Corpo e diversità vivono a teatro una necessaria interdipendenza, perché il corpo stesso dell’attore non può non essere “diverso” nel momento in cui rimanda a un personaggio o a un’azione teatrale. Del resto, tutto ciò che entra nelle coordinate “speciali” dello spazio-tempo teatrale è “diverso” dalla realtà quotidiana. Quindi anche il corpo dell’attore, “diverso” perché esibito (e già questo lo renderebbe perlomeno singolare) e soprattutto perché esibito non per ciò che è ma per ciò che rappresenta. Con la conseguenza che lo spettatore può osservare dal vivo il corpo di una persona, l’attore, percependo contemporaneamente sia la fisicità di quella persona che la sua “virtualità”. Una possibilità che solo il teatro concede.
Dunque, la diversità del corpo a teatro sta prima di tutto nella natura stessa del corpo durante l’evento teatrale: corpo esibito, ambiguo, reale/virtuale. Non ci si stupisca, allora, se il teatro sia così attento a cogliere tutte le sollecitazioni possibili sul "corpo diverso" e ad arricchirle con proprie ricerche, attraverso le sue tipiche deformazioni somatiche (sia pure, a livello più elementare, quelle a base di parrucca e cerone nelle recite parrocchiali) o i filoni espressivi dedicati esclusivamente ai movimenti "non normali" del corpo, come il mimo e la pantomima.
Elementi come il movimento ritmato e anomalo, la voce alterata, il trucco della pelle e la vestizione con indumenti e oggetti non ordinari fanno parte dell’esperienza di tutte le forme teatrali delle origini e si sono mantenuti, a secoli di distanza, pressoché inalterati come alcuni degli elementi fondanti del teatro. E’ significativo che proprio lavorando su queste alterazioni molte forme teatrali, in particolare quelle orientali dal giapponese nô all’indiano kathakali, abbiano elaborato rigorosissimi e complicatissimi codici di tecniche del corpo, tramandati per secoli ai pochi eletti che fin dall’infanzia avevano deciso di intraprendere la strada del teatro. Queste tradizioni sono tuttora punto di riferimento negli studi della "antropologia teatrale", che si rivolge proprio all’analisi del corpo dell’attore e della sua "diversità" scenica. Tanto per fare un esempio, l’antropologo teatrale Franco Ruffini ha individuato le "tre leggi della presenza dell’attore" nell’alterazione dell’equilibrio, nella dinamica delle opposizioni e nella coerenza incoerente: concetti che, come è facilmente intuibile, rimandano a un’esperienza corporea di "diversità" difficilmente sperimentabile in situazioni "normali" di vita.
Le tante diversità del corpo
Il "corpo diverso" ha naturalmente a che fare con tutte le varianti possibili del corso umano: tutte regolarmente entrate a buon diritto nello spazio-tempo "diverso" per eccellenza del teatro. A questo punto gli esempi diventano infiniti e ciascuno, nella propria esperienza di spettatore teatrale, è in grado di accrescerne la gamma.
Parliamo, per iniziare, delle dimensioni del corpo, della grassezza. Per esempio quella di Ubu re, lo scalcagnato e feroce tiranno dal corpo a forma di gigantesca pera inventato da Alfred Jarry alla fine del secolo scorso: personaggio la cui debordante grassezza tragicomica rende particolarmente interessanti le soluzioni del "problema fisico" dell’anomala grassezza adottate dagli attori.
Anche sul versante dell’altezza la diversità fisica ha la sua importanza: non è un caso che nelle forme di spettacolo più popolari abbia grande peso la presenza dei nani o dei giganti, spesso "costruiti" questi ultimi con i trampoli, tanto da essere recuperati come "attori trampolieri" nelle parate del teatro di strada.
Anche la voce comporta una diversità rapportata al corpo. A teatro la voce, di per sé già diversa come timbro e volume rispetto a quella usata dall’attore in altri momenti della giornata, implica spesso uno scarto del corpo rispetto alla norma. Ne sono un esempio i personaggi della Commedia dell’arte, dove ogni alterazione interpretativa è amplificata da gesti plastici o acrobatici che accompagnano la battuta in modo platealmente artificioso: basta immaginarsi un Arlecchino che dice "servo vostro" o che fa la corte a Colombina, per avere di fronte agli occhi tante posizioni innaturali del suo corpo che accompagnano quasi automaticamente quelle battute.
Ma anche in tutt’altro ambito, per esempio in un teatro "colto" come quello di Carmelo Bene, la voce alterata si accompagna a posizioni disarticolate del corpo, a una complessa mimica facciale e a torsioni della testa e moti del braccio estremamente ricercati.
Altro elemento di diversità possibile, il colore della pelle, sempre più attuale, già affrontato in passato in vari modi, per esempio nell’"Otello" e nella "Tempesta" di Shakespeare dove si trovano due neri, uno nobile e tragico, l’altro deforme e schifoso. Oggi la diversità della pelle nera in mezzo a corpi bianchi si impone inevitabilmente alla visione del pubblico bianco (e viceversa), e non solo per un fatto cromatico ma soprattutto per le implicazioni culturali e sociali di una compagnia interetnica, almeno in zone dove esistono problemi di integrazione o razzismo. Se pensiamo a una compagnia che per prima in Italia ha lavorato su questo rapporto, Ravenna Teatro, è evidente che la visione politica della diversità come strumento di ricchezza e crescita (anziché della diversità come anomalia o minaccia) si sia positivamente intrecciata con l’esigenza più prettamente teatrale della diversità che stimola lo spettacolo.
La reciproca diversità fisica (oltrechè linguistica) degli attori romagnoli e di quelli senegalesi diventa allo stesso tempo spettacolo in sé e messa in scena del mondo interetnico in cui già viviamo.
Lo stesso handicap a teatro può trasformarsi in una risorsa, in quanto portatore di una ulteriore "diversità" del corpo che il teatro è potenzialmente in grado di comprendere per le ragioni che si sono dette. Tralasciando le esperienze di teatro non professionale compiute all’interno di particolari progetti di animazione con disabili, non è raro che l’handicap fisico o la menomazione siano entrati nello spettacolo attraverso il corpo di grandi attori. Come non pensare alla semi-cecità del Totò degli ultimi anni in rapporto ad alcune sue celebri gag come quella degli occhi strabici o quella dello sguardo concupiscente di fronte a una bella ragazza?
Perfino nel teatro di prosa tradizionale e meno incline a sperimentalismi sul corpo, grandi attori come Corrado Gaipa o Tino Schirinzi esibivano (o dissimulavano) menomazioni rispettivamente alla gamba e al braccio.
L’esibizione del corpo
Sono molte, ormai, in tutto il mondo le compagnie teatrali che raggruppano persone unite da una qualche caratteristica di anomalia rispetto alla presunta "normalità", per ribadire, proprio attraverso la strada "diversa" del teatro, la relatività della normalità e per raggiungere autonomamente una realizzazione attraverso il percorso artistico intrapreso professionalmente: portatori di anomalie fisiche o malattie come disabili, handicappati mentali, mutilati e sieropositivi, o portatori di differenze sociali potenzialmente emarginanti come immigrati, carcerati, omosessuali, che avanzano artisticamente le proprie rivendicazioni anche attraverso una modalità diversa di esibizione del corpo. Basta, a questo proposito, pensare ai corpi drammaticamente "vissuti" degli attori carcerati in molte esperienze di teatro con i detenuti che si stanno moltiplicando negli ultimi anni o ai corpi reinterpretati attraverso esibizioni ammiccanti, travestimenti e gestualità "esagerate", in alcune esperienze di teatro gay.
La stessa diversità sessuale diventa fondamentale a teatro. E’ noto che le donne non fossero tollerate in scena in molte culture. Conseguenza: l’interpretazione maschile di personaggi femminili, con interessanti esiti, come il gioco sull’ambiguità sessuale nel teatro elisabettiano, e il maturare di un codice di rappresentazione della donna attraverso particolari convenzioni in cui venivano alterati e idealizzati i gesti veri delle donne. Ciò approdò alle grandi tradizioni degli attori specializzati in ruoli femminili, come gli "onnagata" giapponesi.
Interessanti anche le rivalutazioni successive di queste potenzialità, quando si previde che alcuni personaggi venissero interpretati da attori del sesso opposto, come suggerì lo stesso Jean Genet per il suo "Le serve". E’ evidente che storicamente l’ingresso della donna a teatro ha comportato riassestamenti in virtù di una inedita diversità del corpo, fino al fenomeno del divismo e alla capacità di grandi attrici, da Adelaide Ristori a Eleonora Duse per restare in Italia, di strappare applausi e consenso con il semplice movimento artificioso di una mano o della testa. Per non parlare dell’esibizione del corpo nudo, dove la diversità dei corpi (non solo maschili e femminili, ma di tutti i corpi tra di loro, non più resi omogenei dai vestiti) viene esaltata, come negli storici spettacoli del Living Theatre, in una completa anarchia: tutti i corpi sono diversi tra loro e quindi sono tutti "uguali" come dignità e potenzialità espressiva ed esistenziale.