Caro Presidente
innanzitutto mi presento. Mi chiamo Claudio Imprudente, ho 39 anni e sono disabile (non-abile, per alcuni) o diversabile (abile in modo diverso, per altri): diciamo che, oggettivamente, ho una grave forma di tetraparesi spastica dalla nascita. Sono anch’io un presidente, della associazione Centro Documentazione Handicap di Bologna e inoltre dirigo la rivista HP-Accaparlante. Forse sono quello che si definirebbe, anche se sembra una contraddizione, un handicappato di successo: mi sento abbastanza integrato nella società e addirittura sono spesso ospite di trasmissioni televisive nelle quali porto i risultati del lavoro mio e della mia équipe.
Se dovessi riassumere a che cosa debbo tutto questo, c’è una parolina che è fondamentale e che ancora troppo spesso resta fuori dal “mondo dell’handicap”: la fiducia. Se guardo alla mia vita moltissime persone mi hanno dato fiducia, a cominciare dai miei genitori e dai miei amici che via via sono diventati colleghi nel lavoro culturale che abbiamo intrapreso fondando circa vent’anni fa il suddetto Centro. Sono persone che non hanno guardato solo alla gravità del mio deficit ma hanno invece guardato alle mie potenzialità, hanno imparato a leggerne i segni e a intuirle anche quando ciò pareva una operazione disperata. Le faccio un esempio. Io comunico soprattutto utilizzando una lavagnetta di plexiglas trasparente sulla quale stanno le lettere dell’alfabeto: seguendo il mio sguardo che le indica una per una, la persona di fronte a me può “leggere” il mio pensiero a voce alta. Come vede questo ausilio, frutto di immaginazione e di creatività, mi ha ridotto molto l’handicap, la difficoltà, derivante dal non poter comunicare, come fanno tutti, con la propria voce: è l’esempio più tangibile della fiducia di cui parlo.
Signor Presidente, Lei ha fiducia in me? Ha fiducia nelle migliaia di Italiani che hanno un deficit (psichico o motorio o sensoriale) ma che purtroppo si trovano ad affrontare ogni giorno moltissime difficoltà, moltissimi handicap? Io sono convinto di sì ed è per questo che Le scrivo partendo da una affermazione provocatoria e paradossale, tanto più se Lei considera che io ho bisogno costantemente di un aiuto per il vivere quotidiano: i disabili non hanno bisogno di assistenza. In molti pensano di non potersi aspettare nulla da noi, e si preoccupano solo di “aiutarci”, ma in primo luogo noi disabili abbiamo bisogno di agire come soggetti attivi, abbiamo bisogno di essere coinvolti e di dare a nostra volta: e come noi anche tutti gli altri italiani che vogliano diventare veri cittadini.
E’ vero: dei passi in avanti sono stati fatti. Abbiamo alcune leggi, come quella sull’integrazione scolastica, che sicuramente hanno generato delle esperienze all’avanguardia e dalle quali anche gli altri Paesi dell’Unione Europea traggono fondamentali suggerimenti. Non dobbiamo tornare indietro in questo cammino di riconoscimento dei diritti fondamentali dell’individuo, ma anzi dobbiamo fare in modo che queste leggi siano pienamente effettive ed efficaci attraverso l’adeguamento dei mezzi a disposizione per la loro attuazione, che peraltro si presenta ancora difficoltosa (si veda ad esempio la questione dell’abbattimento delle barriere architettoniche).
Dobbiamo però ribadire con forza che alcuni diritti non sono esigibili e il loro rispetto non può essere affidato alla “buona volontà” degli enti preposti. Non so se noi abbiamo pazienza o abbiamo solo imparato ad aspettare: siamo però fermamente convinti che le cose cambieranno.
E’ certo che in ambito culturale, ed è quello che mi rallegra di più, i passi in avanti sono tangibili: quando con il Progetto Calamaio andiamo nelle scuole di tutta Italia per far conoscere la realtà dell’handicap ai bambini, utilizzando giochi e fiabe e creando un momento di incontro e di conoscenza reciproca che fa sfumare mille paure e pregiudizi, vediamo come la cultura dell’integrazione sia diventata realtà. Incontriamo tantissime persone che con convinzione ed entusiasmo portano avanti questo cambiamento, e in particolare vorrei ringraziare quegli insegnanti che, nonostante molti problemi, lavorano instancabilmente per costruire una scuola di tutti.
Quello che vorrei sottolineare è che la questione dell’handicap non è un problema, come generalmente si crede, di una categoria di persone (i disabili, con i loro genitori e gli addetti ai lavori: medici, terapisti, insegnanti di sostegno, educatori, eccetera). Questo tipo di cultura genera quell’assistenzialismo che, partendo dalla corretta consapevolezza che il disabile ha necessità di una attenzione speciale e operando magari con le migliori intenzioni, si traduce poi nella creazione di un insieme di iniziative che di fatto ghettizzano i disabili. Il “mondo dei disabili” non può essere la somma di spazi speciali, di spazi protetti, che però anche chiudono le porte al confronto con la cosiddetta normalità: io sogno un “mondo dei disabili” disabitato, proprio perché ciò che pesto sotto i miei piedi, anzi solco con le ruote della mia carrozzina, non voglio che sia una terra “speciale”, una riserva, ma la terra comune, la terra di tutti. L’unica cosa invece veramente speciale è la nostra voglia di partecipare, è la voglia di dimostrare che siamo una ricchezza, perché noi siamo una ricchezza. E quando dico “noi” mi permetto di parlare anche a nome di chi ha una disabilità psichica: soprattutto queste persone hanno una voglia enorme di dare, di partecipare, di comunicare, certo ognuna secondo le proprie modalità, nelle potenzialità come nei limiti. Togliamoci però dalla testa che esistano i cosiddetti “vegetali”: opportunamente stimolate e seguite molte di queste persone riescono a raggiungere dei risultati insperati. Proprio perché più di tutte soffrono situazioni di emarginazione dovuta alla mancanza di comunicazione con gli altri, è a loro in particolare che deve rivolgersi la nostra attenzione. Dobbiamo essere consapevoli che proprio la loro qualità di vita e quella dei loro familiari è la cartina tornasole dello stato dell’integrazione in Italia.
Non chiediamo, dunque, solo assistenza, ma fiducia. Questo è il senso della mia precedente dichiarazione provocatoria. L’assistenza è un mezzo sicuramente indispensabile che però viene molto spesso interpretato come un fine e si pensa erroneamente di aver risolto “il problema” sulla base di un computo, come ad esempio di quante ore di assistenza domiciliare un disabile usufruisce. Così si riduce l’approccio all’handicap a qualcosa di risolvibile con una operazione di quantità. Non è così: qui è in gioco la qualità della vita ed è facile intuire che un mondo a misura di disabile è più comodo per tutti. Tutti beneficeranno di questo processo: l’handicap è una questione che tocca tutti, perché gli handicap che ostacolano l’integrazione dei disabili sono gli stessi che impediscono l’integrazione di tutti.
Quello che manca è la fiducia e ciò necessita di un cambiamento a livello culturale. Nel mio lavoro mi confronto sempre con moltissime persone e situazioni e scopro che una quantità enorme di risorse si perde proprio per la mancanza di fiducia: i genitori, prima risorsa, spesso non vengono coinvolti quanto dovrebbero nei processi di riabilitazione (il sostegno alla famiglia è ancora molto carente), le istituzioni continuano a non confrontarsi bensì a prendere iniziative separate e infine le stesse persone con deficit raramente intervengono nel processo che dovrebbe integrarle, subendo passivamente decisioni prese da altri.
Sì all’assistenza , dunque, ma no all’assistenzialismo che tra l’altro genera il meccanismo della delega: se c’è, quando c’è, un insegnante di sostegno, gli altri insegnanti spesso delegano a lui “il problema dell’handicappato”. E’ evidente che in questa logica, anche ammesso che detto insegnante operasse per un numero di ore superiore all’attuale, non viene raggiunto lo scopo di una reale e completa integrazione del disabile.
Caro Presidente, so che Lei parteciperà alla 1° Conferenza Nazionale sulle politiche dell’handicap che si terrà dal 16 al 18 di questo mese a Roma. La prego di ricordare questo appello, queste mie parole che non sono animate da una disperazione fredda e lucida, come mi sembra (con tutto il rispetto) quella di chi chiede il diritto all’eutanasia, ma dalla speranza e determinazione di chi è convinto che la vita sia il bene più sacro. Non sta a me giudicare, anche perché nessuno può dire di avere la verità in tasca: dico solo che se c’è una battaglia che vale la pena di essere combattuta è quella per la “buona vita”. La vera e sostanziale differenza è tra vivere e sopravvivere: tutti moriamo ma non tutti possono dire di aver vissuto.
Nel corso della Conferenza, guardandosi intorno, forse vedrà che il numero dei disabili presenti in sala, come purtroppo temo, sarà minimo (ne vedo ben pochi anch’io ai convegni cui partecipo): ciò non è dovuto solo a problemi organizzativi ma anche al fatto che molti non hanno consapevolezza di sé in quanto soggetti attivi nella società. Il cammino verso la partecipazione è ancora lungo, è una conquista quotidiana, come lo è la democrazia che si nutre di libertà e di, appunto, partecipazione. Le assicuro che molti di noi ce la stanno mettendo tutta, ma la cultura dell’integrazione è una di quelle conquiste che si può fare tutti insieme.
Caro Presidente, noi siamo una ricchezza per l’Italia, una ricchezza che non va tenuta in cassaforte (come fanno pensare alcune strutture residenziali sia pur dotate di tutto ma che sono situate fuori dai centri abitati, magari sulle colline), ma che può diventare una risorsa fondamentale nella nostra società che sempre più dovrà affrontare il tema della complessità e della diversità. Noi constatiamo che questo processo culturale sta già facendo dei passi avanti e vogliamo aiutarlo affinché, nonostante la lettera H sia la lettera muta del nostro alfabeto, diventi sempre più una Acca-parlante.
Siamo sicuri di poter contare sulla Sua fiducia.
Claudio Imprudente
Presidente dell’associazione Centro documentazione Handicap di Bologna