Gli artisti devono soffrire, il risultato è migliore!
Lars von Trier, Il cinema come dogma, 2001
Lars von Trier racconta gravi malattie e disperate cure. Dolori, infezioni, veleni, medicine e antidoti, ospedali e autopsie, traumi repentini e miracolose guarigioni, sono gli ingredienti di tutto il suo cinema. Non è dunque un caso se già la prima inquadratura del primo lungometraggio, L’elemento del crimine (Forbrydelsens Element, 1984), sia ambientata nello studio di un medico – uno psichiatra – che tenta di ipnotizzare l’ispettore di polizia Fisher per fargli rievocare le circostanze della sua ultima tragica missione. L’intero film diviene così la traduzione in immagini di un disperato flusso di coscienza. C’è un medico anche nel film successivo, Epidemic (1987). Qui il dottor Mesmer (palese richiamo al padre dell’ipnotismo), giovane idealista in una terra del futuro sconvolta da una terribile peste, si batte da solo e contro tutti per salvare i malati, senza accorgersi che è lui stesso, a causa dei suoi spostamenti, a propagare il morbo.
Medea (1988) (da una sceneggiatura postuma che Carl Theodor Dreyer aveva tratto dalla tragedia di Euripide) segue il lento sprofondare nella follia della mitica regina la quale, tradita dall’amante Giasone, si abbandonerà ad un delirio omicida che non risparmierà neppure i suoi figli. Europa (1991) esordisce invece come una seduta di psicanalisi, rivolta però direttamente allo spettatore: una lunghissima carrellata in avanti scorre, con forte effetto ipnotico, lungo i binari di una ferrovia, mentre un’inesorabile voce narrante (appartenente, nell’originale, a Max von Sydow) ci intima di contare lentamente fino a dieci e di abbandonarci alla trama che sta per partire. In questi primi quattro film, di certo i meno conosciuti dal grande pubblico, Lars von Trier elabora una scrittura innovativa e complessa, basata su una cura maniacale dell’immagine, su esuberanti virtuosismi formali e stranianti commistioni. Una firma inconfondibile che tuttavia viene improvvisamente abbandonata nel 1994, quando, quasi a voler provocatoriamente “degradare” il suo raggiunto status di Autore, Trier gira uno sceneggiato in quattro puntate per la televisione danese intitolato Riget (Il Regno, distribuito in tutto il mondo come The Kingdom). É precisamente a partire da quest’opera che la figura del “diverso” in tutte le sue accezioni (fisiche e mentali) diviene il centro di gravità della sua drammaturgia cinematografica. Stupendo carnevale nero dei generi di un secolo di cinema, tra orrore, commedia, satira politica e bizzarro esercizio di stile, Riget è ambientato nell’Ospedale Reale di Copenaghen (soprannominato “Il Regno” anche nella realtà), che diviene il teatro di una serie di eventi assurdi e infernali. In un ritmo febbrile che si agita lungo corridoi, camere, obitori, sotterranei, ambulanze, almeno cinque diverse trame intrecciano tra loro più di cinquanta personaggi tra dottori, infermieri, studenti, ispettori ministeriali, avvocati, pazienti veri o presunti, fantasmi, diavoli ed ectoplasmi ostili… Ma in questa claustrofobia scacchiera, dove qualsiasi pedina può entrare in ogni momento a contatto e in contrasto con qualsiasi altra, spicca una delicata eccezione. Per tutta la durata dello sceneggiato, due giovani down (un ragazzo e una ragazza) occupano invariabilmente lo stesso luogo: un immenso stanzone dalle luci giallastre, dove i due (in un’evidente richiamo alle coppie eccentriche e solitarie del teatro di Samuel Beckett) lavano senza posa pile sterminate di piatti e bicchieri. Come se si trattasse di un universo parallelo isolato dal resto dell’ospedale, questo lavatoio non è mai attraversato da nessun altro personaggio, nessuno vi entra e nessuno ne esce. Eppure, inspiegabilmente, i due ragazzi sanno alla perfezione tutto ciò che nell’ospedale è accaduto, tutto ciò che sta per accadere. “Ci sono macchie che non si tolgono” si lamenta lui. “Vuoi dire… sangue?” chiede lei. E l’altro: “Dipende. C’è sangue che si toglie. E c’è sangue che invece non si può togliere.” Riget inserisce queste brevi, fulminanti battute come enigmatiche “sospensioni” tra un blocco di sequenze e l’altro. I due umili lavapiatti consumano la loro esistenza tra chiacchiere e stoviglie, esclusi da una società (le premurose socialdemocrazie scandinave) che si preoccupa soltanto di renderli “socialmente utili”.
Tutta la violenza e l’odio che ribolle nell’edificio, svanisce nella quiete ovattata di una monotona occupazione. Ma Trier riscatta questa marginalità regalandole un potere sovrumano, uno sguardo di superiore e quasi “involontaria” onniscienza. Una medesima onniscienza sembra possedere Mona, la bambina che il tronfio chirurgo svedese dell’ospedale, Stig Helmer, ha reso cerebrolesa per una pesante negligenza (la mancata somministrazione di ossigeno) durante un’operazione al cervello. Apparentemente catatonica, Mona giace quasi immobile nel letto, mentre le sue mani, come in preda a un riflesso condizionato, rimescolano instancabilmente tra le lenzuola dei dadi che hanno lettere al posto dei numeri e che spesso finiscono per rivelare frasi compiute che denunciano il misfatto di Helmer. In modo ancor più manifesto che nel caso dei due lavapiatti, il sapere di Mona ha risvolti apertamente “ultraterreni”, che peraltro lo stesso Trier conferma citando il celebre filosofo e pedagogo austriaco Rudolf Steiner (1861-1925), fondatore dell’antroposofia, secondo il quale “i mongoloidi sono inviati celesti” (1). Tale esaltazione spirituale della diversità si fa ancor più chiara nel successivo Riget 2, nuova serie in cinque puntate realizzata nel 1997. “Fratellino” (Lillebror), il neonato dal volto precocemente adulto che l’infermiera Judith partorisce nell’ultima inquadratura di Riget 1, si rivela affetto da un incredibile morbo: una fortissima accelerazione del suo ritmo di crescita. Figlio del demoniaco Aage Krüger, un fantasma che riaffiora dal sanguinoso passato del Regno (uccise un’altra figlia sottoponendola ad inquietanti esperimenti), Fratellino nasce per divenire l’esatto contrario del suo procreatore: un essere dotato di infinita bontà, di un torrenziale desiderio di amore, di farsi contenitore e carico di tutto il male dell’universo, ciò che obbliga il suo corpo a dilatarsi oltre ogni limite. Dopo poche settimane è già grande come la stanza che lo ospita; le sue membra, incapaci di sorreggerlo, devono essere assicurate a una complessa struttura che lo mantiene perennemente in piedi e immobile. Sulla carta, sembrerebbe una trama da fumetto underground.
Al contrario, il brillante sarcasmo che Trier sparge in ogni angolo del Regno si dissolve appena entriamo nella camera di Fratellino; e superba è la capacità del regista nel cogliere – all’interno di una situazione che parrebbe fatalmente destinata al ridicolo – momenti di altissima commozione e bozzetti familiari di sconvolgente intensità. Ma i tre disabili di Riget costituiscono ancora delle pedine secondarie della trama. Sarà a partire da Le onde del destino (Breaking the Waves, 1996) che il diverso uscirà dall’angolo per conquistare il centro della scena, in un melodramma intellettuale che esplora tutti i tipi immaginabili di sentimento e desiderio eccessivo. Siamo negli anni Settanta: in un villaggio della Scozia pesantemente dominato dal puritanesimo, la giovane e ingenua Bess McNeill sposa l’inglese Jan (per la comunità, uno “straniero”), un uomo molto più anziano che lavora in una piattaforma petrolifera in mezzo all’oceano. Nei momenti di turbamento, Bess è abituata a parlare con Dio e a rispondersi da sola, assumendo il tono burbero e sanzionatorio che la sua religione le ha insegnato ad attribuire al divino. Terminato un breve periodo di idillio, per Jan giunge l’ora di tornare al lavoro. Bess è disperata e prega Dio di riportargli il suo uomo con qualsiasi mezzo: subito dopo, un terribile incidente sulla piattaforma procura a Jan una lesione cerebrale che ne determina la paralisi. Tornato a casa, Jan si rende conto che non potrà mai più fare l’amore e chiede a Bess di prendersi un amante. Dopo una timida ritrosia, Bess obbedisce e si trasforma in una prostituta, confessando poi ogni singolo episodio all’immobile e divertito Jan. Rinfrancata dai benefici che i suoi racconti procurano al marito, Bess si abbandona a prove sempre più umilianti. Viene condannata violentemente dalla famiglia e dalla Chiesa. Alla fine, accetterà la morte per mano di un gruppo di sadici marinai, rendendosi così degna del miracolo: la guarigione di Jan. Le onde del destino illustra il mistero della sofferenza umana in una duplice connotazione di “condanna” e di “dono”, di grazia e disgrazia. Maschile e femminile, disturbo mentale (l’ossessione erotico-mistica di Bess) e disturbo fisico (la paralisi di Jan) divengono elementi speculari di uno scambio simbolico fortemente intriso di sentimento cristiano. Anche qui, come in Riget, l’individuo menomato è un essere superiore. Il corpo muto di Jan è l’ideale complemento del Dio di Bess, incorporeo e dotato di sola voce. Benché prigioniero in un letto, Jan è reso “onnisciente” dai racconti di Bess: al pari dei lavapiatti di Riget, conosce tutto ciò che accade al di là delle mura tra cui è rinchiuso e smaschera all’istante ogni falsità nelle parole della moglie. E ancor più elevato è l’indistruttibile potere di Bess, che per dimostrarsi degna di Jan e pienamente partecipe delle sue sofferenze, diventerà una prostituta come Maddalena, garantendo con il suo sacrificio la resurrezione del suo dio. Di fronte allo spiritualismo straripante de Le onde del destino, il successivo Idioti (Idioterne, 1998) costituisce un irriverente e materialistico controcanto. Normali che si fingono anormali, in segno di ribellione contro il principale valore borghese: la Rispettabilità, un gruppo di giovani danesi decide di sottrarsi al mondo per ricercare il proprio “idiota interiore”. Intromettendosi nelle più austere situazioni pubbliche, gli “idioti” fingono di essere affetti da imbarazzanti menomazioni psicofisiche fino a mettere a dura prova la tolleranza dei conformisti, ma anche a sfidare i limiti del proprio stesso coraggio. In questa compagnia sempre in bilico tra eccitazione e perdita di sé fa il suo ingresso Karen, una donna che ha perduto da pochissimo il suo bambino ed è realmente affetta da turbe depressive. Ennesima “mutante volontaria” del cinema di Trier, Karen accetterà d’impulso questa doppia maschera di folle che finge di essere folle, di malata che tenta di dominare i propri disturbi esagerandone gli effetti. Nel soggetto di Idioti si scorge, sublimato, il ricordo di un “trauma” infantile del regista, provocato dal padre: “Era divertente e gli piaceva scherzare, al punto che mi vergognavo spesso quando passeggiavamo insieme. Gli capitava di zoppicare o di trascinare la gamba fingendosi un handicappato. Ogni tanto si metteva persino nelle vetrine di un negozio, con un braccio su e uno giù come i manichini: quel genere di idee bislacche che i bambini detestano nei loro genitori. E questo ogni volta, era orribile!” (2) Ma la figura paterna è soprattutto legata a uno choc ben più grave: la confessione della madre, che in punto di morte rivela al giovane Lars di averlo concepito con un altro uomo.
Ora, non è possibile sapere fino a che livello di consapevolezza il regista mescoli cinema e autobiografia. Ma senza dubbio questi episodi sono illuminanti, poiché in Trier l’immagine della persona disabile è spesso indissolubilmente legata al rapporto genitori-figli. La sotto-trama che si sviluppa intorno al personaggio di Fratellino in Riget 2, ad esempio, è tutta incentrata sul complesso rapporto a quattro che si instaura tra un figlio problematico, una madre tenerissima e indomita, un padre naturale diabolicamente ostile, un padre putativo sempre più disinteressato alla situazione. È questo uno dei modelli ricorrenti del cinema di Trier: madri pronte al sacrificio e padri invisibili, proprio come fantasmi, o figure divine. Come il Dio de Le onde del destino, che indirizza Bess verso la morte senza mai concedersi in carne e ossa. O come la voce maschile incorporea che apre Europa e ci ordina di arrenderci al suo volere (e la scelta dell’attore è acuta: Max von Sydow è stato Gesù in un film di Nicholas Ray ed emissario di Dio ne L’Esorcista di Friedkin). Quest’idea della “visione negata” torna anche nel penultimo film di Trier Dancer in the Dark (2000). Ambientato negli anni Sessanta, in una piccola città dello stato di Washington, il film racconta la storia di Selma, un’immigrata cecoslovacca colpita da una malattia che le causa una progressiva diminuzione della vista. Selma lavora come operaia in una fabbrica e vive con un figlio di dodici anni affetto dallo stesso problema. Per evadere dalla sua realtà, di tanto in tanto la donna sogna di essere la protagonista di un musical, la cui colonna sonora scaturisce dai rumori che incontra attorno a sé. In Trier, la diversità/inferiorità fisica va di pari passo con la diversità geografica: il protagonista di Europa è un improbabile statunitense “immigrato” in Germania; in Medea dilaga l’odio tra la Grecia e la Còlchide, in Riget tra svedesi e danesi, in Le onde del destino tra scozzesi e inglesi… Ma è sicuramente con quest’ultimo film che Dancer in the Dark rivela il maggior numero di simmetrie. Come Bess, Selma è in diretto contatto con un universo parallelo e privato. Anche qui abbiamo un padre invisibile e mai nominato. Anche qui c’è uno scollamento tra immagine e suono, tra vista e udito: musica e canto suscitano un mondo teatrale e quasi “edenico” (in cui tutti i personaggi diventano attori di una commedia palesemente fittizia), mentre la visione si fa progressivamente oscura negli occhi sempre più offuscati di Selma. E anche qui la malattia è l’oggetto di un drammatico scambio, che questa volta tuttavia non è più basato su una certezza spirituale, bensì su un triviale calcolo economico: accusata ingiustamente di omicidio, Selma rinuncia a spendere i suoi risparmi per un avvocato, per poter pagare l’operazione agli occhi del figlio. Rifiutando di difendersi, si autocondanna all’impiccagione: chiude gli occhi per sempre per poter riaprire gli occhi di un altro. La patologia è dunque il fulcro dell’opera di Lars von Trier. E il sacrificio del diverso, incolpevole e inconsapevole straniero a ogni normalità altrui, è il suo approdo inevitabile. Vi sono macchie che per il mondo è necessario togliere. E in fondo lo stesso Trier è un diverso: involontariamente (ha sempre creduto di essere ebreo come il padre) e volontariamente (il “von” del suo nome è inventato).
Non è un caso, comunque, che la presenza del disabile risalti così nettamente solo da Riget in poi: la realizzazione di quest’opera coincide infatti con un punto di cesura nella poetica dell’autore, che segna una svolta inaspettata e drastica. Nel marzo 1995 (anche sull’onda delle esperienze maturate sul set di Riget), Trier e il suo collega Thomas Vinterberg pubblicano un singolare manifesto intitolato “Dogma 95”, nel quale pronunciano un bizzarro e affascinante “voto di castità” che sottoporrà i loro film a una severa disciplina sintetizzata in una serie di regole: obbligo della macchina da presa a mano, divieto di produrre suoni separati dalle immagini, proibizione di filtri e trucchi ottici, di scenografie costruite in studio, di storie ambientate nel passato. Sembrerebbe quasi un tentativo di convertire il cinema di finzione alle tecniche del documentario; in realtà è soprattutto l’utopia di un ritorno alla povertà che – ironicamente – ricorda il cristianesimo primitivo. Gli stessi termini impiegati nel manifesto (“castità”, “dogma”…) confermano questa lettura: è la scelta di uno stile monacale che intende contrastare e criticare lo sfarzo dei mercanti del tempio di Hollywood e dintorni con le armi di un ascetismo estremista. Così, dopo aver attraversato tutte le abbaglianti tentazioni del formalismo, le vertigini di una perfezione quasi perversa, dal 1994 Trier si lancia alla ricerca di un cinema “disabile”, deviato verso la bellezza dell’irregolare, di una calcolata ruvidità. E questa asprezza della forma si sposa quasi inevitabilmente a un’asprezza di contenuti: l’immagine si fa più “umile”, e allo stesso tempo rende più umili anche i suoi personaggi. Meno levigato e forse più vero, meno algido e forse più istintivo, il secondo Trier si apre così alla figura del diverso con una partecipazione che nella storia del cinema trova rarissimi equivalenti. Più di ogni altro autore contemporaneo, la sua poetica è letteralmente dominata dall’ossessione dell’infermità, di un corpo che la rinnega, di una società che la fugge, ma che allo stesso tempo non può non arrestarsi a contemplarla, tra paura e desiderio, quasi soggiogata dal suo mistero. “Esseri deboli pieni di malattie” (3) è l’espressione (scherzosa?) che Trier utilizza per definire i registi. Se questa auto-diagnosi fosse esatta, i suoi film dovrebbero allora essere letti come lo sguardo di un malato che contempla altri malati. Ecco perché, prima di ogni storia e di ogni inquadratura da costruire, il cinema di Lars von Trier è soprattutto un mirabile desiderio di empatia, tanto cerebrale quanto ingenuo, tanto sofferto quanto esibizionistico: raccontare individui imperfetti attraverso immagini imperfette.
(*) Dante Albanesi è autore di documentari e collaboratore di varie riviste, tra cui Cineforum. Segnocinema, reVision. Ha pubblicato Da Cibaria a Moulin Rouge! – Cento anni di musica per il cinema (San Benedetto del Tronto, Cineforum, 2002).
NOTE 1Lars von Trier, Il cinema come Dogma – Conversazioni con Stig Björkman, Mondadori, Milano 2001, p. 209. 2Ivi, p. 15. 3Ivi., p. 16.