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La dimensione della libertà

Canterò le mie canzoni per la strada
ed affronterò la vita a muso duro
un guerriero senza patria e senza spada
con un piede nel passato
e lo sguardo dritto e aperto nel futuro.
(“A muso duro”, 1979) 

Mentre questo numero di “HP-Accaparlante” veniva chiuso in redazione, si è celebrato l’anniversario dei 10 anni dalla morte di Pierangelo Bertoli, noto cantautore emiliano con disabilità.
Testi non sempre facili i suoi, un po’ duri, critici verso la società, ma musicalmente accattivanti e convincenti. Dal suo modo di cantare simile a volte a un grande dialogo tra sé e il suo pubblico, è sempre emerso il suo percorso di vita e di scelte. La scelta ad esempio di essere un personaggio un po’ scomodo, non solo per i testi che componeva e per il suo rifiuto verso i formalismi. Scomodo anche per la sua presenza fisica, per la sua sedia a rotelle: pensate alle telecamere che si dovevano abbassare per riprenderlo, ai concerti con lui immobile sul palco anziché saltare di qua e di là come le popstar più amate. E certamente non corrispondeva ai canoni classici di “bella presenza televisiva”.
Vogliamo ricordarlo, attraverso un’intervista che il noto giornalista Franco Bomprezzi (nonché amico di Bertoli) fece al cantautore nella casa di Sassuolo. Era il 1997.
Accende una sigaretta dopo l’altra. Ma non lo fa in modo nervoso, stressato. È solo un’abitudine ormai antica. Così antica da avergli plasmato la voce, rendendola inconfondibile. Forte e bassa, leggermente indurita, capace di attraversare le ottave con la tenerezza di un caterpillar, eppure, nello stesso istante, sensuale e rassicurante. È Pierangelo Bertoli, 55 anni portati gagliardamente a spasso su una potente e silenziosa carrozzina elettrica. È uno dei miti della canzone d’autore italiana, ha uno zoccolo duro di fans che regge alle mode e alle tendenze, e che aspetta fiducioso il suo messaggio, album dopo album, da oltre vent’anni. Certo, è anche un disabile di prima grandezza. Non fa davvero nulla per nasconderlo. Caso mai sono gli altri che, nel passato, hanno vissuto con imbarazzo questa sua ostinazione nel voler essere considerato solo e semplicemente un cantante e un autore. Ci conosciamo da anni. Lo intervisto da anni, ogni volta per un motivo diverso. Qualcuno sostiene perfino che ci assomigliamo. Solo che lui canta meglio. Anzi, per la verità io sono proprio stonato. Eppure non mollo: quando lo incontro parlo comunque di musica e di canzoni, perché mi affascina il suo mondo sonoro, e sono contento di poter assaporare il privilegio di condividere con lui la fase che precede la sala di registrazione, il momento in cui parla dei testi, accenna ai problemi di arrangiamento, insegue e raccoglie i pensieri, volando al di sopra delle ruote, in una dimensione incantata ma solida, dove i pensieri si fanno cose, e si tagliano con l’accetta. Non è mai stato un personaggio facile, il Pierangelo. Da quando la Caterina (ossia la Caselli) lo ha lanciato nel mercato discografico, lei come lui di Sassuolo, di questa terra che viene impastata e modellata per diventare ceramica e mattonella, una terra solida e tagliente, senza sfumature né dolcezze, il Pierangelo ne ha fatta di strada. Ora sembra un vecchio saggio (ma è un ragazzo, in verità) che contempla il mondo dietro le finestre ampie della sua dimora ombrosa. Anzi, sono qui per questo, per vedere la sua casa. Perché penso che ai lettori piaccia sapere come si può organizzare bene una dimensione domestica avendo i soldi e la voglia per farlo. Lo spazio, Pierangelo lo ha difeso a costo di litigare. “L’architetto voleva fare molte più stanze, voleva che i bagni fossero piccoli, perché secondo lui bisogna starci il minimo indispensabile – borbotta – lo ho tenuto duro, nella mia casa voglio girare dappertutto senza incontrare ostacoli”. Battaglia vinta? “Non del tutto – ammette – ci sono alcuni posti della casa nei quali comunque non entro, ma tanto servono ai miei figli, va bene lo stesso”. Francamente Pierangelo Bertoli non ha di che lamentarsi. Mentre mi guida alla scoperta della sua casa, con la discreta e silenziosa approvazione della moglie Bruna, e nella tranquilla indifferenza dei figli, annoto mentalmente la “normalità” di un arredamento gradevolmente elegante. Un salotto grande come un appartamento di Milano, una cucina che potrebbe essere un monolocale, uno studio accogliente, munito di libri, di quadri, di cuoio e di chitarre. Bertoli gira da un ambiente all’altro manovrando con insospettabile perizia il joystick della carrozzina elettrica, unica concessione alle nuove tecnologie, ché per il resto tutto è assolutamente normale e non hi-tech. “Non ho particolari problemi – si giustifica – anche perché mia moglie cammina e può arrivare dappertutto. Ho provveduto solo a installare l’ascensore per poter raggiungere tranquillamente il piano delle camere da letto e, sotto, la taverna e il garage. Punto e basta”. Già. Solo che questa “normalità”, questa semplicità di idee, deriva da una riflessione pratica sulla propria pelle. “Voglio spazi larghi, stanze ampie, perché credo che vadano bene per tutti, aiutano a vivere meglio. Non c’è bisogno di marchingegni tecnologici”. E poi ricorda quando, non pochi anni addietro e venti chili fa, usava le braccia robuste come tronchi per entrare in casa passando dalle finestre. Del poliomielitico ha la grande fiducia nella forza fisica per superare lo svantaggio delle gambe che non consentono il cammino. Il suo fisico ha compensato i punti deboli. In una società in cui conta la bellezza estetica, il Pierangelo non si pone neppure il problema. “Mi ricordo Enzo Aprea che negli ultimi tempi mi diceva che le donne lo cercavano anche più di prima, quando era un pezzo d’uomo, quando faceva lo sportivo nel nuoto – si diverte nel racconto – lui, senza gambe e senza braccia, con la sua sessualità collegata direttamente al cervello…”. Valle a capire le donne. Già, il sesso. Bertoli ne parla volentieri, secondo lui gli handicappati in Italia hanno questo problema a causa della storica dipendenza culturale dal cattolicesimo, che ha trasformato i disabili in “angeli” asessuati. “L’amore è un’altra cosa – spiega – non lo si può imporre. Ma il sesso si deve risolvere, è una cosa importante. E invece non se ne parla, è un grande tabù. Per le donne disabili poi è una tragedia, perché viene meno anche l’idea della maternità”. Al sesso è legato il tema del senso di colpa, l’inconfessato rapporto fra handicap e vergogna. “Ho fatto un concerto in un paesino della Calabria – racconta – e i disabili mi hanno aspettato al buio, dietro l’angolo della piazza, perché si vergognavano”. Migliaia di disabili da Nord a Sud vedono in Bertoli un simbolo di emancipazione e di lotta, anche se questo ruolo gli va stretto. “Sono diventato un testimonial – sogghigna – perché quando c’è stato l’anno dell’handicappato, nel 1981, io ero il più famoso perché facevo il cantante, e così i giornali e la tivù mi venivano a cercare per forza. La Jervolino mi ha voluto perfino in una commissione interministeriale. Ma io le ho spiegato come la pensavo…”. E cioè? “Che sulla mia patente c’era scritto che non potevo guidare se non una macchina di poca potenza e adattata in un certo modo, che sulla mia carta d’identità avevano sentenziato: professione invalido, ma che sulla mia dichiarazione dei redditi non c’era nessuna casella che specificava la mia disabilità, come dire che quando si tratta di pagare le tasse lo Stato non fa differenze, si prende i miei soldi e basta”. Ma adesso le cose sono cambiate… “Sì, qualcosa è cambiato. A scuola i ragazzi sono abituati ad avere un compagno di classe disabile, non ci fanno più caso. Ai miei tempi non ce n’era uno, esistevano le classi differenziali, c’era lo scemo del villaggio…”. Intanto lui, il Bertoli da Sassuolo, razza padano-celtica, rilegge i testi della sua ultima fatica, quel nuovo album che vedrà la luce in autunno. “È quella la stagione giusta dei cantautori, non l’estate, quando i ragazzi vanno al mare e non hanno voglia di ascoltare i testi”. Ancora una volta ci sono tutti i temi che lo hanno reso unico e coerente. L’attacco al potere nelle sue nuove forme di fine millennio, la malinconia del tempo che non si ferma (Prendi ancora tempo, tanto fuori piove, prendi ancora tempo, lascia che la brezza segua al temporale), le riflessioni generali (Se il mondo fosse come lo vorrei, avrebbe un’altra faccia, bella e colta), le grandi solitudini delle esistenze di oggi, una sola “dichiarata” canzone d’amore. Ma l’amore, dentro questa casa vasta e quieta, è dappertutto, si rotola con la voluttà di una gattona d’angora che si struscia vicino alle ruote della carrozzina, si accende negli sguardi dei figli e della compagna di vita, fissati alle pareti dentro le cornici di fotografie luminose e tenere. Un amore forte e allegro, a cavallo di una vita vissuta “a muso duro”. Con quella faccia larga e intensa del Pierangelo Bertoli, velata a tratti, dal fumo della sigaretta. E il nostro incontro si conclude in una gara di ricordi, passando da un cd all’altro, galoppando nel tempo di questa “Italia d’oro” raccontata a volte con rabbia, a volte con tenerezza, mai con indifferenza.



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