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6. Siamo tutti nella stessa barca. Intervento in situazione di conflitto: una proposta di procedura 

di Maurizio Stuppiggia, psicoterapeuta, direttore della Scuola di specializzazione in psicoterapia biosistemica di Bologna

Il gruppo è causa del nostro malessere e al tempo stesso la possibilità della cura. Questo è l’assunto di base da cui voglio partire per descrivere la metodologia di intervento che adotto costantemente nei contesti scolastici quando devo operare nelle situazioni di crisi.
La sensazione che infatti provo ogni volta che vengo chiamato in una scuola, è quella di giungere a un capezzale di qualche moribondo (l’alunno), con tutti i sani (insegnanti e operatori) che lo stanno a guardare dall’alto, e quando me ne vado ho invece l’immagine di una barca a vela alle prese con un vento troppo forte o con un equipaggio squinternato: se la barca affonda nessuno resta asciutto.   Il tentativo iniziale dei partecipanti al gioco del moribondo è infatti quello di sbilanciare pesantemente il peso delle colpe-responsabilità, caricando completamente qualcuno e scaricando contemporaneamente tutti gli altri; questo si fa, di solito, pensando che valga l’equivalenza responsabilità = sofferenza, ma poi ci si accorge che questa è solo un’illusione e che addirittura chi si chiama fuori dalla mischia subisce alla fine dei grossi sensi di impotenza.
Di solito infatti gli insegnanti che avvertono l’esigenza di “fare qualcosa” sono al limite di una condizione di passività ed estraneazione mentale ed emotiva dalla questione problematica che li riguarda. Si tratta appunto di far capire loro che “siamo tutti nella stessa barca”.
Questo è il primo passo. La prima consapevolezza utile è cioè quella di essere tutti insieme partecipi della stessa avventura, pur con compiti differenti, e tutti ugualmente responsabili di ciò che accade.
La responsabilizzazione che esigono queste situazioni non è qualcosa di formale e burocratico, ma una doppia presa in carico di sé rispetto agli eventi: un coinvolgimento esterno, fatto di azioni e di relazioni concrete, e un coinvolgimento interno, dato dall’ascolto dei propri vissuti emozionali, sia positivi che negativi.
Questo è un punto molto importante perché il suo esito condizionerà tutto l’intervento che ne segue.   Due sono le ragioni di ciò:
1) solo se mi assumo la responsabilità degli accadimenti esterni sarò in grado di padroneggiarne la crescente complessità;
2) solo se mi assumo la responsabilità degli accadimenti interni sarò nella condizione di avere un atteggiamento empatico nei confronti degli altri partecipanti al problema.

Il secondo criterio è facile da soddisfare, perché è sufficiente chiedere all’insegnante: “Come si sente in questa situazione?”; la risposta, se non è data in maniera troppo intellettualizzata, rende immediatamente consapevoli di un generico disagio o addirittura di un malessere emotivo che inizialmente confondono e stizziscono l’insegnante stesso, ma che poi finiscono col farlo sentire più vicino all’alunno problematico.
Per il primo criterio le cose sono invece più difficili: non è facile far accettare a un insegnante il fatto che il problema non è solo affare personale dell’Altro ma è frutto sempre di una relazione e mette quindi in gioco almeno due persone o due gruppi. La cosa più importante è porre il coinvolgimento dell’educatore sotto una luce positiva e non dentro il territorio della colpa.
Non dire mai: “Se le cose stanno così, da qualche parte c’entri anche tu!”, e nemmeno “Si è sempre in due a litigare”; queste comunicazioni creano un’immediata barriera difensiva da parte dell’altro, e le risposte che si otterranno saranno del tipo: “Cosa credono di venirci a insegnare?”, oppure “È facile venir qui a predicare, poi chi rimane siamo noi!”.
Sono invece più indicate comunicazioni del tipo: “Abbiamo bisogno dell’aiuto di tutti”, oppure “Solo chi vive quotidianamente il problema sa quanto è urgente intervenire e quanto è importante l’apporto di ognuno di noi”.

Il conflitto come risorsa
La prima mossa è perciò il coinvolgimento dell’operatore nei suoi tre aspetti: cognitivo (“capisco che c’entro anch’io”), comportamentale (“devo darmi da fare”) ed emozionale (“siamo tutti a disagio”).
Il secondo passo è, a questo punto, un corollario del primo assunto e ci dice che ogni problema individuale è il risultato di una sconfitta relazionale in una generica situazione di conflitto. Ciò implica dover guardare a ogni comportamento individuale patologico come a un effetto di precedenti e/o attuali relazioni vissute come schiaccianti e perdenti, e in cui uno solo dei poli rimane scottato, “incandescente” e quindi visibile. Di nuovo quindi procediamo con un allargamento dell’ottica e dell’area di intervento per poter operare in un contesto-non-solo-individuale, che è secondo me il “terreno” di base da cui si sviluppa il sintomo patologico.
“Scovare il conflitto” può così essere il motto di questo secondo momento della prassi di intervento; ciò non vuol dire “creare” dei contrasti artificiali come elementi di deviazione dell’attenzione per una ristrutturazione strategica del problema (questa potrebbe essere l’ottica “sistemico-strategica” che io ritengo valida solo nei casi semplici), ma tendere più possibile l’orecchio a quelle relazioni significative, sia attuali che del passato, che creano un’eco nel comportamento e che possano essere la cornice di senso del disturbo: trovare la domanda a cui, ciò che ora vediamo, è la risposta.
Anche in un ragazzo che se ne sta in disparte tutto il giorno ed evita la discussione e lo scontro a tutti i costi non è difficile individuare la cornice relazionale della sua “atarassia”: chissà quante volte ha partecipato in passato a situazioni in cui veniva zittito, deriso o trattato con noncuranza e chissà quante altre volte nella classe gli sarà parso di vivere le stesse cose!
Di nuovo vediamo come l’idea dell’assunzione di responsabilità sia fondamentale in questo schema di procedura.
Vi è una ragione fondamentale per favorire l’esplicitazione di situazioni di contrasto e di conflitto: è un metodo per ristabilire il legame sociale che spesso viene perduto nell’etichettamento di un comportamento antisociale, sia esso individuale o di un’intera classe. La cosa che più colpisce il tecnico chiamato a un intervento psicopedagogico è infatti l’evidente solitudine e isolamento in cui versa il soggetto da “curare”: per quante persone abbia al suo capezzale è da solo nel suo letto.  Non è poi diversa la situazione di un’intera classe, che certo non soffre l’isolamento al proprio interno, ma che vive ghettizzata all’interno della scuola.
L’obiezione più rilevante a queste argomentazioni è che, alimentando o esplicitando conflitti e disaccordi, si può peggiorare notevolmente la situazione; nella risposta a questa obiezione sta il fulcro di questa procedura, che in fondo si caratterizza come metodo per la composizione dei conflitti.
Prendere il conflitto unicamente nella sua dimensione di malattia relazionale e sociale è infatti riduttivo, perché se ne perde la rilevanza energetica e strutturale e non se ne mette in evidenza la caratteristica di tentativo di autoguarigione da parte dell’organismo sociale in esso impegnato.
La sua rilevanza energetica sta nella capacità di mobilitare una grossa quantità di energie che dimostrano lo stato di potenziale salute (al pari di un’alta febbre che solo un individuo forte può sviluppare); questa energia può poi essere convertita in altre forme più vicine alla cooperazione.
L’importanza strutturale sta nel fatto che, finché c’è un conflitto, c’è anche un legame sociale, e questo è certamente meglio di tutto ciò che è prodotto dall’isolamento e l’indifferenza.
Anche il tentativo di autoguarigione tramite conflitto si inserisce in quest’ottica: esso contrasta l’attuale tendenza sociale all’esasperazione individualistica che arriva ai limiti della competizione narcisistica più sfrenata; il conflitto non è quindi un sintomo da eliminare, ma un’interfaccia che da una parte delimita il territorio dello scontro distruttivo, e dall’altra il terreno della possibilità dell’incontro.

Una situazione concreta: il primo passo
Quando entro in una classe e qualche ragazzo mi comunica con una certa ansia l’esistenza di un litigio o di una discordia cronica, io mostro ovvia preoccupazione di fronte al problema, ma anticipo subito l’idea per cui l’indagine del contrasto può portarci a scoperte interessanti, istruttive e anche piacevoli. Cerco cioè di creare un’atmosfera ludica intorno alla cosa, stimolando tutti a partecipare come se fosse un gioco di società.
Vorrei qui di seguito elencare i passi salienti di una procedura pratica, che io applico nei casi di conflitto o di comportamenti genericamente antisociali: l’esempio concreto che si affiancherà di volta in volta alla descrizione dello schema d’intervento riguarda una classe prima superiore (Istituto professionale) femminile che versava in uno stato di grave malessere a causa dei ripetuti e diffusi contrasti tra molte delle ragazze. Per brevità non si accennerà qui alla complessità del caso, ma solo si prenderà come esempio significativo lo svolgersi del lavoro in un frangente particolare.
Entriamo perciò nell’ambito specifico della procedura di composizione dei conflitti: che cosa fare concretamente, passo dopo passo?
Primo gradino: “trovare l’accordo sul reciproco disaccordo”; fare in modo, cioè, che ambedue le parti siano d’accordo su ciò che costituisce l’oggetto del disaccordo.
È la prima cosa da fare per riattivare canali comunicativi altrimenti bloccati ed è inoltre un piccolo stratagemma per cominciare l’apprendimento della cooperazione: i due litiganti si troveranno infatti d’accordo almeno su qualcosa, senza accorgersene, e senza rinnegare nessuno dei loro cavalli di battaglia.
Solitamente, una volta innescato il conflitto i partecipanti si scordano il punto di partenza e si imbarcano in un’escalation che crea sempre più attrito e aumenta la percezione delle reciproche differenze (di carattere, di gusti, di comportamento, ecc.) creando gradualmente un baratro emotivo; i codici interpretativi della realtà divergono sempre più, fino a rendere impossibile qualsiasi gesto riconciliante. “Quando entro in classe e la vedo fare le sue solite moine, mi viene da girarmi dall’altra parte per non vederla, perché anche un suo colpo di tosse mi dà fastidio”: questa frase, detta da una delle ragazze della classe in questione, è tipica del punto di non ritorno a cui un conflitto può arrivare.
Urge quindi non cercare inizialmente la soluzione del conflitto (l’operatore verrebbe inesorabilmente risucchiato nei gorghi delle accuse e delle lamentele), ma solo la legittimità dei contendenti e del contenuto del contendere.
Vi sono sempre alcune difficoltà in questo primo passo; il caso trattato ne mostra una tipica: lo scoglio rappresentato dall’uso di parole come “presuntuosa”, “aria di superiorità”, “invadente” e “rompiscatole”, che invece di chiarire le cose le complicano, perché sono parole pre-interpretate e pregne di giudizio morale.
L’intervento immediato che ha fatto evolvere il processo è dato da domande del tipo: “Che cosa intendi per ‘presuntuosa’ o ‘invadente’? Puoi spiegarlo concretamente con esempi che tutti possano capire e discutere?”.
All’inizio queste richieste da parte dell’operatore stupiscono gli interessati, perché non sono abituati a ricevere interesse per le loro parole negative, ma solo rimprovero; al tempo stesso sono in difficoltà perché non pensano che tali parole possano essere scomposte, analizzate e che si possa separare la componente emozionale dalla descrizione puramente fisicalista degli eventi. Anche per le ragazze del caso in questione la “presunzione” o “l’invadenza” erano impressioni basiche e oggettive: rimasero molto stupite, per esempio, quando la discussione evidenziò il fatto che la causa dell’irritazione di una delle due ragazze era data da alcuni ripetuti gesti e posture della sua compagna, gesti che in sé non contenevano immediatamente l’evidenza delle intenzioni sotto accusa, ma erano passibili di più di una interpretazione.
L’importanza del primo stadio della procedura non è però la messa in evidenza della polisemia interpretativa, ma, al contrario, la fissazione degli elementi conflittuali su cui tutti possono concordare.
Questo fa sì che essi sperimentino un senso momentaneo di parziale accordo che li tranquillizza: “È vero, è proprio questo che ci divide, discutiamo di questo e non di tutte le altre cose che tiri sempre fuori!”, disse la ragazza che era accusata di “darsi sempre troppe arie”.
È un po’ come trasformare una zuffa in un duello con regole e testimoni.

Secondo passo: cosa c’è in ballo?
Il secondo gradino è: “svelare le proiezioni”, scoprire, cioè, qual è il tema, in ballo tra le parti, che è diventato oggetto di proiezione da una parte e di negazione dall’altra.
Il caso a cui accenniamo qui è chiarificatore di questo passaggio: dopo del tempo impiegato ad analizzare le continue accuse di “darsi troppe arie” (e tutta un’altra serie di tematiche che qui per brevità tralasciamo), l’accusatrice, che non sopportava che “l’altra si comportasse come se fosse una top model”, ammise che avrebbe voluto essere bella, che avrebbe desiderato essere notata da tutti, ma che non osava imbellettarsi o assumere atteggiamenti seduttivi perché si riteneva brutta e sarebbe stata in tal caso ridicola.
La proiettività di questo atteggiamento è evidente a chiunque: puniva la sua compagna che, pur non essendo bellissima, osava atteggiarsi tale. L’ammissione di queste aspirazioni frustrate cambiò l’atteggiamento anche dell’altra alunna, che si rilassò e abbandonò la facciata di indifferenza e di freddezza che aveva tenuto in precedenza.
A questo punto il tema si estese e diventò patrimonio dell’intera classe: quanto e perché è importante essere bella?
Il calore e l’eccitazione che pervase la classe fu una prova, per le due ragazze, della validità del conflitto e dell’universalità dei loro temi. A volte è sufficiente giungere a questo livello per sciogliere i nodi della discordia, ma nella maggioranza dei casi non è così; quando un conflitto è forte e persistente c’è un’angoscia latente che spinge i duellanti a non darsi mai per vinti, pena la perdita della pienezza di sé.

Terzo passo: la paura
Siamo così al terzo gradino: “accogliere l’angoscia latente”, ascoltare, cioè, il contenuto minaccioso che accompagna la spinta conflittuale.
Dopo che tutta la classe si fu sbizzarrita e appassionata a dissertare della bellezza (propria, altrui, degli attori, ecc.), cominciò a subentrare dapprima uno stadio di breve impasse, in cui gli argomenti cominciarono a girare su se stessi e poi gradualmente l’atmosfera si incupì, qualcuna ammutolì repentinamente e qualcun’altra iniziò a distrarsi. Stava succedendo qualcosa di interessante, l’attenzione per il discorso sembrava decaduta e anche lo sguardo dell’insegnante presente in aula aveva un’espressione eloquente: “Siamo alle solite” – pareva dire – “qui l’interesse dura un attimo e poi si ripiomba nel marasma”. Uno sguardo “didattico” avrebbe certamente confermato la preoccupazione dell’insegnante, ma uno sguardo “clinico” poteva vedere ben altre cose: le ragazze infatti stavano per entrare spontaneamente in un territorio poco conosciuto, da sempre vissuto ma mai esplorato, il territorio delle loro “paure essenziali”.
Qual è infatti il rovescio della medaglia di tutta quell’energia spesa al raggiungimento dell’ideale di bellezza se non l’urgenza di scacciare da sé fantasmi inquietanti di dis-identità e di sparizione nell’inesistenza dell’anonimato?
La nostra ipotesi, precedentemente esposta, trovava qui la sua conferma: il livello più profondo di analisi di sé non si tocca nel momento in cui si incontrano la bramosia sessuale e l’ostilità (i capisaldi di certa teoria pulsionale), ma quando si sperimentano il vuoto interiore, la depressione e il fallimento empatico delle relazioni significative; o almeno questo è ciò che è lecito attendersi quando abbiamo a che fare con situazioni che mettono in gioco e a rischio il senso di identità.
E così qualche ragazza cominciò a confidare le sue ansie in merito all’argomento: “Certo, io non posso sperare di diventare chissà cosa! Anche se sto a dieta, poi, non riesco a dimagrire più di così.  A volte mi piacerebbe essere come mia sorella piccola che gioca tutto il giorno e del resto non capisce niente…”. Da quel momento la situazione precipitò come in una reazione a catena e le ragazze cominciarono a parlare delle loro paure; la paura di non essere belle fu solo l’inizio di una serie inaspettata di confessioni, dalle prime delusioni amorose fino ai racconti più angosciosi delle due ragazze precedentemente in conflitto: entrambe, e questo insospettato fenomeno di specchio profondo commosse il resto della classe, confidarono di aver tentato di togliersi la vita e di avere al tempo stesso il costante terrore della morte.
A parte l’elemento catartico, che trasformò l’atmosfera scolastica in un’aura di sacralità, vi è qui la conferma di quanto esposto finora: il conflitto viene rimandato sullo sfondo ed emerge invece il senso di minaccia sottostante che qui è dato, addirittura, dalla paura della morte.
In questo caso vi è anche un elemento in più, un’apparente contraddizione che conferma l’ipotesi mutuata dalla psicologia del Sé: non si capirebbe infatti la compresenza di impulsi suicidi e paura di morire se quest’ultima non potesse essere accostata a quella che Kohut chiama “angoscia di disintegrazione”, che è diversa da quella che viene chiamata solitamente paura della morte perché ciò che si teme non è l’annientamento fisico, ma la perdita di umanità, la “morte psicologica”. Ciò che Kohut intende per morte psicologica non è nient’altro che il risultato dei fallimenti empatici che il soggetto ha sperimentato nel corso del suo sviluppo con le figure di accudimento: è la risonanza empatica infatti che consente e favorisce la formazione del Sé e quindi la stabilità del senso di identità.
Mi rendo conto che il terreno è diventato pesante, forse troppo pesante secondo qualcuno; non sono forse l’adolescenza e il periodo scolare quelle parti della nostra vita in cui si sviluppa il nostro massimo vigore psico-biologico e rappresentano quindi l’espressione massima di vitalità e di pienezza? Concordo sul fatto che questo è ciò che ci auspichiamo, ma trovo pericoloso al tempo stesso negare e rimuovere quelle pesanti ombre che la crescita si porta dietro, e colludere quindi con i tentativi di far tacere una nostra parte molto umana, o come direbbe Nietzsche, troppo umana.

Quarto passo: il vissuto di riparazione
Siamo giunti così al terreno che i partecipanti al conflitto hanno in comune e il cui rinvenimento dà la possibilità di riaprire la comunicazione e a far crescere le relazioni in un ambito di rispecchiamento e cooperazione, ma occorre un altro passo perché il processo sia completo; l’ultimo gradino: “affrontare un’esperienza riparativa”.
Con ciò si intende un processo che mira a colmare quelle lacune del Sé che ne minano la completezza strutturale e funzionale. È il momento finale di questa procedura, ma non è mai definitivo, è un infinito work in progress in cui le vecchie angosce possono venire esplicitate, condivise e messe in scena al fine di trovare nuove e più efficaci soluzioni a quei problemi che hanno limitato e distorto il senso di esistenza e identità.
È un momento essenzialmente pratico, di azione ludica e creativa dove il principio cardine diventa la sperimentazione.
Nel caso qui trattato la classe ha voluto lavorare con la scrittura, immaginando di mandare una lettera alla propria madre e immaginando poi anche una ipotetica risposta. Sono emerse idee molto interessanti che hanno messo in luce soprattutto il bisogno di riparare un vuoto di risonanza empatica: “Voglio essere capita”, “Se tu fossi nei miei panni…”.
L’esperienza riparativa, come possiamo notare qui, implica una riflessione attiva su come le reazioni condizionate dal passato possono essere superate e trasformate da nuove decisioni e dalla crescita di nuove capacità, e su come possiamo più adeguatamente influenzare l’ambiente in modo tale da non esserne più le sue vittime.



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