Ho perso mio figlio! Non nel senso definitivo della parola, ma ho comunque vissuto l’ansia di attenderlo alla fermata dell’autobus e non vederlo arrivare all’ora stabilita. Da ormai quasi due

 

anni lavoriamo per renderlo autonomo nell’uso dei mezzi pubblici; lo abbiamo abituato noi genitori perché, anche se siamo a conoscenza che in condizioni normali questo servizio viene svolto dagli educatori forniti dal Comune, a causa dei grossi problemi scolastici, abbiamo optato per il loro impiego nell’area educativa per avere una copertura totale. Ciò a dimostrazione che, ancora una volta, le carenze istituzionali, in questo caso scolastiche, ci hanno impedito di usufruire di un servizio utile per educare alle autonomie. Gradatamente e con tempi molto lunghi nostro figlio si è abituato ad uscire da scuola da solo, attraversare la Porrettana al semaforo, percorrere un lungo tratto a piedi intersecando e attraversando strade per arrivare al capolinea dove attende l’autobus. Qui sale su un mezzo praticamente vuoto, regolarmente trova libero il seggiolino vicino alla porta e al campanello; gli abbiamo costruito, nei limiti del possibile, una situazione ottimale per rendergli tranquillo il viaggio di ritorno tra scuola e casa. Nel tempo non sono mancati i momenti di preoccupazione o i contrattempi: voleva che la mamma andasse a prenderlo a scuola perché pioveva; aveva deciso autonomamente di andare a mangiare al fast food e si era fermato sotto la tettoia nell’attesa che andassimo a cercarlo; al passaggio pedonale privo di semaforo permaneva una fila di macchine ferme e lui, non avendo la strada libera, non osava attraversare e quindi decideva di tornare a scuola; o ancora tre giorni fa al capolinea c’erano inspiegabilmente due autobus e lui, trovandosi in una situazione nuova, nell’incertezza di quale mezzo prendere è tornato a scuola e solo in seguito abbiamo capito che forse uno dei pullman aveva avuto un guasto. Fortunatamente fino ad ora, l’istituto alberghiero ha collaborato telefonandomi quando lo vedono tornare indietro o lui dimostra di non volere uscire da scuola. Se all’orario stabilito, guardando dalla finestra, non lo vedo scendere dall’autobus, mio marito od io partiamo con la macchina e non sono neppure poche le volte che il nostro comune amico e socio Tiziano ci ha telefonato per dirci dove lo aveva visto in attesa. La zona di Casalecchio che percorre quotidianamente gli è ormai famigliare e ha dimostrato che nell’incertezza si ferma sul posto o torna verso la scuola. Ciò da un lato mi dovrebbe tranquillizzare, ma gli imprevisti sono sempre in agguato e in una situazione di difficoltà o paura non penso che sarebbe in grado di rivolgersi a persone estranee per ottenere un aiuto e non vuole ancora abituarsi all’uso del cellulare. Gli ultimi momenti per me tragici risalgono giusto a ieri pomeriggio: dopo essere stati in centro a Bologna dalla musicoterapista, mio marito ha accompagnato Gionny nei pressi della fermata dell’autobus indicandogli di prendere la linea dell’86 che lo avrebbe portato fino a casa; a questo percorso nostro figlio è già abituato anche se non con la stessa assiduità di quando rientra da scuola. Una telefonata al cellulare mi ha avvertita dell’ora di arrivo del mezzo da cui sarebbe sceso. Al secondo autobus arrivato senza di lui e dopo l’ora stabilita sono entrata in panico; ho accusato suo padre di negligenza per non averlo fatto sedere sul mezzo al capolinea in centro, ho temuto che mio figlio non fosse salito perché c’era troppa confusione o non avesse trovato il suo seggiolino preferito libero, ho immaginato che fosse tornato dalla terapista che era l’unico luogo sicuro e conosciuto nei pressi. Ero disperata, sapevo che non avrebbe chiesto aiuto, che non aveva mezzi per comunicare con noi, ho temuto che fosse avvicinato da malintenzionati, mi ha fatto rabbia la calma di suo padre il quale, ritornato in piazza a cercarlo e non avendolo trovato si è rivolto al centro servizi dell’ATC di via Marconi; qui, dopo aver telefonato all’ufficio movimento gli hanno detto che l’autobus che Gionny doveva aver preso aveva avuto un guasto e che quindi i passeggeri erano stati fatti scendere in via Lame. Guido si è subito recato alla fermata, ma lì non c’era: lo ha trovato poco più avanti, davanti alla fermata del 19 che nostro figlio conosce bene perché è un’altra linea che porta a casa, ed è un percorso che spesso ha fatto con l’educatore nelle uscite pomeridiane; era seduto su un gradino, insonnolito dalla lunga attesa già avvolto dalle ombre del crepuscolo. Le sue parole accompagnate da un sorriso sono state: “Papà, ti stavo aspettando”. La telefonata che ho ricevuto è stata liberatoria, mi ero preparata a girare il centro a piedi, avevo già preso la cartina con le linee degli autobus pronta a farmi tutte le fermate, mi vedevo a “Chi l’ha visto” a lanciare appelli disperati o scortata da due carabinieri perché madre irresponsabile. Quando i miei uomini sono tornati a casa pensavo di trovare un figlio spaventato e tremante e invece era sorridente e si è rivolto a me dicendomi: “Ti ho lasciata sola” e così infatti, mi ero sentita. Fortunatamente ho un marito forte e razionale che non si perde d’animo nel momento di crisi. I rischi, se vogliamo renderli autonomi, dobbiamo correrli e dobbiamo dare fiducia ai nostri figli e alle persone che trovano lungo il loro cammino e ciò sia che si tratti dei figli in difficoltà che di quelli con maggiori capacità; magari una campagna di sensibilizzazione verso gli autisti dell’ATC o del personale delle ferrovie non guasterebbe.

 

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