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Informazione di fonte pubblica e “fasce deboli” della società

Grazie per l’ospitalità, e per questa opportunità di confrontarci sulle dimensioni pratiche ed operative di ciò che per noi è informazione e comunicazione sociale, in generale e soprattutto in relazione ai problemi dell’handicap. Io vorrei, con il mio intervento di oggi, provare a sottolineare due aspetti. Uno è di carattere più teorico, ed attiene all’importanza di valorizzare e di riconoscere il ruolo di rilievo che la comunicazione e l’informazione sociale possono avere dentro quel grande cappello che è la parola “comunicazione”, per cercare di capire se ci sono dei cambiamenti in atto e quali possono essere. Il secondo aspetto riguarda, sulla scia di questi cambiamenti possibili e riprendendo quanto l’intervento che mi ha preceduto ci suggeriva come punto interrogativo, quali obiettivi programmatici possiamo porci anche dal punto di vista della ricerca e della formazione. Personalmente lavoro all’Università, quindi il punto di vista che privilegerò e di cui potrò portarvi testimonianza è ciò che si muove nel campo della formazione e della ricerca.

Lo sviluppo della comunicazione sociale
Rispetto a soltanto qualche anno fa, ho la netta impressione che quella che si chiamava comunicazione e informazione sociale, e che era considerata in qualche modo la cenerentola del mondo fascinoso evocato dalla comunicazione, non sia più tale. Il termine “comunicazione” in primis evocava la pubblicità, il giornalismo, i mezzi di comunicazione di massa, e poi anche, pian piano, la comunicazione nell’ambito della Pubblica Amministrazione; la comunicazione sociale era appunto percepita un po’ come una piccola cenerentola. Questo anche se gruppi minoritari, pure all’interno del mondo della ricerca e della formazione, già cominciavano a muoversi: i centri di documentazione, per esempio, piccoli giornali d’informazione locale, o ancora alcune ricerche che si situavano accanto ad analisi di politiche e servizi sociali, e che cominciavano a rendersi conto dell’importanza del bene informazione, quando immesso in un processo di comunicazione che significava poi intervento reale e concreto.
C’era quasi timore, e mi sono spesso chiesta come mai; posso portarvi qualche piccolo aneddoto su questa cenerentola. Già anni fa, a un collega di un’altra Università – entrambi lavoravamo in contesti che si chiamano Scienze della Comunicazione – dicevo: mettiamoci in rete, costruiamo qualcosa, so che ci sono nella tua Università alcune persone interessate. La risposta fu: ma dai, cosa vuoi, sono settori secondari, non vale la pena di investire, eccetera. Tempo qualche anno (anche per un cambiamento, pure economico, nella collaborazione con il terzo settore), ed ecco invece che anche da quell’Università vengono stipulati contratti di consulenza, magari con privati o con l’associazionismo più che con il settore pubblico, al punto che mi è stato di recente “rinnovato l’interesse” a riprendere la vecchia proposta.
Un esempio rilevante, di carattere istituzionale, che difficilmente può essere messo in dubbio è relativo al nuovo quadro che si realizza oggi negli Atenei. Voi saprete, se avete a che fare in qualche modo con l’Università o leggete i giornali, che l’Università in questo momento è sottoposta a una grossa riforma, che riorganizza gli ordinamenti di studio. Ho trovato particolarmente significativo che una delle nuove classi di laurea di secondo livello, cioè una laurea specialistica, cui noi docenti siamo chiamati poi a dare contenuti, ha una dizione ministeriale che è “Comunicazione Sociale e Istituzionale”; c’è già dunque un riconoscimento di carattere giuridico, che addirittura prefigura le nostre risorse attuali in termini di ricerca e di didattica, della connessione stretta tra la comunicazione sociale e la comunicazione istituzionale. Questo, per esempio, rende possibile provare a costituire a Bologna – lo stiamo varando proprio in questi giorni – un corso di laurea specialistica denominato “Scienze della comunicazione pubblica, sociale e politica”. Su questo proveremo a misurarci, e proveremo soprattutto a cercare di mettere in rete non solo le nostre risorse conoscitive, ma anche tutte le risorse del settore, in modo da stabilire noi stessi dei meccanismi di scambio, delle capacità non solo propositive ma anche recettive delle nuove esigenze che si manifestano.

Comunicazione sociale contro le disuguaglianze
In realtà, tutto questo è sicuramente collegato a due elementi: uno riguarda di nuovo l’importanza che ha il riconoscimento della comunicazione cosiddetta pubblica, con gli operatori della comunicazione cresciuti all’interno delle pubbliche amministrazioni che hanno cominciato a dire: guardate che comunicare non vuol soltanto dire informare di come si chiama la legge x o y; comunicare vuol dire qualcosa di più complesso, più incisivo, che è il rapporto tra cittadino e istituzioni, e di ancor più incisivo in quanto è la costruzione dei cittadini e delle istituzioni insieme. E direi, e questo è il secondo elemento, che nei contesti in cui ci muoviamo, il sorgere di proposte, suggerimenti, associazionismi e minoranze o gruppi che si sono attivati per fare emergere voci prima poco ascoltate ai livelli dominanti, come si sarebbe detto una volta, anche questo ha reso possibile una nuova parola chiave all’interno dei servizi e della Pubblica Amministrazione: la parola “ascolto”, che di nuovo si ricollega strettamente al discorso comunicazione/informazione. Ci si pone insomma il problema di come ascoltare le esigenze ed i bisogni, ma non solo i bisogni: i diritti di cittadini che manifestano, che si esprimono, che si auto-organizzano proponendo anche essi stessi delle modalità di relazione, di messa in rete di conoscenze, di risorse, di modalità possibili di fare le cose.
In fondo, che cosa può voler dire oggi lo sviluppo di una sempre maggiore comunicazione sociale, in stretta interazione anche con la comunicazione pubblica? Può significare un aspetto che nella mia formazione, non solo come insegnante di Università ma come cittadina, ho sempre considerato rilevante nel rapporto con la costruzione di una cultura democratica; e cioè che le istituzioni pubbliche sono storicamente sorte con un compito fondamentale, quello di mettere tutti i cittadini in condizione di avere accesso alle risorse che storicamente i vari contesti, le varie città, i vari Paesi, ormai possiamo dire anche i vari continenti possono mettere a disposizione, colmando il divario delle disuguaglianze sociali. È un po’ come quando si diceva che la scuola pubblica è un grande progresso: non studia più soltanto chi può farlo, chi ha i mezzi per studiare, perché la scuola pubblica offre a tutti le stesse opportunità, in quanto per formare cittadini di una società democratica è importante articolare a fondo questo accesso.
Ora, allargando il discorso, quando ci rendiamo conto che le risorse e le opportunità non sono soltanto i libri che studi o le nozioni che impari a scuola, ma sono anche informazioni culturali, modelli di vita, atteggiamenti culturali e conoscenza dei propri diritti, ecco che il settore della comunicazione sociale e dell’informazione sociale diventa rilevante. Pensate ad esempio che entro quella che si chiama informazione sociale in ambito giornalistico – non solo nel nostro Paese: questo vale negli Stati Uniti come in Europa – i giornalisti che militano, che si riconoscono come specializzati nell’informazione sociale, si autodefiniscono come giornalisti che si rivolgono a cittadini che richiedono competenza; cittadini che vogliono partecipare ad una vita democratica e che vogliono che si parli dei loro diritti, e che nello stesso tempo vogliono essere messi a conoscenza dei diritti degli altri loro pari, cioè quindi degli altri cittadini, di coloro con cui convivono.
Ora, una delle tante disuguaglianze che riguarda la società in cui viviamo è quella che chiamiamo handicap; la vecchia, classica distinzione che si faceva tra deficit e handicap che cosa metteva in risalto? Che l’handicap è una disuguaglianza costruita socialmente, è la differenza di opportunità e di risorse. La crescita, l’emancipazione, la democraticizzazione di una società è la sua capacità di ridurre questa sperequazione di risorse e di opportunità tra cittadini che hanno tutti gli stessi diritti, a partire ciascuno da condizioni differenti., Anche rispetto a questo tipo di disuguaglianza, appunto, abbiamo scoperto quanto sia importante un lavoro di carattere informativo, ma non solo: un lavoro di carattere comunicativo, vale a dire che sia capace di incidere anche sulle dimensioni culturali, sulle interpretazioni che noi diamo.
Il quadro culturale della comunicazione sociale, come prima vi dicevo, faceva però sì che essa fosse una cenerentola, anche per il timore legato al fatto che quando si parla di sociale si parla, come dicono a Bologna, di “sfighe”, di problemi, insomma di cose che mal si conciliano con tutti gli aspetti ludici, festivi, che invece emergono nei valori culturali predominanti in un certo tipo di immaginario della nostra società. Allora si sarebbe detto: “vabbé, se proprio non posso fare a meno”, perché non c’era questa istanza; in qualche modo, chi si occupava di informazione o di comunicazione sociale, addirittura anche chi lavorava nei servizi sociali, in una sorta di immagine delle gerarchie di prestigio dentro le professioni, sembrava sempre essere in condizione inferiore.

Una comunicazione delicata per la società democratica
Mi ricordo, già nei primi anni ’90, una ricerca che mi è capitato di fare al di fuori del contesto italiano (dove quindi non esisteva ancora tutta una serie di normative per l’integrazione ma ci si cominciava a muovere), che verteva sulla rappresentazione sociale prevalente dei portatori di handicap di vario genere – si trattava della Svizzera Italiana, il Canton Ticino. Uno degli aspetti che emerse, e che mi ha fatto tornare in mente l’intervento della Dott.ssa Cesari, è che a un certo punto, per capire i quadri culturali di interpretazione non soltanto dei cittadini in generale riguardo ai portatori di handicap ed ai loro familiari, noi dicemmo: attenzione, è importante anche il quadro che ne hanno in mente gli operatori. Organizzammo allora incontri con degli operatori, e scoprimmo che era la prima volta che questi si incontravano – in un contesto tra l’altro piccolo, perché il Ticino è sì uno Stato, ma ha un minor numero di abitanti della città di Bologna – e loro ci dissero, e si dissero: ma è importantissimo che noi comunichiamo tra di noi, che mettiamo in rete le nostre esperienze, perché stiamo producendo del sapere, delle professionalità, delle analisi di caso, e non abbiamo noi stessi le informazioni su cosa fa il nostro vicino accanto a noi. Quindi già lì, a partire da una ricerca su un problema che apparentemente non c’entrava nulla con la comunicazione, immediatamente emerse l’importanza della messa in rete informativa e comunicativa.
In realtà, oggi, io direi che sono abbastanza soddisfacenti tutte le attività in questo senso che svolgono non solo i servizi pubblici, ma soprattutto – questo è stato trainante a mio parere nel nostro Paese – le associazioni, le auto-organizzazioni. Nessuno oggi metterebbe più in discussione l’importanza dell’informazione e della comunicazione sociale per la promozione stessa della società; e non più in termini di dover rispondere a dei bisogni di soggetti deboli, perché secondo me stiamo andando al di là. Il problema non è infatti quello del soggetto debole o forte, il problema è quello del cittadino, e della promozione di un contesto civile e democratico in cui la lotta contro ogni tipo di forma di esclusione è centrale per continuare a sopravvivere come società aperta e democratica – perché altrimenti ognuno fa le sue “gradazioni” possibili.
È allora arrivato il momento di rimboccarsi le maniche, anche per chi sta nel campo della formazione e della ricerca, per dire: OK, forse è il caso di valorizzare e quindi di potenziare la ricerca, di studiare risorse e metodi adeguati senza limitarci a riportarli dall’esterno, da quanto è stato già fatto altrove, il che pure può essere utile. Probabilmente non basta dire: faccio comunicazione sociale perché faccio una bella campagna pubblicitaria. Devo stare attento, un conto è vendere saponette, un conto è intervenire su determinati quadri culturali e valoriali; questo perché se ottengo degli effetti imprevisti faccio dei danni. Non è come la pubblicità: “vabbé, non hai comprato la mia saponetta”, con un danno soltanto di una società che ha diminuito le sue vendite. Ma se io ho prodotto una campagna pubblicitaria, una campagna di informazione sociale che ho rivolto a tutti i cittadini, e per certi gruppi sociali invece ottengo degli effetti imprevisti, magari di maggiore ghettizzazione, o di incomprensione, o di disorientamento, allora sto creando dei danni, non sto suscitando cambiamento, rischio anzi di rinforzare stigma, esclusione, eccetera. Con questo non voglio demonizzare nessuno, per carità, non è una critica generalizzata; voglio semplicemente dire che c’è bisogno di mettersi al lavoro per capire se ci sono delle risorse, degli strumenti e delle competenze specifiche che noi dobbiamo produrre in questo campo.
Nel nostro piccolo, qui a Bologna abbiamo provato da qualche anno a costituire nel nostro Dipartimento di Scienze della Comunicazione un gruppo informale che si chiama Osservatorio sulla Comunicazione Sociale, e grazie ai nostri giovani, studenti e laureandi, qualcosina abbiamo iniziato a produrre. Come volontariato, cioè non abbiamo fatto nulla su commesse di questo o di quell’altro. Abbiamo iniziato, per esempio, a cercare di capire una nuova agenzia di stampa quotidiana che è sorta l’anno scorso, “Redattore Sociale”; abbiamo provato a monitorarla, per capire: ma che vuol dire? Come si interpretano i fatti? A breve dovrebbe uscire il libretto con i risultati. Più di recente abbiamo organizzato dei seminari, ad esempio per capire come viene trattato l’episodio di cronaca sulla malattia mentale – l’abbiamo fatto in collaborazione con Bandieragialla; oppure, che vuol dire fare dei giornali di strada a Bologna? E farli a Milano, è una cosa diversa? Abbiamo messo a confronto vari modi di fare informazione da parte di diverse associazioni, cosa esplicitavano le varie scelte, e speriamo di poter avere le forze per continuare, ma soprattutto, credo questo sia il momento, di trovare un modo più strutturato di farlo, visto che nasce anche un Corso di laurea in tal senso.

L’informazione come relazione personale
Piccole cose, ma al momento ci hanno fatto capire qualcosa che anche gli operatori, che talora ci hanno chiesto di ragionare con loro (per esempio gli assistenti sociali, o di recente alcuni operatori degli URP o della Regione nei servizi informativi), ci stanno facendo capire, avendoci chiesto un lavoro di osservazione e di ricerca. Per esempio che fare informazione – questo è il secondo e ultimo aspetto su cui concludo – soprattutto in situazioni che possono essere multiproblematiche, su servizi, su normative, su situazioni complesse, che spesso concernono persone e non soltanto categorie (visto che proprio una lotta contro la chiusura della categoria dobbiamo compiere), forse richiede delle riflessioni anche sulla relazione personale, non soltanto su come informare.
Faccio un esempio specifico: un’idea che ci sta venendo in questo periodo è di assimilare il problema dell’informazione al problema della presa in carico, già noto nell’ambito dei servizi sociali. In concreto si danno informazioni, come riportano i dati che prima ci dava la Dott.ssa Cesari – un tot % viene a chiedere informazioni di questo o dell’altro tipo. Poniamo ora che l’operatore quell’informazione non ce l’abbia: ed ecco, come si diceva, che è importante la messa in rete. Ma cosa significa questo? Che chi sta lì a dare informazioni è contemporaneamente qualcuno che sta prendendo in carico un caso, e quindi deve avere gli strumenti in uscita e in entrata, cioè all’interno della sua istituzione o di altre, per poter raccogliere le informazioni che non ha e nello stesso tempo per capire come mai non ha quelle informazioni. Ed inoltre, deve essere in grado di ascoltare l’esigenza che gli è arrivata da Mario Rossi, ma che in realtà può essere in tanti Giuseppe e Giannino che non conosce e che non sono nemmeno arrivati al servizio, e così quindi si può capire anche qualcosa di altri. Questo non è semplice: alcuni servizi riescono a farlo, altri fanno fatica, altri che riescono a farlo rischiano talora di perdere questa capacità. Pensate, magari basta un minimo cambiamento, introduci la telefonata, il computer, velocizzi certe cose, ma smette la presa in carico individuale; esiste cioè il rischio che magari si introducano strumenti innovativi importantissimi dimenticandosi che sempre, storicamente, occorre ibridare le competenze. Non è che una nuova modalità ne sostituisca un’altra, ma piuttosto essa si combina con le altre – il che rende più complesso il quadro. Questo è un aspetto apparentemente banale, ma che ho visto attraversare, se ho ben inteso, anche l’intervento della Dott.ssa Cesari: non solo i dati, le varie analisi e gli sforzi che un Comune sta facendo, ma anche il suo invito finale, come pista di lavoro su cui riflettere.




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