L’effetto «distanza» sull’identità e sul cambiamento
Ci soffermeremo su questo aspetto che pur facendo parte del pensiero di molti ricercatori non è mai stato posto in primo piano.
La «distanza» entra in gioco soprattutto laddove la migrazione è volontaria ed è sostenuta da una speranza positiva e da una motivazione di ricerca di qualcosa di molto importante dal punto di vista personale. Migrazione volontaria in tal senso può essere quella di cooperanti in progetti di sviluppo nei Paesi del Terzo Mondo e anche la migrazione turistica «impegnata»; quella legata ad una specifica professionalità e quella solo motivata dal desiderio di cercare esperienze nuove, di conoscere genti e paesi, di mettere alla prova se stessi, di lanciare una sfida interiore alla società d’appartenenza.
Il meccanismo delle aspettative crescenti indotte nel Terzo Mondo dai doni, dalla vista del tenore di vita dei turisti di massa, dalla diffusione televisiva e/o cinematografica, può avere il medesimo effetto induttore di migrazione per un movente personale positivo sulla gente di queste aree culturali; così come il Terzo Mondo ha un effetto di fascinazione sulla gente dell’occidente (il «mal d’Africa», le pratiche di spiritualità asiatiche, le grandi civiltà amerinde, ecc.).
Vi è un nomadismo, un nomadismo culturale, in tutti noi; un cercare «l’altrove» che fa lasciare la casa e la gente conosciuta per una nuova casa e genti sconosciute.
R. Piazza (1990) suggerisce il concetto di «distanza» non come lontananza ma come dilatazione nello spazio. Ed è in questa dilatazione che la mente aumenta i suoi poteri, si espande libera da antichi legami, recettiva, esaltata dalla nuova conoscenza, riflessiva nell’enorme solitudine, fluttuante nei panorami relazionali inabituali eppure possibili.
«Lo spazio-distanza appartiene solo a tè, la sfida è riuscita. Ma dentro a questa distanza vi sono forti attacchi all’identità che viene messa a dura prova durante l’espansione mentale e la sua accresciuta recettività. La distanza può creare smarrimento; un pullulare di alterila a lungo represse in codici forzatamente comuni esplode trasgressivo, eccentrico, stravagante, disordinante» (Piazza R., 1990).
Non consideriamo qui la persona che già parte con insicurezze interiori, quel contingente di persone definite dalla letteratura francese «les alienées voyageurs et migrateurs» (Amiel R., 1973). Consideriamo invece la grande quantità di persone candidata volontaria alla partenza per lavorare in un progetto di cooperazione nei Paesi in via di sviluppo, campo nel quale una di noi (Terranova Cecchini R., Castiglioni M., 1987) ha una lunga esperienza: nonostante una selezione ben fatta molti sono gli insuccessi larvati e manifesti dovuti ad una specie d’incapacità a mantenere la compattezza e l’efficienza dell’Io, ad una perdita di limiti nei quali mantenere integra l’identità. Assistiamo così ad irrigidimenti quasi razzisti, al rifiuto di un dialogo alla pari con l’altra cultura ed al rientro precoce oppure al tentativo di un’installazione nella nuova cultura con matrimoni e figli; infine, in qualche caso, all’esplodere di comportamenti e di pensieri patologici.
Infatti la distanza, con tutta la sua realtà di solitudine, può essere fattore di crescita e di cambiamento perfettamente trasculturale solo se l’identità riferita al luogo d’origine è fortemente strutturata e valorizzata; pressoché inattaccabile. E solo se il programma personale non è costruito sull’evasione verso l’esotico e «l’altrove» ma sull’incontro con altri che ci si senta di rispettare «al di sopra di tutto» come sottolinea Bruckner: «Si l’arrachement a la sécurité domestique n’était pas une douloureuse et patiente ascèse, il ne serait pas migration, et on pourrait voyager dans toutes les cultures sans problèmes comme le sang circule dans les veines» (Se lo strapparsi alla sicurezza domestica non fosse una dolorosa e paziente ascesi, non vi sarebbe migrazione e si potrebbe viaggiare in tutte le culture senza problemi come il sangue circola nelle vene) (1983).
La situazione «distanza» così come enunciata da R. Piazza (1990) ha effetti anche al semplice livello del turismo finalizzato alla conoscenza. A Firenze, per esempio, i servizi di salute mentale hanno registrato un afflusso di turisti stranieri in stato di confusione mentale con angoscia e blocco psicomotorio dopo la visione delle numerose, magnifiche opere della città, stato che per analogia con una pagina di Stendhal descrittiva dello stesso stato d’animo, hanno definito appunto come «sindrome di Stendhal».
La distanza cercata, voluta, sentita come una dilatazione temporo-spaziale da molti giovani e meno giovani migranti verso gli ashram buddisti, zen, induisti, verso i maestri, i Guru, i Lama è spesso stata determinante di un cambiamento senza drammi ma spessissimo ha distrutto identità e determinato il cambiamento nelle brume di un mattino banale, gelido e senza fine.
Dobbiamo segnalare, per esperienza professionale, che i cambiamenti dovuti a migrazione di persone non occidentali ovvero un incontro Sud-Sud e non Nord-Sud sembrano attuarsi senza gravi problemi d’identità, come se gli uomini del Sud fossero muniti di una base tradizionale della loro terra così solida da poter affrontare la «dolorosa e paziente ascesi» del lavoro transculturale autentico.
Tuttavia anche se la situazione «distanza» si attua al meglio della motivazione migratoria, ciò non è sufficiente a garantirne il successo perché, oltre i citati aspetti di reattività personale, sempre presenti, imprescindibili, vi sono le condizioni d’impatto nella nuova cultura che hanno infinite varianti. Una variante bene delineata è senza dubbio quella della cultura occidentale a vocazione anti-razziale, espulsiva dell’alterità.
É opportuno introdurre il concetto, purtroppo ben diverso da quello di distanza come dilatazione dello spazio del vissuto individuale, definito da G. Favaro (Favaro G., Tognetti Bordo-gna M., 1988) come distanza culturale, marginalità sociale. Questa distanza è assolutamente tragica per l’immigrato, poiché rende impossibile ogni tentativo non si dice di acquisizioni transculturali, ma neppure di quelle più superficiali d’integrazione, identificazione mimetica, acculturativa, così efficaci per la sopravvivenza in ambiente ostile. La distanza sociale, prosegue G. Favaro (Favaro G., Tognetti Bordogna M., 1988), è composta da distanze verticali rispetto alle gerarchie, ruoli, status della società ospitante e da distanze orizzontali: quelle appunto determinate dalla cultura in termini di storia, tradizioni, visioni del mondo filosofiche e/o religiose, ecc.
Precisa R. Amiel (1985) che si può parlare anche di una mobilità orizzontale allorché lo status sociale sia mantenuto e di una migrazione verticale regressiva allorché non vi sia conservazione del proprio ruolo. Il primo caso è più frequente tra gli occidentali per i quali noi vorremmo anche parlare di una migrazione verticale progressiva, essendo facile il caso di un professionista occidentale al quale viene offerto, in un Paese straniero, uno status di maggior prestigio. Il secondo caso è il destino quasi generale dell’immigrazione di colore.
Al migrare, in svariatissime forme e situazioni, sottende tuttavia sempre la insopprimibile tendenza al nomadismo primario al quale abbiamo accennato; questo andare a conoscere «l’altrove» da cui nasce il vissuto di «distanza».
Se questo luogo «altro» non ti accoglie, la distanza si renderà minacciosa, non più avventura umana, slancio verso il mondo, bensì zona di dominio delle leggi economiche e del pensiero etnocentrico, espulsivo e palestra della sopraffazione dell’uomo sull’uomo.
Cristallizzazione
Un ultimo aspetto riguarda un meccanismo che noi abbiamo spesso osservato e che a causa della nostra professionalità, può essere stato a noi più visibile.
Chiamiamo cristallizzazione il formarsi, nella mente dell’immigrato e dello straniero in generale, di un mitico ricordo del proprio Paese.
Ciò accade ovviamente a quanti hanno bene o male realizzato una certa integrazione nella società ospitante ed hanno un progetto di lunga permanenza o anche di definitivo trapianto nel nuovo Paese. Ma c’è chi ritorna per finire i suoi giorni nella propria terra anche dopo una vita passata all’estero. Abbiamo già accennato, per gli italiani del Sud ad esempio, come sia frequente la decisione del ritorno dopo una lunga vita di lavoro, ormai da persone anziane ed in pensione.
Perché il «male del paese», il senso di benessere insito nel vivere nel proprio contesto culturale, difficilmente può essere rimpiazzato da altri vantaggi quali migliori qualità di vita, migliori opportunità, eco. Ma essi, ritornando, non troveranno più il clima culturale mitizzato e cristallizzato nei lunghi anni passati in terra straniera.
La cristallizzazione è dunque legata all’Io culturale che si crea un luogo di referenza sicuro ed inalienabile. Ciò è motivo di grande forza per il soggetto. Il divago, il limite tra identità forte e cristallizzazione è carico d’ambiguità. Infatti molti autori insistono sul ricordo delle origini che hanno plasmato la personalità nell’infanzia quale elemento emergente nel momento della crisi da sradicamento. Jeddi e Harzalian valorizzano, nella separazione dalla madre patria «l’espace de sépa-ration dont le sens structurant est au départ toujours induit extérieurement par un organisateur culturel lors des processus de maturation et il sera toujours prét a étre remémoré a chaque phase de transition» (Lo spazio di separazione di cui il significato strutturante è all’inizio sempre indotto esteriormente da un organizzatore culturale durante i processi di maturazione (nell’infanzia) e sarà sempre pronto ad essere rammemorato in ciascuna fase di transizione) (Jeddi E., 1983).
Anche Bruckner sottolinea un positivo/negativo nel fattore tradizionale se «le point inerte des attaches nationales est aussi le point d’appui qui donne a l’expatriation son ressort dynamique» (II punto inerte dell’attaccamento alla propria nazione è anche il punto d’appoggio che da all’espatrio il suo sbocco dinamico). E prosegue sottolineando come senza la lingua madre, «senza questo radicamento, senza questo pozzo di memoria, questi legami familiari, questo quartiere dove sono cresciuto, non ci sarebbe nulla per eccitare la mia curiosità, spingermi in una o nell’altra direzione» (Bruckner P, 1983). Il punto-soglia si supera qualora vi sia un lavoro di mitizzazione. Mitizzazione che cristallizza appunto la cultura d’origine contro l’evidenza incontestabile dell’evoluzione di tutti i Paesi e delle loro culture.
Un emigrato siciliano negli Stati Uniti cristallizza la sua cultura regionale siciliana in forme che nell’attualità non sono più apertamente presenti: i club che si formarono tra immigrati hanno questa funzione mitizzante il Paese d’origine. Una spaghettata, un piatto di risotto allo zafferano, una polenta, cibi così graditi in un club d’italiani in Canada o in Usa, sono sostituiti oggi, nel Sud come nel Nord, da fast-food e patatine fritte.
I simboli agenti nella cristallizzazione mitica e nostalgica sono forniti di grande energia. I moduli neuronali dove scorre la memoria della propria cultura vengono attivati e le funzioni noetiche e timopsichiche cerebrali vivacizzate, stimolate.
Proprio come dice M. Eliade (1976), la cultura è come il passo indietro del torero che così facendo aumenta la sua forza per immergere la lama nella nuca del toro, ovvero per procedere verso le conquiste piccole e grandi che siano. É per questo che l’astronauta in volo richiede ad Houston una tipica canzone country della sua regione…
La cristallizzazione è sempre più possibile nella misura nella quale i paesi in via di sviluppo vengono sempre più modernizzati con rapidità. Essa inoltre è un fattore da prendere in considerazione nel lavoro sull’emigrazione di seconda generazione e motivo delle tensioni possibili tra genitori e figli questi ultimi nati nei paesi d’immigrazione. Troppo spesso la trasmissione culturale della famiglia proviene da inconsapevoli cristallizzazioni che rendono al giovane ancora più stridente la differenza tra lui e la società nella quale è nato e vive.
Tutti noi, operatori dei servizi socio-sanitari, ricordiamo di certo analoghi fenomeni apparsi nei figli dei nostri immigrati dal Sud al Nord.
Infine l’evento cristallizzazione della memoria culturale gioca un ruolo non indifferente nel momento del rientro dell’emigrante al proprio Paese. Ma non è questo il tema che interessa il nostro attuale lavoro e neppure sono situazioni per ora esistenti in Italia. Certamente non passerà molto tempo prima dell’affacciarsi di tali problematiche anche da noi e l’esperienza d’altri Paesi occidentali ci sarà d’aiuto per avere già un quadro di riferimento sul quale inserire l’analisi contestualizzata nel nostro territorio, della «migrazione di seconda generazione», fenomeno tuttavia già in qualche misura presente in Italia.
Sottolineiamo solamente che dinnanzi all’utente straniero a permanenza medio-lunga in Italia, uno dei fattori patoplastici può essere questo troppo strutturato riferimento alle origini culturali personali.
(*) Tratto da Migrare, FAE, 1992
Rubrica
SPORT AGEVOLI/La relazione movimento-linguaggio nello sviluppo del bambino
di Arianna Casali, psicologa presso la cooperativa sociale “Progetto Crescere” di Reggio Emilia e Simona Tagliazucchi, responsabile area trattamento, abilitazione, rieducazione presso la stessa cooperativa. Quando si pensa alla mente, generalmente, ci si sofferma sulle Leggi tutto…