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9. Stregoni e clown. La “formazione” dell’insegnante

di Guido Armellini, ex insegnante di Scuola Secondaria Superiore, docente di letteratura comparata all’Università di Verona

Chi insegna pedagogia allUniversità, i ragazzi non ha bisogno di guardarli. Li sa tutti a mente come noi si sa le tabelline.
(Scuola di Barbiana, Lettera a una professoressa, Firenze, Libreria Editrice Fiorentina, 1966)

L’insegnante, come è stato riconosciuto almeno a partire dal Menone di Platone, non è in primo luogo qualcuno che sa e che istruisce qualcuno che non sa. Egli è piuttosto una persona che tenta di ricreare il soggetto nella mente del discepolo, e la strategia che guida la sua azione consiste soprattutto nellottenere che lo studente riconosca ciò che potenzialmente già sa, il che presuppone la sconfitta delle forze repres­sive presenti nella mente e che gli impediscono di sapere ciò che sa.
(Northrop Frye, Il grande codice. La Bibbia e la letteratura, Torino, Einaudi, 1986)

Insegnare a insegnare
Il nostro paese è pieno di persone che pensano di poter inse­gnare a insegnare agli insegnanti: pedagogisti, psichiatri e psi­cologi, sociologi, ispettori ministeriali, accademici delle più varie discipline. Fino a oggi questa idea non è suonata strana alle orecchie delle competenti autorità: se c’è da istituire un corso di formazione per insegnanti, si ricorre immancabilmente alle sopra citate categorie. Ne nascono anche dei conflitti: non molto tempo fa i quotidiani hanno ospitato un acceso dibattito tra pe­dagogisti e specialisti disciplinari sul ruolo che ciascuna delle due corporazioni avrebbe dovuto ricoprire nei corsi universitari per la formazione iniziale dei docenti. A nessuno degli interve­nuti è passata per la mente l’idea molto banale che, se c’è qual­cuno che sa insegnare, quello è un o una insegnante.
Se uno psicologo, o un medico, va a un corso d’aggiornamento, dall’altra parte del tavolo trova quasi sempre uno psicologo, o un medico considerato particolarmente bravo, che si è specializzato in qualche strategia terapeutica, che ha esperienze interessanti da raccontare, che ha scritto libri a riguardo. Se ci fossero corsi di formazione per ciabattini, sarebbero sicuramente tenuti da ciabattini esperti, non da idraulici, orologiai o elettricisti; e l’eventuale presenza di podologi, massaggiatori riflessologici, scuoiatori di cinghiali e coccodrilli sarebbe considerata un contributo interessante ma collaterale. Solo agli insegnanti – cate­goria il cui mestiere ha molto di artigianale, di soggettivo, di idiosincratico – tocca invariabilmente andare a lezione da pro­fessionisti che svolgono un altro lavoro: il senso comune esclude che dalla pratica dell’insegnamento possa scaturire un sapere degno di questo nome. Non a caso, se si pensa a una carriera per il personale docente, immediatamente ci si preoccupa di pre­miare le attività di gestione, di progettazione, di coordinamento, come se il contatto diretto con i ragazzi e con le ragazze fosse una pedissequa applicazione di modelli e di tecniche prestabiliti e non quell’arte complessa, avventurosa, sorprendente che gli insegnanti seri e appassionati conoscono e amano.

Chi forma chi
È fin troppo ovvio che un buon insegnante di matematica, o di storia, deve avere una buona conoscenza della matematica, o della storia. Ma non si capisce perché, subito dopo aver conse­guito una laurea in queste discipline, occorrerebbe fargli inca­merare un sovrappiù di formazione specialistica: o l’Università è capace di far imparare i capisaldi delle discipline che insegna, e allora un normale corso di laurea è più che sufficiente; oppure non ne è capace, e allora un’aggiunta di due anni dello stesso tipo di formazione non può certo risolvere il problema.
Quanto alla pedagogia, da quando il ruolo dello studioso si è scisso nettamente da quello dell’insegnante (cosa che non avve­niva ai tempi di Pestalozzi, Freinet, Montessori), i suoi percorsi epistemologici sembrano calcare le orme di quei dotti del Seicento che dettavano legge sul funzionamento dell’universo e sui moti degli astri rifiutandosi decisamente di dargli uno sguardo diretto con il cannocchiale di Galileo. La separazione fra chi insegna e chi teorizza sull’insegnamento è uno dei fondamentali motivi dell’inaridimento del sapere pedagogico e dell’avvilimento del mestiere dell’insegnante. In altri paesi europei i docenti univer­sitari che si occupano di didattica devono passare, per contratto, molta parte del loro tempo nelle classi, a contatto diretto con insegnanti e studenti; penso che questo salutare bagno di realtà li aiuti a elaborare modelli interpretativi e operativi ragionevoli, maneggevoli, sottoponibili al vaglio dell’esperienza: cosa che nel nostro paese avviene assai raramente.

L’Università e la didattica
Del resto è noto che in Italia l’attività didattica occupa l’ultimo posto tra gli interessi e le preoccupazioni della larga maggioranza dei professori universitari. Sembra alquanto paradossale che coloro che dovrebbero insegnare a insegnare provengano proprio da una categoria che si preoccupa così poco del suo stile di insegnamento: in fondo, la più autentica pedagogia del pedagogista non è quella enunciata a parole, ma quella pra­ticata all’Università, nella sua relazione con i suoi studenti. Nei corsi d’aggiornamento si enunciano illuminate teorie secondo le quali i bambini e le bambine non sono scatole vuote e non biso­gna trattarli come oggetti ma come soggetti; ma ci si guarda bene dall’applicare questa strategia pedagogica anche agli inse­gnanti destinatari del corso. Non c’è da stupirsi poi se nelle scuole si diffondono quegli atteggiamenti gregari e rivendicativi che si rimproverano giustamente alla corporazione degli insegnanti: se chi mi insegna a fare il mio mestiere non tiene al­cun conto di ciò che so e che so fare, non mi resta che adagiarmi sulle ricette didattiche preconfezionate che giungono dall’alto (e brontolare rancorosamente quando scopro che non funzionano).

Come il clown o la pornostar
Ciò che motiva la spartizione della formazione dei docenti tra specialisti disciplinari e pedagogisti è l’idea dell’insegnamento come “trasmissione” di saperi codificati: da un lato le discipline da insegnare, dall’altro le tecniche per farle penetrare, a dosi crescenti, nella testa dei discenti. Specialisti e pedagogisti spiegano all’insegnante ciò che deve sapere e saper fare, in modo che lui o lei possano spiegare ai bambini ciò che dovranno sape­re e saper fare per essere accolti a pieno titolo nella società degli adulti; illustrano anche gli strumenti adatti a “misurare” la quantità di apprendimento entrato nella testa del bambino o della bambina e le strategie adatte a correre ai ripari quando la dose non è sufficiente. Ma la scuola, quando va come deve, non è questo. È il luogo (forse l’unico, a parte la famiglia, in questo momento storico) in cui si incontrano generazioni diverse, su uno sfondo per molti aspetti lacerante di crisi di valori e di mo­delli. Pensare che tutto si risolva in un asettico e unidirezionale passaggio di valori e di saperi è illusorio.
Fattori come la crescente distanza culturale fra le generazio­ni, la perdita di prestigio sociale della scuola e dell’istruzione, la sfasatura tra cultura scolastica ed extrascolastica richiedono che chi insegna sia prima di tutto capace di motivare all’apprendimento. Da questo punto di vista i principali requisiti di un buon inse­gnante sono la passione e la curiosità per ciò che insegna e per le persone che ha di fronte, il gusto per l’avventura e per l’imprevisto insiti in ogni relazione umana, il senso della com­plessità e dello straordinario valore sociale del suo lavoro, la consapevolezza della vastità della propria ignoranza e la propensione a ripensare ogni giorno al significato di ciò che fa in classe con i suoi studenti. Come lo stregone, il clown e la pornostar, un buon insegnante lavora con il corpo, con la voce, con le emozioni. Come l’antropologo, esplora usi e costumi di una tri­bù sconosciuta, si sforza di gettare ponti fra culture diverse, cer­ca di costruire contesti comunicativi comuni. Questo genere di cose non si impara esponendosi passivamente allascolto degli ultimi sviluppi del sapere specialistico o delle più recenti rasse­gne di obiettivi, indicatori e descrittori elaborate da qualche su­percilioso sezionatore dei comportamenti umani.

Ampliare la gamma dei punti di vista
Per quel che mi riguarda, il maggior contributo alla mia formazione di insegnante è venuto da un’esperienza giovanile di educatore in un’associazione volontaria, dagli scambi di esperienze con colleghe e colleghi esperti e appassionati e dall’incontro con narrazioni come quelle di Janus Korczak, Mario Lodi, don Milani: esseri umani diversissimi, accomunati da una forte spinta etica e da un rapporto appassionato e fantasioso con i ragazzi e le ragazze. Per ciascuno di loro l’esperienza educativa non si poneva come una trasmissione unilaterale di valori e saperi, ma come costruzione cooperativa di un mondo possibile in cui i modelli sociali dominanti (a volte feroci, come nel caso di Korczac) potessero essere messi in discussione e sovvertiti: le tecniche, sempre discutibili e reinventabili, venivano di conse­guenza, e ognuno si costruiva ogni giorno le sue. Si obietterà che i casi citati sono eccezionali, che non si può pretendere che ogni insegnante sia un genio o un eroe, che bisogna portare i grandi numeri a un livello medio di decenza. A me sembra che la tra­smissione unidirezionale di metodologie didattiche standardiz­zate, anziché sollevare le situazioni più mediocri, rischi di de­primerle ulteriormente: il generale deterioramento della qualità delle esperienze scolastiche dagli anni del trionfo delle tassonomie e della programmazione fino a oggi ne è una riprova. Per quanto scarse siano le doti di un attuale o futuro insegnan­te, credo che l’unico modo per aiutarlo a migliorare consista nel farlo diventare protagonista della propria formazione, offrendogli la possibilità di ampliare, attraverso esperienze e incontri si­gnificativi, la gamma dei suoi punti di vista sulla straordinaria complessità del mestiere che svolge o che svolgerà.

Due proposte
In base ad alcune ricerche sembra che circa tre insegnanti su dieci sono quasi degli eroi, molto competenti e ottimi didatti: suppliscono con l’impegno personale, si aggiornano, ma non sono per niente valorizzati e non hanno alcun riconoscimento. Una metà dei restanti due terzi è inadeguata. L’altra metà tira a campare. Se le cose stanno così, è chiaro che una formazione in servizio concepita come semplice aggiornamento disciplinare, unito alla mera trasmissione di nozioni psicologiche e pedagogiche, ri­schia di lasciare il tempo che trova. E anche la differenziazione retributiva di cui si parla come di una panacea non mi sembra possedere il potere salvifico che le si attribuisce. Si tratta invece di restituire senso al mestiere dell’insegnante: il che, dal punto di vista della formazione, significa offrire tempo e occasioni per metacomunicare sul proprio lavoro quotidiano, per recuperare il suo valore etico e conoscitivo, per elaborare e far circolare il sapere che ne scaturisce. Se per mettere in moto un processo di questo tipo sia necessario ricorrere all’apporto di interventi esterni al mondo della scuola o sia più utile la valorizzazione delle competenze esistenti tra gli insegnanti, dovrebbero essere gli stessi destinatari della formazione a deciderlo di volta in volta. Una premessa indispensabile è comunque il radicale sfol­timento dell’inutile lavoro burocratico che attualmente intasa la vita della scuola e l’istituzionalizzazione di tempi “sabbatici” dedicati alla ricerca e allo studio.
Per quanto riguarda invece la formazione iniziale, un ruolo fondamentale andrebbe offerto agli insegnanti capaci di interagi­re con i loro futuri colleghi in un lavoro che si svolga anche e soprattutto nelle classi, insieme con ragazze e ragazzi in carne e ossa. Insomma, quel “tirocinio” che nei progetti ufficiali è relegato a una funzione subordinata dovrebbe essere un cardine della formazione, non come “esercitazione pratica” in cui si “applicano” e si verificano a posteriori teorie pedagogiche preconfezionate, ma come esperienza diretta della sconfinata va­rietà di osservazioni, di strategie, di implicazioni che possono scaturire dall’atto dell’insegnare e dell’imparare. Qualcosa di simile si potrebbe realizzare anche all’interno di significative esperienze educative extrascolastiche, specie in situazioni so­ciali e psicologiche “a rischio”.
Mi pare che queste ipotesi potrebbero funzionare bene ad alcune condizioni: che gli insegnanti “formatori” (ma la parola ha qualcosa di ripugnante, e bisognerebbe inventarne un’altra) non siano totalmente esonerati dall’insegnamento ma mantengano un contatto costante con le classi e con i ragazzi, attraverso forme di distacco parziale; che l’organizzazione della formazione in servizio degli insegnanti sia radicalmente decentrata e sottratta al ceto buro-pedagogico che l’ha gestita fino ad ora; che i rapporti tra ricerca didattica e sapere accademico, e tra scuola e università, non si svolgano più in termini gerarchici e unidire­zionali ma di scambio alla pari.



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