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autore: Autore: Alain Goussot

3. Una pedagogia per tempi di crisi

di Alain Goussot, docente di Pedagogia speciale e formatore

La scuola ha accumulato in questi anni una serie di problemi, ha dimostrato di poter innovare ma anche di cristallizzarsi in risposte stanche e ripetitive. Gli insegnanti non sono dei marziani, sono anche loro dei prodotti di questa società, e come molti ne assorbono, ne respingono o approvano il funzionamento. Molti dicono che il livello si è abbassato pericolosamente, che gli alunni escono senza sapere scrivere correttamente, che l’insegnante non trasmette più saperi e conoscenze, che vi sono troppi bambini difficili che frenano gli apprendimenti dei “migliori”, che studiare è mal visto dalla maggioranza, che l’assenza di voti e bocciature ha provocato questa Caporetto della scuola italiana. Il dialogo tra scuola e famiglie è sempre più difficile, le stesse famiglie sembrano oscillare tra la presenza ossessiva nel “proteggere” i figli contro i bulli o le angherie di qualche insegnante, sembrano chiedere insieme più severità e meno severità. Una situazione alquanto confusa.
Ma crediamo che le questioni poste al mondo della scuola siano nei fatti le cose che vivono ogni giorno gli insegnanti e gli alunni nelle classi: classi numerose, situazioni sempre più difficili e complesse da gestire per la trasformazione sociale e culturale in atto da diversi anni, presenza significativa di bambine e bambini con problemi legati al disagio sociale, cambiamenti della composizione antropologica della popolazione scolastica con la presenza di alunni provenienti da altri orizzonti culturali, risorse sempre più scarse per realizzare dei progetti educativi individualizzati o fare sperimentazioni vere sul piano pedagogico, precarizzazione accentuata del corpo docente con migliaia di insegnanti con dei contratti instabili, introduzione di forme di lavoro a chiamate, scarse risorse per la formazione e la preparazione pedagogica e psicopedagogica degli insegnanti, impossibilità di realizzare un vero lavoro di rete tra scuola, famiglie e servizi territoriali, discontinuità nei progetti sperimentali avviati nella scuola, taglio serio alla presenza degli insegnanti specializzati o di sostegno, non chiarezza nel come realizzare il curriculum dell’insegnante ma anche dell’alunno, tendenza a proporre una formazione generica abbinata a un orientamento precoce che porti verso una specializzazione che non tiene conto del processo di sviluppo e di maturazione del bambino nel processo dei suoi apprendimenti, corsi di aggiornamento che sembrano più seguire le mode del momento (vedi i corsi sul bullismo) che non formare i docenti alla riflessione pedagogica. Tutte queste questioni finiscono per destabilizzare la scuola, e soprattutto il mondo degli insegnanti sembra continuamente subire le situazioni imposte dai cambiamenti politici ma anche strutturali; diciamo anche che le questioni che riguardano la scuola dovrebbero essere poste partendo da chi lavora sul campo; ma anche chi lavora sul campo dovrebbe esprimersi sui contenuti pedagogici e didattici, sui modelli educativi e d’insegnamento e non limitarsi a una protesta sacrosanta sulle condizioni economiche del trattamento degli operatori della scuola. In fondo vi è qui una responsabilità nei confronti delle future generazioni, la scuola è un luogo importante per la formazione d’individui che diventeranno anche cittadini e forse classi dirigenti un domani. Ma la scuola non è più l’unico luogo d’istruzione e ha dei concorrenti con una più grande efficacia sul piano della formazione delle giovani menti: media, pubblicità, internet, sistema dei consumi propongono dei modelli e degli stili di vita con i quali identificarsi. La scuola ha ancora un ruolo nella società del futuro 21° secolo? Quale futuro? Non stiamo andando verso la realizzazione della profezia di Ivan Illich cioè la descolarizzazione della società? In fondo bambini e adolescenti trovano dei modelli con i quali identificarsi nei media, acquisiscono tramite la televisione e internet delle forme di sapere e delle conoscenze. Il problema è: come e quali saperi e quali conoscenze? 

Descolarizzare la società? La vera emergenza pedagogica
La descolarizzazione della società può trovare un suo punto di forza con l’appoggio delle politiche di privatizzazione in atto che rafforzano le disuguaglianze davanti all’istruzione. Non solo la formazione e la delega delle giovani menti ai media permette di eliminare la figura dell’insegnante o del maestro (unico o meno che sia); i media offrono dei nuovi maestri: uomini di spettacolo, giornalisti tuttologi, politici che assomigliano molto ai sofisti di cui parlava Platone e attori, attricette, veline, gente reale che per quattro soldi esibiscono, veri o falsi che siano, i loro problemi più privati in pubblico. In questo modo tutti diventano spettatori, viene conservata la forma della logica cattedratica della trasmissione e quindi dell’auditorio, potenziata dalle luci abbaglianti dello spettacolo televisivo, per meglio passivizzare chi guarda. In questa grande operazione di bombardamento pubblicitario non vi è più tempo e spazio per scoprire da sé e costruire da sé con l’aiuto del maestro le conoscenze, non vi è più la possibilità di distinguere i saperi che contano perché permettono di comprendere come funziona il mondo nel quale si vive. In questo modo la descolarizzazione in atto amplifica le disuguaglianze sociali e trasforma la massa dei bambini e adolescenti in futuri sudditi. Rispetto a questo cosa fa la scuola? Quale consapevolezza pedagogica hanno gli insegnanti e in che misura sono davvero pronti a fare “la battaglia dell’intelligenza”, per usare una espressione del filosofo Bernard Stiegler, sul piano pedagogico? Eppure i grandi pedagoghi ed educatori della scuola nuova del Novecento, da John Dewey a don Milani, ci hanno insegnato che l’educazione è formazione del cittadino di domani; di un cittadino consapevole e in grado di prendere posto nella società con senso di responsabilità ma anche con il senso della centralità della libertà, come attore che fa delle scelte.
Ma non si può neanche ignorare il quadro sociale e culturale nel quale oggi la scuola si sta contorcendo alla ricerca di un nuovo equilibrio in un mondo in cui la forza pedagogica dei media, del sistema dei consumi e della pubblicità plasma e trasforma in profondità le persone. Gli alunni, come gli insegnanti, non vivono su un altro pianeta, sono il prodotto di questo mondo che fa dell’individualismo, del narcisismo, dell’arricchimento e del consumismo i valori fondanti del riconoscimento. Inoltre condividiamo la tesi del filosofo francese Bernard Stiegler che sottolinea, in un bel libro intitolato Prendre soin de la jeunesse et des générations, che sta avvenendo una “inversione generazionale”, a opera dei media che funzionano come un vero “psicopotere”, dove i genitori e i nonni appaiono nella cinematografia, nelle trasmissioni televisive e nella pubblicità come infantilizzati, come esseri immaturi in balìa alle loro emozioni non controllabili, e dove i bambini appaiono come degli esseri responsabili e maturi che prendono le decisioni. Da una parte gli adulti vengono delegittimati come punti di riferimento autorevoli e dall’altra i bambini vengono sovraccaricati di responsabilità che non sono in grado di assumersi e gestire. Stiegler parla e descrive a lungo quelle che chiama le “tecniche di captazione dell’attenzione” del nuovo dispositivo mediatico; tecnica la chiama anche “psicotecnologia”, che ha la capacità di provocare una “eccitazione emotiva immediata” che non esercita nel bambino la facoltà di attenzione e la strutturazione di una memoria ricca. L’attenzione diventa superficiale come il gesto consumistico dell’usa e getta; non fa funzionare la concentrazione e lo sforzo per apprendere, disattiva il desiderio di apprendere e diseduca a sublimare attraverso l’apprendimento. Per Stiegler si tratta di una grande operazione di destrutturazione dei meccanismi profondi dell’apparato psichico dei bambini e degli adolescenti che diventano dipendenti dall’eccitazione immediata e che non riescono a strutturare nel tempo una capacità profonda di attenzione e una tensione intellettiva in grado di farli diventare “maggiorenni”, cioè esseri che si autodeterminano; don Milani avrebbe detto “sovrani”.
Ma chi si prenda la pena di farne davvero un’analisi, chi si chiede quale ne è l’impatto formativo e psicologico sulle nuove generazioni? Quali lavori di ricerca vera vengono condotti in questo ambito per comprendere come condurre la “battaglia dell’intelligenza” di cui parla Stiegler? Talvolta sembra che il mondo stesso della scuola sia ormai paralizzato e anche parte di questa nuova industria culturale che tende a rendere sempre meno maggiorenne e sovrano l’individuo. L’essere sovrano e maggiorenne fa parte del vecchio progetto illuminista che oggi è radicalmente messo in discussione; la scuola ha quindi una funzione importante perché rimane ancora un luogo dov’è possibile vivere l’esperienza della relazione vera e non virtuale, del confronto vivo dove sentimenti e passioni si costruiscono nell’esperienza di apprendimento. Ma per poter aiutare gli alunni a sviluppare una deep attention, una attenzione profonda, occorre non ignorare il mondo delle “psicotecnologie” che oggi dominano il mondo della comunicazione virtuale nel quale sono immersi i nostri ragazzi. Quando è nata la stampa vi fu una rivoluzione culturale, il rischio era che una minoranza potesse avere la capacità tecnica di gestire questo strumento escludendo la maggioranza; oggi la situazione è ancora più complessa perché non si tratta solo di tecnica ma di tecnologie complesse e sofisticate che hanno il potere di determinare i cambiamenti mentali. Eppure occorre farvi i conti per rovesciare l’utilizzo attuale di queste tecnologie e farle diventare supporti alla “battaglia dell’intelligenza” per fare uscire migliaia di alunni e di persone dalla “servitù volontaria” nella quale si trovano perché la loro attenzione è ormai captata e provoca un effetto di “minorazione”. 

Una pedagogia per tempi di crisi
La questione è tuttavia sapere in quale misura vi sia ancora oggi una connessione tra il carattere educativo della comunità scolastica e l’esperienza nel gruppo classe sia sul piano dell’acquisizione di saperi e conoscenze sia su quello affettivo-relazionale. In che misura l’esperienza scolastica e quella vissuta in classe riesca ancora a collegare vissuti esperenziali significativi per la crescita personale, l’acquisizione del sentimento di socialità e l’acquisizione di saperi e conoscenze fondamentali per lo sviluppo della capacità di pensare con la propria testa per comprendere il mondo. Gli insegnanti si trovano a dover rispondere a questioni antiche ma in termini nuovi: come interessare gli alunni che sembrano non interessarsi a nulla, come superare le resistenze di chi dovrebbe imparare ma non vuole imparare, cosa significa valutare l’alunno sul piano degli apprendimenti e del rendimento didattico, come gestire le classi numerose con tanti alunni e alunne “difficili”, come rispondere all’aggressività e al conflitto, quali metodi utilizzare e chiedersi se esistono metodi risolutivi, chiedersi se sia importante avere una filosofia dell’educazione oppure se bastano le tecniche (su quest’ultimo punto vedere quale rapporto deve esistere tra tecniche, strumenti, metodi, alunni, docenti e oggetto disciplinare), quali mediazioni e mediatori utilizzare per favorire gli apprendimenti e facilitare l’inclusione di chi presenta delle difficoltà. Questioni antiche della storia dell’educazione ma questioni che si pongono in termini nuovi in un mondo che ha subito delle profonde trasformazioni sia sul piano tecnologico sia antropologico e culturale.
Vi sono poi tutte le questioni che riguardano la formazione delle competenze pedagogiche e didattiche del personale docente e degli educatori; spesso si afferma che vi è una scarsa preparazione dell’insegnante, in effetti non basta conoscere la propria disciplina per sapere trasmettere i saperi e le conoscenze che vi sono connessi. Qualcuno afferma, giustamente, che l’insegnante o il formatore deve avere delle competenze psicologiche, cioè essere in possesso degli strumenti di lettura psico-sociale relazionale delle difficoltà che possono incontrare alcuni alunni nonché di lettura delle dinamiche del gruppo classe. Tutte cose giuste ma vi è anche il rischio di trasformare l’insegnante in uno psicologo che passa il suo tempo a fare diagnosi; vi è un rischio di uso improprio della psicologia e quindi di scivolare verso lo psicologismo.
Psicologismo che rappresenta spesso un alibi da parte dell’insegnante e dell’educatore o del formatore per nascondere le proprie difficoltà o incompetenze sul piano pedagogico e didattico. Tentare di spiegare psicologicamente tutti i comportamenti degli alunni rischia di togliere spazio alla comprensione che può avvenire tramite l’attività d’insegnamento; è in questa attività, nel modo di organizzarla con il gruppo che si realizza quella osservazione che funziona come processo di conoscenza dell’altro e di se stesso. Ma per fare questo l’insegnante non deve nascondersi dietro le posture dello psicologismo ma neanche dietro la certezza pragmatica delle tecniche e degli strumenti. Questi ultimi sono importanti nel senso che è importante essere detentori di saperi tecnici per insegnare e stimolare il processo di apprendimento, ma sono anche un rischio se chiudono l’operatore pedagogico dentro una razionalizzazione rigida della sua azione didattica non creando più lo spazio necessario per sperimentare tramite la relazione l’esplorazione di percorsi inediti e lo sviluppo creativo delle potenzialità dell’alunno. Già ai primi del Novecento il grande pedagogo italiano Giuseppe Lombardo Radice distingueva didatticismo e didattica. Il didatticismo corrisponde a una modalità rigida, precostituita d’intendere l’insegnamento, un “formalismo metodologico” che non tiene conto dell’imprevisto, dell’incertezza della relazione pedagogica e anche delle potenzialità presenti in questa zona del non prevedibile; la didattica invece tenta di programmare e di usare strumenti e metodologie in modo flessibile tenendo conto delle situazioni e dando spazio alla sperimentazione del processo di apprendimento. La composizione eterogenea delle classi, la presenza di vaste aree di disagio psico-sociale collegato alla crisi che vivono molte famiglie, la pressione dei messaggi pubblicitari della società dei consumi con i suoi modelli culturali e i suoi stili di vita basati sull’autoreferenzialità, la presenza di alunni con “bisogni speciali” che presentano disabilità e anche disturbi dell’apprendimento che molti insegnanti non sanno come gestire, la presenza significativa di tanti bambini figli di migranti che hanno profondamente modificati la struttura antropologica culturale delle nostre scuole, la presenza di fenomeni legati all’aggressività o alla depressione tra tanti adolescenti che sembrano come lasciati a se stessi, tutti questi fattori mettono gli insegnanti e gli educatori in grande difficoltà soprattutto quando non sanno trasformare queste criticità in una nuova “pedagogia per tempi di crisi”, per utilizzare una espressione del pedagogista francese Philippe Meirieu, cioè di una pedagogia in grado di rispondere alle sfide di una società invasa da nuovi linguaggi e anche alla ricerca di nuovi punti di riferimento per navigare e orientarsi in un’epoca di tempeste sociali, economiche, politiche e culturali. Condividiamo il punto di vista del pedagogista francese che afferma che l’innovazione pedagogica, anzi l’atto pedagogico, che sia in classe con l’insegnante o nel quartiere con l’educatore, nasce di fronte alla resistenza dell’alunno, dell’educando in un contesto di crisi e di apparente impossibilità di cambiamento. Parlare di una “pedagogia per tempi di crisi” vuol dire reinvestire passioni, intelligenze, motivazioni ideali, principi etici, ragione critica e competenze scientifiche nell’esperienza di relazione che coinvolge la figura del maestro e quella dell’educando senza temere il confronto con quest’ultimo. Una delle cose che caratterizza la situazione di tanti insegnanti ed educatori è proprio la paura del confronto, la paura della gestione educativa del conflitto, la paura dell’incerto. 

Un tecnico di un sapere pratico

Non è semplice in un mondo come il nostro indicare il ruolo dell’educatore (qui lo intendo in senso lato, dall’educatore professionale all’insegnante); eppure non si può parlare di pratica educativa senza partire da una analisi della nostra società e della condizione umana.

Si potrà difficilmente negare la fase di crisi che stiamo vivendo sia sul piano socio-economico che politico-culturale; l’uomo della società consumistica e pubblicitaria sembra – non meno del passato – succube della forza dei nuovi miti evangelizzati e della pubblicità, divenendo schiavo dei rapporti sociali che lo predeterminano in un ruolo dal quale non può emanciparsi. Spesso gli stessi possibili fattori di liberazione emancipatrice – l’educazione, il progresso tecnico – si trasformano, a loro volta, nelle mani delle classi dominanti, in strumenti finalizzati a creare e a ricreare la situazione di oppressione che viene presentata come inevitabile e naturale, o fondata sulla volontà di Dio. A vivere nella condizione di oppressione non è poi solo l’uomo del Terzo Mondo, ma ogni uomo, sotto qualsiasi latitudine viva, impedito nella sua capacità di decidere e di dare un senso pieno alla sua vita.
La civiltà industriale capitalistica, come lo dimostrava l’utopista Charles Fourier quasi due secoli fa, più che costituire un’occasione di emancipazione, come sarebbe lecito aspettarsi, tende a creare le condizioni per una sempre maggiore oppressione attraverso meccanismi di emarginazione sociale e di manipolazione della psicologia collettiva. "L’uomo moderno – scrive Erich Fromm – è schiacciato da un profondo sentimento d’impotenza che gli fa guardare fisso, quasi con occhi paralizzati, le catastrofi che incombono". Inoltre l’uomo si piega al gregarismo perché "ha paura della libertà". L’uomo non si vive più come membro di una comunità ma come singolo atomizzato nella sua vita quotidiana e nel suo mondo interiore.
Oggi, anche se siamo resi indifferenti, l’oppressione è la condizione imposta a milioni di persone; c’è oppressione ogni volta che viene cancellata, negata la vocazione dell’uomo ad essere soggetto, non oggetto. Ed è qui che si colloca il ruolo dell’educatore come creatore di luoghi e tempi diversi all’interno di un progetto umano di emancipazione liberatrice centrato sul recupero dell’uomo come soggetto creatore di storia e di cultura.

Un creatore di luoghi e tempi diversi

Per Jean Paul Sartre l’uomo è un essere situato e datato ed è proprio da questo essere datato e situato che l’educatore deve partire per qualsiasi progetto educativo. Questo significa un dialogo permanente tra l’educatore e l’educando, un’eguaglianza valoriale che comprende differenze e similitudine. "L’alfabetizzazione – scrive Paul Freire, noto pedagogista brasiliano – non può essere fatta dall’alto in basso, come un dono o un’imposizione, ma dal di dentro verso il fuori, con lo sforzo dello stesso analfabeta, di cui l’educatore è solo un collaboratore". L’educatore deve creare le condizioni – mobilitare risorse, soggetti, ruoli, competenze e disponibilità – per una apertura della coscienza a conquistare il possibile, a interrogare, a ricercare. Come Freire pensiamo ad una pratica educativa che permetta all’uomo di diventare soggetto, di costituirsi come persona portatrice di un discorso d’alterità, di stabilire con gli altri relazioni di reciprocità, di essere costruttore di cultura e di storia.
Spesso lavorando con la sofferenza, il disagio, l’emarginazione e l’handicap si osserva come la deprivazione di ogni memoria storica si accompagna all’assenza del possibile; come ha mostrato molto bene lo psichiatra algerino Franz Fanon l’identità non esiste là dove non esiste, o viene negata la storia. Solo nella sperimentazione del possibile, nella relazione con gli altri l’uomo acquisisce consapevolezza del proprio io e dei vincoli tipici di ogni comunità umana. Per sapere quale rapporto esiste tra libertà e responsabilità occorre essere innanzitutto liberi di sperimentare le proprie potenzialità. Solo un’educazione problematizzante coglie il carattere dinamico e plurale di ogni percorso formativo dell’uomo: "L’educazione problematizzante – scrive Freire – è probabilità rivoluzionaria di futuro (…). Corrisponde alla condizione degli uomini come esseri storici e alla loro storicità. Si identifica con loro come esseri che vanno oltre se stessi, come "progetti", come esseri che camminano in avanti, come esseri che l’immobilismo minaccia mortalmente; per i quali guardarsi indietro non deve essere una forma nostalgica di voler tornare, ma una maniera di conoscere meglio ciò che stanno divenendo, per costruire meglio il futuro".

La pratica educativa come pratica di cambiamento

L’educazione come processo di umanizzazione vuol dire mettere il soggetto nelle condizioni di riappropriarsi la propria storia, di provare le proprie capacità, di sperimentare i vincoli, di decodificare il mondo nel quale vive; di passare da una "coscienza mistificata" – Marx avrebbe detto da una falsa coscienza – ad una conoscenza critica dell’essere nel mondo e col mondo.
L’educatore deve concepire l’educazione come un "che fare" permanente attraverso una pratica dialogale in grado di rivalutare il piano dell’intersoggettività; di riconoscere l’alterità e di dare significato alla vita. Per usare un’espressione di Sartre che definisce gli intellettuali si potrebbe dire che l’educatore, in quanto creatore di possibilità (intese come occasioni inedite, altre, di socializzazione e comunicazione intersoggettiva), è un "tecnico di un sapere pratico", cioè un ricercatore sociale che produce conoscenza sulla base della sua prassi educativa.
"Posto il principio – scrive Gramsci – che tutti gli uomini sono filosofi, che cioè tra i filosofi professionali o tecnici e gli altri uomini non c’è differenza qualitativa, ma solo quantitativa" occorre quindi che l’educatore sfrutti ogni spazio, ogni possibilità, ogni occasione per fare esprimere il filosofo presente in ogni uomo. Certo in una società atomizzata e frammentata come la nostra l’agire educativo deve essere un "agire comunicativo" in grado di ricostruire il senso della comunità e nuove forme di socialità.
In questo senso la pratica educativa è pratica di cambiamento; non è adattamento passivo, ma recupero di senso, non è negazione dell’alterità, ma riconoscimento della diversità; non è "amor proprio", per usare una espressione di Jean Jacques Rousseau, ma "amor di sé" cioè stima di sé attraverso il rispetto dell’altro, come un altro io, ma diverso da me. "Conoscere se stessi vuol dire essere se stessi" scriveva Gramsci ed aggiungeva: "la cultura è (…) organizzazione, disciplina del proprio io interiore, è presa di possesso della propria personalità, è conquista di coscienza superiore, per la quale si riesce a comprendere il proprio volere storico, la propria funzione nella vita, i propri diritti e i propri doveri".