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autore: Autore: Roberto Parmeggiani

L’equivoco come punto di vista: l’arte di Edward Gorey

di Roberto Parmeggiani

Edward Gorey era un tipo strano.
Non solo perché assisteva agli spettacoli di balletto classico vestito con una pelliccia e le scarpe da tennis.
Non solo perché viveva con decine di gatti che avevano libero accesso a ogni zona della casa.
Non solo per la sua capacità di coniugare la grande letteratura con la passione per le serie televisive più
popolari.
L’artista e illustratore americano era strano soprattutto perché estraneo alle convenzioni del suo tempo, libero quanto schivo di fronte a una società che ha criticato con ironia nelle sue infinite opere.
Ho conosciuto Edward Gorey mentre passeggiavo, qualche anno fa, tra gli stand della Fiera del libro per ragazzi di Bologna. La casa editrice Logos stava lanciando il volume Raffinati enigmi: l’arte di Edward Gorey di Karen Wilkin. Quando ho visto il libro sul tavolo sono stato immediatamente attratto dal segno di questo artista, sottili tratti di penna nera attraverso i quali delinea paesaggi e personaggi che vanno al di là di ogni logica.
Di fronte a una domanda sull’interpretazione del suo lavoro, l’artista risponde così: “Sono convinto che
ognuno ci veda quello che vuole ma, se si desidera trovare un significato, si può. Ogni tanto, arriva qualcuno che mi dice: ‘Ehi, ho capito di cosa parlava il tuo libro’. E io rispondo: ‘Ah, sì?’. E ascolto le teorie più strane. In quel caso penso: ‘Se è questo che ci vuoi vedere, per me va bene’”.
(Karen Wilkin, Raffinati enigmi: l’arte di Edward Gorey, Modena, Logos, 2011, p. 35).

Perfetta sintesi della sua cifra artistica, Edward Gorey disegna e scrive, perché prima di tutto si ritiene uno scrittore, senza preoccuparsi del giudizio o della visione degli altri. Narra un mondo vissuto da strani personaggi, spesso inquietanti e macabri, cui accadono eventi particolarmente tragici ma che producono nel lettore una risata. Nulla di morboso, semplicemente l’autore ci porta a guardare alla nostra condizione umana in modo ironico e divertito.
Due libri, su tutti, sono tra i miei preferiti: L’ospite equivoco del 1957 (Adelphi edizioni, 2004) e I piccoli di Gashlycrumb o Dopo la gita del 1963 (Adelphi edizioni, 2013).
Il primo racconta di uno strano animale con la sciarpa e le scarpe da tennis che compare una notte davanti alla villa di una ricca famiglia dall’aspetto vittoriano. Entrato in casa, non dimostra nessun interesse ad andarsene e attua comportamenti strani come mangiare i piatti, gettare l’argenteria nel laghetto o camminare in sonnambula per i corridoi. Nessuno sa chi sia, da dove sia venuto o perché. Non sembra pericoloso, semplicemente è difficile comprenderlo fino in fondo, dare un senso ai suoi gesti, chiuderlo dentro uno dei nostri schemi.
Il secondo, invece, è un classico abbecedario nel quale ogni lettera dell’alfabeto è l’iniziale del nome
di un bambino o di una bambina di cui scopriamo il modo in cui muore. Surreale, quanto ironico: G per
George, che sparì sotto una stuoia, N per Neville, an- noiato da crepare o R è per Rhoda, imprudente col cerino.
Edward Gorey non scrive e non disegna per bambini, almeno così lui sostiene, ma molte delle sue illustrazioni hanno come protagonista il mondo dell’infanzia, archetipo del mondo di tutti, da cui tutti veniamo e cui tutti, continuamente, facciamo riferimento. Le paure dei bambini, come le paure originarie e le inquietudini che tutti ci accomunano.
Ne L’ospite equivoco, ad esempio, ciò è molto chiaro. Questo strano personaggio a forma di animale entra nella vita della famiglia e lì resta come se nulla fosse.
Ed è proprio in questa apparente normalità che sta l’inquietudine: la difficoltà, per la famiglia protagonista del libro, di comprendere come una cosa tanto normale possa essere strana, mentre, per il lettore, la difficoltà di capire come una cosa tanto strana possa essere normale. Grande metafora della vita e, in particolare, della vita di chi si trova a relazionarsi con il diverso, con l’estraneo, con l’equivoco.
Equivoco, in effetti, significa “prestarsi a essere inteso in più modi” e non è sempre equivoca la realtà, soprattutto quella muova, estranea, diversa? Non sono sempre equivoche le relazioni con l’altro che proviamo a categorizzare, capire, incastrare in uno schema predefinito? Non è equivoco anche quello che noi stessi sentiamo e che troppo spesso eleviamo a unica verità?
Ecco, l’inquietudine di Edwar Gorey dovrebbe diventare una sorta di strumento di valutazione a partire dal quale criticare i nostri comportamenti, le nostre relazioni, perfino il nostro reale livello di integrazione, liberandoci dalla troppa sicurezza di avere interpretato in modo giusto la realtà vissuta.
Il libro La bicicletta Epipletica (Adelphi Edizioni, 2005) si apre con una frase: “Era il giorno dopo martedì e prima di mercoledì”. Ecco, trasformo il prologo in conclusione, perfetta sintesi dell’arte di Gorey, del suo pensiero surrealista, della sua capacità di raccontare il mondo sociale e culturale dal suo punto di vista, leggermente inquietante ma molto divertente.

Marina Abramovic: l’artista è presente

di Roberto Parmeggiani

Il documentario di Matthew Akers Marina Abramovic. The artist is present racconta la lunga performance realizzata da Marina Abramovic al MoMA di New York, in occasione di una personale dedicata all’artista nel 2010, descrivendone tutte le fasi della realizzazione: dal sopralluogo fino alle centinaia di incontri quotidiani. Per tre mesi, Marina Abramovic è rimasta seduta ogni giorno, per sette ore, guardando negli occhi, in silenzio, chiunque desiderasse sedersi di fronte a lei: per mettersi in gioco, entrare in relazione o sperimentare. Un continuo scambio di emozioni che trova spazio nel dialogo silenzioso dello sguardo, uno sforzo fisico immane che ha visto l’artista mettere a nu-
do la sua identità.
“Mi sono serviti tre mesi di tempo al MoMA per essere incondizionatamente lì, presente per il pubblico.
Ogni volta che volevano, dovevo essere vulnerabile e solo per loro. In questo modo ho fatto sì che il pubblico non fosse più considerato come un gruppo, ma avesse il tempo e lo spazio per rappresentare la propria individualità. La performance consisteva nell’avere sedute di fronte a me persone singole. Individui che potevano rimanermi vicino senza limiti di tempo, anche un giorno intero se fosse stato necessario.
Essere a disposizione come artista e dare loro il mio amore incondizionato a completi estranei mi ha fatto vivere l’esperienza di essere lo specchio delle loro anime e di loro stessi. In quel momento io non ero più me, il tempo non riguardava più me medesima. Io ero solo un tramite del loro essere-con-se-stessi”.
La prima volta che ho assistito a questo documentario non ho potuto fare a meno di collegare l’esperienza dell’artista con quella della relazione educativa. Marina Abramovic, in particolare in questa performance, ti costringe alla presenza: di un corpo, di una possibilità, di un’esigenza, di un desiderio, di te stesso. Lo stesso succede nella relazione educativa: i due soggetti si incontrano e si obbligano a una presenza, fisica, emotiva e psicologica. Non solo l’uno con l’altro ma anche direttamente con se stessi.
Quante volte l’educatore si trova a fare i conti con se stesso prima che con l’altro? Quante volte l’esperienza dell’altro obbliga l’educatore a mettere in discussione la propria, a scoprire aspetti nascosti, sfumature poco conosciute? Risorsa e ostacolo, facile e difficile, possibilità e difficoltà sono i binomi che descrivono la relazione educativa e all’interno dei quali si gioca la possibilità di riuscita della relazione stessa. La scelta di uno dei due opposti dipende, in gran parte, dalla nostra attitudine a saper valorizzare gli aspetti più importanti, le abilità, per quanto residue, sempre presenti. Mettersi di fronte all’altro in silenzio, restando in una comunicazione basata sulla presenza, produce una conoscenza dell’altro che viene prima dei ruoli perché in quel momento si è entrambi sullo stesso piano: non c’è l’educatore e non c’è l’utente, ci sono due soggetti differenti interessati, per volere o per occasione, a entrare in relazione. Trasformando ciò in un approccio pratico potremmo dire che brevi momenti di pausa e di sospensione, non solo del giudizio, ma della relazione attiva basata sul fare e sul credere di avere tutte le risposte, garantirebbero sicuramente una diminuzione delle frustrazioni, una condivisione delle responsabilità e una conoscenza meno legata alle logiche del preconcetto. “Quello che posso dire è che questa performance mi ha cambiata a livello profondo; per me può solo avvenire che il mio lavoro cambi la mia vita e non l’opposto”.
(in Dr. Abramovic, a cura di Francesca Baiardi, p. 96, allegato al dvd Marina Abramovic. The artist is present, 2012, Feltrinelli Real Cinema)

La relazione educativa, vissuta in modo equilibrato, provoca indubbiamente un cambiamento che in fondo non è molto dissimile da quello che si realizza davanti a un’esperienza artistica o a un evento naturale di particolare bellezza.
Con una differenza, però: la relazione educativa modifica entrambi i soggetti, proprio come succede in modo innovativo nella performance descritta. Di solito, infatti, di fronte a un’opera d’arte lo spettatore riceve uno stimolo, un input, un’emozione che non può restituire all’opera e nemmeno all’artista, se non in un secondo tempo. In The artist is present, invece, succede qualcosa di nuovo, uno scambio immediato dovuto proprio alla presenza dei due soggetti della relazione, l’artista e lo spettatore, e questo provoca un cambiamento nei soggetti prima che nel contesto. Essere consapevoli di ciò, come educatori, significa accettare che non possiamo modificare nulla se non partendo da noi stessi perché, solo a quel punto, saremo credibili e disposti realmente a stare in un contesto che entri continuamente in relazione con noi.
Per concludere un piccolo gioco. Marina Abramovic ha stilato un Manifesto, una serie di regole che secondo lei un artista dovrebbe rispettare. Ne ho estrapolate alcune e le ho riscritte sostituendo alla parola “artista” il termine “educatore”. Mi sembra che siano molto interessanti e che forniscano validi spunti di riflessione:
– l’educatore non dovrebbe mentire né a se stesso
né agli altri;
– l’educatore non dovrebbe scendere a compromessi
con se stesso o con il mercato dell’educazione;
– l’educatore non dovrebbe trasformare se stesso in
un idolo;
– l’educatore deve imparare a perdonare.

Amore e Psiche

Di Roberto Parmeggiani

Ci sono momenti ed esperienze che ti si imprimono nella mente come una fotografia e si stampano sulla pellicola della memoria in maniera indelebile. Basta uno stimolo anche banale o un piccolo sforzo per far riaffiorare tutte le sensazioni provate in quel preciso istante: gli odori o il colore predominante, le persone con cui ci si trovava, le sensazioni del proprio corpo e perfino la velocità dei battiti del cuore.
Una cosa simile mi è successa quando ho incontrato una delle opere d’arte più incredibili mai realizzate nella storia, “Amore e Psiche” dello scultore Antonio Canova. È stata un’esperienza talmente travolgente che anche ora, chiudendo gli occhi, riesco a ritornare senza alcuno sforzo in quella stanza. Ricordo perfettamente la luce del primo pomeriggio che entrava dalla finestra, gli occhi lucidi della signora asiatica che si trovava alla mia destra, il ragazzo che faceva correre la sua matita sullo sketchbook dalla copertina nera, il profumo della salvietta che avevo appena usato per pulirmi le mani e quella sensazione difficile da descrivere, quei brividi che corrono lungo tutto il corpo quando ci si trova di fronte a qualcosa che entra in contatto con le parti più profonde di se stessi.
L’incontro è stato inaspettato… Stavo passeggiando tra le decine di sale del Louvre, a Parigi, ed ero anche un po’ affaticato dalla visione dell’enorme quantità di opere d’arte presenti nel museo. La quantità, a volte, va a scapito della percezione della qualità. Fatto sta che, però, a un certo punto l’ho vista, in una sala con altre sculture, nell’angolo in fondo a destra, era lì. La prima necessità che ho sentito è stata quella di fermarmi immobile, come bloccato e coinvolto dalla forte energia che la scultura trasmetteva. Se a questo punto state pensando che una statua non possa emanare nessun tipo di energia, vi consiglio di fare un salto al Louvre. “Amore e Psiche”, infatti, è un’opera erotica. Attraverso la sua sensualità e il suo essere eterna, nel senso che racconta qualcosa che ha a che fare con il sempre, ci attira e ci coinvolge, psicologicamente ma anche fisicamente. L’opera rappresenta il dio Amore mentre contempla con tenerezza il volto dell’amata Psiche, che ricambia con altrettanta dolcezza. Descrive il momento che precede il bacio, un attimo di grande tensione tra il desiderio di lasciarsi andare e l’attrazione degli sguardi che sembrano non volersi staccare. Un momento di equilibrio tra l’eros, cioè il desiderio carnale, e la tenerezza dell’incanto amoroso. Le due figure si intrecciano, morbide e sinuose, si cercano, si inseguono pur restando ferme. Il marmo bianco, liscio e levigato, da una parte sottolinea la purezza della relazione mentre, dall’altra, definisce ancora più chiaramente l’assolutezza dell’incontro.
“Amore e Psiche” viene scolpita da Antonio Canova nel 1788 e appartiene al periodo romano dell’artista che a vent’anni, mentre vive e lavora a Roma, realizza, forse, le sue sculture più belle e famose. Originario di Possagno, in Veneto, scopre la passione e la vocazione alla scultura aiutando il nonno scalpellino. Si trasferisce poi in una bottega di Venezia per poi aprire, nel 1775, appena diciottenne, una propria bottega all’interno della quale si affermerà definitivamente non solo in Italia, ma anche in tutta Europa.
“Ho letto che gli antichi, una volta prodotto un suono, erano soliti modularlo, alzando e abbassando il tono senza allontanarsi dalle regole dell’armonia. Così deve fare l’artista che lavora a un nudo”.

Credo stia proprio nell’armonia il segreto di quest’opera e della relazione che mette in scena, quella, cioè, che coinvolge due opposti: l’amore e la psiche, il cuore e la mente, la passione e la ragione. Opposti che trovano proprio nella loro relazione il senso del loro essere.
Mi spiego. Cosa sarebbe la passione senza la ragione come contrappeso? E la mente senza il cuore che di tanto in tanto la spinge un po’ oltre il limite della sicurezza? E chi di noi potrebbe trovare l’esatto punto di divisione tra l’amore e la psiche?
Ecco, la scultura di Antonio Canova ci permette di vedere questo equilibrio, di percepirlo fuori dalla nostra diretta esperienza, concretizzato in quel marmo bianco e levigato. E ci aiuta a capire che, anche mettendoci tutto l’impegno possibile, non riusciremmo mai a identificarci con l’uno o con l’altro, perché la scultura è la rappresentazione del nostro mondo interiore. Un mondo nel quale sono presenti decine di sfumature che si alternano in una continua ricerca di equilibrio tra opposti, non solo la mente e il cuore ma anche la possibilità e l’impossibilità, il sogno e la realtà, l’accettazione e il superamento. Si tratta di un equilibrio pieno di tensione, a volte anche fragile, ma rappresenta proprio ciò che ci sostiene, quell’energia vitale che ci spinge a procedere perché bisognosi di una sempre maggiore integrazione e che, una volta raggiunta, però, apre a una condizione di disequilibrio e quindi a una nuova ricerca.
Se provassimo a guardare la scultura con uno sguardo pedagogico scopriremmo che, com’è già successo altre volte in questa rubrica, questo aspetto legato all’opera d’arte trova un contatto con la dimensione educativa, in particolare con la necessità di educare all’idea di limite, il punto di incontro tra due opposti, lo spazio della ricerca di se stessi. Solo sul limite, infatti, possiamo essere liberi di scoprire chi siamo realmente perché forzati e disponibili all’incontro, sempre carico di tensione, tra le diverse anime che ci abitano.

5. Sapere dove si vuole andare! Un’esperienza alla Scuola dell’Infanzia

di Roberto Parmeggiani, educatore e formatore del Progetto Calamaio

“L’educatore… che mestiere stupendo… anche se faticoso: dico stupendo perché chi lavora in questo campo si trova collocato in uno spazio fuori dal tempo. Per esempio, chi come me lavora nella scuola dell’infanzia (dai 3 ai 6 anni), passa tre anni con i bambini e le loro famiglie per poi salutarli e riprendere il rapporto con altri bambini della stessa età e quindi lasciarli nuovamente a 6 anni. È come essere dentro a uno spazio dove il tempo si è fermato a quella età. Come educatore hai la possibilità, il valore di vedere come si modifica il contesto sociale, la famiglia, le relazioni: la scuola vive immediatamente l’influenza della società e dei suoi cambiamenti e l’insegnante, se vuole, ha la possibilità di aggiornarsi e di approfondire ciò che accade attorno, provando ad agire per realizzare una buona educazione… Stupendo ma faticoso soprattutto quando tutto attorno a te ti spinge a lasciare!”.
Con queste parole inizia l’intervista a Rina, insegnante alla Scuola dell’Infanzia Don Milani del Quartiere Reno di Bologna. Parole provenienti dalla lunga esperienza di Rina e uscite di getto, come un fiume in piena, appena le ho chiesto cosa pensava del mestiere educativo. Parole sincere, cariche di orgoglio ma anche di consapevolezza: quella derivante dalla consapevolezza maturata dopo tanti anni di lavoro e da tante lotte per costruire un sistema di insegnamento che risponda in modo realistico alle necessità della società.
La Scuola Don Milani e le insegnanti che lì lavorano sono un bell’esempio di scuola che tenta (con ottimi risultati, aggiungo io) di realizzare nel quotidiano un’idea di scuola che riesca nel connubio tra funzionalità, partecipazione, creatività e accoglienza dell’imprevisto.
Una scuola che, a partire dalla struttura fisica per arrivare a quella umana, fa dei limiti un trampolino di lancio scegliendo di farsi mettere in discussione dalla realtà che la circonda e dai bambini che accoglie. Una scuola, quindi, che non rimane solo idea ma che diventa realtà.
A sostegno di questo Rina mi dice che “gli obiettivi didattici e educativi vengono definiti a partire dalla realtà che incontriamo: i bambini, le famiglie, il gruppo educativo con cui mi rapporto. A ogni modo ritengo che mettere al primo posto i bisogni dei bambini e lo stare bene a scuola predisponga al lavoro di gruppo e stimoli il desiderio della curiosità e della conoscenza. È da qui che nasce l’esigenza di una buona accoglienza, non solo il primo giorno ma ogni mattina, di una osservazione mirata a capire i bisogni del singolo e a renderli agiti per favorire le sue conoscenze, la cura agli atteggiamenti, ai gesti e alle parole dette per diventare un gruppo che sappia convivere e condividere”. Quando Rina parla di gruppo si riferisce alle colleghe e ai bambini, passando l’idea che la scuola non la fanno le maestre e basta, bensì è un percorso comune fatto di scelte e di condivisione, quella vera però. Un impegno quotidiano alla stregua del tagliare la carne o pulire un sedere.
Rispetto al gruppo inoltre, Rina sottolinea un altro aspetto importante, il fatto di “poter cogliere anche ciò che la quotidianità e il coinvolgimento emotivo può farti sfuggire. Più teste infatti riflettono meglio e ognuno con le proprie specificità arricchisce il gruppo e la sua progettazione”.
Ecco un’altra parola chiave: la progettazione, che insieme alla valutazione, sono i due perni attorno ai quali si struttura tutta l’attività didattica. La prima è settimanale, in modo da consentire riflessioni e scelte efficaci che rispondano alle istanze che la vita scolastica ti sottopone; la seconda invece viene realizzata a metà anno attraverso una osservazione sul campo e a fine anno attraverso un’analisi dentro al gruppo operatori coinvolti. Inoltre un’altra verifica è quella con i genitori, sia a metà che a fine anno.
A proposito di genitori, le chiedo quali ritiene strumenti validi per costruire un’educazione in cui tutti siano attori. Rina si illumina: “La partecipazione, parola troppo abusata, ma mai usata pienamente. Credo che condividere idee e obiettivi rispetto al significato dell’educare, affrontando il tutto con chiarezza, senza pensare ai giudizi e impegnandosi per trovare anche un solo elemento condiviso, sia il punto da cui partire, consapevoli ognuno del proprio ruolo e della propria responsabilità”. In effetti, il ruolo dei genitori, alle Don Milani, è molto importante. Un esempio su tutti: alla festa di fine anno sono invitati a sperimentare i giochi che i lori figli hanno giocato durante l’anno, avendo la possibilità di condividere e valutare, in questo modo, non solo le idee e gli obiettivi didattici, ma anche le modalità di realizzazione. Bella prova di coraggio di queste maestre che non hanno paura di aprire la scuola… perché in fondo non è di loro proprietà anzi, nel caso specifico, di tutto il quartiere che ne usufruisce.

I limiti come risorsa
Certo che tutto questo è molto interessante e anche molto positivo, poi però ci si scontra con le pratiche quotidiane, le attività, la monotonia, il giorno dopo giorno, la noia, le discussioni…
Insomma, per quanto ci si possa impegnare, sarà necessario fare i conti con i limiti propri di ogni scelta e di ogni persona. È necessario allora che scopriamo un altro tassello di questo puzzle.
I limiti vengono visti, da Rina e dalle sue colleghe, come risorsa e non come impedimento. A partire da quelli fisici/strutturali per arrivare a quelli umani.
La scuola infatti è costituita su tre piani, ci sono grandi scalinate che portano a spazi rialzati con balaustre che danno sul piano inferiore. Non certo quello che potremmo definire edilizia scolastica da manuale, attenta ai bisogni dei bambini. Rina e le sue colleghe, però, hanno scelto di vedere tutto ciò come un’opportunità soprattutto per realizzare quella che viene definita “destrutturazione degli spazi”. Hanno colto la possibilità di muoversi, di spostarsi, di modificare l’uso e il modo di stare in un determinato luogo. Una gradinata diventa allora un teatro, mentre una stanza sottoterra diventa un’esperienza, un viaggio fantastico tra lenzuoli bianchi, neri o colorati. Anche il giardino, oltre che spazio di gioco libero e svago, offre la possibilità di realizzare avventure, costruire percorsi tra tessuti o materiale riciclabile.
Insomma limiti che attraverso la fantasia, vengono superati in modo creativo e divertente permettendo al bambino di mettere in gioco le proprie abilità.
Lo stesso poi succede con i limiti delle insegnanti e degli operatori, non negati ma accolti e valorizzati secondo due modalità.
La prima, di cui abbiamo già parlato, è il gruppo che diventa vitale in quanto luogo di accoglienza, di confronto e di crescita.
La seconda è la formazione per la quale Rina si auspica “più aderenza ai contesti di cambiamento perché sembra che siamo sempre un passo indietro rispetto a quello che succede a livello sociale. Non per adeguarci ma per attrezzarci”.
Le parole di Rina suonano davvero molto sincere, proprio perché, come dicevo all’inizio, hanno origine dall’esperienza e anche dal grande amore che lei nutre verso la scuola, i bambini e il mestiere educativo.
Le chiedo infine, cosa pensa dell’affermazione “l’educazione è un posto dove ci piove dentro”.
“Dentro l’educazione ci piove di tutto perché è un momento di relazione tra bambino e educatore (genitore, insegnante, animatore…) relazione che, in quanto tale, è aperta ai condizionamenti del contesto sociale con tutte le variabili di cambiamento che si porta dietro. Che poi l’educazione debba subire tale condizionamento è un altro discorso… Deve sapersi relazionare con il cambiamento e soprattutto deve sapere dove vuole andare”.

4. Un movimento senza confini

4.1. Ippopomati sulla luna
di Roberto Parmeggiani

La sensazione che si prova assomiglia a quella che deve aver vissuto Alice quando è entrata nel paese delle meraviglie. Un misto di stupore e curiosità. Una specie di smarrimento insieme alla sensazione di trovarsi in un luogo familiare.
Per arrivarci bisogna salire una scala di pietra dietro la Biblioteca Municipale di Sintra. Si raggiunge così un grande giardino su cui si affaccia una veranda con alcuni tavoli e tanti cuscini colorati. L’erba del giardino è sufficientemente morbida per potersi sdraiare o rotolare, ci sono alcune sculture con cui i visitatori possono interagire e una vista da togliere il fiato sulle colline e la città medioevale.
Ecco, in questo contesto potete trovare un luogo speciale: un misto tra una Casa della lettura e una Casa del tè.
Quando ho visitato Hipopomatos na Lua per la presentazione di un libro era fine marzo. Appena ho messo piede in quello spazio, ho immediatamente pensato che descrivesse perfettamente il senso della monografia che state leggendo.
È una libreria ma non solo.
È una sala di lettura ma non solo.
È una sala da tè con ottimi dolci ma non solo.
È un rifugio, una casa, una culla, una nave, una foresta. Chiacchiere, discussioni, sorprese, dolcezze, scoperte, avventure.
*Nazaré de Sousa, responsabile del progetto, racconta di aver dato vita a questo spazio per poter avere un luogo dove entrare e trovare qualcosa di bello e di buono, cose semplici e importanti allo stesso tempo.
“Crediamo che una parte di noi sia fatta di lettere che si uniscono una all’altra e in tutta la loro estensione ci conferiscono l’individualità che siamo. Ci costruiamo a partire dai libri che leggiamo e ci sono parti di noi che sono la somma di ciò che abbiamo ricevuto da loro. Leggere è formare l’identità e questo facciamo da quando siamo arrivati qui”.
Il pubblico che varca la soglia di Hipopomatos na Lua è il più vario, tutti interessati però a un incontro diretto con il libro. Agli adulti che riprendono i bambini invitandoli a non toccare o a fare piano, Nazaré e le sue colleghe dicono che, al contrario, quello è un luogo dove i bambini (ma anche gli adulti in verità) devono toccare e fare come se fossero a casa loro.
A differenza di altri spazi dedicati al libro, in questa strana casa della lettura al centro di tutto c’è proprio la relazione con il libro: come oggetto, come esperienza, come viaggio immaginario. Una relazione libera da stereotipi o buone maniere che, un po’ alla volta, modifica concretamente l’idea che si ha della lettura.
Non più un dovere o una scocciatura ma nemmeno un’esperienza quasi sacra e reverenziale. L’incontro con il libro, personale e unico, avviene attraverso tutti i sensi anche per il fatto di poter bere un buon tè alle tre mente e assaggiare una fetta (e che fetta!) di torta al cioccolato o al mascarpone e frutti di bosco.
Il necessario e il necessario, direi.
Perché, almeno lì, non si deve scegliere tra una cosa o l’altra ma è possibile scoprire come il pane e le rose possono trovare posto sulla stessa tavola.
Quando ho visitato la libreria, mentre parlavo con Nazaré, vedevo i bambini muoversi liberamente nella grande stanza, avvicinarsi agli scaffali e prendere liberamente i libri. Ognuno portava quello scelto o al tavolo tondo oppure sui grandi cuscini o anche in veranda, sull’amaca. Bambini diversi ed eccitati o calmi e pazienti che leggevano il libro intero oppure irrequieti cambiando più spesso testo. Ecco questa libertà, ancora una volta, mi è sembrata la metafora più adatta per descrivere un percorso di educazione alla lettura che possa funzionare: una relazione libera con il libro, scelto dal bambino per un qualsiasi motivo o per nessun motivo particolare, libero di immergersi nel testo o nelle immagini, da solo, sdraiato, seduto, appoggiato oppure in gruppo con qualcuno che legge e qualcuno che ascolta.
Libero il libro, liberi i lettori e libera la relazione.
I libri, lo sappiamo, nascono due volte: quando l’autore li scrive e quando il lettore li legge. A noi adulti il compito di creare spazi in cui questa seconda nascita possa av- venire nel modo più naturale possibile.

Hipopomatos na Lua è la prima libreria specializzata in letteratura per ragazzi e si trova nella città di Sintra (Portogallo). È aperta a tutte le famiglie per ritrovarsi attorno ai libri e alle storie. Per fare merenda si possono trovare tè, caffè, torte e biscotti.
Per saperne di più: http://hipopomatosnalua.blogspot.it

4.2.Biblioteche in movimento
di Massimiliano Rubbi, giornalista e lettore

“Se il lettore non va al libro, il libro va al lettore”. Come promuovere la lettura, specie tra bambini e ragazzi, dove l’acquisto dei libri è un lusso insostenibile per molti e le distanze rendono impossibile frequentare una classica biblioteca? Mettendo i libri in una “biblioteca in movimento” che raggiunga periodicamente le comunità e le scuole, per consegnare quelli che al primo impatto possono apparire oggetti astrusi e poi tornare a riprenderli; e il veicolo è lo stesso usato abitualmente per spostarsi dalla popolazione.
Non poche, e spesso curiose, sono le esperienze di questo tipo. Nel 1995 Obadiah Moyo, fondatore del Programma di Sviluppo per le Biblioteche e le Risorse Rurali (RLRDP), ha guidato la prima biblioteca mobile con un carretto trainato da un asino in giro per lo Zimbabwe: oggi questi “biblio-asini” sono 15, e ognuno dei carretti da loro trainati può contenere fino a 1.200 libri. Come spiega Moyo, “gli asini sono donati dai membri della comunità, e gli abitanti del villaggio in realtà fanno a gara per assicurarsi che siano usati i loro asini, perché sanno che stanno facendo progredire l’educazione entro le proprie comunità locali, e questo porta prestigio”. I libri, forniti dall’associazione Book Aid International, vanno da quelli sonori pensati per chi impara a leggere a quelli educativi e di narrativa, e “quando il carretto si avvicina a una scuola, è meraviglioso vedere l’eccitazione dei bambini quando corrono fuori a salutarlo. Ma non è semplicemente che il carretto venga scaricato e prosegua. Il carretto rimane per tutto il giorno; i bambini esplorano i libri, condividendo quel che hanno letto, e cantastorie locali della comunità arrivano per dare vita alle storie. È davvero un giorno per diffondere il concetto della lettura e per sviluppare la cultura della lettura per la quale stiamo tutti lavorando”. La nuova abitudine alla lettura ha portato in pochi anni a incrementi significativi nei tassi di successo degli esami di inglese nelle scuole secondarie dello Stato africano (in un caso, a decuplicare le promozioni in 6 anni!).
L’asino smentisce fieramente lo stereotipo che lo vede associato all’ignoranza, trasportando in giro libri e conoscenza, anche in Colombia. Il “biblioburro” ideato a fine anni ’90 dal giovane insegnante Luis Soriano, con due asini (“Alfa” e “Beto”!) e 70 libri portati in giro sui loro dorsi, continua a svolgere tuttora la sua funzione ogni sabato, tra i villaggi più isolati dei dipartimenti di Cesar e Magdalena, e con forze moltiplicate: 8 asini e 4.800 libri, in buona parte frutto di donazioni pervenute dopo che una trasmissione radiofonica si era occupata della storia. Il progetto del “biblio- burro”, oggetto anche di un documentario nel 2007, non si è fermato neppure quando el profesor Soriano, nel 2012, ha subito l’amputazione di una gamba dopo un incidente con un suo asino, e oggi, dopo essere valso al suo ideatore il premio di “Colombiano Ejemplar” nel 2014, si accinge a festeggiare il 20° compleanno. La Colombia vanta diversi esempi di biblioteca mobile: il bibliotecario Oswaldo Gutiérrez nel 2002 ha inventato la “bibliocarreta”, una carretta che la domenica porta i libri nei parchi e tra le case della città di Sabaneta, mentre la biblioteca della cittadina montana di Guatapé è già passata da un esperimento di “bibliocarreta” alla bicicletta attrezzata “PedaLeo” (“PedaLeggo”), che con il suo campanello avvisa del suo arrivo tra i negozi, prima per conoscere i gusti di lettura dei commercianti, troppo impegnati dal loro lavoro per passare in biblioteca, e poi per portare loro i libri (e riprenderli). Come sottolinea in un articolo la rete bibliotecaria di Medellin, “l’obiettivo di ‘Al son del PedaLeo’ è portare a termine una delle missioni più importanti che hanno le biblioteche di oggi: essere inclusivi. E non solo con chi ha difficoltà fisiche o psicologiche per leggere o avvicinarsi alla conoscenza, ma anche con chi per qualunque motivo non ha la possibilità di visitare la biblioteca”.
Tornando alla trazione animale (e all’Africa), risale addirittura al 1985 l’uso dei cammelli per il trasporto di libri nelle regioni aride e isolate del Kenya nord-orientale. Come riferisce il servizio bibliotecario nazionale keniota, “i cammelli trasportano i libri in scatole specificamente create per il progetto e li portano ai bambini nelle scuole isolate. Inclusi nelle scatole ci sono anche tende e tappetini perché i bambini li usino sul campo”. La biblioteca mobile su cammelli, riporta la BBC, risulta anche l’unico modo per raggiungere le popolazioni nomadi della zona nel luogo in cui si trovano e potrebbero non trovarsi più il giorno dopo, popolazioni molto povere in cui “quando un genitore ha un po’ di denaro, preferisce comprare cibo, e quando vede un libro non gli dà valore”.
Cambia la zona del mondo, cambia il mezzo di trasporto, ma non cambia il sistema: il progetto “Books-by-Elephant” si serve di 20 elefanti per trasportare libri ai bambini in 37 villaggi montuosi della Thailandia settentrionale, insieme a lavagne di metallo appositamente disegnate per non rompersi durante il trasporto sul dorso dell’elefante, un’esperienza esportata anche nelle province di Xaignabouli e Oudomxay nel Laos settentrionale: e quando arrivano gli elefanti, riferisce l’Elephant Conservation Center che si occupa del servizio in Laos insieme alla ONG Community Learning International, “molti dei bambini leggono attentamente ogni pagina nel punto in cui sono, mentre altri stringono semplicemente il libro al petto come un bene prezioso, e nella maggior parte dei casi è così, essendo il libro il primo oggetto che il bambino abbia mai posseduto”.
Sarebbe tuttavia sbagliato pensare che le “biblioteche mobili”, con il loro effetto spesso pittoresco, siano da associare esclusivamente alle zone più isolate e depresse di Paesi economicamente arretrati, e siano destinate perciò a scomparire, con lo sviluppo socio-economico, a favore di strutture bibliotecarie “tra quattro mura”. Il 12 aprile scorso è stata festeggiata negli Stati Uniti la settima Giornata Nazionale delle Biblioteche Mobili (National Bookmobile Day), per celebrare “una parte integrale e vitale del servizio bibliotecario negli Stati Uniti da oltre 100 anni”, che “ha consegnato informazioni, tecnologia e risorse per l’apprendimento permanente ad americani di tutti i ceti sociali”. Il primo servizio di questo tipo fu istituito nel 1905 dalla bibliotecaria Mary Lemist Titcomb nel Maryland, dapprima appoggiandosi a negozi e uffici postali, poi con un carro a cavalli capace di battere le fattorie della zona con un guidatore e un bibliotecario, e infine dal 1912 con un servizio motorizzato. Anche se il loro numero è in calo negli ultimi anni, i servizi di biblioteca mobile negli USA rimangono oggi 660, concentrati in Stati tra Sud e Midwest come Kentucky e Ohio ma anche in California; alla resistenza delle biblioteche su ruote contribuisce in modo determinante il fatto che esse “possono essere spesso un mezzo efficiente di fornire servizi bibliotecari a grandi aree geografiche”, grazie a un costo di 200.000$ che è di 8 volte inferiore a quello di costruzione di una nuova biblioteca stabile. Oltre ai libri, le biblioteche mobili portano nelle comunità rurali giornali, periodici e DVD, offrono servizi di consulenza, corsi e attività, e spesso forniscono tecnologie adattive per persone con disabilità, accesso a Internet, a volte videogiochi, sempre più spesso con veicoli specializzati per obiettivi identificati da nomi come “Techno-mobile”, “JobLink”, “Kidmobile” o “ABC Express”, e con tecnologie green che riducono l’impatto ambientale dei loro lunghi viaggi. Per questo, non senza un po’ di retorica, le biblioteche mobili possono essere definite nei materiali promozionali del National Bookmobile Day “parte del Sogno Americano – luoghi di opportunità, educazione, auto-aiuto e apprendimento permanente”.
Biblioteche mobili sono presenti anche in Giappone, un Paese ad alta tecnologia e fortemente antropizzato ma che le statistiche collocano tra quelli con le minori medie di lettura al mondo, così come in Norvegia, dove sin dal 1963 la nave Epos passa l’inverno a portare libri a 150 villaggi della costa sud-occidentale, compiendo due giri di 45 giorni ognuno (occhio a non mancare il giorno in cui restituire i prestiti!), per poi essere convertita a servizio dei turisti in estate.
La biblioteca mobile più curiosa e significativa del mondo è però con ogni probabilità quella realizzata alcuni anni fa dall’assai eccentrico artista argentino Raul Lemesoff a Buenos Aires: una Ford Falcon del 1979 usata al tempo dalla giunta militare, trasformata in “carro armato” e riempita di 900 libri per diventare, secondo il nome che l’autore le ha dato, una “arma di istruzione di massa”. Lemesoff gira tuttora per le città e le campagne dell’Argentina, regalando un libro in cambio della sola promessa di leggerlo e ricostituendo periodicamente la biblioteca attraverso donazioni private, con l’obiettivo di “combattere l’ignoranza” e portare “un contributo alla pace attraverso la letteratura”. Ed è forse questa idea di “mettere dei fogli nei cannoni” che in fondo anima tutti i bibliotecari che ogni giorno, in tutto il mondo, percorrono decine di chilometri, su veicoli quasi sempre scomodi, insieme all’intento di impedire che qualcuno rimanga separato, a causa della distanza, dal libro che cambierà la sua vita.

4.3. Una biblioteca per Korogocho
di Simona Venturoli, Project Manager Servizio Progetti Estero di AIFO

Può sembrare un azzardo la realizzazione di una biblioteca a Korogocho, una barac- copoli di Nairobi e Baba Dogo con più di 200 mila abitanti, eppure Mwangaza Community Library Project questa esperienza l’ha realizzata e la sta portando avanti.
Dal 2003 AIFO (Associazione Italiana Amici di Follereau) opera in questo difficile contesto attraverso il sostegno a KoskobarK (Korogocho Slum Community Based Rehabilitation – Kenya), un’organizzazione comunitaria di Korogocho, ufficialmente riconosciuta dal governo keniota.
La biblioteca offre numerosi servizi culturali alla comunità e nei suoi locali ha sede anche un centro di riabilitazione per persone svantaggiate che lavorano all’interno di laboratori di sartoria, fabbricazione di candele e tipografia. La biblioteca ha bisogno di fondi per acquistare e riparare libri, riviste e dvd, per aggiustare le finestre e sistemare la rete fognaria.
Mwangaza in lingua swahili significa luce e questo la dice lunga sul senso di questo progetto: vuol portare la luce alle persone che vivono a Korogocho, una luce che si manifesta però sotto la forma dell’educazione e dell’informazione. Anche lo slogan che accompagna questo progetto, “Nuru ya Korogocho” ovvero luce di Korogocho, ne sottolinea la funzione.
La biblioteca ha aperto i battenti nel marzo del 2012 ed è situata ai bordi dello slum di Nairobi, diventando così la meta anche di ragazzi e bambini che studiano nei quartieri vicini a Korogocho. La presenza di un libraio formato e di due assistenti volontari permette la sua apertura in tutti i giorni feriali dalle 8 alle 18 e il sabato dalle 9 alle 16. Mediamente si registra un accesso di 30 persone al giorno, con punte di 60 il sabato e nei periodi di sospensione scolastica. Nei primi 4 mesi del 2016 la biblioteca ha registrato un totale di 835 ingressi per persone sopra i 17 anni e di 312 ingressi per persone sotto i 17 anni.
Per accedervi basta pagare una piccola retta annuale, dalla quale però sono escluse le persone disabili che entrano gratuitamente.
La struttura non riceve finanziamenti pubblici e queste entrate assieme ad altre previste per il futuro (servizio di consulenza per l’uso del proprio telefono cellulare, attività di copisteria e stampa…) servono al mantenimento della struttura e per l’acquisto e la manutenzione dei libri e dei dvd.
Mwangaza Community Library è partita con il sostegno di AIFO e dell’iniziativa “Biblioteche solidali” del comune di Roma. Attualmente (fine 2016) la biblioteca dispone di circa 3.323 libri, 1.324 copie di 2 quotidiani nazionali locali, il “Daily Nation” e “The Standard”, e decine di video e materiali audio visionabili presso la sala comunitaria TV con DVD reader, dove vengono offerte anche attività di intrattenimento. Riceve e archivia anche la “Kenya Gazette” (Gazzetta ufficiale del governo). Inoltre ha attive tre postazioni per l’accesso a internet, offre un servizio di fotocopie a costo inferiore rispetto al mercato e ha una saletta dedicata ai bambini con arredi funzionali.
Mwangaza è quindi la risposta a una sfida, quella di ridurre la mancanza di spazi a Korogocho dove i bambini possono studiare e di offrire ai ragazzi una struttura ricreativa, di dare, in generale, alla popolazione dello slum un luogo dove potersi informare. A Korogocho, dove le famiglie sono composte da molti figli e le case si riducono spesso a un’unica stanza, la possibilità di aver un luogo tranquillo dove studiare è un’esigenza molto sentita. Spesso i bambini e i ragazzi non hanno la possibilità di studiare proprio per la mancanza di luoghi che nemmeno la scuola pubblica può offrire. “La biblioteca mi permette di fare i compiti – dice Achola Samuel Omondi, uno studente di 16 anni – a casa non riesco a fare bene il mio lavoro, c’è troppa confusione; qui posso trovare anche altri libri che io non possiedo”. Molti dei libri della biblioteca ri- guardano infatti le materie che gli studenti devono studiare per la scuola.
La biblioteca che apre alle 8 e chiude alle 18 ha in realtà orari elastici per venire incontro alle esigenze degli studenti e spesso i tre volontari che gestiscono il luogo la tengono aperta fino a tarda sera. È soprattutto durante le vacanze scolastiche che Mwangaza ha il suo picco di utenti; in quei giorni i posti a sedere non bastano più e i ragazzi si mettono sul pavimento per proseguire i loro studi.
Il luogo via via si è aperto anche alla popolazione residente che non studia ma ha altre esigenze. Mancano infatti nello slum i luoghi dove riunirsi e parlare, ecco allora che fuori dall’edificio è stata allestita una grande tenda chiusa collocata nel cortile interno (60 posti a sedere) dove i membri della comunità possono fare incontri, corsi di formazione, dibattiti e riunioni.
Spiega Richard Omwele, un residente: “Eravamo abituati a incontrarci nelle nostre case o semplicemente all’aperto. Adesso invece la biblioteca ci offre una tenda per le riunioni e anche le discussioni si fanno meglio. Ci sentiamo più liberi di parlare e abbiamo una certa privacy che prima all’aperto non avevamo”.
Mwangaza infine è anche un centro di riabilitazione per persone con disabilità che frequentano corsi di formazione per la fabbricazione di candele, di sartoria, di artigianato. Racconta Morris Obiero: “Sono venuto in biblioteca sperando di leggere il mio giornale preferito e invece ho seguito il corso di formazione su come fare le candele! Questo ha migliorato la mia situazione economica, ha rivoluzionato la mia vita”.

4.4. Un cambiamento possibile
di Roberto Parmeggiani

Il primo libro che Otávio de Souza Júnior César ha preso in mano è stato Don Gatón. Diversamente da molti bambini che conosco, lui non l’ha ricevuto in regalo e nemmeno ha potuto sceglierlo tra gli scaffali di una libreria o, almeno, di una biblioteca. Otávio aveva otto anni e trascorreva le sue giornate accanto al campo di calcio della favela dell’Alemão, una delle zone più violente di Rio de Janeiro. Cresceva, come molti dei bambini che lì vivevano, sognando di diventare un calciatore e poter fuggire da quella realtà troppo stretta per chi, come lui, aveva voglia di volare.
Un giorno, mentre come tanti altri giorni tutti uguali, stava rovistando tra la spazzatura, trovò una scatola con alcuni oggetti per bambini. La lotta con gli altri ragazzi fu dura, tutti volevano accaparrarsi il gioco migliore, anche se rotto o molto rovinato. La sua attenzione, però, venne attirata da un libro. Lo prese al volo (anche perché non interessava a nessun altro) e corse a casa.
Il libro in questione era proprio Don Gatón.
“Ho passato una delle notti più belle della mia vita in quel nuovo mondo che avevo appena scoperto” – racconta – “e il giorno dopo ho chiesto alla mia insegnante perché la biblioteca della scuola era stata chiusa. Lei l’aprì e da quel giorno fui l’unico che la frequentava per leggere”. Quando la biblioteca della scuola diventò piccola si spostò in una un po’ più grande anche se per raggiungerla, dalla sua favela, doveva camminare più di 40 minuti.
Quell’esperienza ha marcato profondamente la vita di Otávio.
L’incontro con i libri, con le storie, con quei personaggi gli ha permesso di immaginare un futuro diverso, di potersi pensare altro rispetto allo stereotipo del favelado senza un futuro diverso da quello di chi è venuto prima.
Oggi Otávio è uno scrittore, un narratore, è il fondatore e il coordinatore del progetto “Ler è 10 – Leggere nella favela”, che mira ad aprire biblioteche nel complesso dell’Alemão. La missione principale del programma è quella di mostrare ai bambini – circa l’80% dei partecipanti – e ai giovani, che i libri possono aprire porte e orizzonti che l’ingiustizia sociale e l’assenza dello Stato si impegnano a chiudere. Un nuovo orizzonte che valichi quello offerto dalla favela, un nuovo immaginario a cui riferirsi per pensarsi adulti.
“Ho vissuto per molti anni in una comunità violenta, dove la realtà quotidiana era molto dura, con scontri continui tra trafficanti di droga e la polizia. Una delle cose che mi rendeva più triste era il fatto che i narcos erano visti come eroi a Rio: compravano i vestiti migliori, le scarpe più belle, avevano le auto più costose”.
Per questo un giorno Otávio decise che avrebbe tentato di “invertire i valori” usando la letteratura che aveva tanto influito nella sua vita.
Cominciò a spostarsi nella comunità in cui viveva portando con sé una valigia piena di libri. Stendeva un tappeto colorato e invitava la gente ad avvicinarsi e a leggere.
Più di una volta è stato fermato dalla polizia a cui ha dovuto spiegare che in quella valigia non era contenuta droga o grandi quantità di banconote ma qualcosa di molto più importante.
Quell’esperienza di incontro e divulgazione è stato il primo nucleo di ciò che poi sarebbe diventata una vera e propria biblioteca nata anche grazie alla partecipazione di Otávio a un reality show per raccogliere fondi. Dopo aver camminato a piedi nudi sopra una corda riuscì a guadagnare 5000 dollari che poté reinvestire nel progetto. “All’inizio mi consideravano come una specie di Don Chisciotte, mi conoscevano come il pazzo dei libri”.
Oggi, grazie a tutto ciò, la comunità conta su una biblioteca stabile e altre itineranti che vanno incontro alle persone per avvicinarle alla lettura e promuovere un’educazione alla libertà di pensiero.
Oltre al servizio di prestito dei libri e alla possibilità di utilizzare spazi per studiare o anche, semplicemente, per fare comunità in un luogo tranquillo e protetto, il progetto prevede attività anche fuori dalla comunità quali la visita alla Biblioteca nazionale di Rio de Janeiro, alle librerie della città oppure gite culturali in generale. “Molti dei bambini che partecipano al progetto non avevano denaro per permettersi tali esperienze, così attraverso la letteratura abbiamo cercato anche di superare i limiti geografici”.
Quel primo libro, nelle mani di Otávio, si è trasformato in centinaia di libri che, uno dopo l’altro, hanno modificato radicalmente la realtà nella quale vivevano. Un esempio concreto dell’importanza di un luogo come la biblioteca: apparentemente innocuo ma vero promotore di un cambiamento possibile.

Nel paese dei libri
Una manciata di libri per i più piccoli (ma anche per gli adulti che leggeranno con loro) per immergersi in un mare di suggestioni, bellissime illustrazioni e piccole storie per navigare tra fiumi e nuvole di parole, per trovare parole per dire la rabbia, la gioia, la tristezza, per sorridere e lasciarsi abbracciare. A questi suggerimenti aggiungiamo un ultimo libro che racconta la storia, vera, di Alja che è riuscita a salvare quasi tutti i libri della biblioteca di Bassora, in Iraq, prima che la guerra la distruggesse.

Oliver Jeffers, Sam Winston, La bambina dei libri, Lapis, 2016
Alessandro Sanna, Castelli di libri, Franco Cosimo Panini, 2014
Quint Buchholz, Nel paese dei libri, Beisler, 2014
Sergio Ruzzier, Stupido libro!, Topipittori, 2016
Lane Smith, È un libro, Rizzoli, 2010
Silvia Borando, Questo libro fa tutto, Minibombo, 2017
Jeanette Winter, Alja la bibliotecaria di Bassora, Mondadori, 2006

 

Di che colore colorare la pelle”? Risponde Humanae – Work in progress

di Roberto Parmeggiani

Fin da quando siamo bambini, ci viene insegnato che se vogliamo disegnare una persona, dobbiamo stare attenti ai colori: gli occhi sono azzurri, neri o marroni, così come i capelli che sono neri, marroni, biondi o rossi. E la pelle? Di che colore è? La pelle delle persone è rosa, ovviamente. Un po’ alla volta, poi, scopriamo che ci sono alcune eccezioni e che quindi gli orientali dobbiamo colorarli di giallo, gli indiani d’America di rosso, gli africani di nero e qualcun altro anche di marrone.
Insomma, cresciamo rinforzando i nostri stereotipi, dividendo le persone in categorie e, soprattutto, imparando che c’è un colore giusto, il rosa e ci sono gli altri colori, il rosso, il giallo, il nero e il marrone, un po’ meno giusti.
Angélica Dass è una fotografa brasiliana, sposata con uno spagnolo, di origine belga. Nata a Rio de Janeiro, vive a Madrid dove svolge il suo lavoro.
L’artista, prendendo spunto proprio dalla sua esperienza personale, da questa mistura di diverse origini, mette alla base dei suoi progetti l’idea di rompere con il pensiero comune che certe cose devono essere come sono e non possono cambiare.
Perché una signora adulta non può mettersi dei calzini colorati? Perché un bambino non può mettersi delle scarpe rosa? Perché devo disegnare le persone usando solo cinque colori?
Anche a lei, infatti, come a molti europei, hanno insegnato che esistono differenti razze che si possono riconoscere attraverso il colore della pelle, che ci sono colori giusti e colori sbagliati e che alla base di tutto ciò c’è un pensiero comune che definisce ciò che è accettabile e ciò che non lo è. Per smontare questa teoria Angélica Dass ha realizzato diversi progetti artistici.
In De pies a cabeza (Dai piedi alla testa), per esempio, vengono fotografati i piedi e il volto delle persone per poi essere messi a confronto. L’effetto, per lo spettatore, è quello di smarrimento perché gli abbinamenti sono inaspettati, le scarpe non sempre combinano con l’idea che ci siamo fatti della persona dopo averle visto il volto.
Il suo progetto più importante, però, è Humanae. Si tratta di una riflessione sul colore della pelle delle persone a partire dai codici che questo colore’ può rappresentare.
Classificando le tonalità del colore della pelle secondo la scala Pantone (http://www.pantone.com), azienda tradizionalmente conosciuta in tutto il mondo per catalogare i colori, la fotografa dimostra che siamo di così tanti colori diversi che sarebbe impossibile classificare tutte le etnie presenti sulla terra. In Humanae siamo tutti così diversi, che tutti siamo uguali.
“Dividere la popolazione come bianca, nera, gialla, parda (marrone) o indigena è una delle cose più kafkiane che si possa fare, cominciando dalla parola indigena che non è un colore. La definizione ufficiale di ‘pardo’, poi, è una descrizione perfetta di questa confusione: ‘non bianco’ e non inquadrabile come giallo o nero. Questa mescolanza è una delle essenze dell’essere brasiliano”.
Proprio in Brasile comincia il percorso della fotografa, un work in progress che raccoglie già migliaia di foto.
I primi ritratti furono quelli dei suoi famigliari, poi gli amici, i vicini e infine chiunque fosse interessato a partecipare al progetto. Attraverso il passaparola e i social network ha coinvolto centinaia di persone, prima nella sua città poi nel mondo intero. Ora Angélica, infatti, segue la sua mostra e invita gli abitanti delle città in cui viene ospitata a partecipare al progetto. Il suo obiettivo è quello di ampliare sempre più il numero di immagini. Non si pone limiti perché, in fondo, l’unico limite sarebbe quello di fotografare tutti gli uomini presenti sulla faccia della terra. Humanae non è solo uno spunto di riflessione per lo spettatore che, guardando quel catalogo di ritratti e colori, viene messo di fronte a una verità tanto scontata quando negata. Il progetto coinvolge emotivamente tutti i partecipanti, ognuno dal proprio punto di vista.
“Prima di sedersi per essere fotografati, faccio una domanda – Qual è il tuo colore? – Quando la persona esce dallo studio, è ansiosa di scoprire a quale tonalità appartiene e quando lo scopre si stupisce sempre di quanto ciò cambi la sua forma di pensare”.
Questo ampio progetto fotografico, in fondo, afferma che siamo di un colore qualunque. Uno tra i tanti possibili, una sfumatura tra le infinite sfumature. Pur incentrandosi sulla definizione e la catalogazione dei colori, questo progetto artistico non vuole dare importanza al colore in sé, bensì al fatto che non è possibile scegliere e definire di che colore è la pelle di un essere umano.
La fotografa, però, ci tiene a sottolineare che il suo non è un progetto con pretese educative. È arte. “Lascio il messaggio nell’aria, la gente lo vede e trae le sue conclusioni… Magari che il mondo, un giorno, la pensi come me”.
Perché in fondo è questa la cosa più interessante. Aprire una breccia nel pensiero comune, perché chiunque si trovi a voler disegnare una persona possa scegliere il colore che preferisce o che più lo rappresenta, senza pensare di sbagliare, senza avere la percezione che ci sia una scelta migliore e una peggiore.
Perché in fondo, alla domanda – Di che colore devo colorare la pelle? – la risposta giusta è: Qualunque!
Per maggiori informazioni: http://www.angelicadass.com

20. Per una didattica dell’inclusione. Il libro modificato e la collaborazione con le scuole medie “Saffi”

di Roberto Parmeggiani, educatore Progetto Calamaio e scrittore

 L’Associazione CDH e la Cooperativa Accaparlante ormai da trent’anni sono impegnate per promuovere, attraverso incontri di animazione e percorsi di formazione, una cultura dell’inclusione che permetta a tutti, al di là delle singole diversità, di svolgere appieno il proprio ruolo sociale.
Da sempre crediamo che la scuola sia il luogo privilegiato da cui partire per favorire questa rivoluzione culturale capace di vedere la diversità come elemento costitutivo dei contesti sociali e non come difficoltà a cui porre rimedio.
Per questo, da quando il nostro gruppo di lavoro si è trasferito presso il Quartiere San Donato e, in particolare, nella zona del Pilastro, abbiamo stabilito un contatto con le realtà scolastiche della zona alle quali abbiamo proposto una collaborazione attraverso la quale realizzare percorsi di animazione per i bambini e i ragazzi e percorsi di formazione per gli insegnanti, sul tema della relazione con la diversità, la valorizzazione delle abilità e la didattica inclusiva.
In questo contesto è nato il progetto “Il libro modificato. Per una didattica dell’inclusione” volto a coinvolgere tutte le classi delle scuole medie “Saffi”. In particolare, il percorso che ha coinvolto i ragazzi delle classi terze ci ha portato a riflettere sul contesto in cui vivono per poi raccontarne possibilità e difficoltà, desideri e paure, utilizzando il linguaggio in simboli, un modo per rendere più accessibile la scrittura e lettura per persone che hanno difficoltà di comprensione di diverso tipo.
Durante gli incontri, condotti dagli animatori del Progetto Calamaio, i partecipanti hanno potuto conoscere il mondo dei libri accessibili e, nello specifico, hanno imparato a utilizzare il programma Symwriter attraverso cui è possibile scrivere testi in simboli. Il Pilastro secondo noi, quindi, è il punto di vista di questi nuovi cittadini che rappresentano il futuro del quartiere e della città.
Ogni studente ha lavorato su tre elementi che scandiscono anche la struttura dell’opuscolo che abbiamo poi prodotto. La carta d’identità attraverso cui, in maniera anche scherzosa, ognuno si è presentato. La mappa emotiva la cui struttura è stata elaborata da un gruppo integrato dei partecipanti ai cantieri che hanno lavorato alla realizzazione del progetto Pilastro 2016 e che ha permesso ai ragazzi di descrivere il Pilastro tenendo conto di queste cinque categorie: il luogo in cui abitano, i loro punti di riferimento, gli spazi legati ai momenti di socializzazione, i percorsi che effettuano abitualmente e i luoghi che ritengono non accessibili, sia fisicamente che relazionalmente. Un testo emotivo in cui hanno raccontato un’esperienza significativa legata al quartiere.

Jonas Burgert: ciò che potrebbe essere

di Roberto Parmeggiani

Un artista contemporaneo che dipinge, che dipinge grandi tele a olio e che riflette sul rapporto tra illusione e fisicità non poteva essere cresciuto se non a Berlino, tra il prima e il dopo che vede nella caduta del muro il suo spartiacque. Un artista in bilico, quindi, continuamente in trattativa tra ciò che vediamo da una parte del muro e ciò che inventiamo che ci sia dall’altra; tra ciò che posso toccare e ciò che posso sentire, sia esso reale o inventato.
La riflessione che sta alla base dell’opera artistica di Jonas Burgert prende spunto da tutto ciò e in particolare dall’indagare quel desiderio dell’umanità di trovare un significato alla vita al di là della fisicità. Da sempre questo bisogno ha portato l’uomo a percorre il limite tra reale e immaginario, tra quello che è visibile e quello che invece non si vede ma che è altrettanto reale, almeno nella nostra mente.
“Le mie illustrazioni esprimono ciò che potrebbe essere”, dice. Un reale possibile, quindi, non fisicamente percepibile ma che influenza il nostro essere e le nostre scelte in modo talvolta vincolante. La creazione di eroi, dei, figure mitiche, religioni sono il desiderio di andare oltre, di spiegare o di trovare un senso a quella parte di esperienza umana ancora misteriosa, nel modo più ampio possibile e che conviva pacificamente con il razionale che crede vero solo ciò che vede.
Ecco allora che trovano senso i colori fosforescenti al fianco di creature mitologiche o fiabesche rappresentati come dipinti classici, grandi raffigurazioni quattrocentesche. I riferimenti alla pittura rinascimentale e fiamminga sono espliciti come la relazione con le teorie psicoanalitiche di Freud che si mischiano con riferimenti diretti alla cultura pop contemporanea.
Uno degli aspetti più interessanti delle opere di Burgert è il fatto che, a un primo e veloce sguardo, allo spettatore pare di riconoscere quelle scene. Ha la sensazione di avere tutto sotto controllo. Questo, probabilmente, è la risposta inconscia che abbiamo di fronte a qualcosa che armonizza uno stile del passato con una finzione tipica del contemporaneo; un’immagine realizzata secondo canoni estetici ormai interiorizzati insieme a una comunicazione mediatica. È in fondo una rappresentazione di ciò che ci succede quotidianamente, come se nella immensa quantità di stimoli che riceviamo ogni giorno e che ci restituiscono una confusione apparentemente ordinata, le immagini del pittore tedesco ci rassicurassero perché, pur nella loro ricchezza di particolari, non ci appaiono estranee pur essendolo.
È un grande racconto dell’umano, in cui vengono rappresentate le infinite sfaccettature dell’essere. Le opere di Burgert restituiscono alla nostra coscienza quello che il nostro inconscio vuole celare, svelano alla nostra mente quello che la nostra stessa mente tende a definire onirico. Se dovessi fare un parallelo letterario, penserei alla Divina Commedia di Dante, capace di raccontare la società civile e la struttura umana del suo tempo attraverso immagini allegoriche ma con un linguaggio che potremmo definire pop, contemporaneo e accessibile alla maggior parte della popolazione.
Come Dante, anche il pittore berlinese, interpreta un sentimento, il proprio personale punto di vista che grazie al mezzo artistico diventa universale. La presentazione di una visione molto personale, altrimenti falsa, che deve essere rappresentativa però della situazione del genere umano, un ponte, potremmo dire, tra l’individuale e l’universale.
“L’atto del dipingere è estremamente intimo. È come se presentassi la tua anima su un vassoio”. Ecco che l’intimità e l’onestà della proposta sono parti essenziali dell’opera del pittore berlinese che, non avendo paura di rendersi vulnerabile, riesce a rappresentare le fragilità umane: come in uno spettacolo teatrale ricco di colori e forme, tra fantasia e sogno ci conduce in un viaggio dentro e fuori, qui e oltre, tra certezze e desideri. C’è infine un altro paradosso interessante nei dipinti di Jonas Burgert e ha a che fare ancora con l’apparenza. Le pitture, infatti, a un primo sguardo appaiono molto decorate, ricche di orpelli, di abbellimenti. Questi elementi distraggono lo spettatore dal contenuto reale dell’opera e dalla tragedia spesso raccontata. Appare tutto piacevole anche quando, andando un po’ oltre, di piacevole c’è ben poco. Ma non è forse questo ciò che succede anche nella vita reale? Ci ritroviamo accerchiati da inutili decori che non fanno altro che intrattenerci, distraendoci dal contenuto, nascondendo le domande essenziali dell’esistere. Peccato o per fortuna, le questioni fondamentali rimangono e, quando abbassiamo le difese, riemergono, nel buio della notte, portate per mano dal dolore, nel mondo libero dei sogni o, chissà, di fronte a un dipinto.
La ricchezza artistica di Jonas Burgert, forte e coraggioso a tal punto da esporre le sue insicurezze per avviare un dialogo con lo spettatore, è nella sua capacità di interpretare l’odierno restituendoci un’immagine di noi attraverso la quale fare un passo di coscienza. L’arte è lì per essere consumata dalla società. E se ci provocherà un’indigestione avrà comunque svolto il suo compito.

5.Corpo, relazione, movimento… per i bambini

di Giacomo Busi, Roberto Parmeggiani, Rosanna De Sanctis

Il progetto “Corpo, relazione, movimento” realizzato grazie al contributo del Comune di Bologna Area Benessere di Comunità in collaborazione tra Associazione d’iDee e Associazione CDH di Bologna, è uno strumento sperimentale di educazione alla salute per i ragazzi delle scuole dell’obbligo che stiamo svolgendo da settembre in cinque scuole primarie e una scuola media di Bologna Quartiere Saragozza e coinvolge 150 bambini. Mai come oggi l’attività fisica, intesa soprattutto come “attività del camminare”, coinvolge aspetti fondamentali della nostra vita. Muoversi a piedi continua a interessare una molteplicità di aspetti culturali, di cui si sente sempre più il bisogno di riappropriarsi. Ma ci sono anche altri aspetti importanti. L’intenso benessere psicologico e fisico che si prova dopo una passeggiata non è l’unico effetto positivo del camminare: una vasta quantità di studi scientifici, come è noto, ha dimostrato che l’attività fisica svolta con regolarità induce anche numerosi benefici per la salute.
Secondo i dati dell’Organizzazione Mondiale della Sanità:
• la sedentarietà è il quarto fattore di rischio di mortalità su scala mondiale
• patologie legate all’inattività sono le malattie cardiovascolari, il diabete e l’obesità
• l’obesità e il sovrappeso sono in aumento anche tra i bambini
• una modica attività fisica riduce del 50% i rischi di queste patologie, produce benessere fisico e mentale e determina un calo sostanziale del rischio di ipertensione, osteoporosi e delle conseguenze psicologiche della vita sedentaria quali lo stress, l’ansia, la depressione e il senso di solitudine
• camminare o andare in bicicletta per circa 30 minuti al giorno riduce del 50% i rischi di malattie cardiocircolatorie, sviluppo del diabete in età adulta, e obesità; e riduce inoltre del 30 % il rischio di sviluppare ipertensione.

Nella pubblicazione “Global recommendations on Physical activity for Health” (2010) l’OMS definisce i livelli di attività raccomandati. Secondo queste linee bambini e ragazzi di età compresa fra i 5 e i 17 anni dovrebbero compiere almeno 60 minuti di attività fisica al giorno e la maggior parte di essa dovrebbe essere aerobica. Nonostante queste evidenze manca ancora la consapevolezza dell’importanza del movimento fisico per la salute e l’automobile è quasi sempre utilizzata anche per compiere tragitti molto brevi, inferiori ai 3 km. Gran parte dei bambini e degli adolescenti di oggi spesso conducono una vita sedentaria tra la scuola e il computer.

Cammina, che ti passa
Esiste una relazione significativa, sostenuta da evidenze scientifiche, che collega il camminare e lo stato psico-corporeo dell’essere umano. Secondo i ricercatori, infatti, camminare in mezzo alla natura, magari in compagnia di altre persone, riduce lo stress percepito e aumenta il benessere mentale. Le passeggiate all’aperto, specie se fatte insieme ad altre persone, si sono dimostrate avere un grande impatto sul benessere di chi si trova in condizioni psico-corporee non soddisfacenti.
Una ricerca comparata dell’University of East Anglia (UEA), Regno Unito, pubblicato sul “British Journal of Sports Medicine” ha analizzato 42 studi, per un totale di 1.843 partecipanti in 14 diversi paesi: dai risultati emerge che le persone che fanno regolari camminate di gruppo riescono a mantenere bassa la pressione sanguigna e la frequenza cardiaca, a controllare i livelli di colesterolo e ridurre la propria massa corporea, allontanando così il rischio di ictus. Quindi, camminare in gruppo aiuta a tenere lontane molte patologie e mantenere un buono stato di salute. Infatti, camminare in gruppo è uno dei metodi più facili e veloci di aumentare il proprio livello di salute: le persone che camminano in gruppi tendono anche ad avere un atteggiamento più positivo verso l’attività fisica e a sentirsi meno isolate. Anche con le persone che tendenzialmente rivelano un basso livello di energia e movimento, le camminate in gruppo possono rappresentare un forte catalizzatore e un agente che stimola emotivamente l’adozione di comportamenti sani. L’analisi dimostra che le persone che camminano regolarmente in gruppo hanno registrato cali statisticamente significativi della pressione media arteriosa, della frequenza cardiaca a riposo, dell’indice di massa corporea e del livello totale di colesterolo. Inoltre, camminare in gruppo migliora la capacità respiratoria, attraverso un aumento della potenza polmonare. Infine, questo miglioramento delle funzionalità fisiche generali si associa a un miglioramento dell’umore e a una diminuzione dei rischi di sviluppare umore depresso. Camminare in gruppo rappresenta quindi un’attività sicura e piacevole, che ha un grande potenziale benefico sia per la salute fisica che psicologica [Hanson, 2015].

Raccolta d’informazione e la progettazione di percorsi
Al centro del progetto troviamo l’informazione sull’importanza del movimento per la salute fisica e psichica dell’individuo e la riacquisizione graduale dell’abitudine a camminare soprattutto nei brevi spostamenti urbani, nel tempo libero e nel fine settimana.
Tra gli obiettivi:
• indagine su quanto tempo i bambini e ragazzi dedicano all’attività fisica
• apprendere che il movimento fisico produce effetti positivi sulla salute ed è un importante fattore di protezione dalle malattie
• apprendere una modalità corretta di camminare
• individuare brevi percorsi sicuri all’interno del territorio comunale
• il cammino come viaggio di conoscenza di se stessi.

Azioni e raccolta delle emozioni
• Incontri in aula scolastica e “in cammino” sul territorio
• somministrazione questionario iniziale
• lavoro in piccoli gruppi
• facili camminate nei parchi della città. In tali occasioni ci si concentrerà sulle sensazioni ed emozioni provate ascoltando il proprio corpo in movimento
• compilazione questionario pre e post camminata
• elaborazione dell’esperienza della camminata.

Camminare in tanti modi diversi
La riflessione sull’importanza del movimento, soprattutto quello quotidiano, legato al benessere ma anche al piacere dato dalla possibilità di godere dello spazio fisico in cui viviamo, ci ha spinto a riflettere anche sul tema dell’accessibilità e dei diversi modi di camminare.
L’apporto specifico dell’Associazione CDH, attraverso gli animatori con disabilità del Progetto Calamaio, ha riguardato proprio questo aspetto. Nell’incontro svolto a scuola i bambini e i ragazzi sono stati invitati a fare esperienza della diversità attraverso l’incontro diretto con persone con disabilità.
Una riflessione, quindi, partendo dall’esperienza, dalle sensazioni e dalle emozioni vissute in prima persona. Successivamente, attraverso giochi di ruolo e domande, abbiamo ampliato il ragionamento volto a produrre una maggiore consapevolezza di sé e dell’uso del corpo, di quello della persona con disabilità e del proprio. La conoscenza riduce le distanze e i pregiudizi, ci permette di parlare con libertà anche di ciò che spesso sentiamo come inappropriato e di scoprire punti di contatto tra noi e chi consideriamo diverso. Ecco allora che è possibile scoprire che Francesca gioca a tennis come Andrea oppure che Francesca preferisce andare al parco in compagnia come Elisa e Giulia oppure che a tutti piacciono i pic-nic. L’incontro al parco e la camminata sono stati poi l’occasione per avere un riscontro diretto su ciò di cui avevamo discusso in classe e per confrontarci con quegli aspetti concreti che possono rendere più difficile o, al contrario, facilitare l’accesso al parco.
Dopo brevi tratti di camminata i partecipanti hanno espresso le loro sensazioni rispetto a cosa percepivano dello spazio (suoni, odori, temperatura e tipo di terreno) e a come questo cambiava addentrandoci sempre più nel parco. Allo stesso modo anche l’animatore con disabilità presente esplicitava il suo sentire coinvolgendo i partecipanti mettendoli a confronto con le diverse risposte.
Uno spazio specifico è stato lasciato alla valutazione degli ostacoli e alle possibili soluzioni, più o meno creative. Tra tutte si è convenuto che, al di là della necessità di ridurre le barriere architettoniche, una delle strategie più efficaci per superare eventuali difficoltà e per godere appieno del piacere del camminare è la relazione. Fare insieme, condividere, sperimentare mettendo in comune le diverse abilità.

I promotori del progetto
Associazione d’iDee si occupa da più di 12 anni di sviluppare progetti che contri- buiscano a una società più solidale, capace di tutelare i diritti delle minoranze, anche attraverso la diffusione di iniziative culturali, formative, ricreative che contribuiscano a creare una diversa sensibilità collettiva. Il nostro intento è quel- lo di costruire interventi educativi che, valorizzando le differenze, agevolino le persone in situazione di disagio nel loro percorso di crescita personale, e sociale. L’Associazione Centro Documentazione Handicap, nata nel 1996, gestisce un centro di documentazione sui temi dell’handicap, del disagio sociale, del volontariato e del terzo settore e vuole essere un laboratorio culturale aperto sui temi dello svantaggio e della diversità. Si propone di favorire una cultura in cui le persone svantaggiate siano soggetti di diritto, protagoniste del cambiamento personale e sociale e di dare a ogni persona svantaggiata la possibilità di un’inclusione basata sulla valorizzazione delle sue risorse. Ciò che spesso sentiamo come inappropriato e di scoprire punti di contatto tra noi e chi consideriamo diverso. Ecco allora che è possibile scoprire che Francesca gioca a tennis come Andrea oppure che Francesca preferisce andare al parco in compagnia come Elisa e Giulia oppure che a tutti piacciono i picnic. L’incontro al parco e la camminata sono stati poi l’occasione per avere un riscontro diretto su ciò di cui avevamo discusso in classe e per confrontarci con quegli aspetti concreti che possono rendere più difficile o, al contrario, facilitare l’accesso al parco. Dopo brevi tratti di camminata i partecipanti hanno espresso le loro sensazioni rispetto a cosa percepivano dello spazio (suoni, odori, temperatura e tipo di terreno) e a come questo cambiava addentrandoci sempre più nel parco. Allo stesso modo anche l’animatore con disabilità presente esplicitava il suo sentire coinvolgendo i partecipanti mettendoli a confronto con le diverse risposte. Uno spazio specifico è stato lasciato alla valutazione degli ostacoli e alle possibili soluzioni, più o meno creative. Tra tutte si è convenuto che, al di là della necessità di ridurre le barriere architettoniche, una delle strategie più efficaci per superare eventuali difficoltà e per godere appieno del piacere del camminare è la relazione. Fare insieme, condividere, sperimentare mettendo in comune le diverse abilità.

Guardare una foto, incontrare il mondo e diventare responsabili del cambiamento

Di Roberto Parmeggiani

Il sale della terra.
La gente, le persone, l’umanità.
Una genesi ininterrotta, la memoria dell’origine troppo spesso dimenticata in questo presente smemorato.
Genesi come fonte generante, ancora capace di far sgorgare dal principio, la vita.
In queste parole potremmo raccogliere il senso del lavoro artistico e professionale del fotografo brasiliano Sebastião Salgado.
Il grande pubblico l’ha conosciuto grazie al film che Wim Wenders ha realizzato per rendere onore alla sua arte e, in particolare, all’ultima parte del suo percorso fotografico. Il sale della terra, appunto, racconta la storia del fotografo, del suo profondo desiderio di rappresentare la fragilità umana e la natura nel suo aspetto originario, per “ricongiungerci con il mondo com’era prima che l’uomo lo modificasse fino quasi a sfigurarlo”.
Nato ad Aimorés, nello stato di Mina Gerais nel 1944, cresce in Brasile per poi trasferirsi in Europa con la moglie per occuparsi di economia lavorando per l’Organizzazione Internazionale per il Caffè.  A seguito di un viaggio in Africa che ebbe un forte impatto emotivo sulla sua percezione del mondo, decise di intraprendere la carriera di fotografo o meglio, decise che avrebbe voluto viaggiare per il mondo per documentare la vita nella sua complessità.
Le persone, in particolare, attirano la sua attenzione.
La condizione dell’uomo in relazione all’ambiente in cui vive.
Foto di grande qualità estetica capaci, allo stesso tempo, di raccontare l’esperienza umana nella sua varietà, sottolineando la drammaticità e, allo stesso tempo, la grande speranza che accomuna le condizioni dell’uomo a ogni latitudine.
Un’immersione tanto profonda nel mare della natura umana non può non avere conseguenze.

“In Ruanda vidi la brutalità totale. Vidi persone morire a migliaia ogni giorno e persi la fiducia nella nostra specie. Non credevo che fosse più possibile per noi vivere. Fu a quel punto che mi ammalai”.

Ammalatosi a tal punto da spingere i medici a suggerirgli di lasciare la fotografia, torna in Brasile, alle sue radici, tra le braccia della sua terra natìa, alla ricerca di un po’ di pace.
Anche lì, però, il suo interesse per l’origine della vita prende il sopravvento.
Ritornato nella regione in cui aveva vissuto da bambino si rende conto che quella terra che, una volta, era ricoperta da milioni di alberi, a causa dello sfruttamento selvaggio, ora era praticamente un deserto.
Che fare?
Di certo non era possibile rimanere indifferenti. Il bisogno di porre rimedio a quanto fanno negli anni precedenti prende il sopravvento su un’accettazione passiva della realtà.
Insieme alla moglie e alle sorelle decide di riforestare quel pezzo di terra, per dimostrare che un cambiamento è possibile e che alle parole e alle intenzioni è possibile far seguire le azioni.
Meno di dieci anni dopo, oltre due milioni e mezzo di nuovi alberi avevano ricoperto chilometri quadrati di deserto e oltre trecento specie di piante differenti erano state piantate per ricostruire l’ecosistema così com’era alle origini. Il tentativo, riuscito, di riportare alle origini quel pezzo di mondo, una nuova genesi della terra ma non solo.
È in quella esperienza, infatti, che affonda le radici il desiderio di un nuovo progetto, una rinnovata spinta a farsi testimone.
Qualcosa di nuovo e di diverso ma sempre legato alla stessa passione: quella di raccontare la vita dell’umanità. Nasce quindi il progetto Genesi.

“Lo scopo doveva essere vedere e cercare un modo nuovo di presentare il Pianeta Terra: questa volta non avrei puntato l’obiettivo sull’uomo e sulla sua lotta per la sopravvivenza, ma avrei mostrato piuttosto le meraviglie che rimangono nel nostro pianeta. Abbiamo deciso di cogliere con la macchina fotografica quella grande parte del pianeta che si presenta ecologicamente pura e, si potrebbe dire, ancora allo stato primordiale. Creare dunque una quantità d’immagini che fosse sufficiente a far capire al maggior numero possibile di persone che esiste una grande porzione del mondo ancora integra, allo stato della Genesi, e mostrare quanto proteggere questa parte sia fondamentale per tutti noi. Non si sottolineerà mai abbastanza l’importanza di ricostruire ciò che abbiamo distrutto”.

Ricostruire, quindi, riportare all’origine per darsi un’altra opportunità.
Lo sguardo con cui Salgado indaga la realtà non è polemico, non mira a giudicare, a puntare il dito e nemmeno punta a creare un catalogo antropologico. Lo sguardo del fotografo è quello del giornalista che, invece di usare le parole, racconta con uno scatto fissando sulla pellicola la realtà. Come un rinnovato neorealismo mette al centro il racconto del quotidiano, della normalità, della natura così com’è.
Certo, la visione delle sue foto ci affascina e ci colpisce per quel sapore a volte esotico, perché ci portano lontano. Eppure, se le osserviamo con attenzione noteremo che ritraggono situazioni estremamente semplici, comuni. Ciò che ci cattura, invece, è la forma estetica molto precisa, una scelta cosciente e voluta.

“Nelle fotografie a colori c’è già tutto. Una foto in bianco e nero invece è come un’illustrazione parziale della realtà. Chi la guarda, deve ricostruirla attraverso la propria memoria che è sempre a colori, assimilandola a poco a poco. C’è quindi un’interazione molto forte tra l’immagine e chi la guarda. La foto in bianco e nero può essere interiorizzata molto di più di una foto a colori, che è un prodotto praticamente finito”.

L’interazione ovvero la relazione.
Guardare le foto di Salgado è, quindi, come incontrare.
Una persona, un contesto, una storia, un movimento.
Un incontro in cui avviene uno scambio, come se quella foto rispondesse a ogni sguardo in modo univoco, unico, personale proprio perché lo sguardo che ricevono è diverso ogni volta.
Una relazione viva che non lascia indifferenti, ma costringe a un cambiamento, sia emotivo che razionale, psichico ma anche fisico.
Tra le tante immagini di Salgado, c’è una foto in particolare che mi ha catturato.
Ritratto di una donna Tuareg, cieca.
Dallo sfondo nero appare una figura umana avvolta da un grande telo scuro.
È una donna, lo capisci dalle labbra e dagli occhi che, seppur privati della loro funzione primaria, non perdono la loro forza identitaria.
È una fotografia calma, desolata, commovente, forte.
È un ritratto in cui ognuno può trovare qualcosa di sé, in cui è raccontata l’umanità. Perché, in fondo, la capacità che più ci affascina di Salgado è quella di non farti sentire estraneo in questo mondo e di farti percepire l’altro, anche quando questo altro è lontano geograficamente oppure quando a essere ritratti sono animali o perfino luoghi, come compagno di viaggio, come familiari.
Le sue foto ci ricordano quanto siamo fratelli, quanto siamo colpevoli per il mondo in cui viviamo e quanto, allo stesso tempo, potremmo essere i responsabili del cambiamento.

A veder come disegna un matto

Di Roberto Parmeggiani

Gualtieri è un piccolo Comune della provincia di Reggio Emilia, vicino al confine tra Emilia Romagna e Lombardia.
Se ci arrivi, come me, in un pomeriggio di domenica, con il cielo basso e grigio, la pioggia che cade fine e un po’ di foschia che sale dal Po, potresti avere la sensazione di fare un salto nel tempo.
Potrebbe sembrare di tornare nel medioevo, quando la città venne costruita e vide risiedervi negli anni i marchesi di Gualtieri.
Oppure potresti avere la sensazione di trovarti all’inizio degli anni ’50 quando l’ennesima alluvione distrusse buona parte della città. Quasi tutto, tranne lo spazio rinascimentale di Piazza Bentivoglio, quadrato perfetto con portico su tre lati e il palazzo che porta lo stesso nome.
Se poi esci un po’ dallo spazio cittadino e ti addentri nel boschetto che separa il centro abitato dal Po, potrebbe capitarti di vedere un uomo un po’ strano che cammina tra quegli alberi, si tocca la testa e, fissandoti da lontano, cambia direzione senza salutarti, magari per andare a raccogliere un po’ di fango dall’argine del fiume, per poi utilizzarlo per modellare le sue sculture.
La giornata che ho trascorso a Gualtieri, un viaggio non solo nello spazio ma anche nel tempo, mi ha permesso di comprendere quanto sia forte il legame tra un artista e la sua terra. In questo caso tra Antonio Ligabue e la sua Gualtieri, città che non lo ha visto nascere ma che lo ha accolto con carezze e schiaffi.
Nato nel 1899, figlio naturale di un’italiana emigrata, non ha mai conosciuto il padre.
Nel 1900 perde anche la madre e viene affidato a una coppia di svizzeri tedeschi. Forse proprio per la scomparsa della madre, il legame con la matrigna, che vede alternarsi momenti di amore e altri di odio, sarà causa di grandi sofferenze. L’infanzia passa infelice tra lo studio in un collegio per handicappati e alcuni mesi trascorsi in una clinica per malati mentali a causa di alcune forti crisi nervose che metteranno fortemente alla prova la relazione familiare.
È proprio a causa di un grave crisi nervosa, l’ennesima, che la madre adottiva decide di denunciarlo e per questo verrà espulso dalla Svizzera e portato nella città natale del padre, Gualtieri.
Qui non conosce nessuno. In un primo momento scappa, tentando di ritornare in Svizzera ma senza successo. Comincia, allora, a vivere come un vagabondo, venendo immediatamente etichettato come “matto del paese”.
Ciò nonostante, la passione per il disegno scoperta durante la permanenza nella scuola per handicappati, non lo abbandona per cui riempie il suo tempo disegnando e dipingendo, attività che lo soddisfa e che più di altre gli permette di comunicare al di fuori il grande caos che porta dentro di sé.
Trova ospitalità presso un ospizio fino a quando, tra il 1927 e il 1928, conosce il pittore Mazzacurati che, oltre a insegnarli alcune tecniche pittoriche, da quel momento si prenderà cura di lui.
Trascorrerà altri brevi periodi in manicomio, l’ultimo dei quali per aver percosso un soldato tedesco
con una bottiglia. Ne uscirà definitivamente nel 1948.
Ed è proprio in quegli anni che la pittura diventa il centro della sua vita, un desiderio di esprimere sulla tela, con colori e tratti decisi, le immagini che abitavano la sua mente.
Destino vuole che anche la sua fama si allarghi e un po’ di fortuna, lentamente, sembra volgere a suo favore.
Critici, mercanti d’arte e giornalisti iniziano a interessarsi a lui, garantendogli in poco tempo la notorietà che merita, fin quando nel 1961 viene allestita la sua prima personale a Roma, e successivamente anche Guastalla, altro paese reggiano, gli dedica una grande mostra antologica.
Nel maggio del 1965 al matt [il matto] muore, facendo di Gualtieri una città d’artista, casa del cosiddetto buon selvaggio della pittura italiana. 

Ritratti
Uno dei soggetti che più di altri Ligabue ha dipinto è proprio se stesso.
I suoi infiniti autoritratti.
Come ha scritto Luciano Manicardi, monaco di Bose, nel catalogo della mostra che ho potuto visitare proprio a Gualtieri, questi autoritratti sono “specchio di ferocia e di violenza, specchio di pietà e di tenerezza, specchio di smarrimento e di paura”.
Sono la ricerca di un’identità, di un riconoscimento che prima di tutti deve avvenire da lui stesso.
Una sorta di continua necessità di guardarsi allo specchio per ritrovarsi, se stesso e le proprie radici, quell’inizio al quale tutti torniamo quando perdiamo il filo della nostra identità.
Ritratti che fissano sulla tela un’immagine, quel momento specifico che mi dice chi sono.
Ma questo della ricerca interiore è solo uno degli aspetti dell’autoritrarsi.
I dipinti, infatti, sono per l’artista il mezzo attraverso cui rendere pubblica la propria inquietudine, quel dolore, quelle ferite che lo affliggono. Comunicarle all’esterno, alle persone che lo vedono e che, per semplicità, lo definiscono matto e basta, senza chiedersi cosa ci sia dietro quella parola. Certamente la diversità che deriva dalla malattia mentale fa paura ma, ancora oggi è così, è molto più semplice semplificare piuttosto che tentare di approfondire, come se negando la complessità si eliminasse la difficoltà.
Ecco allora che quei ritratti colorati e con sembianze a tratti deformate sono anche il grido di un uomo che chiede solo di essere visto per ciò che è, oltre l’apparenza che prende forma dal pregiudizio e dalla paura.

Animali feroci
Un altro dei suoi soggetti prediletti sono le bestie feroci.
Tigri, tante tigri e i rapaci, in particolare il falco.
Scene di lotta in cui gli animali si presentano in tutta la loro forza fisica, con movimenti decisi, figure di una violenza ancestrale che, ancora una volta, vede l’origine nella memoria emotiva dell’artista. Un ulteriore tentativo di ricreare la propria immagine, frutto di un’identificazione profonda soprattutto con i rapaci.
Come i rapaci, infatti, quando sono chiusi in gabbia, strofinano e sbattono il becco sulle sbarre alla ricerca di una via di fuga, così anche Ligabue, istintivamente, strofinava il suo grande naso sulle reti, definizione di un confine che da una parte lo potesse contenere e dall’altra liberare.
Anche in questo Ligabue, come artista, definisce un modello che tutti ci accomuna.
Chi, infatti, non ha mai sentito la necessità di un contenimento, di un sentirsi al sicuro, di un perimetro di relazioni e spazi dentro il quale sapere chi è?
Chi, allo stesso tempo, può dire di non aver mai sperimentato quel desiderio di fuga, di spazi infiniti, in cui sentirsi unici, anonimi, l’ultimo vero baluardo della nostra personale libertà?
Una lotta tra il bisogno di essere definiti e quello di appartenere all’indefinito che caratterizza profondamente la natura umana.
Lasciando Gualtieri, faccio una passeggiata nel bosco che divide la città dal fiume.
Quel luogo, ultimo rifugio del pittore, mi affascina per il mistero che porta in sé.
Raggiunto il Po, lo guardo scorrere, instancabile.
Come la vita, che procede indipendentemente dalla nostra capacità di tenere il suo ritmo.
E penso alle persone che, come Antonio Ligabue, si devono confrontare con quel ritmo che tutti consideriamo normale, mentre per loro normale non lo è.
E penso a come noi, i normali, finiamo per imporre quel ritmo a tutti, anche a noi stessi quando invece avremmo bisogno, anche solo momentaneamente, di un altro ritmo.
Ecco che allora, come al mio arrivo, forse per colpa della foschia che si è alzata e per quell’odore di sottobosco umido che mi riempie le narici, rivedo Ligabue muoversi tra quegli alberi, fermarsi a fissar qualcosa che vede solo lui, correre, urlare, spaventarsi.
Riconosco gli sguardi che ho visto nei suoi autoritratti, sento la forza della natura che egli ha rappresentato attraverso i suoi animali e comprendo che, al di là di tutte le interpretazioni che si possono fare, ciò che resta e ciò che importa sono i suoi dipinti.

La relazione con lo spazio e il senso di spaesamento

Di Roberto Parmeggiani

Ogni artista esprime il proprio stile attraverso caratteristiche precise che, spesso, sono radicate nelle esperienze più intime e personali.
Come se fossero l’espressione del vissuto, della storia, delle vicende che, in un qualche modo, l’hanno formato e che trovano, nel linguaggio artistico, un mezzo di espressione e comunicazione adeguato.
Cildo Meireles, brasiliano e uno dei più importanti artisti del secondo dopoguerra, non fa eccezione. La sua cifra artistica, infatti, è strettamente legata alla sua storia, agli incontri e alle scelte fatte, quelle personali e quelle sociali cui ha partecipato più o meno attivamente.
Nato a Rio de Janeiro nel 1948, scopre l’arte moderna e contemporanea quando si trasferisce a Brasilia dove, oltre a intraprendere studi artistici, frequenta vari luoghi dell’arte e si forma leggendo e scrivendo per varie pubblicazioni.
Le sue prime opere sono legate a maschere e sculture africane. Resta, infatti, molto colpito da una mostra che visita presso l’università di Brasilia su maschere originali africane e decide di reinterpretare ciò che ha visto, spinto dal desiderio di ricercare le origini, sue e della società in cui vive.
Un punto di svolta si ha nell’incontro con il movimento Grupo Neoconcreto, di Rio de Janeiro, che, oltre a riportarlo nella sua città natale, gli permette di aprirsi all’idea di spazio, a nuovo concetto di arte.
“Ogni volta che tentiamo di definire cos’è l’arte, abbiamo una divisione tra quello che è e quello che non è considerato l’oggetto dell’arte. Nell’epoca pre-classica, arte e religione erano sinonimi. Nella Grecia classica, arte e architettura erano ugualmente legate. Solo più tardi si è creata una distanza tra l’artistico e l’architettonico. Abbiamo cominciato a vedere l’arte come la documentazione o la riproduzione del reale. Quello che mi ha attratto del neoconcretismo è stata la possibilità di pensare all’arte in termini che non si limitassero solo al visivo”.
Tornato a Rio, nel 1967, il disegnare passa in secondo piano a favore della tridimensionale, opere cioè che conquistano lo spazio e lo occupano.
Ecco allora che lo spazio diventa una delle sue ossessioni, caratteristica principale del suo operare artistico, componente fondamentale nell’enfatizzare i paradossi e le metafore del sociale, inteso come luogo della vita di tutti.
Lo spazio diventa un luogo da riempire di significati, di pensiero, di arte e, soprattutto, di oggetti e materia, scelti per le caratteristiche simboliche o sensoriali. L’obiettivo principale dell’artista è quello di mettere insieme elementi contrastanti dal punto di vista semantico o visivo che, in relazione con lo spazio e interagendo con lo spettatore, attivino una riflessione sul contemporaneo.
Sia che le opere siano molto grandi o, all’opposto, molto piccole ciò che Meireles vuole ottenere è un momento di spaesamento che porti lo spettatore a riconoscere quello che vede ma in un contesto diverso dal solito.
“Gran parte della mia opera si inserisce all’interno della discussione circa lo spazio della vita umana, la qual cosa è tanto ampia quanto vaga. Lo spazio, nelle sue diverse manifestazioni, abbraccia arene psicologiche, sociali, fisiche e storiche… Non importa realmente se avviene o meno un’interazione tra lo spazio utopico e quello reale. Credo ci sia un aspetto quasi alchemico: anche tu stai venendo trasformato da quello che fai”.
Tra le decine di opere che Meirels ha realizzato, ne scelgo due tra quelle che ho avuto il piacere di vedere dal vivo e che, mi sembra, possono favorire una miglior comprensione di quanto ho scritto sopra. Si tratta di Eureka/Blindhotland del 1975 e Babel del 2001, un progetto che riprende e attualizza alcuni lavori realizzati dall’artista utilizzando vinili negli anni ’70.

Eureka/Blindhotland
Per visitare l’opera si entra in un ambiente delimitato da tende sottili, una specie di grande stanza asettica. All’interno si trovano vari oggetti e, al centro, una bilancia che può essere utilizzata per pesare quegli oggetti.
La sorpresa si ha nel momento in cui realizzi che ci sono oggetti di volume diverso ma di stesso peso, mentre altri esattamente uguali ma con un peso differente.
L’obiettivo di questa esperienza artistica è di portarti a riflettere sull’iper-valorizzazione che diamo al senso della vista a scapito degli altri sensi, a come siamo educati a non dare peso ad altri fattori oltre che quello visuale, una sorta di pregiudizio visivo che ci convince di poter valutare un oggetto come una persona, un luogo come un’esperienza solo facendo riferimento a ciò che vediamo, che abbiamo visto o che crediamo di aver visto.
L’opera è chiaramente una metafora della società odierna e dello stile delle relazioni che tutti noi instauriamo. Non solo e non tanto sul valore che diamo all’apparenza e all’immagine, in generale, ma sulla parzialità con la quale giudichiamo l’altro, sia esso cibo, arte o persona. Ci accontentiamo di ciò che vediamo (e spesso di ciò che qualcuno ci ha detto di aver visto) pensando che gli elementi che riusciamo a raccogliere con la vista siano assoluti e sufficienti per poter dare una valutazione.

Babel
Si tratta di una grande torre formata da radio di diverse epoche, sincronizzate su stazioni differenti. Come la Torre di Babele originale, l’opera si offre agli spettatori come un monumento alla confusione e allo stordimento causato da un insieme di informazioni sonore tanto diverse quanto contemporanee. Un effetto di spaesamento viene dato, inoltre, dal fatto che da radio esteticamente antiche e vetuste escano suoni attuali e moderni.
Mentre nella Babele biblica gli operai che stavano costruendo la torre vengono puniti con la confusione delle lingue che li farà disperdere su tutta la terra, quest’opera di Meireles ci porta a riflettere rispetto a come la comunicazione odierna sia troppo spesso causa di confusione e di allontanamento gli uni dagli altri invece che strumento di relazione. Non solo e non tanto per le diverse lingue che parliamo ma più che altro per lo stile comunicativo che ci spinge più a parlare che ad ascoltare. Siamo, in fondo, come quelle radio, produciamo suoni sperando che qualcuno li ascolti ma non siamo disposti ad ascoltare, a nostra volta, ciò che gli altri dicono.
Che tu sia nativo o immigrato, abile o disabile, bambino o adulto non importa più, si realizza una sorta di inclusione al contrario dove tutti, invece che aver creato un contesto in cui ognuno possa esprimersi al meglio, si illudono e si accontentano di una realtà che falsamente ti fa sentire al centro delle relazioni. Al centro sì, ma da solo.
Due parole, quindi, restano di questo artista che ha attraversato il tempo e lo spazio.
Parzialità e spaesamento insieme a relazione e comunicazione.
Parole e temi estremamente contemporanei come la critica che fa Cildo Meireles, il quale non è interessato nel definire il bene o il male, il giusto o lo sbagliato. A lui interessa, in quanto artista, attivare un pensiero, una riflessione su ciò che viviamo perché possiamo essere il più possibili consapevoli del contesto in cui siamo inseriti e, in particolare, delle relazioni e della comunicazione che possiamo mettere in atto.
Parzialità e spaesamento, quindi, come quel luogo dove sostare per poi rimettersi in viaggio più consapevoli.

(Tutte le citazioni sono da: www.escritoriodearte.com/artista/cildo-meireles
Traduzione di Roberto Parmeggiani)

1. Come (NON) dirlo ai bambini. Non se ma come

di Roberto Parmeggiani

Da che mondo è mondo genitori ed educatori si sono, prima o poi, trovati di fronte alla domanda: “Come dirlo ai bambini?”, cioè come raccontare ai bambini le cose della vita, quelle più difficili da comprendere ma anche quelle che mettono maggiormente in crisi noi adulti.
Come dire ai bambini che mamma e papà stanno per divorziare, come spiegare che il nonno è morto, come parlare di guerra, violenza e ingiustizia, come dare informazioni rispetto a una malattia o alla disabilità, ecc.
Anche in Italia e più in generale in Europa, nel 2015 ci siamo trovati spesso a porci questa domanda rispetto a diversi eventi pubblici: come spiegare ai bambini gli attentati in Francia o i morti nel Mediterraneo, come condividere culture diverse o differenti orientamenti sessuali, solo per fare alcuni esempi.
Il fatto nuovo, però, con cui ci siamo dovuti confrontare è che di fianco al come è stato inserito un se. Non, quindi, come dirlo ai bambini ma se dirlo ai bambini. Se, cioè, è giusto dire le cose della vita ai bambini, se è corretto informarli della realtà che li circonda, oppure se, invece, ci sono cose che devono essere lasciate alla libera iniziativa dei genitori, che devono, cioè, anche nel momento in cui riguardano la vita pubblica di una società, rimanere di gestione privata perché difficili, perché ritenute da qualcuno non adatte quando invece per altri rappresentano aspetti normali della quotidianità.
Questa monografia, che nasce a seguito e a completamento della tavola rotonda “Come (non) dirlo ai bambini” realizzata a novembre 2015 presso il MAMbo – Museo d’arte moderna di Bologna e da cui sono tratti anche alcuni degli articoli che presentiamo, vuole affermare e offrire tesi a sostegno del fatto che non esistono temi per i quali è necessario chiedersi se è bene o male parlarne ai bambini ma che quello che possiamo e dobbiamo fare è chiederci e scegliere il come.
Non se parlarne, quindi, ma come.
Con quali strumenti, quale consapevolezza, quali parole e immagini adatte all’età e al contesto sociale e culturale.
Con quale orizzonte educativo, culturale e sociale perché è responsabilità di tutti la costruzione di una società capace di offrire gli strumenti necessari a comprendere le cose della vita.

8. L’altra faccia della medaglia: la voce dei figli

Abbiamo deciso di chiudere questa riflessione dando la parola ai figli.
Perché, in fondo, esistono tanti padri quanti sono i figli e nel nostro tentativo di restituire un’immagine il più completa possibile del mondo paterno contemporaneo, non possiamo dimenticarci dell’altra faccia della medaglia.
Abbiamo deciso di non realizzare vere e proprie interviste, bensì abbiamo proposto ad alcune persone con disabilità di raccontarci, secondo la loro diretta esperienza, quale ruolo ha giocato il loro papà nella loro vita.

Un punto di riferimento
Insieme alla mia nonna materna, mio padre è stato una figura di riferimento fondamentale nella mia formazione, sia in quello che io potevo offrire al mondo, sia nella visione che ho del reale. Il suo essere uomo di grande cultura ha avuto un forte ascendente su di me, tanto da sentirmi sempre protetto sotto la sua egida. Questo avveniva soprattutto quando avevo da imbattermi con l’ottusità di alcuni professori o, in senso più ampio, quando avevo da svolgere mansioni di responsabilità nella scuola come nel mondo. Mi bastava dire di essere il figlio dell’avvocato Fulgaro, per ricevere un trattamento più di rispetto da parte dell’altra gente e questo mi dava sicurezza. Sapevo a chi chiedere aiuto, la sua poliedricità gli consentiva di aiutarmi in qualsiasi campo.
Quando sono sopraggiunti i primi problemi di salute a 14 anni, ho trovato non poche difficoltà a relazionarmi innanzi tutto  nell’ambito della scuola, le mia assenze mi facevano restare indietro e mi mettevano in difficoltà. Il fatto che mio padre potesse essere un supporto per lo studio è stato importante. Per via delle mie assenze legate ai ricoveri per la malattia, sono nati contrasti con un professore che ha deciso di essere severo con me e voleva che io recuperassi tutte le materie: mio padre ci parlava e mi aiutava nella mia battaglia con lui. Poi al liceo questi problemi sono continuati e io avevo anche rinunciato a combattere discutendo, litigando; mio padre mi ha aiutato concretamente a finire il liceo in questa situazione. Mi aiutava proprio a fare i compiti, lì dove poteva, per alleggerirmi.
Avevamo un rapporto molto complice, mi sentivo libero di parlargli delle mie difficoltà e di chiedergli aiuto, lui era sempre comprensivo e sempre disposto ad aiutarmi. La conflittualità non ha mai fatto parte del nostro rapporto neanche in adolescenza: mio padre era un tipo allegro e brillante, mi ha trasmesso questa allegria e questo modo di stare al mondo, per me è stato un modello da seguire sempre e comunque. Era un filosofo a tutto tondo, mi ha trasmesso insegnamenti e saggezza, anche perché per i miei problemi di salute ho iniziato ad avere difficoltà a relazionarmi con la gente, lui mi spronava a fare cose, ad uscire, ad andare avanti a testa alta sempre.
È stato principalmente lui a seguirmi nella mia malattia, usando i contatti che aveva con amici medici e portandomi in giro per visite e operazioni, cercava di accorciare i tempi e di ottenere interventi veloci.
Appena finito il liceo, mio padre ha avuto un ictus che mi ha fatto sentire perso, era lui che mi portava per mano ed era la mia guida; da quel momento la mia malattia è peggiorata.
Con i miei fratelli aveva un rapporto di complicità pari al mio, con la differenza che io avevo maggiori necessità e bisogni, dovevo essere seguito di più. È sempre stato una figura molto presente e importante in casa nonostante fosse molto impegnato con il lavoro, ne faceva quattro (avvocato, insegnante, artista, poeta). Mia madre era ancora più presente, casalinga per volontà di mio padre, ma da quando c’è stata la diagnosi della mia malattia lui ha capito di dover essere più presente, che il suo aiuto e il suo sostegno erano maggiormente indispensabili, per questo ha rinunciato in parte ai suoi impegni. All’inizio mia madre è stata la prima a venire in mio soccorso, poi ho chiesto io a mio padre di seguirmi perché ne avevo bisogno, lui così ha iniziato a starmi accanto e a combattere la mia battaglia per finire il liceo con me. 

Non ha mai fatto distinzioni
Mio padre nella mia vita ha avuto un ruolo legato solo all’aspetto materiale: lui era quello che lavorava e quindi sosteneva la famiglia economicamente.
Era mia madre che si occupava delle cure, che mi accompagnava a fare le visite mediche, mio padre non ha mai partecipato attivamente.
L’incontro con lui  avveniva solo di sera, ma si dialogava poco. Quando eravamo piccole, io e mia sorella, non ha mai trascorso del tempo per giocare con noi.
Era una sorta di padre-padrone, dettava le sue regole e io ero tenuta a seguirle. È una figura tuttora autoritaria, per niente affettiva.
Non mi confidavo mai con lui, non c’è mai stato un rapporto intimo.
L’affetto che provava per me non me lo dimostrava con gesti espliciti, forse attribuibile anche alla sua mentalità, alla sua cultura.
Nell’educazione però non ha mai fatto distinzioni tra me e mia sorella.
Mi ha trasmesso solo il suo senso del dovere.
Mi è stato d’esempio e mi ha trasmesso la passione per il lavoro. 

Mi ha sempre insegnato ad arrangiarmi
Mio padre mi ha insegnato il valore dei soldi e si è messo ha spiegarmi quanto valeva la lira (allora c’erano ancora le lire). Anche quando io ho perso la mamma, la prima volta che sono andata in macchina da sola e ho dovuto pagare io, se non avessi saputo quanti soldi dare sarebbe stato un problema.
Lui mi ha insegnato la destra e la sinistra per poter dare indicazioni a qualcun altro, cioè agli autisti che mi accompagnavano.
Dopo la morte di mia madre,  quella che telefonava ai trasporti per dire che mi serviva una macchina nel tal posto, alla tale ora… ero io. Le prime volte mi confondevo perché fino a quel momento non ci avevo mai pensato a fare ciò.
Mio padre mi ha sempre insegnato ad arrangiarmi, l’insegnamento più grande che ho avuto è stato questo. Infatti appena potevo fare qualcosa, io ero esortata a intervenire perché “se puoi fare qualcosa, falla!”. Ero chiamata a contribuire in qualsiasi modo anche economicamente.
Mi ha educata, ad esempio a tavola a mangiare quello che c’era senza protestare. Lui era quello che mi spingeva alla mia indipendenza, mi ha preparata a sapermi organizzare, perché a un certo punto si è trovato a non essere più in grado di aiutarmi fisicamente. Appena ho scoperto questo e la mia voglia di andare fuori di casa, il mio dire “Ormai sono grande e voglio farmi una mia vita”, il voler uscire dall’iperprotezione data da mia nonna che non riusciva ad ammettere di non poter più accudirmi (l’abbiamo dovuta convincere, fu uno degli scogli maggiori che abbiamo dovuto affrontare), ho deciso di prendere una mia indipendenza, una mia strada.
All’epoca ero iscritta all’AIAS (mi aveva iscritto mio padre), un’associazione di genitori che in quel periodo si ponevamo principalmente, e con preoccupazione, il tema del “dopo di noi”. Ma c’era un altro tema molto importante per i figli, quello dell’indipendenza  e di ciò che si desidera per se stessi. 

Credo che ci debba essere un equilibrio tra me e lui
Mio padre è presente nella mia vita. È una figura importante per me.
Della cura della mia persona si occupa principalmente mia madre, ma mio padre interviene nel momento del bisogno.
Quando esprimo la mia volontà di uscire non mi contraddice, anzi mi accompagna anche in discoteca.
Spesso mi abbraccia e mi bacia ma io non voglio che lo faccia.
Quando ero bambino giocava molto con me e al momento della messa a letto mi raccontava delle storie.
Mi ricordo che quando mia sorella era piccola mio padre trascorreva più tempo con lei, ora invece si occupa più di me e stiamo più tempo insieme.
Io penso che sia un buon padre perché mi accompagna fuori e perché mi sta vicino anche se a volte la vicinanza è troppa e ritengo che sia così per via della mia disabilità.
Il rapporto con mio padre tutto sommato mi piace, ma non mi piace il fatto che mi lasci poco spazio.
Credo che ci debba essere un equilibrio tra me e lui.

Con quegli occhi furbi mi potrà dire…
I miei genitori mi hanno raccontato che alla mia nascita i medici avevano comunicato loro una diagnosi molto dolorosa che proprio non si aspettavano: dovevo essere un vegetale  con poca possibilità di sopravvivenza.
Mio padre mi ha detto che inizialmente per lui è stata molto più dura la fase dell’accettazione della mia condizione di bambina disabile rispetto a mia madre perché lei, facendomi fare un percorso di riabilitazione molto intenso all’estero per diversi anni, ha avuto più possibilità di vedere persone simili a me  e confrontarsi con altri genitori. Lui invece, quando ci si trovava in compagnia, si sentiva a  disagio dimostrando il suo imbarazzo nell’avere una bambina con le mie difficoltà. Questo problema con gli anni è sfumato e oggi non esiste più, sento mio padre molto più sereno.
Lui però, osservandomi,  ha iniziato a pensare e poi  a modificare, inventare e  creare degli ausili sia per la mia postura che  ludici, che allora non esistevano ancora. Negli anni ha continuato a costruire per me ausili creativi per migliorare la qualità della mia e della nostra vita in vari ambiti, dal divertimento allo sport, alla vita sociale. Questo suo fare è stato il modo di mettere in pratica la sua creatività oltre che  di sentirsi utile e partecipe ai miei bisogni e desideri.
Fin da bambina ho un ricordo di mio padre che anche nell’accudimento della mia persona era ed è sempre presente insieme alla mamma per aiutarla. Ho sempre sentito la sua vicinanza anche a livello morale, nonostante non mi abbia mai nascosto la realtà, e a volte anche la fatica;  mi sta accompagnando nel viaggio della mia vita sostenendomi e credendo in me. Non vi nascondo che avendo due caratteri molto simili, caparbi, orgogliosi, tosti soprattutto nel periodo adolescenziale spesso ci scontravamo e nessuno dei due voleva cedere. Oggi è più facile per noi discutere e trovare un accordo anche se alle volte deve intervenire il “mediatore”, la mamma.
Durante tutti questi anni ho raggiunto degli obiettivi impensabili all’inizio della mia vita, sicuramente grazie a quella forza di  volontà che ho sempre respirato attraverso la  vicinanza e  l’esempio dei miei genitori. Negli anni siamo riusciti a creare attorno a noi una rete di supporto, dalle istituzioni  ai servizi agli amici, in modo da permettermi di crescere e di non sentirmi più a disagio, ma sentirmi cittadina attiva all’interno della società.
Guardandomi allo specchio riconosco in me alcune caratteristiche molto simili a quelle di mio padre: lui infatti è sempre stato propositivo nell’affrontare le problematiche senza mai abbattersi e anch’io credo di essere una persona positiva. Lui è sempre pronto ad aiutare le altre persone e questa dote nel mio piccolo la sento mia, mi sento soddisfatta e realizzata quando posso aiutare gli altri anche tramite il lavoro che svolgo. Sono come lui piuttosto caparbia e  orgogliosa nel voler risolvere situazioni non di facile soluzione, ma la calma  nel suo agire lo avvicinano molto alla mia lentezza nell’operare. Un lato del nostro carattere estremamente identico è la ricerca della precisione  che comunque non guasta a mantenere ordine intorno a noi.
Dico grazie a mio padre per tutto l’affetto che mi dà. 

7. Racconto, quindi esisto. La necessità dei padri di raccontarsi

Nel suo testo La valigia di mio padre, Orhan Pamuk racconta di cosa significhi per lui essere uno scrittore. Il percorso e il ragionamento che ci propone partono dal racconto della relazione con suo padre e dal timore di aprire la valigetta che gli aveva lasciato in eredità, dentro la quale il padre conservava ciò che aveva scritto. Paura del confronto, da una parte, e desiderio che suo padre fosse solo suo padre e non un padre scrittore, dall’altra. Nasce quindi una riflessione rispetto a cosa significhi scrivere e a chi è lo scrittore, anche in relazione alla propria storia più personale.
“Lo scrittore che si chiude in una stanza con i suoi libri o intraprende un viaggio dentro se stesso scoprirà anche la norma indispensabile della grande letteratura: l’abilità di raccontare la propria storia come se fosse la storia di un altro e la storia di un altro come se fosse la propria”. (Cfr. O. Pamuk, La valigia di mio padre, Giulio Einaudi Editore, Torino, 2007).
Prendendo in prestito il ragionamento di Pamuk, mi chiedo se, quando un padre scrive della propria esperienza, compie lo stesso percorso descritto dallo scrittore.
Parlando di sé, raccoglie anche la storia di tutti gli altri? Racconta la propria esperienza come se fosse l’esperienza di ogni altro padre?
Io credo di sì, perché penso che nel momento in cui qualcuno decide di raccontare il proprio mondo, piccolo o grande che sia, nel momento in cui descrive il proprio vissuto, anche quello più personale, ci presenta argomenti, emozioni e desideri che sono parte della storia di ogni padre.
Raccontare come una necessità, quindi. Quella di conoscere, di condividere e, soprattutto, di affermare la propria esistenza, in un contesto sociale che, come abbiamo già detto, ancora fatica a capire qual è il ruolo specifico dei padri.

7.1. Quando un padre si dedica, prima alle radici poi alle gemme
Massimiliano Verga ha tre figli: Jacopo, Cosimo e Moreno.

A volte dice che ne ha 2+1, poi però rettifica e sostiene di averne tre.
È tre volte padre, perché per ogni figlio la sfida e il libretto di istruzioni è diverso, anzi sostiene che il libretto di istruzioni lo devi scrivere tu, mettendo in fila ciò che l’esperienza, sempre differente, ti insegna.
Nel suo Un gettone di libertà Massimiliano racconta il proprio percorso di padre, un’autobiografia che passa dalla passione per l’Inter alle difficoltà legate al sistema assistenziale ma anche un insieme di riflessioni sui propri ruoli, quello di padre e quello di figlio. Questo, infatti è l’aspetto forse più interessante e nuovo, rispetto ad altri testi che parlano di paternità. Leggendo il libro scopriamo l’intreccio tra la sua esperienza in quanto padre e quella come figlio. Nel momento in cui assapora il gusto della prima paternità, infatti, Massimiliano Verga scopre che suo padre “è una persona diversa da quella che gli ha dato il nome”.
Questa specie di cortocircuito, tra l’essere padre e l’essere figlio, porta l’autore a unire le due riflessioni e ad affermare che “è vero che i figli sono di chi li cresce. E non conta il sangue. Il sangue è un dettaglio. Non è il sangue a renderti genitore di un bambino […] Sì i figli sono di chi li cresce. Ma questa frase ha senso soltanto se dai un significato preciso e inappellabile a che cosa si debba intendere per ‘crescere un figlio’ […] I figli non appartengono a nessuno. Quando li metti al mondo è tuo dovere crescerli come meglio ti viene. Hai una responsabilità nei loro confronti, ma non sono tuoi […] la paternità non è un fatto di sangue. Per come la vedo io, la paternità e qualcosa d’altro: è un susseguirsi di domande e voglia di esserci”.
Massimiliano parla del suo essere padre, dal punto di vista particolare del suo essere figlio e, soprattutto, del suo essersi scoperto un figlio “diverso”. Come se, a un certo punto, non potessimo parlare di cosa significa per noi essere padri, avere una responsabilità sui figli e sul loro futuro, se prima non facciamo i conti, fino in fondo, con la nostra esperienza in quanto figli. Come se potessimo dedicarci ai rami e alle gemme solo dopo aver conosciuto le radici e, per quel che è possibile, dopo averle curate.
Oltre a questo nucleo, nel libro c’è un altro aspetto specifico del ruolo paterno che trovo molto interessante e che si potrebbe raccogliere in tre parole chiave: l’autonomia, la libertà, il futuro.
“Non esiste un manuale di istruzioni sulla paternità buono per tutte le occasioni. Esiste soltanto una risma di fogli bianchi che i tuoi figli ti aiutano a riempire. Fogli pieni di inevitabili errori, poesie improvvisate, arrabbiature ricorrenti, dolci sorprese… Dei miei tre figli, uno è disabile. Moreno non vede, non parla e non può capire quasi nulla di quello che gli succede intorno. Moreno  non sarà mai un uomo libero, anche se io fossi il padre migliore del mondo. Perché Moreno non può scegliere”.
Un’affermazione forte che, come abbiamo visto nelle interviste rivolte ai padri, non sempre è condivisa o forse richiederebbe un confronto approfondito rispetto a ciò che si intende con il termine libertà. Ma, al di là di un semplice giudizio, la cosa interessante del ragionamento di Verga è la necessità per il padre di interrogarsi, riflettere e disegnare il proprio personale percorso che unisca questi tre temi: come l’autonomia del figlio, rispetto alla costruzione del proprio futuro, può esplicitarsi attraverso atti, più o meno piccoli, di libertà?

7.2. Quando un padre impara a cadere
Diogo Mainardi, giornalista e scrittore brasiliano, trapiantato a Venezia, porta alla nostra attenzione un aspetto importante della genitorialità, quello dell’accettazione dell’imperfezione dei figli.

Ne La caduta – I ricordi di un padre in 424 passi Mainardi racconta del figlio Tito, nato a Venezia con un danno cerebrale molto grave causato dell’imperizia di un medico durante il parto. Al centro della narrazione ci sono le infinite cadute di Tito e la sfida a riuscire a fare 424 passi consecutivi. Un passeggiata, potremmo dire, durante la quale l’autore connette arte, scrittura, storia. È un libro sentimentale senza essere sentimentalistico, riconduce la loro vita privata a una circolarità che riguarda tutti, che tutti coinvolge. Perché, in fondo, lo svolgersi della vita non è una linea retta ma una serie di cerchi che si susseguono nello spazio e nel tempo.
Dopo i primi tempi di angoscia e terrore per ciò che era successo all’ospedale e per quella vita inaspettata che i due genitori si trovano tra le mani, succede qualcosa di inaspettato e, allo stesso tempo, inconsciamente desiderato, un’occasione per cambiare il punto di vista.
Anna, la moglie di Mainardi e la mamma di Tito, cade inciampando in un tappeto. Non si fa nulla ma, come spesso capita quando vediamo qualcuno cadere, scoppia una risata. Il primo è Tito, si mette a ridere e lo stesso fanno Diogo e successivamente anche Anna.
“La paralisi celebrale di Tito diventò immediatamente più familiare. La comicità slapstick era un linguaggio che capivamo tutti. Tito cade. Mia moglie cade. Io cado. Ciò che ci unisce – che ci unirà sempre – è la caduta”.
Caduta come simbolo della precarietà, della fragilità, della difficoltà e come passaggio necessario di ogni crescita. Chi, infatti, non è caduto quando in casa stava imparando a camminare oppure dalla bicicletta mentre cercava di imparare a stare in equilibrio sulle due ruote?
A tutti è successo ed è proprio attraverso quelle cadute che abbiamo imparato qualcosa.
Cosa succede, però, se le cadute non rimangono un fatto dei primi anni di vita ma si definiscono come un aspetto caratteristico della persona?
Cosa succede, non tanto a un livello di praticità, per il quale è possibile identificare strategie adeguate, quanto a un livello simbolico? Cosa si fa con quell’aspetto di imperfezione che giornalmente viene sottoposto alla nostra attenzione e che ci definisce come incapaci e imperfetti?
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Vertigo
Quando Tito cammina, i suoi muscoli si contraggono. Quando i suoi muscoli si contraggono, lui si spaventa. Quando lui si spaventa, i suoi muscoli si contraggono ancora di più.
Vertigo, in Brasile, venne tradotto con il titolo di Um Corpo que Cai (Un corpo che cade). Tito è un corpo che cade.
Ogni passo fatto da Tito equivale a un gradino salito da James Stewart, nel campanile di San Giovanni Battista. Sí: manca Alfred Hitchcock. Sí: manca Kim Novak. Sí: manca la colonna sonora di Bernard Herrmann. Il resto – l’ho già detto – è identico. Gli occhi sbarrati. La bocca aperta. La lingua secca. Le gambe rigide. Il sudore che scorre dalle basette. Lo zoom in. Lo zoom out.
Nelle ultime scene di Vertigo, James Stewart vince finalmente la paura dell’altezza e sale sul campanile di San Giovanni Battista.
Dice:
– Ce l’ho fatta.
Anche Tito, gradino dopo gradino, ce la sta facendo.
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Alla fine di Vertigo, Kim Novak cade dal campanile di San Giovanni Battista. Cade e muore. James Stewart sopravvive. Tito è James Stewart. Cade e sopravvive.
Tanto peggio per Kim Novak”.
Il ruolo del padre, nel percorso di accettazione del figlio, bilancia quello della madre. Il padre infatti sostiene il figlio nel distacco dal mondo protettivo materno, necessario ma che a un certo punto va abbandonato, aiutandolo a sperimentare le sue capacità, affrontando difficoltà e cadute, senza sentirsi in colpa per ciò che succede, probabilmente perché più facilitato nel chiedere al figlio adattamento, responsabilità e un confronto franco con la realtà.
Da qui, infatti, parte quel processo di accettazione che, pur riguardando tutti, chiede alla persona con disabilità uno sforzo maggiore, forse un cadere e un rialzarsi una volta in più. E il padre può svolgere un compito importante nel chiedere al figlio uno sforzo e un dolore necessario a questo rituale, centrale nel processo di crescita. Se parliamo di accettazione, inoltre, dobbiamo riconoscere al padre una maggiore capacità di accettare difetti e limiti del figlio perché, al contrario della madre, riesce più facilmente a non ricondurli a una propria responsabilità; il padre riesce più facilmente a rinunciare al figlio del desiderio, il figlio cioè come lo si sarebbe voluto, per accettare il figlio reale, così come è. L’accettazione da parte dei genitori, intesa come riconoscimento dell’identità psicofisica del figlio, indubbiamente favorisce un percorso di accettazione anche nel figlio.
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Come i genitori di Christy Brown, Anna e io imparammo a ignorare tutte le prognosi da bestioli dei medici, ottimistiche o pessimistiche. Come i genitori di Christy Brown, Anna e io imparammo a festeggiare ogni passo in avanti di Tito, per quanto barcollante.
A partire da un determinato momento, imparammo a festeggiare perfino i suoi capitomboli. Nei primi anni, Tito si sfracellava cadendo. Con il tempo andò sviluppando sempre nuove tecniche per attutire le cadute.
Saper cadere ha molto più valore che saper camminare”. 

7.3. Quando un padre disegna un orizzonte
“Io, quando ho saputo di te bambina mia, mi sono sentito derubato del futuro. Non parlerà mai, mi avevano detto. Anzi no, l’avevo saputo dalla Rete spulciando gli inevitabili e numerosi siti dedicati alla sindrome che stavano per diagnosticarti […] È del tutto insospettata la quantità di attese implicite che governano un evento come il diventar genitori. Attese che esplodono tutte assieme davanti ai tuoi occhi proprio quando ti accorgi d’improvviso che non puoi più attenderle […]
Il problema, con un figlio disabile, è che il futuro è, assieme, segnato e del tutto imprevedibile. Non mi avresti salutato dai gradini con la manina il tuo primo giorno di scuola. Non mi avresti raccontato della gita con i tuoi compagni in quel posto bellissimo che all’inizio non ci volevi neppure andare […] E poi nessuna possibilità di vederti uscire la sera con gli amici tra una quindicina d’anni, attanagliato dalla voglia di non permettertelo ancora e dal desiderio di vederti più grande. Di litigare con te perché non studi o studi troppo, perché non ti impegni abbastanza o non ti diverti abbastanza, perché pensi solo ai ragazzi o non ci pensi per nulla E i nipoti? …lasciamo stare […] Il problema è che la genitorialità, questa parola oggi buona per far allentare i cordoni della borsa ai finanziatori di turno di qualsivoglia intervento sociale, è essenzialmente progetto. Almeno al maschile. E io sono “al maschile”. Ossia sono tuo padre, e che cos’è un padre se distoglie gli occhi dall’orizzonte per piegare il proprio sguardo solo sulle necessità quotidiane di cura? Nulla. L’esperienza del nulla infatti è quella che segue immediatamente quella del furto del futuro”.
Igor Salomone, professionista dell’educazione, scrive un diario nel quale raccoglie la sua esperienza di padre. In Con occhi di padre – Viaggio intorno a quel che resta del mondo l’ autore descrive situazioni, eventi, ci offre alcune riflessioni ma anche le sue emozioni di uomo che si trova ad affrontare la sfida della paternità con una figlia, però, che scardina tutte le sue certezze, che mette in crisi l’immaginario comune di chi si trova ad accogliere un figlio.
Questo brano sottolinea alcuni aspetti centrali nella relazione genitoriale e, nello specifico, paterna: futuro e progetto.
Come è stato detto più volte, il padre ricopre una funzione di differenziazione. Aiuta il figlio, o dovrebbe aiutarlo, a differenziarsi dal contesto familiare volgendo il proprio sguardo al di fuori di tale contesto, cercando un orizzonte proprio, un percorso personale. Partire, cioè, staccarsi dal conosciuto per scoprire il proprio futuro.
Ma com’è possibile questo, quando tuo figlio è disabile e, come ci dice Salomone, non potrà corrispondere all’idea sociale e condivisa di figlio? Come riuscirà il padre a favorire la differenziazione quando il figlio richiede assistenza continua?
“L’essenza dell’umano è trasmettersi, ovvero consegnarsi a qualcuno perché a sua volta si consegni a qualcun altro. E a noi, amore mio, sembra negata ogni chance di parteciparvi?
… Forse l’ho già detto, ma io sono tuo padre e il mio compito è portarti nel mondo in questo mondo, insegnandoti a incontrarlo. Quindi, non è costruirtene uno tutto per noi e viverci felici fino alla fine del nostro tempo”.
Differenziare e progettare, quindi, significano integrare e non escludere, passeggiare nel mondo come cittadino e non come straniero, protagonista della storia secondo le proprie abilità e potenzialità. Non, quindi, la ricerca di una realtà parallela ma l’acquisizione degli strumenti adatti a far parte di questo mondo.

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.4. Quando un padre cerca di mettere insieme i pezzi

“Una spiaggia infinita di sabbia fine, un orizzonte blu, un sole che non tramonta mai e un secchiello rosso”.
Ecco com’è il piccolo paradiso di Maria, una bambina allegra e sorridente. Diversa dalla maggior parte delle altre bambine perché autistica.
Maria ha un papà che si chiama Miguel.
Miguel ha sempre disegnato, prima per lavoro poi per permettere a sua figlia Maria di ricordare, o meglio, di poter gestire, conservare, organizzare i suoi ricordi.
Maria vive alle Canarie con la madre, mentre suo padre Miguel vive a Barcellona.
Maria e io di Miguel Gallardo è il racconto di una vacanza, di un tempo dedicato alla relazione tra il padre e la figlia. È una storia autobiografica, un viaggio, un pezzo di vita di una vita tutta divisa in piccoli pezzi.
Miguel Gallardo è un famoso illustratore e fa parte della corrente comics, un genere di fumetti dal contenuto umoristico.
Anche il libro, in effetti, può essere considerato un grande fumetto con un po’ di parole e tanti disegni, schizzi quasi infantili, che parlano di cose semplici, di un quotidiano comune a tanti. Piccole abitudini, strategie, scelte, percorsi, desideri, scoperte, paure, soluzioni, stanchezza.
Una vita quasi banalmente normale.
Come sono normali tutte le vite che si srotolano tra un pezzo e l’altro, tra un prima e un dopo, tra un problema e una soluzione e un altro problema.
“Oltre ai capelli folti e robusti, bianchi io e neri quelli di Maria, dalla mia parte lei ha ereditato il naso e da quella di sua madre il viso rotondo con le fossette. Condividiamo anche manie e abitudini, le mie me le sono inventate io, le sue sono una fusione tra la sua disabilità e la testardaggine che ha preso da sua nonna. Tutti e due siamo restii ai cambiamenti e vogliamo che le cose siano sempre al loro posto”.
Questa normalissima vita, diventa diversa negli occhi degli altri che si girano per osservare Maria quando grida improvvisamente, quando fa un capriccio o quando comunica in quel modo così strano.
Il viaggio alle Canarie raccontato nel libro, infatti, contiene un altro viaggio, quello dentro l’autismo.
Il libro spiega l’autismo raccontandoci la vita di Maria, un pezzettino della sua vita.
Quello che fa il papà/scrittore, in fondo, è qualcosa di tipicamente paterno: aiuta la figlia a mettere insieme i pezzi. Nel caso specifico raccoglie, riordina e unisce per restituire alla figlia un ordine, il proprio, a partire dal quale lei possa dar senso alla vita, la propria.
Possiamo affermare che è del paterno la capacità di restituire al figlio un’immagine di se stesso, ricomponendo i pezzi di una storia – temporale, emotiva e cognitiva – con i quali il figlio potrà cominciare quel percorso di riconoscimento di chi è e di scoperta di chi vorrà essere.
Il padre può fare questo perché è capace di lasciare spazi vuoti, di accettare un incompiuto che solo il figlio può compiere. Non sempre i lati dei pezzi di questo puzzle che il padre dona al figlio combaciano, ci sono pezzi che si ripetono mentre altri ancora sono nascosti.
Si tratta di un intreccio che però rispetta i tempi e accetta le distanze, che non ha bisogno di controllare ma nel quale il padre gioca un ruolo di guida, pronto ad accogliere, non a imporre.
Questa distanza non definisce una lontananza ma rende le relazioni più forti perché lascia spazio allo sviluppo dell’identità, spazio di manovra perché succeda qualcosa che, nel caso di Maria e del suo papà Miguel, spesso, è divertente.

“E questo è tutto,
Maria è Maria
e io sono il suo
papà, a volte ci
arrabbiamo, il più
delle volte ridiamo,
non la smettiamo
mai di parlare,
soprattutto lei.
Mi piace disegnare
per lei e che questo
sia un modo
di comunicare tra
noi. Maria è la
figlia migliore che
si possa desiderare”.