3. Una pedagogia per tempi di crisi
- Autore: Alain Goussot
- Anno e numero: 2009/1 (monografia su educazione, animazione e creatività)
di Alain Goussot, docente di Pedagogia speciale e formatore
La scuola ha accumulato in questi anni una serie di problemi, ha dimostrato di poter innovare ma anche di cristallizzarsi in risposte stanche e ripetitive. Gli insegnanti non sono dei marziani, sono anche loro dei prodotti di questa società, e come molti ne assorbono, ne respingono o approvano il funzionamento. Molti dicono che il livello si è abbassato pericolosamente, che gli alunni escono senza sapere scrivere correttamente, che l’insegnante non trasmette più saperi e conoscenze, che vi sono troppi bambini difficili che frenano gli apprendimenti dei “migliori”, che studiare è mal visto dalla maggioranza, che l’assenza di voti e bocciature ha provocato questa Caporetto della scuola italiana. Il dialogo tra scuola e famiglie è sempre più difficile, le stesse famiglie sembrano oscillare tra la presenza ossessiva nel “proteggere” i figli contro i bulli o le angherie di qualche insegnante, sembrano chiedere insieme più severità e meno severità. Una situazione alquanto confusa.
Ma crediamo che le questioni poste al mondo della scuola siano nei fatti le cose che vivono ogni giorno gli insegnanti e gli alunni nelle classi: classi numerose, situazioni sempre più difficili e complesse da gestire per la trasformazione sociale e culturale in atto da diversi anni, presenza significativa di bambine e bambini con problemi legati al disagio sociale, cambiamenti della composizione antropologica della popolazione scolastica con la presenza di alunni provenienti da altri orizzonti culturali, risorse sempre più scarse per realizzare dei progetti educativi individualizzati o fare sperimentazioni vere sul piano pedagogico, precarizzazione accentuata del corpo docente con migliaia di insegnanti con dei contratti instabili, introduzione di forme di lavoro a chiamate, scarse risorse per la formazione e la preparazione pedagogica e psicopedagogica degli insegnanti, impossibilità di realizzare un vero lavoro di rete tra scuola, famiglie e servizi territoriali, discontinuità nei progetti sperimentali avviati nella scuola, taglio serio alla presenza degli insegnanti specializzati o di sostegno, non chiarezza nel come realizzare il curriculum dell’insegnante ma anche dell’alunno, tendenza a proporre una formazione generica abbinata a un orientamento precoce che porti verso una specializzazione che non tiene conto del processo di sviluppo e di maturazione del bambino nel processo dei suoi apprendimenti, corsi di aggiornamento che sembrano più seguire le mode del momento (vedi i corsi sul bullismo) che non formare i docenti alla riflessione pedagogica. Tutte queste questioni finiscono per destabilizzare la scuola, e soprattutto il mondo degli insegnanti sembra continuamente subire le situazioni imposte dai cambiamenti politici ma anche strutturali; diciamo anche che le questioni che riguardano la scuola dovrebbero essere poste partendo da chi lavora sul campo; ma anche chi lavora sul campo dovrebbe esprimersi sui contenuti pedagogici e didattici, sui modelli educativi e d’insegnamento e non limitarsi a una protesta sacrosanta sulle condizioni economiche del trattamento degli operatori della scuola. In fondo vi è qui una responsabilità nei confronti delle future generazioni, la scuola è un luogo importante per la formazione d’individui che diventeranno anche cittadini e forse classi dirigenti un domani. Ma la scuola non è più l’unico luogo d’istruzione e ha dei concorrenti con una più grande efficacia sul piano della formazione delle giovani menti: media, pubblicità, internet, sistema dei consumi propongono dei modelli e degli stili di vita con i quali identificarsi. La scuola ha ancora un ruolo nella società del futuro 21° secolo? Quale futuro? Non stiamo andando verso la realizzazione della profezia di Ivan Illich cioè la descolarizzazione della società? In fondo bambini e adolescenti trovano dei modelli con i quali identificarsi nei media, acquisiscono tramite la televisione e internet delle forme di sapere e delle conoscenze. Il problema è: come e quali saperi e quali conoscenze?
Descolarizzare la società? La vera emergenza pedagogica
La descolarizzazione della società può trovare un suo punto di forza con l’appoggio delle politiche di privatizzazione in atto che rafforzano le disuguaglianze davanti all’istruzione. Non solo la formazione e la delega delle giovani menti ai media permette di eliminare la figura dell’insegnante o del maestro (unico o meno che sia); i media offrono dei nuovi maestri: uomini di spettacolo, giornalisti tuttologi, politici che assomigliano molto ai sofisti di cui parlava Platone e attori, attricette, veline, gente reale che per quattro soldi esibiscono, veri o falsi che siano, i loro problemi più privati in pubblico. In questo modo tutti diventano spettatori, viene conservata la forma della logica cattedratica della trasmissione e quindi dell’auditorio, potenziata dalle luci abbaglianti dello spettacolo televisivo, per meglio passivizzare chi guarda. In questa grande operazione di bombardamento pubblicitario non vi è più tempo e spazio per scoprire da sé e costruire da sé con l’aiuto del maestro le conoscenze, non vi è più la possibilità di distinguere i saperi che contano perché permettono di comprendere come funziona il mondo nel quale si vive. In questo modo la descolarizzazione in atto amplifica le disuguaglianze sociali e trasforma la massa dei bambini e adolescenti in futuri sudditi. Rispetto a questo cosa fa la scuola? Quale consapevolezza pedagogica hanno gli insegnanti e in che misura sono davvero pronti a fare “la battaglia dell’intelligenza”, per usare una espressione del filosofo Bernard Stiegler, sul piano pedagogico? Eppure i grandi pedagoghi ed educatori della scuola nuova del Novecento, da John Dewey a don Milani, ci hanno insegnato che l’educazione è formazione del cittadino di domani; di un cittadino consapevole e in grado di prendere posto nella società con senso di responsabilità ma anche con il senso della centralità della libertà, come attore che fa delle scelte.
Ma non si può neanche ignorare il quadro sociale e culturale nel quale oggi la scuola si sta contorcendo alla ricerca di un nuovo equilibrio in un mondo in cui la forza pedagogica dei media, del sistema dei consumi e della pubblicità plasma e trasforma in profondità le persone. Gli alunni, come gli insegnanti, non vivono su un altro pianeta, sono il prodotto di questo mondo che fa dell’individualismo, del narcisismo, dell’arricchimento e del consumismo i valori fondanti del riconoscimento. Inoltre condividiamo la tesi del filosofo francese Bernard Stiegler che sottolinea, in un bel libro intitolato Prendre soin de la jeunesse et des générations, che sta avvenendo una “inversione generazionale”, a opera dei media che funzionano come un vero “psicopotere”, dove i genitori e i nonni appaiono nella cinematografia, nelle trasmissioni televisive e nella pubblicità come infantilizzati, come esseri immaturi in balìa alle loro emozioni non controllabili, e dove i bambini appaiono come degli esseri responsabili e maturi che prendono le decisioni. Da una parte gli adulti vengono delegittimati come punti di riferimento autorevoli e dall’altra i bambini vengono sovraccaricati di responsabilità che non sono in grado di assumersi e gestire. Stiegler parla e descrive a lungo quelle che chiama le “tecniche di captazione dell’attenzione” del nuovo dispositivo mediatico; tecnica la chiama anche “psicotecnologia”, che ha la capacità di provocare una “eccitazione emotiva immediata” che non esercita nel bambino la facoltà di attenzione e la strutturazione di una memoria ricca. L’attenzione diventa superficiale come il gesto consumistico dell’usa e getta; non fa funzionare la concentrazione e lo sforzo per apprendere, disattiva il desiderio di apprendere e diseduca a sublimare attraverso l’apprendimento. Per Stiegler si tratta di una grande operazione di destrutturazione dei meccanismi profondi dell’apparato psichico dei bambini e degli adolescenti che diventano dipendenti dall’eccitazione immediata e che non riescono a strutturare nel tempo una capacità profonda di attenzione e una tensione intellettiva in grado di farli diventare “maggiorenni”, cioè esseri che si autodeterminano; don Milani avrebbe detto “sovrani”.
Ma chi si prenda la pena di farne davvero un’analisi, chi si chiede quale ne è l’impatto formativo e psicologico sulle nuove generazioni? Quali lavori di ricerca vera vengono condotti in questo ambito per comprendere come condurre la “battaglia dell’intelligenza” di cui parla Stiegler? Talvolta sembra che il mondo stesso della scuola sia ormai paralizzato e anche parte di questa nuova industria culturale che tende a rendere sempre meno maggiorenne e sovrano l’individuo. L’essere sovrano e maggiorenne fa parte del vecchio progetto illuminista che oggi è radicalmente messo in discussione; la scuola ha quindi una funzione importante perché rimane ancora un luogo dov’è possibile vivere l’esperienza della relazione vera e non virtuale, del confronto vivo dove sentimenti e passioni si costruiscono nell’esperienza di apprendimento. Ma per poter aiutare gli alunni a sviluppare una deep attention, una attenzione profonda, occorre non ignorare il mondo delle “psicotecnologie” che oggi dominano il mondo della comunicazione virtuale nel quale sono immersi i nostri ragazzi. Quando è nata la stampa vi fu una rivoluzione culturale, il rischio era che una minoranza potesse avere la capacità tecnica di gestire questo strumento escludendo la maggioranza; oggi la situazione è ancora più complessa perché non si tratta solo di tecnica ma di tecnologie complesse e sofisticate che hanno il potere di determinare i cambiamenti mentali. Eppure occorre farvi i conti per rovesciare l’utilizzo attuale di queste tecnologie e farle diventare supporti alla “battaglia dell’intelligenza” per fare uscire migliaia di alunni e di persone dalla “servitù volontaria” nella quale si trovano perché la loro attenzione è ormai captata e provoca un effetto di “minorazione”.
Una pedagogia per tempi di crisi
La questione è tuttavia sapere in quale misura vi sia ancora oggi una connessione tra il carattere educativo della comunità scolastica e l’esperienza nel gruppo classe sia sul piano dell’acquisizione di saperi e conoscenze sia su quello affettivo-relazionale. In che misura l’esperienza scolastica e quella vissuta in classe riesca ancora a collegare vissuti esperenziali significativi per la crescita personale, l’acquisizione del sentimento di socialità e l’acquisizione di saperi e conoscenze fondamentali per lo sviluppo della capacità di pensare con la propria testa per comprendere il mondo. Gli insegnanti si trovano a dover rispondere a questioni antiche ma in termini nuovi: come interessare gli alunni che sembrano non interessarsi a nulla, come superare le resistenze di chi dovrebbe imparare ma non vuole imparare, cosa significa valutare l’alunno sul piano degli apprendimenti e del rendimento didattico, come gestire le classi numerose con tanti alunni e alunne “difficili”, come rispondere all’aggressività e al conflitto, quali metodi utilizzare e chiedersi se esistono metodi risolutivi, chiedersi se sia importante avere una filosofia dell’educazione oppure se bastano le tecniche (su quest’ultimo punto vedere quale rapporto deve esistere tra tecniche, strumenti, metodi, alunni, docenti e oggetto disciplinare), quali mediazioni e mediatori utilizzare per favorire gli apprendimenti e facilitare l’inclusione di chi presenta delle difficoltà. Questioni antiche della storia dell’educazione ma questioni che si pongono in termini nuovi in un mondo che ha subito delle profonde trasformazioni sia sul piano tecnologico sia antropologico e culturale.
Vi sono poi tutte le questioni che riguardano la formazione delle competenze pedagogiche e didattiche del personale docente e degli educatori; spesso si afferma che vi è una scarsa preparazione dell’insegnante, in effetti non basta conoscere la propria disciplina per sapere trasmettere i saperi e le conoscenze che vi sono connessi. Qualcuno afferma, giustamente, che l’insegnante o il formatore deve avere delle competenze psicologiche, cioè essere in possesso degli strumenti di lettura psico-sociale relazionale delle difficoltà che possono incontrare alcuni alunni nonché di lettura delle dinamiche del gruppo classe. Tutte cose giuste ma vi è anche il rischio di trasformare l’insegnante in uno psicologo che passa il suo tempo a fare diagnosi; vi è un rischio di uso improprio della psicologia e quindi di scivolare verso lo psicologismo.
Psicologismo che rappresenta spesso un alibi da parte dell’insegnante e dell’educatore o del formatore per nascondere le proprie difficoltà o incompetenze sul piano pedagogico e didattico. Tentare di spiegare psicologicamente tutti i comportamenti degli alunni rischia di togliere spazio alla comprensione che può avvenire tramite l’attività d’insegnamento; è in questa attività, nel modo di organizzarla con il gruppo che si realizza quella osservazione che funziona come processo di conoscenza dell’altro e di se stesso. Ma per fare questo l’insegnante non deve nascondersi dietro le posture dello psicologismo ma neanche dietro la certezza pragmatica delle tecniche e degli strumenti. Questi ultimi sono importanti nel senso che è importante essere detentori di saperi tecnici per insegnare e stimolare il processo di apprendimento, ma sono anche un rischio se chiudono l’operatore pedagogico dentro una razionalizzazione rigida della sua azione didattica non creando più lo spazio necessario per sperimentare tramite la relazione l’esplorazione di percorsi inediti e lo sviluppo creativo delle potenzialità dell’alunno. Già ai primi del Novecento il grande pedagogo italiano Giuseppe Lombardo Radice distingueva didatticismo e didattica. Il didatticismo corrisponde a una modalità rigida, precostituita d’intendere l’insegnamento, un “formalismo metodologico” che non tiene conto dell’imprevisto, dell’incertezza della relazione pedagogica e anche delle potenzialità presenti in questa zona del non prevedibile; la didattica invece tenta di programmare e di usare strumenti e metodologie in modo flessibile tenendo conto delle situazioni e dando spazio alla sperimentazione del processo di apprendimento. La composizione eterogenea delle classi, la presenza di vaste aree di disagio psico-sociale collegato alla crisi che vivono molte famiglie, la pressione dei messaggi pubblicitari della società dei consumi con i suoi modelli culturali e i suoi stili di vita basati sull’autoreferenzialità, la presenza di alunni con “bisogni speciali” che presentano disabilità e anche disturbi dell’apprendimento che molti insegnanti non sanno come gestire, la presenza significativa di tanti bambini figli di migranti che hanno profondamente modificati la struttura antropologica culturale delle nostre scuole, la presenza di fenomeni legati all’aggressività o alla depressione tra tanti adolescenti che sembrano come lasciati a se stessi, tutti questi fattori mettono gli insegnanti e gli educatori in grande difficoltà soprattutto quando non sanno trasformare queste criticità in una nuova “pedagogia per tempi di crisi”, per utilizzare una espressione del pedagogista francese Philippe Meirieu, cioè di una pedagogia in grado di rispondere alle sfide di una società invasa da nuovi linguaggi e anche alla ricerca di nuovi punti di riferimento per navigare e orientarsi in un’epoca di tempeste sociali, economiche, politiche e culturali. Condividiamo il punto di vista del pedagogista francese che afferma che l’innovazione pedagogica, anzi l’atto pedagogico, che sia in classe con l’insegnante o nel quartiere con l’educatore, nasce di fronte alla resistenza dell’alunno, dell’educando in un contesto di crisi e di apparente impossibilità di cambiamento. Parlare di una “pedagogia per tempi di crisi” vuol dire reinvestire passioni, intelligenze, motivazioni ideali, principi etici, ragione critica e competenze scientifiche nell’esperienza di relazione che coinvolge la figura del maestro e quella dell’educando senza temere il confronto con quest’ultimo. Una delle cose che caratterizza la situazione di tanti insegnanti ed educatori è proprio la paura del confronto, la paura della gestione educativa del conflitto, la paura dell’incerto.
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