Se la cura educativa è individuata in alcuni attimi, che abbiamo visto condensarsi attorno ad alcuni elementi, è importante chiedersi dove appare: in quali luoghi, in quali contesti, in quali spazi, in quali tempi, attraverso o dentro quali oggetti. t importante chiedersi in quali confini essa si mostri, oltre che come. Perché qui, forse, si coglie appieno la sua materialità, il suo essere iscritta in azioni “incarnate” oltre che nelle intenzioni, il suo essere di fatto ciò che quel muri, quegli oggetti, quel tempi, quegli spazi consentono che sia. Perché anche i muri, l’organizzazione dell’ambiente e l’articolazione del tempo veicolano un’immagine di cura e influiscono sulla pratica, forse in maniera silente, ma non per questo meno significativa.
La nostra ricerca della cura nell’esperienza educativa prosegue quasi ricostruendo una mappa dei luoghi in cui essa sì dà. Una mappa non lineare, dal momento che si tratterà di entrare in questi luoghi, per comprendere come sono fatti, e di cosa. Una mappa non certo precisa, sicuramente non definitiva, ma che pone in contatto con l’eccezionalità contenuta nella quotidianità dei luoghi educativi, sicuramente di quelli da noi esplorati.
Se la scuola – con le sue aule, i suoi atri, la sua mensa, il suo giardino, i suoi confini – e la comunità – con le sue camere da letto, la sala da pranzo, la cucina, l’ufficio e quant’altro – costituiscono il contesto lato in cui si educa, si insegna, si lavora, la cura appare all’interno di esso in luoghi precisi. Li abbiamo chiamati “nicchie”, quasi a significare delle insenature, dei ripiegamenti, degli spazi a parte in cui avviene qualcosa di diverso, che merita attenzione. Spazi separati, anche solo simbolicamente, che appartengono ad un contesto più ampio, da cui hanno origine e per cui esistono, ma che, nel momento in cui appaiono, sembrano godere di vita propria. Sono innanzitutto spazi di uso quotidiano, luoghi in cui ci si cura di sé, luoghi di intimità, come la camera da letto, la cucina, la casa dei genitori di un ospite, il bagno deserto della scuola. La cura si dà uno spazio circoscritto, che traccia confini simbolici rispetto alla che recupera la quotidianità in una dimensione di raccoglimento e di relazione che consente uno scambio, un dialogo, un abbraccio, in cui, lontani dal rumore, dalla chiacchiera, direbbe Heidegger, dalle consuete occupazioni, ci si possa prendere cura di sé, ri-prendere in mano, vedersi, distanziarsi, comprendersi e riprogettarsi all’interno di una relazione intima con un altra persona, con se stessi.
Lo spazio in cui si dà la cura definisce una cornice, istituisce uno stacco e consente a chi in questo spazio si trova coinvolto di riprendere contatto con sé, di calmarsi, di chiedere aiuto, di confidarsi, di raccontare una storia, di cercare un senso per la propria sofferenza. E non c’è bisogno che la cornice sia quella di una porta che si chiude: può essere anche un «confine invisibile», una linea, un cerchio tracciato con un gesso intorno ai piedi di un bambino:
Un bambino ipercinetico, difficile, aggressivo e prepotente con i compagni. A volte, ma proprio a volte, dolcissimo. L’incubo delle nostre giornate (mie e della mia collega), e nei momenti di insonnia delle mie notti … L’incubo del bambino continua: io urlo, lui urla, lui mi abbraccia, io lo coccolo. t lui che conduce il gioco. Poi un giorno lui è in piedi al centro della classe dopo averne fatte tante ai suoi compagni. Io ho in mano un pezzo di gesso e d’impulso gli traccio un cerchio intorno ai piedi. Lui piange, urla, ma non si muove dal cerchio. Per lui che vive in assoluta confusione, mi spiega lo psicologo che lo segue, è stato terapeutico potersi fermare per riposare e organizzarsi (11 confine invisibile, scuola materna).
Il confine invisibile istituisce uno spazio altro, dal sapore iniziatico e transizionale: quello spazio da cui si può uscire diversi, pur essendo sempre se stessi. Qui la cura non passa attraverso le parole, ma attraverso un dialogo tacito e corporeo che legittima uno spazio in cui il tempo e il corpo si fermano, ed è possibile prendersi cura di sé. Ed è forse proprio perché si dà all’interno di quel dialogo che il gesto assume un valore curativo, e non costrittivo, o, per usare una parola forte, violento.
Ma la cura può avvenire anche in spazi aperti, al riparo di un grande albero, si è visto, nel giardino di una comunità. Anche questi si pongono come spazi altri, attigui a quelli in cui si educa, si lavora. Sembrano spazi di contorno, o a lato, forse marginali. Sono quegli spazi in cui è possibile avere una relazione diversa con i bambini o con le persone ospiti in comunità: sono spazi non contrassegnati da ruoli o da posizioni, o meglio in cui ruoli e posizioni reciproche si danno, si sanno, ma sembrano essere sfumate, sembrano poter esser allontanate come lontana è la scuola, la comunità. In essi si respira una certa libertà; distanza e vicinanza sono determinate da una situazione che si sottrae a regole di comportamento più o meno rigide: vi sono altre regole altre, tacite, in funzione delle quali si può vivere quella «sospensione del giudizio», di un sapere teorico o pregiudiziale, grazie alla quale diminuisce il rischio che la relazione di cura precipiti in una relazione di conoscenza oggettivante (Bertolini, 1988, Sichel, 1998). Da questi spazi può scaturire una parola che cura. Purché siano salvaguardati: la loro cornice va legittimata all’interno del più ampio contesto educativo in cui si situano, pena il mancato riconoscimento e l’oblio di quanto in essi è successo. Come dire che perché la nicchia funzioni come luogo di cura, la continuità di essa con il contesto da cui si ritaglia dev’essere palpabile, la sua appartenenza sentita. Questo sembra implicare la tematizzazione di un passaggio da un luogo ad un altro differente ma non così distante da essere fuori dal contesto: il riconoscimento di una transizione, di uno spostamento che prima di essere locale è esistenziale, ponendo le persone in situazioni, in mondi diversi, in posizioni diverse.
Quando questo passaggio viene in qualche modo riconosciuto e forse anche protetto, si può dare cura anche in luoghi meno liberi da vincoli e da regole: all’interno di spazi istituzionalmente significativi, come l’ufficio della scuola o della comunità, o la comunità stessa. Gli stessi ruoli, quando servono per imporre e garantire spazi e tempi in cui sia possibile «occuparsi dell’altro», del suo progetto esistenziale, ponendo le condizioni perché in tal modo egli arrivi ad occuparsi di sé, diventano allora importanti:
Lavoro in un centro di reinserimento, dove gli utenti devono fare i conti prima o
poi con l’uscita dalla comunità ed affrontare la vita esterna… Ultimamente ho stabilito con l’utente dei tempi precisi da rispettare come scadenze improrogabili con
se stesso e con la comunità per l’uscita… Ho strutturato con lui degli incontri nel
mio ufficio durante i quali ho cercato di fargli capire come e dove fosse più utile
indirizzare la ricerca di un alloggio, non perché non lo ritenessi capace di farlo, ma
semplicemente per rimandargli il fatto che per lui era giunto il momento di sperimentarsi nella realtà ordinaria non solo dal punto di vista lavorativo ma anche nel
quotidiano, di confrontarsi con la solitudine, la noia, con la gestione del tempo libero e che il contenimento della comunità non poteva e non doveva durare in eterno. Gli ho anche detto che in qualunque momento, dopo l’uscita, poteva fare riferimento alla comunità e venire per riportare le sue impressioni, i suoi timori e i
suoi progressi. Nei giorni successivi è stato puntualissimo nel riferirmi della sua
ricerca di un alloggio, rinfrancato forse dal fatto di essere seguito con attenzione;
la sua ricerca ha dato esisto positivo in pochi giorni (Intuizione, comunità).
Qui la cura educativa avviene in comunità, e le stesse regole della comunità istituiscono uno spazio di dialogo in cui è possibile vedere un disagio e rispondere alla richiesta di aiuto sottesa. La comunità stessa si pone come luogo di transizione tra un dentro, che si è imparato a conoscere e che forse è in qualche modo diventato il nuovo mondo delle persone qui ospitate, e un fuori che fa paura, che può respingere, cui si sente di appartenere poco, se non per niente. Ritagliando dei momenti e delle situazioni in cui cominciare a occuparsi di questo fuori, o meglio di questo passaggio da un luogo ad un altro, la comunità sembra diventare lo spazio in cui si può modulare la transizione, tollerarne la fatica e rendere sensato il dolore del distacco. La comunità si comporta come una nicchia aperta rispetto al fuori: un luogo che protegge ma che non trattiene; semmai appare un rifugio in cui fermarsi, riflettere, riprendersi per poter poi uscire.
Perché ciò sia possibile sembra essenziale la consapevolezza delle cornici, dei confini, di quella membrana che separando un dentro da un fuori consente un rapporto tra dentro e fuori, e un rapporto mediato, in grado di esporre ma non troppo e di proteggere, ma non troppo, chi deve compiere questa transizione. E questo pare valere per ogni nicchia in cui si dia cura. Lo spazio della cura sembra allora riecheggiare quello spazio potenziale in cui si dà possibilità di formazione, di apprendimento (Mottana, 1993, p. 1125); quell’area in cui sia possibile, protetti da una cornice stabile, chiara, sicura, vedere la propria fatica esistenziale, semplicemente esprimere il proprio bisogno, il proprio dolore, riappropriarsene grazie alla presenza di altri, al cui mondo si sente di appartenere, lasciarsi andare, lasciarsi destrutturare per poi potersi ricomporre, e andare oltre. In questo senso, lo spazio della cura richiede di essere visto, pensato e progettato pedagogicamente.
(*) C. Calmieri, La cura educativa, Franco Angeli Editore, MI, 2000