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Un centro per autolesionisti?

E’ abbastanza raro che sulle pagine di Accaparlante siano apparse riflessioni sulla vita dei centri per handicappati, sulle persone che ci "vivono", sulle loro dinamiche, i problemi e le conquiste. Alla fine si ha l’impressione che siano ambiti chiusi in se stessi, che si vivono la contraddizione tra il bisogno di dire e l’incapacità a fare i primi passi.
Questo articolo di Cristina Bollini, educatrice professionale presso il centro diurno per handicappati gravi "Casa Gialla" di Bologna, vuole essere anche uno stimolo per avviare finalmente la discussione su queste realtà.

In un percorso educativo dovrebbe rientrare ed essere riconosciuto formalmenteanche il vissuto relazionale e considerare inoltre, anche un capovolgimento deitermini, per cui anche "loro", gli handicappati,ci guardano.
Attualmente non c’è la preparazione per crearsi uno spazio mentale, siacollettivo che individuale, che possa contenere non solo l’ordine ma anche ilcaos, il disordine, non solo i risultati piccoli o grandi che siano ma anchel’attesa che può dilatarsi nel tempo; il non-risultato, dove l’energia messa incampo non è assolutamente proporzionale al prodotto ottenuto. La difficoltàsta, appunto, quando viene a mancare il prodotto.il risultato da mostrare, oquando tale risultato non entra in uncodice quantificabile di visualizzazione esterna. Questa è una questione che condiziona molti processi perchépuntare verso una, se pur minima, autonomia, significa sempre intendereattività, ed essere attivi, nell’accezione comune, significa usare le mani ocomunque fornire risposte di qualche tipo. Nella vita di un centro, invece, cisi può trovare di fronte a risposte che non arrivano proprio oppure a rispostecompletamente diverse dalle domande; uno dei grandi paradossi educativi che citroviamo a vivere, è proprio questa ricerca di un equilibrio tra il percorso,l’identità, la riflessione e l’apparire per l’esterno. L’inattività comescelta è molto difficile da sostenere, perché spesso ci viene riconosciuto unvalore solo nel fare. Si incorre inevitabilmente in momenti di crisi quando sicostruisce un percorso di coscientizzazione reciproca, senza però avere ancheepisodi eclatant! da raccontare per sottolineare quelle che possono essere statedelle vittorie; solo momenti da leggere con una lente particolare,impercettibili movimenti del ragazzo verso la ricerca di una comunicazione; unavaga sembianza di affettività, le richieste fatte dopo giorni passati a dormireo a battere la testa contro il muro, la mia rabbia e la sua sofferenza, ilgioco, il sorriso, il pianto, come fotografie istantanee che non comporranno unalbum completo, ma rimarranno sparse a significare uno dei tanti percorsi fatti.Solitamente, infatti, quando si parla di risultati, di produzione, non viene inmente un centro per handicappati gravi: eppure anche questi servizi producono concretamente. Un problema dei nostri servizi è appunto la difficoltà adavere un riconoscimento nel lavoro che si svolge; spesso prevalgono fantasie etimori relativi alla distruttività mentre, per contro, l’esterno tende arassicurarci sulla nostra capacità di porre rimedio alla confusione.
Si vive a stretto contatto con limiti e difficoltà per cui viene ad emergerel’esigenza di fare qualcosa di ordinato, dove il caos e la disarmonia nonabbiano il sopravvento. La possibile produzione di qualcosa di buono e divisibile a tutti, riappacifica con noi stessi e con gli latri, oltre che con lenostre frustrazioni. Solitamente, in situazioni più mobili, di fronte ad unrisultato che si attiva, ci si sente spinti verso nuovi obiettivi, ma, inmancanza di tale visibilità, la spinta è spesso quella ad andarsene o arimanere vittime del senso di fallimento e delle frustrazioni (l’educatoreanziano infatti è sempre scontento di qualcosa).

DALLA SOLIDARIETÀ’ ALL’ANTAGONISMO: IL GRUPPO DI LAVORO

In mancanza di una "reale" produzione, unico appiglio divengono irapporti affettivi tra colleghi, che all’inizio sono facilmente impostati sullasolidarietà e sulla immediatezza di comunicazione, poi vengono spessoschiacciati dalle dinamiche di immobilità e dalle dicotomie di due immaginicompletamente diverse e in antagonismo: il fuori e il dentro; il fare el’essere; gli ideali e la realtà.
Nella impossibilità di viversi conflitti così gravosi e doversi accettare coni propri personali limiti e con quelli del contesto, viene spesso a prevalerel’aggressività. Nella difficoltà a convivere con parti negative di sé, puòaccadere di proiettarle inconsciamente sul proprio lavoro, sugli altri,assistendo così ad un fenomeno di sovrastima percettiva: caratteristicherealmente negative o limitanti assunte da una situazione esterna divengonoelementi di pregiudizio o di rifiuto, per cui alcuni dati esterni vengonointroiettati divenendo salienti e sovrastimati.
Si tratta allora di smontare questi pericolosi meccanismi, partendo dallaorganizzazione del gruppo e dall’autoanalisi per conoscere meglio tali leggipsichiche e tentare di sfruttarle a vantaggio del gruppo stesso. Riazzerarequindi la situazione per ritrovarsi sul terreno comune della consapevolezza,considerando che l’empatia può anche essere negativa, ma se conduce ad unareale riflessione, significa, oltreché inferenza e distacco, anche unaconseguente crescita. Di fronte al mancato prodotto può anche verificarsi unaumento delle fantasie persecutorie con conseguenti meccanismi di frammentazionee ricerca di sempre nuovi capri espiatori. Può accadere così che il gruppo si"costruisca" un prodotto visibile: l’unità del gruppo checontinuamente lotta contro un ostacolo dalle sembianze reali e concrete, ma che sottende in realtà, implicazioni conflittuali relative alsenso di fallimento e di distruzione. Si assiste alla tendenza a coniugare ildesiderio (principio del piacere), ai vincoli della realtà (principio direaltà), senza riuscire a viveri! come scissi; il rischio è che di fronte allefrustrazioni possano scomparire anche i desideri. Ciò accade perché ildesiderio è comunque sempre qualcosa dai confini poco delineati di cui spessonon è neppure chiaro il punto di arrivo del percorso, cioè, il prodotto.
Spesso il percorso necessario è molto lungo e tale lunghezza deve esserevissuta come la capacità di rinviare la gratificazione e tollerare lapossibilità di un risultato non sempre diretto. A tal fine, occorre costruirsiuna visione tridimensionale per non rischiare l’autolesionismo. Quindi l’utentenon è solo soggetto, ci sono le famiglie e la società, e il prodotto puòanche essere un "prodotto altro" (1), cioè se non quello richiestodirettamente, un altro che può essere meno quantificante e visibile, maugualmente utile e gratificante. Il prodotto quindi non solo deve essererealistico, ma può anche consistere nella conservazione e nel mantenimento,così come è indispensabile chiedersi da chi e per chi è richiesto.

NOTA

(1 ) da una lezione del Dott. Achille Or-senigo: "La produzione neiservizi".




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