5. Sapere dove si vuole andare! Un’esperienza alla Scuola dell’Infanzia
- Autore: Roberto Parmeggiani
- Anno e numero: 2009/1 (monografia su educazione, animazione e creatività)
di Roberto Parmeggiani, educatore e formatore del Progetto Calamaio
“L’educatore… che mestiere stupendo… anche se faticoso: dico stupendo perché chi lavora in questo campo si trova collocato in uno spazio fuori dal tempo. Per esempio, chi come me lavora nella scuola dell’infanzia (dai 3 ai 6 anni), passa tre anni con i bambini e le loro famiglie per poi salutarli e riprendere il rapporto con altri bambini della stessa età e quindi lasciarli nuovamente a 6 anni. È come essere dentro a uno spazio dove il tempo si è fermato a quella età. Come educatore hai la possibilità, il valore di vedere come si modifica il contesto sociale, la famiglia, le relazioni: la scuola vive immediatamente l’influenza della società e dei suoi cambiamenti e l’insegnante, se vuole, ha la possibilità di aggiornarsi e di approfondire ciò che accade attorno, provando ad agire per realizzare una buona educazione… Stupendo ma faticoso soprattutto quando tutto attorno a te ti spinge a lasciare!”.
Con queste parole inizia l’intervista a Rina, insegnante alla Scuola dell’Infanzia Don Milani del Quartiere Reno di Bologna. Parole provenienti dalla lunga esperienza di Rina e uscite di getto, come un fiume in piena, appena le ho chiesto cosa pensava del mestiere educativo. Parole sincere, cariche di orgoglio ma anche di consapevolezza: quella derivante dalla consapevolezza maturata dopo tanti anni di lavoro e da tante lotte per costruire un sistema di insegnamento che risponda in modo realistico alle necessità della società.
La Scuola Don Milani e le insegnanti che lì lavorano sono un bell’esempio di scuola che tenta (con ottimi risultati, aggiungo io) di realizzare nel quotidiano un’idea di scuola che riesca nel connubio tra funzionalità, partecipazione, creatività e accoglienza dell’imprevisto.
Una scuola che, a partire dalla struttura fisica per arrivare a quella umana, fa dei limiti un trampolino di lancio scegliendo di farsi mettere in discussione dalla realtà che la circonda e dai bambini che accoglie. Una scuola, quindi, che non rimane solo idea ma che diventa realtà.
A sostegno di questo Rina mi dice che “gli obiettivi didattici e educativi vengono definiti a partire dalla realtà che incontriamo: i bambini, le famiglie, il gruppo educativo con cui mi rapporto. A ogni modo ritengo che mettere al primo posto i bisogni dei bambini e lo stare bene a scuola predisponga al lavoro di gruppo e stimoli il desiderio della curiosità e della conoscenza. È da qui che nasce l’esigenza di una buona accoglienza, non solo il primo giorno ma ogni mattina, di una osservazione mirata a capire i bisogni del singolo e a renderli agiti per favorire le sue conoscenze, la cura agli atteggiamenti, ai gesti e alle parole dette per diventare un gruppo che sappia convivere e condividere”. Quando Rina parla di gruppo si riferisce alle colleghe e ai bambini, passando l’idea che la scuola non la fanno le maestre e basta, bensì è un percorso comune fatto di scelte e di condivisione, quella vera però. Un impegno quotidiano alla stregua del tagliare la carne o pulire un sedere.
Rispetto al gruppo inoltre, Rina sottolinea un altro aspetto importante, il fatto di “poter cogliere anche ciò che la quotidianità e il coinvolgimento emotivo può farti sfuggire. Più teste infatti riflettono meglio e ognuno con le proprie specificità arricchisce il gruppo e la sua progettazione”.
Ecco un’altra parola chiave: la progettazione, che insieme alla valutazione, sono i due perni attorno ai quali si struttura tutta l’attività didattica. La prima è settimanale, in modo da consentire riflessioni e scelte efficaci che rispondano alle istanze che la vita scolastica ti sottopone; la seconda invece viene realizzata a metà anno attraverso una osservazione sul campo e a fine anno attraverso un’analisi dentro al gruppo operatori coinvolti. Inoltre un’altra verifica è quella con i genitori, sia a metà che a fine anno.
A proposito di genitori, le chiedo quali ritiene strumenti validi per costruire un’educazione in cui tutti siano attori. Rina si illumina: “La partecipazione, parola troppo abusata, ma mai usata pienamente. Credo che condividere idee e obiettivi rispetto al significato dell’educare, affrontando il tutto con chiarezza, senza pensare ai giudizi e impegnandosi per trovare anche un solo elemento condiviso, sia il punto da cui partire, consapevoli ognuno del proprio ruolo e della propria responsabilità”. In effetti, il ruolo dei genitori, alle Don Milani, è molto importante. Un esempio su tutti: alla festa di fine anno sono invitati a sperimentare i giochi che i lori figli hanno giocato durante l’anno, avendo la possibilità di condividere e valutare, in questo modo, non solo le idee e gli obiettivi didattici, ma anche le modalità di realizzazione. Bella prova di coraggio di queste maestre che non hanno paura di aprire la scuola… perché in fondo non è di loro proprietà anzi, nel caso specifico, di tutto il quartiere che ne usufruisce.
I limiti come risorsa
Certo che tutto questo è molto interessante e anche molto positivo, poi però ci si scontra con le pratiche quotidiane, le attività, la monotonia, il giorno dopo giorno, la noia, le discussioni…
Insomma, per quanto ci si possa impegnare, sarà necessario fare i conti con i limiti propri di ogni scelta e di ogni persona. È necessario allora che scopriamo un altro tassello di questo puzzle.
I limiti vengono visti, da Rina e dalle sue colleghe, come risorsa e non come impedimento. A partire da quelli fisici/strutturali per arrivare a quelli umani.
La scuola infatti è costituita su tre piani, ci sono grandi scalinate che portano a spazi rialzati con balaustre che danno sul piano inferiore. Non certo quello che potremmo definire edilizia scolastica da manuale, attenta ai bisogni dei bambini. Rina e le sue colleghe, però, hanno scelto di vedere tutto ciò come un’opportunità soprattutto per realizzare quella che viene definita “destrutturazione degli spazi”. Hanno colto la possibilità di muoversi, di spostarsi, di modificare l’uso e il modo di stare in un determinato luogo. Una gradinata diventa allora un teatro, mentre una stanza sottoterra diventa un’esperienza, un viaggio fantastico tra lenzuoli bianchi, neri o colorati. Anche il giardino, oltre che spazio di gioco libero e svago, offre la possibilità di realizzare avventure, costruire percorsi tra tessuti o materiale riciclabile.
Insomma limiti che attraverso la fantasia, vengono superati in modo creativo e divertente permettendo al bambino di mettere in gioco le proprie abilità.
Lo stesso poi succede con i limiti delle insegnanti e degli operatori, non negati ma accolti e valorizzati secondo due modalità.
La prima, di cui abbiamo già parlato, è il gruppo che diventa vitale in quanto luogo di accoglienza, di confronto e di crescita.
La seconda è la formazione per la quale Rina si auspica “più aderenza ai contesti di cambiamento perché sembra che siamo sempre un passo indietro rispetto a quello che succede a livello sociale. Non per adeguarci ma per attrezzarci”.
Le parole di Rina suonano davvero molto sincere, proprio perché, come dicevo all’inizio, hanno origine dall’esperienza e anche dal grande amore che lei nutre verso la scuola, i bambini e il mestiere educativo.
Le chiedo infine, cosa pensa dell’affermazione “l’educazione è un posto dove ci piove dentro”.
“Dentro l’educazione ci piove di tutto perché è un momento di relazione tra bambino e educatore (genitore, insegnante, animatore…) relazione che, in quanto tale, è aperta ai condizionamenti del contesto sociale con tutte le variabili di cambiamento che si porta dietro. Che poi l’educazione debba subire tale condizionamento è un altro discorso… Deve sapersi relazionare con il cambiamento e soprattutto deve sapere dove vuole andare”.
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