Non è semplice in un mondo come il nostro indicare il ruolo dell’educatore (qui lo intendo in senso lato, dall’educatore professionale all’insegnante); eppure non si può parlare di pratica educativa senza partire da una analisi della nostra società e della condizione umana.

Si potrà difficilmente negare la fase di crisi che stiamo vivendo sia sul piano socio-economico che politico-culturale; l’uomo della società consumistica e pubblicitaria sembra – non meno del passato – succube della forza dei nuovi miti evangelizzati e della pubblicità, divenendo schiavo dei rapporti sociali che lo predeterminano in un ruolo dal quale non può emanciparsi. Spesso gli stessi possibili fattori di liberazione emancipatrice – l’educazione, il progresso tecnico – si trasformano, a loro volta, nelle mani delle classi dominanti, in strumenti finalizzati a creare e a ricreare la situazione di oppressione che viene presentata come inevitabile e naturale, o fondata sulla volontà di Dio. A vivere nella condizione di oppressione non è poi solo l’uomo del Terzo Mondo, ma ogni uomo, sotto qualsiasi latitudine viva, impedito nella sua capacità di decidere e di dare un senso pieno alla sua vita.
La civiltà industriale capitalistica, come lo dimostrava l’utopista Charles Fourier quasi due secoli fa, più che costituire un’occasione di emancipazione, come sarebbe lecito aspettarsi, tende a creare le condizioni per una sempre maggiore oppressione attraverso meccanismi di emarginazione sociale e di manipolazione della psicologia collettiva. "L’uomo moderno – scrive Erich Fromm – è schiacciato da un profondo sentimento d’impotenza che gli fa guardare fisso, quasi con occhi paralizzati, le catastrofi che incombono". Inoltre l’uomo si piega al gregarismo perché "ha paura della libertà". L’uomo non si vive più come membro di una comunità ma come singolo atomizzato nella sua vita quotidiana e nel suo mondo interiore.
Oggi, anche se siamo resi indifferenti, l’oppressione è la condizione imposta a milioni di persone; c’è oppressione ogni volta che viene cancellata, negata la vocazione dell’uomo ad essere soggetto, non oggetto. Ed è qui che si colloca il ruolo dell’educatore come creatore di luoghi e tempi diversi all’interno di un progetto umano di emancipazione liberatrice centrato sul recupero dell’uomo come soggetto creatore di storia e di cultura.

Un creatore di luoghi e tempi diversi

Per Jean Paul Sartre l’uomo è un essere situato e datato ed è proprio da questo essere datato e situato che l’educatore deve partire per qualsiasi progetto educativo. Questo significa un dialogo permanente tra l’educatore e l’educando, un’eguaglianza valoriale che comprende differenze e similitudine. "L’alfabetizzazione – scrive Paul Freire, noto pedagogista brasiliano – non può essere fatta dall’alto in basso, come un dono o un’imposizione, ma dal di dentro verso il fuori, con lo sforzo dello stesso analfabeta, di cui l’educatore è solo un collaboratore". L’educatore deve creare le condizioni – mobilitare risorse, soggetti, ruoli, competenze e disponibilità – per una apertura della coscienza a conquistare il possibile, a interrogare, a ricercare. Come Freire pensiamo ad una pratica educativa che permetta all’uomo di diventare soggetto, di costituirsi come persona portatrice di un discorso d’alterità, di stabilire con gli altri relazioni di reciprocità, di essere costruttore di cultura e di storia.
Spesso lavorando con la sofferenza, il disagio, l’emarginazione e l’handicap si osserva come la deprivazione di ogni memoria storica si accompagna all’assenza del possibile; come ha mostrato molto bene lo psichiatra algerino Franz Fanon l’identità non esiste là dove non esiste, o viene negata la storia. Solo nella sperimentazione del possibile, nella relazione con gli altri l’uomo acquisisce consapevolezza del proprio io e dei vincoli tipici di ogni comunità umana. Per sapere quale rapporto esiste tra libertà e responsabilità occorre essere innanzitutto liberi di sperimentare le proprie potenzialità. Solo un’educazione problematizzante coglie il carattere dinamico e plurale di ogni percorso formativo dell’uomo: "L’educazione problematizzante – scrive Freire – è probabilità rivoluzionaria di futuro (…). Corrisponde alla condizione degli uomini come esseri storici e alla loro storicità. Si identifica con loro come esseri che vanno oltre se stessi, come "progetti", come esseri che camminano in avanti, come esseri che l’immobilismo minaccia mortalmente; per i quali guardarsi indietro non deve essere una forma nostalgica di voler tornare, ma una maniera di conoscere meglio ciò che stanno divenendo, per costruire meglio il futuro".

La pratica educativa come pratica di cambiamento

L’educazione come processo di umanizzazione vuol dire mettere il soggetto nelle condizioni di riappropriarsi la propria storia, di provare le proprie capacità, di sperimentare i vincoli, di decodificare il mondo nel quale vive; di passare da una "coscienza mistificata" – Marx avrebbe detto da una falsa coscienza – ad una conoscenza critica dell’essere nel mondo e col mondo.
L’educatore deve concepire l’educazione come un "che fare" permanente attraverso una pratica dialogale in grado di rivalutare il piano dell’intersoggettività; di riconoscere l’alterità e di dare significato alla vita. Per usare un’espressione di Sartre che definisce gli intellettuali si potrebbe dire che l’educatore, in quanto creatore di possibilità (intese come occasioni inedite, altre, di socializzazione e comunicazione intersoggettiva), è un "tecnico di un sapere pratico", cioè un ricercatore sociale che produce conoscenza sulla base della sua prassi educativa.
"Posto il principio – scrive Gramsci – che tutti gli uomini sono filosofi, che cioè tra i filosofi professionali o tecnici e gli altri uomini non c’è differenza qualitativa, ma solo quantitativa" occorre quindi che l’educatore sfrutti ogni spazio, ogni possibilità, ogni occasione per fare esprimere il filosofo presente in ogni uomo. Certo in una società atomizzata e frammentata come la nostra l’agire educativo deve essere un "agire comunicativo" in grado di ricostruire il senso della comunità e nuove forme di socialità.
In questo senso la pratica educativa è pratica di cambiamento; non è adattamento passivo, ma recupero di senso, non è negazione dell’alterità, ma riconoscimento della diversità; non è "amor proprio", per usare una espressione di Jean Jacques Rousseau, ma "amor di sé" cioè stima di sé attraverso il rispetto dell’altro, come un altro io, ma diverso da me. "Conoscere se stessi vuol dire essere se stessi" scriveva Gramsci ed aggiungeva: "la cultura è (…) organizzazione, disciplina del proprio io interiore, è presa di possesso della propria personalità, è conquista di coscienza superiore, per la quale si riesce a comprendere il proprio volere storico, la propria funzione nella vita, i propri diritti e i propri doveri".