Skip to main content

2. Formazione: una cura sociale. Pensieri e modi di intendere l’apprendimento

di Antonio Zanardo, educatore, formatore e consulente

La comunicazione in quest’epoca pare essere diventata una linfa vitale senza la quale si va incontro a una morte certa. Vi è una sorta di intolleranza al silenzio che accompagna la solitudine di coloro che non possono mostrarsi o distinguersi nella miriade di messaggi che quotidianamente ci bombardano. Alcuni sono palesemente casi si disagio, ma questo è a dire il vero già un modo per essere visti, altri sono semplicemente restii per varie ragioni a esporsi, a lanciarsi, a far valere ragioni e pensieri. Non è una qualsivoglia manifestazione patologica; esistono semplicemente persone con un tono di voce più basso che, per quanto si sforzino, non riescono ad attirare l’attenzione su di sé o, più semplicemente, non lo vogliono fare.
Tuttavia la comunicazione, ossia la capacità di rimanere a contatto con gli altri abitanti del mondo, di scambiare con loro informazioni o di affermare la propria identità, è solo la prima essenziale caratteristica di un individuo a cui di norma segue una costruzione graduale di competenze specifiche, utili per il proprio lavoro e per la propria vita. È insindacabile, infatti, che il mondo del lavoro non è, come spesso si dice o si vorrebbe che fosse, un ambito del tutto scollato dalla propria vita privata. Le conoscenze e le competenze si intersecano, le emozioni travasano da un ambito all’altro e, soprattutto, i propri nodi conflittuali li attraversano inevitabilmente entrambi. Pensare alla formazione come un qualcosa che riguarda un solo e unico “territorio” della persona diviene quindi profondamente riduttivo, oltre a rappresentare un punto di vista che rischia di considerare l’apprendimento come un processo parziale o, peggio ancora, che riguardi unicamente il livello cognitivo, confondendo la formazione con altre pratiche come ad esempio “l’informazione” o “l’istruzione”. Non che queste siano necessariamente secondarie, tuttavia è bene stabilire le giuste distanze tra dei singoli frammenti e un processo che invece riguarda la persona nel suo insieme. Questa confusione non è in verità del tutto nuova e molta della “formazione formale” all’interno delle organizzazioni pubbliche si è svolta secondo il principio, o perlomeno ritenuto tale, dell’apprendimento indolore. Una specie di laser che opera in assenza di anestesia e che produce cambiamenti parziali, cancellando qua e là le piccole rughe del ruolo e procedendo a un lifting funzionale. Tuttavia, come ben sappiamo, questo genere di interventi si collocano in un tempo del tutto relativo e necessitano di costanti e continue correzioni per mantenere la loro efficienza. Si tratta, in sostanza, di modificazioni temporanee che si innestano su degli schemi motivazionali deboli e che, quando va bene, funzionano grazie al fascino che il docente è in grado di esercitare per far presa sull’attenzione del suo pubblico. La scuola, ad esempio, è stata per anni il prototipo dell’aggiornamento soggettivo.

Formazione come strumento di raccordo
Il problema è quindi sostanzialmente di “cosa” la formazione si deve occupare e di “come” lo deve fare, piuttosto che ritenerla un ambito passivo in cui ascoltare le più recenti teorie o le migliori soluzioni alle questioni socio-organizzative. Si tratta di considerarla come uno strumento di raccordo tra uno stato di fatto, il cambiamento, e la nuova forma che il ruolo assumerà una volta interiorizzate le modificazioni ritenute necessarie. Questo processing pone l’accento sulla trasformazione, non sulla somma dei saperi e non sul reset di quest’ultimi per far spazio al nuovo. È un’angolazione molto particolare e profondamente legata all’andragogia, scienza considerata in modo dignitoso solamente nell’ultimo decennio.  Si parte dal presupposto che vi sia una “struttura di base”, con differenti tonalità evolutive, costituita da saperi, da competenze e da esperienze rispetto alle quali posizionarsi per offrire una certa gamma di stimoli. Esiste una sorta di leva primordiale nell’affrontare uno dei tanti temi che la formazione propone, che consiste nel socratico atteggiamento del fare domande appropriate e orientate all’insinuazione del “dubbio”. Lo schema motivazionale dell’individuo ha il pregio di garantire risposte comportamentali stabili nel tempo e strutturalmente organizzate secondo quanto queste sono percepite come vantaggiose in termini di soddisfazione dei propri bisogni. Tuttavia sono proprio questi stessi schemi a rappresentare l’ostacolo più importante alla trasformazione, in quanto questa si colloca in un terreno sconosciuto e quasi sempre privo delle certezze che lo stato precedente è in grado di assicurare. Ed è proprio il “dubbio” che va a mettere in discussione il sistema motivazionale, aprendo la porta alla novità e alla possibilità di intraprendere nuovi percorsi di ricerca personale. L’ottica evolutiva è intrisa di opportunità, di scelte, di correnti emozionali e di relazioni in cui riconoscersi o differenziarsi, da cui apprendere attraverso incontri o scontri, da cui prendere distanza per osservare e riflettere. Come possiamo dedurre, la prospettiva della formazione si presenta in modo profondo e denso di significati a cui occorre attribuire un valore univoco ed essenziale. Più che dubbi vi sono certezze circa quanto l’esperienza del docente non possa essere limitata a quanto appreso nel proprio percorso di laurea, ma necessiti di una codifica importante che permetta di allacciarsi a competenze ben più allargate della singola cerchia del sapere. Ai classici “saper fare” e “saper essere” aggiungerei non solo un inevitabile “saper divenire”, ma anche un indispensabile “saper stare”, all’interno del quale manifestare la capacità di occuparsi degli altri, dei loro ruoli, delle loro emozioni, del loro modo di affrontare la vita professionale.
Questa “virtù” si contrappone in un certo qual modo alla visione classica del marketing della formazione, dove le leggi della vendita e della fidelizzazione sconfinano spesso in una dipendenza inconsapevole, almeno da parte del cliente, che finisce per manifestare la propria autonomia di scelta cambiando fornitore. Ciò che in realtà accade è che il bisogno del cliente e il bisogno del fornitore si sovrappongono entrando in conflitto tra loro; il bisogno di autonomia, che tanto viene promosso attraverso un’azione formativa strutturata, si scontra con l’elementare struttura organizzativa del fornitore, il quale si trova nell’imbarazzante condizione che, per rispondere in modo adeguato a questa incombente necessità, finirà per trovarsi tagliato fuori dal suo stesso business. 

Ruoli e identità
Il tema del ruolo, come elemento puramente pragmatico e circoscritto a un campo di azione relativo a uno scopo, distingue in modo sommario le molteplici sfaccettature della persona nel suo agire. Il ruolo è una “forma operativa”, ovvero la manifestazione visibile del modo in cui un soggetto entra in relazione con un altro. Non quindi una struttura elementare ancorata a uno stereotipo sociale, o a un organigramma formale, ma una catena di elementi complessi che interagiscono tra loro e che producono significato nelle interazioni. Su di esso sono riversate aspettative, pressioni e attribuzioni di vario genere; è la modalità attraverso la quale vengono definite, oltre agli scopi, le identità dei soggetti in gioco. Per questo motivo se ne parla in termini di sviluppo e di evoluzione, sino ad affermare che la realizzazione dell’uomo è profondamente legata alla capacità di assumere ruoli nuovi, sconosciuti o inibiti da arcaiche paure. È in questa chiave, ad esempio, che interviene l’approccio psico-sociodrammatico. Questo, come descritto ampiamente nel mio libro Action Methods nella Formazione-Approcci e strumenti per la conduzione di piccoli e grandi gruppi (Bologna, Pardes Edizioni, 2007), considera l’individuo come un insieme di ruoli modificabili e attraverso i quali organizzare le proprie strutture di apprendimento. La valorizzazione della persona, e del gruppo come agente di cambiamento, viene affermata nel riconoscimento delle risorse personali fruibili e nella scoperta di nuove opportunità. Il metodo psicodrammatico utilizza la “scena”, nel senso teatrale del termine, come ambito di esplorazione del proprio mondo interno. È chiaro che, trattandosi di interventi di formazione, tutto ciò rimane primariamente circoscritto a quell’area relativa ai ruoli professionali. Tuttavia, come accennato in precedenza, il mondo privato non ne può rimanere totalmente estraneo, manifestandosi chiaramente come uno sfondo o una cornice della stessa rappresentazione.
È rispetto a questo panorama che si sviluppano i termini del cambiamento, nonché nella concreta possibilità di sperimentare attivamente i suoi effetti per poterli tradurre in esperienza interiore. Tutto questo genere di modificazioni hanno a che fare con le strutture mentali, motivazionali, emotive, comportamentali, ecc., che possono trovare risposte più armoniche e concilianti. L’obiettivo, o per meglio dire il punto nevralgico, si traduce nella ricerca di equilibrio tra le necessità interne, in termini di realizzazione e bisogni personali, e quelle organizzative, in quelli di mission, di business o di gestione. È infatti su tale rapporto che si basa l’articolazione delle relazioni tra la direzione e i collaboratori.
Potremmo pertanto azzardare alcune importanti conclusioni su cosa si intenda esattamente per formazione e cosa occorra per renderla efficace. Se l’importanza di un catalogo strutturato, o comunque di un ventaglio di opportunità formative da offrire, rappresentano sostanzialmente una buona chance per orientare il proprio cliente nel mondo della formazione, è il vero e proprio lavoro di contesto che caratterizza l’identità dell’azione. Sia nella quantità che nella qualità, il vero problema che si pone non riguarda semplicemente il “fare”, quanto il “cosa serve”. Spesso si sottolinea il proprio stile di lavoro come un qualcosa di insindacabile e imprescindibile dall’intervento, senza però porsi il problema di quanto gli strumenti a propria disposizione siano effettivamente spendibili per quella specifica popolazione. Occorre pertanto avere la capacità di selezionarne alcuni, rinunciare ad altri, acquisirne o crearne di nuovi. E’ una forma di flessibilità assolutamente necessaria, almeno quanto le stesse conoscenze dei temi che si propongono. L’abilità di chi si occupa di formazione consiste proprio nel saper collocare in modo opportuno la novità all’interno di una rete di relazioni esistente senza che non solo essa non rappresenti un ostacolo, ma venga del tutto assimilata e interiorizzata in modo funzionale. La comprensione dell’ambiente e delle persone che vi abitano è quindi un atto di formale avvicinamento, per ridurre quelle distanze che potrebbero condizionarne la visione o l’interpretazione. In pratica è lo stesso ambito della formazione a dover essere in un costante e virtuoso movimento, proprio a rappresentare in tal modo una spirale adattiva con la quale confrontarsi e dalla quale attingere l’energia necessaria al cambiamento. 



Categorie:

naviga: