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7. La parola e il gesto. Barbiana e il Mugello, una Scuola per l’Integrazione

di Luigi Goffredi, Presidente Fondazione Il Forteto onlus

Le parole e i gesti hanno funzione prevalentemente educativa in ogni dinamica che si sviluppi nella relazione.
Don Lorenzo Milani in questo senso è stato un mirabile precursore nel portare all’attenzione di tutti, prima ancora che nascesse la “società della comunicazione”, la forza della parola e del gesto che l’accompagna. Con grande capacità intellettuale, testimoniale, con spirito provocatorio e sofferenza, lo spiegò alla scuola del suo tempo.
La scuola che, pachidermica, distratta, rituale, obsoleta, non apprezzava i saperi soggettivi e i valori culturali diversi dai propri, anzi escludeva sistematicamente gli allievi non appartenenti alla classe sociale di riferimento, allora ancora definita borghesia. Era una dimensione dove l’allievo bisognoso di appartenere, di rappresentarsi e avere una dignità nel contesto della classe e sociale, veniva invece discriminato.
Operando con la Scuola di Barbiana, don Milani ha delineato con chiarezza la figura dell’educatore come un modo di essere, di porsi, universale, ancora attuale e forse senza tempo, come una persona disposta a vivere con l’allievo tempo, spazi, agi e disagi, costruendo una relazione in sintonia con i bisogni che quest’ultimo esprime. La sua proposta concreta profilava la figura dell’educatore con caratteristiche e funzioni che andavano anche al di là di quelle istruttive, didattiche e disciplinari. Autorevole e disposto a scontrarsi con chi non vuol crescere. Ai ragazzi di Barbiana e alla società, manifestava senza infingimenti la sua idea, il suo essere educatore, l’importanza di essere se stessi sempre, anche nelle proprie funzioni. Si mostrò un uomo con tutte le proprie contraddizioni, reazioni, arrabbiature, slanci, gratificazioni, contrasti paterni senza paternalismo, proiettato a sollecitare negli allievi dinamiche vitali, comprensibili alla ragione ma anche alle emozioni, ai sentimenti che, in una unità di intelletto e psiche, producono conoscenza e formazione equilibrata della personalità.
L’apprendimento, come ci confermano oggi le ricerche delle scienze umane e le scoperte delle neuroscienze, è infatti un processo di elaborazione sinergica tra dimensione razionale e dimensione emotiva. La scuola invece, spesso, pretende che bambini, ragazzi, abili o diversamente abili, felici o depressi portino in classe solo il cervello e lascino fuori corpo e anima.

  1. Il senso dell’iniziativa nelle scuole
    Si tratta di un percorso triennale basato sull’integrazione di idee pedagogiche, competenze professionali, metodologie, didattica e di figure educative, sviluppatosi attraverso laboratori teorico/pratici guidati da educatori esterni alla scuola, volontari e Università, in condivisione con gli insegnanti delle classi. I momenti operativi sono di educazione e animazione per far emergere dinamiche relazionali difficili nell’ambito del gruppo classe e per trovare soluzioni innovative nella collaborazione e nel confronto. Il supporto didattico è costituito da attività svolte con la metodologia dell’educazione cooperativa, sviluppando attività creative, drammatizzazione, simulazione, attività video-cinematografiche e momenti di riflessione personale.
    Macrobiettivi del progetto:
    1. azione di prevenzione al disagio scolastico;
    2. azione di contrasto al disagio quando è conclamato
    3. fornire gli strumenti per sviluppare capacità di relazione e per costituire gruppi classe integrati e collaborativi.

Obiettivi di percorso: 

  1. agevolare le dinamiche del gruppo classe attraverso i laboratori in aula, per la comprensione di sé e delle proprie emozioni, sentimenti e reazioni;
  2. formare educatori, insegnanti, volontari e studiosi universitari, a lavorare insieme attraverso le procedure della ricerca-azione;
  3. integrare le competenze emergenti dalle diverse professionalità (educatori del non formale, insegnanti curriculari, volontari, universitari);
  4. stabilire migliori e proficue relazioni tra scuola e famiglie.

Sono state coinvolte: 

  • nel primo anno 21 classi (14 classi di terza elementare, 4 classi di 1° media, 3 classi di 1° secondaria), con 530 allievi, 40 insegnanti e dirigenti scolastici, 20 volontari, 20 educatori del non formale, 6 consulenti universitari,  genitori;
  • nel secondo anno, 16 classi (9 classi di quarta elementare, 4 classi di 2° media, 3 classi di 2° secondaria), con 370 allievi, 26 insegnanti e dirigenti scolastici, 20 volontari, 18 educatori del non formale, 6 consulenti universitari, genitori;
  • nel terzo anno, 6 classi (2 classi di quinta elementare, 2 classi di 3° media, 2 classi di 2° secondaria), con 150 allievi, 15 insegnanti e dirigenti scolastici, 10 volontari, 8 educatori del non formale, 6 consulenti universitari, genitori;
  • per la verifica del metodo sono state coinvolte 16 classi nel periodo ottobre-dicembre 2008 con 6 laboratori di due ore per ogni classe.

La Fondazione ha portato nel progetto i risultati prodotti dall’esperienza trentennale di comunità vissuta dai soci della cooperativa Il Forteto che hanno condiviso, e tutt’ora condividono, vita, lavoro e un forte impegno di solidarietà attraverso l’accoglienza nei loro nuclei familiari di minori con situazioni di disagio e adulti motivati idealmente o problematici. L’impegno sociale e solidale assunto ha posto le famiglie della comunità davanti a persone con l’urgente bisogno di reintegrare affettivamente e cognitivamente le proprie esperienze per raggiungere l’equilibrio personale; le famiglie hanno perciò avuto necessità di acquisire competenze educative “speciali”.
Il chiarimento, una prassi consolidata nelle relazioni interpersonali a Il Forteto, è un processo che può e deve svilupparsi, soprattutto nei rapporti tra i pari. È fondato sulla ricerca della trasparenza di emozioni, reazioni, sentimenti, nella dinamica interpersonale e intrapsichica, che porta a un approfondimento della conoscenza dei propri meccanismi psicologico/affettivi, mentali, emotivi e alla possibilità di compararli con quelli degli altri nelle occasioni di confronto. Il chiarimento è l’idea sperimentata da Il Forteto nelle scuole, un modo di porsi dal quale emerge una consolidata scala di valori improntata alla reciprocità e alla solidarietà. Valori e idee di grande attualità per una società in forte “recessione”, non solo economica ma soprattutto culturale, che ha urgente necessità di superare l’ebbrezza dell’abbandono all’edonismo, all’effimero e all’ambigua, e per molti versi dannosa, filosofia del “benessere”, tutte ideologie che hanno imperato negli ultimi decenni lasciando chi vi ha aderito tra macerie esistenziali, illusioni, fuga dalla realtà e spesso con la strada sbarrata alle aspirazioni di futuro.

I risultati
Sebbene i dati qualitativi e quantitativi della ricerca siano ancora in via di definizione, i risultati del progetto appaiono superiori alle aspettative, soprattutto in relazione ai punti critici rilevati durante i primi due anni di lavoro. Si ritiene di poter affermare questo attraverso l’osservazione, le interviste a tutti i protagonisti del lavoro e le loro dichiarazioni emerse durante i momenti di riflessione.
Molto significativa, ad esempio, è stata una discussione e la manifestazione dei sentimenti dei bambini della 5° elementare di Dicomano (FI) quando hanno riflettuto sul dolore personale dell’esclusione. Lo hanno fatto spontaneamente, in seguito ad alcuni eventi conflittuali scoppiati nella classe. Poche parole scritte su un cartoncino anonimo: “Come si sentirebbero loro se non venissero presi mai?”. Invece che parole tracciate su un cartoncino apparivano parole incise sulla pietra. Aprirono una discussione pacata, molte lacrime, l’ascolto silenzioso delle parole dei compagni che quasi per magia erano importantissime. Il dolore sincero, un po’ di vergogna, tanta liberazione nel condividere quello che li rendeva più uguali. In primo piano c’era la prospettiva di appartenere, di stare bene insieme:
1° bambino: “A calcio ero uno degli ultimi e restavo sempre solo. Toccava sempre a me andare a chiedere che mi prendessero, però stavo male”.
2° bambino: “Beh io l’ho provato mille volte. Non so se tutti lo hanno realmente provato ma si sta male. Tante volte io vado a chiedere ma mi dicono sempre no. Mi ricercano solo quando devo fare delle bischerate e mi dicono sempre: rifalle rifalle”.
3° bambino: “A me mi escludono tante volte fuori dalla scuola. Sembra che altri bambini non mi vogliano proprio come amico e questo mi fa star male”.
1° bambina: “Quando siamo in palestra e si fa le squadre io vengo sempre scelta per ultima e questo mi fa sentire sempre più male, imbranata”.
 2° bambino: ”Sì è vero, infatti io tanto volte per non far vedere che mi scappa da piangere dico sempre: vuoi che ti picchio?”.
La bambina, da cui era nata la discussione, e che prima aveva pianto, non parlò ma rimase tutto il tempo abbracciata alla sua amica, “assorbendo” avidamente ciò che dicevano gli altri.
Queste sono alcune frasi di getto, un flusso di coscienza, racconti, complesse considerazioni e collegamenti dettagliati. Le parole dei bambini erano un fiume in piena, ricordavano e disegnavano la storia di quasi cinque anni insieme e le pietre miliari della loro breve ma intensa esistenza. Un incontro che ha rappresentato un momento di sintesi e un giro di boa della loro crescita, del loro conoscersi, l’occasione costruita per vedersi al di là della competizione e dei propri timori.
In ogni classe ci sono stati episodi frutto di una lenta maturazione, dell’avere personalmente compiute alcune scelte aderenti ai propri bisogni più veri, dell’avere acquisito nuovi e comprensibili parametri interpretativi della propria realtà intima e quella degli altri.
Dopo alcuni laboratori nelle classi del primo anno di un istituto professionale, nel corso di una discussione i ragazzi hanno detto: “Ora ho meno paura, mi sentivo goffo, con il naso troppo grande, le orecchie a sventola, stavo sempre con la paura di venir preso in giro. Fare le attività del laboratorio mi ha fatto capire che potevo parlare davanti agli altri, che posso scherzare, muovermi davanti a loro e nessuno ha mostrato di guardare i miei difetti. Quando abbiamo parlato dopo gli esercizi, dopo le recite, anche dagli altri veniva fuori la timidezza simile alla mia, era come se raccontassero le mie paure”.
Due ragazze, di un altro laboratorio, sono state un paio di settimane arrabbiate con i professori e il preside e non davano confidenza ai compagni, se ne stavano tutto il tempo dispettose in disparte; poi hanno abbandonato questo atteggiamento e una racconta: “Mi era presa la fissazione di andare in classe con la mia compagna delle medie, per una settimana sono andata tutti i giorni dal preside a chiedergli di cambiarmi sezione. Ora mi accorgo che avevo paura a tentare di fare amicizie nuove. Gliel’ho detto anche alla mia ex compagna. È stata contenta, ma di più io. Non me ne rendevo conto ma avevo paura di non farcela. A fare i giochi e a parlare davanti a tutti nei laboratori, mi è costato molto, ero incazzata, ma se saltavo un esercizio ero gelosa. È andata bene. Ci sto bene qui. La mia compagna mi ha suggerito di ballare davanti a tutti perché sa che mi piace molto. L’ho fatto e ho avuto una montagna di applausi anche dai prof.”.
In molte classi, oltre a questi temi, si è discusso anche dell’immigrazione e della disabilità con toni problematici, seri, empatici, anche se le prime volte che venivano affrontati questi temi gli educatori ascoltavano, invece, un prevalere di battute arroganti, di disprezzo gratuito.
In un’altra classe, 3° professionale, esclusivamente maschile, i primi incontri sono stati difficili, l’atteggiamento della classe era di dura opposizione al progetto a cui avevano partecipato anche gli anni precedenti: criticavano il metodo, le cose proposte, l’insegnante di classe e soprattutto non volevano essere filmati con la cinepresa. La composizione della classe era molto variegata, frutto di successive ricomposizioni all’inizio di ogni anno: ragazzi sedicenni insieme a diciottenni e ventenni, un’alta percentuale di immigrati, una coesistenza di mondi molto diversi per età, maturazione personale, esperienze, cultura. I problemi erano costituiti dalle divisioni in gruppi della classe, la lotta sottile per il potere, tentativi di sopraffazione e qualche discriminazione. Il gruppo di lavoro, insegnante, educatori, volontari e ricercatrice universitaria, affrontarono direttamente le questioni proposte, fortemente pretestuose, con una determinazione proporzionale alla provocazione. Nacque una discussione accesa. Il programma dei laboratori prevedeva lo studio della comunicazione negli aspetti psicologici, informativi, attraverso le immagini, temi e concetti che gli educatori inserirono subito nella discussione che, sebbene effervescente, assunse connotati di rispetto e di serietà. Sembravano due ore intense spese per un nulla di fatto.
Nel laboratorio successivo i ragazzi mantennero un atteggiamento di sfida ma c’era minor tensione. Il terzo laboratorio fu molto deludente, c’erano molti assenti, i più giovani, presenti, erano demotivati e spiegarono che molto probabilmente gli altri non avrebbero più partecipato. Il quarto laboratorio era semideserto, era nevicato e i mezzi di trasporto erano rimasti bloccati: sei i presenti, anche in questo caso i più giovani con i quali si era creato un buon affiatamento. Il laboratorio proseguì, si poté parlare di tutto, delle ragazze, degli spinelli, dell’uso della cinepresa, furono fatte alcune prove di regia, poi il discorso tornò sulla classe.
Dopo un breve battibecco con l’insegnante i ragazzi hanno delineato alcune delle ragioni di disagio e, chiedendo di mantenere il segreto, hanno parlato dei compagni più grandi. Si sentivano sostenuti. Si sono sfogati. Mentre parlavano, studiavano strategie: “Deve cambiare! Così non ci trattano più!”. Non erano piani di vendetta, pretendevano giustizia. Al di là dell’ingiustizia percepita misuravano bene i fatti e chi avevano di fronte, mentre coglievano le insicurezze dei grandi nelle bravate. Volevano la possibilità di confrontarsi da pari, con le proprie risorse. Infatti, agli educatori che proponevano una mediazione “organizzata”, hanno risposto che ora si sentono di potercela fare da soli: “Basta dirgli la verità, basta avere il coraggio di dire quello che si pensa! Che possono fare? Da soli sono degli sfigati”. Il responsabile del progetto, nei giorni successivi parlò alla classe spiegando le aspettative che il gruppo di lavoro nutriva nei loro confronti, sottolineò che il progetto aveva bisogno del loro contributo, fu una discussione importante, tra adulti, durante la quale si chiarirono e condivisero di nuovo gli obiettivi. I laboratori successivi, a parte due defezioni, funzionarono molto bene, si respirava un clima diverso. È stato prodotto un cortometraggio contenente l’intervista dei ragazzi; attraverso il corto la classe ha espresso grande creatività e intelligenza e soprattutto responsabilità e voglia di autonomia. Avevano infatti progettato una sceneggiatura e come girare, appoggiandosi agli educatori solo per la realizzazione finale, per i suggerimenti tecnici della regia, per i tempi, per la fotografia, mantenendo così un forte protagonismo e autonomia che erano riusciti a coinvolgere tutti i ragazzi. Si era rotta una contrapposizione dura, ed era nato un senso di gruppo che aveva dato molto entusiasmo e la forza di confrontarsi.
Pochi esempi, semplici, apparentemente banali ma densi di significati che danno la misura dell’efficacia di un modello diverso che tiene conto della totalità della persona e del bisogno di partecipazione che accomuna bambini, giovani e adulti in ugual misura.
Gli effetti della partecipazione e del chiarimento hanno funzionato altrettanto bene anche agli altri livelli: gruppi di lavoro interprofessionali e rapporto scuola famiglia. Auspichiamo, comunque che questo modello pedagogico e operativo possa ripetersi per formare gli insegnanti, arricchire il modello didattico corrente e che possa fare da barriera di prevenzione ai molteplici disagi che esplodono nelle scuole.



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