporto interpersonale realmente formativo, caratterizzato da una reciprocità tra identità e differenza.
Non si tratta soltanto di acquisire coscienza e conoscenza di sé, ma anche di imparare a gestire componenti essenziali dei rapporti sociali quali la competitività, l’ansia, la frustrazione e il rispetto dell’altro. Sia che si presenti nella forma della collaborazione, o assuma invece la forma della competizione, la vita associativa presuppone comunque due condizioni fondamentali: il riferimento esplicito o implicito a un insieme di regole (e quindi anche ai valori che le ispirano e alle sanzioni previste per chi le viola) e la necessità che ogni membro del gruppo giunga a sapersi porre anche dal punto di vista degli altri. La comunicazione interpersonale si fonda, nel caso del gioco, su una partecipazione decisa autonomamente e perciò spontanea e autentica; se così caratterizzato, il dialogo comporta accettazione e fiducia nell’altro, nonché il rispetto della sua diversità.
Il gioco, infatti, comprende la diversità senza prevederla in termini discriminatori, poiché a esso può partecipare chiunque: tutti partono dallo stesso punto e hanno identiche possibilità di conseguire i medesimi risultati finali. Il gioco sostanzia valori personali in quanto permette a ognuno di esprimere il proprio sé liberamente e spontaneamente; la partecipazione ludica aiuta, in età infantile, a costruire la propria identità, a svilupparla durante l’adolescenza e a perfezionarla in età adulta.
Se nel gioco si realizza un dialogo con se stessi e con l’altro, se nell’attività ludica si entra in contatto con l’identità e l’alterità, proprio nel gioco con chi è “diverso” vengono sottolineati i valori essenziali dell’uomo, quelli che perdurano al di là di ogni differenza personale. La reciprocità del gioco e la sua struttura dialogale permettono a tutti i partecipanti di vivere, in prima persona, modalità essenziali e fondanti delle relazioni sociali quali la disponibilità, la fiducia, il rispetto, la sincerità e la comprensione; allo stesso tempo i momenti ludici sono continuamente attraversati da valori che permettono a chiunque giochi di entrare in contatto con la propria essenza e di stabilire, fra essa e l’alterità, un rapporto basato su analogie e differenze, in una continua compenetrazione di uguaglianza e diversità.
I percorsi educativi che il Progetto Calamaio propone portano con forza la diversità all’interno dei gruppi incontrati, che non è la diversità che differenzia ogni individuo da tutti gli altri ma quella, palese, esplicita, “senza scampo” del disabile. Il gioco con chi è diverso diviene così autenticamente formativo proprio per il suo carattere di assoluta evidenza. Con gli animatori disabili del Progetto i bambini hanno la possibilità di giocare: non sono obbligati a farlo, ma se lo scelgono liberamente, il gioco li proietta verso l’esterno, li spinge ad aprirsi e a entrare in una relazione nella quale l’altro, grazie all’accoglienza ludica, diventa il mio Tu; il bambino è così portato ad accettare un altro che, in questo caso, porta con sé, in modo palese ed evidente, la sua diversità.
Certo questa caratteristica del Calamaio, che ne costituisce la sua peculiarità e la sua forza, presenta il classico “rovescio della medaglia” e per molteplici ragioni. Innanzi tutto non è facile trovare persone disabili disponibili a fare gli animatori, disposte a mettersi in gioco per dimostrare come un deficit, evidente e innegabile, possa trasformarsi in una risorsa, utile e importante per tutti e non essere considerato soltanto un limite. E non è facile perché questa disponibilità nasce da una maturità e da un grado di accettazione di sé molto elevati, frutto di un lungo percorso che, superata la negazione del deficit e la tentazione del confronto con la “normalità”, abbia proceduto a una riappropriazione del deficit stesso attraverso la sua accettazione. Claudio Imprudente, fondatore del Progetto Calamaio e disabile grave, racconta così la sua esperienza di accettazione del limite: “L’attenta riflessione sull’esperienza mia e altrui condotta in questi anni mi ha portato alla persuasione che solo accogliendo il proprio limite si può riuscire a superarlo, trasformandolo da ostacolo in trampolino di lancio per la vita. Ma cosa significa accettare il limite, e soprattutto come si fa concretamente? Accogliere non è sinonimo di rassegnazione. Accogliere non è nemmeno sinonimo di fuga dal proprio limite. Accogliere significa percepirsi belli e amabili così come si è, senza doversi adattare a nessun modello ulteriore di normalità”.
Un altro rischio implicito in un approccio ludico realizzato da persone disabili è strettamente connesso alla loro potenza espressiva: molti anni di esperienza hanno dimostrato come le parole, le azioni, i comportamenti di un disabile abbiano un peso molto diverso da quelli di un normodotato ed è molto facile, per i bambini o i ragazzi, cadere nell’errore di una super valutazione del disabile stesso, al quale vengono attribuite caratteristiche eccezionali. La diffidenza e la paura iniziale vengono superate con un percorso positivo che non deve però trasformarsi in un “pregiudizio al contrario”. Anche in questo caso risulta di fondamentale importanza la competenza e le capacità dell’animatore disabile, che deve essere capace di porre l’accento sulla sua qualità di uomo o donna, diverso e uguale agli altri ma non necessariamente migliore degli altri.
Il Progetto Calamaio richiede inoltre un ottimo affiatamento tra gli educatori, un dialogo e un confronto aperto, sincero e costante, una condivisione delle scelte e delle modalità di lavoro per eludere un altro rischio determinato proprio dalla diversità degli educatori stessi. Quando entra in una classe una coppia di operatori del Calamaio, la prima impressione che i bambini hanno, ma spesso anche le insegnanti, è di trovarsi di fronte non a due colleghi di lavoro ma a un utente e il suo operatore, connotati il primo dal bisogno, il secondo dalla disponibilità. Se condotto correttamente, il percorso nelle classi dimostra invece la situazione paritaria esistente tra gli educatori, la necessità della loro compresenza che non si lega però all’aiuto, al rapporto di dipendenza di uno nei confronti dell’altro, ma all’efficacia del lavoro che viene svolto, rispetto al quale risultano entrambi insostituibili. Un percorso educativo che utilizza un approccio ludico per affrontare il tema della diversità, della conoscenza e dell’accettazione, e opera con animatori disabili e normodotati, può rivelarsi davvero efficace per contribuire allo sviluppo delle capacità cognitive, relazionali e sociali, per influire sulla formazione della personalità attraverso l’attivazione di percorsi originali, la sperimentazione di modalità d’azione inconsuete e innovative, di pensiero divergente, di ricorso alla creatività e all’intuito, ma perché ciò avvenga è necessario conoscerne le potenzialità, i limiti e i fattori di rischio del progetto.




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