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autore: Autore: Claudio Imprudente

Lettere al direttore

Risponde Claudio Imprudente, claudio@accaparlante.it

Carissimo Claudio,
seguo sempre le tue rubriche. Mi è piaciuto moltissimo il cartone animato Oltre le barriere che hai citato. L’ho trovato molto interessante sia come insegnante che come mamma di una bimba con disabilità e ho scelto di proporlo ai miei alunni della scuola primaria.
Invece, a proposito di uno dei tuoi ultimi articoli, Il custode di castelli, mi permetto di aggiungere che
mia figlia, sulla spiaggia, più che fare la custode fa “la distruttrice di castelli”… Non ne sopravvive nessuno al suo passaggio! E allora?
Grazie! Ciao
Francesca Ferraris

Cara Francesca,
sono contento che tu abbia apprezzato il mio consiglio e soprattutto che sia stato condiviso con i tuoi studenti. Oltre le barriere è la storia dell’amicizia nata tra i banchi di scuola tra una bambina e il nuovo compagno con disabilità che non riesce a muovere nessuna parte del corpo, eccetto i suoi occhi. Un corto animato nato in Spagna, che, nella sua semplicità, rappresenta un bell’esempio di come i più piccoli (e non solo loro) possano mettere in atto le strategie della creatività e della fiducia, avviando così un percorso di relazione che andrà ben oltre il contesto scolastico.
Un aspetto, quello dell’“oltre”, molto importante, di cui ogni insegnante dovrebbe farsi trampolino di lancio. Mi piacerebbe, ora che il rischio della patologizzazione è sempre in agguato e il potere della scuola meno forte di prima, che il ruolo dell’educatore-insegnante tornasse a farsi un po’ bambino e favorire così quei processi d’integrazione spontanea che nascono a partire dallo sguardo e, perché no, anche dal caso. Solo così la sua didattica potrà dirsi libera e inclusiva e soprattutto avere una ricaduta sulla realtà Non dimentichiamo infatti che i bambini, disabili e non, dalla scuola finiranno per uscire e quello che faranno dipenderà anche da quello che avranno o non avranno imparato in termini di confronto con l’alterità e di messa in gioco di sé. Lavorare nelle scuole da sempre vuol dire lavorare per formare, lavorare per il futuro della persona in modo stimolante e autonomo.
Oltre le barriere costituisce un ottimo spunto per le insegnanti che vogliono scommettere sul futuro, per
questo vi consiglio ancora vivamente di portarlo nelle vostre classi. Per quanto riguarda invece le avventure della tua “distruttrice di castelli”, ti invito a leggere qui sotto la mia risposta a un’altra mamma come te.
Grazie per il tuo impegno e buona vita!

Claudio carissimo,
da tempo non ti scrivo. Ma il pensiero vive nel cuore e non è una frase fatta…
La tua riflessione su Il custode di castelli di quest’estate ha toccato tutte le mie corde. Il custode dei castelli di sabbia e la sua mamma protagonista, tenace, forte, coraggiosa, la tua, nonostante le tantissime amarezze dovute ingoiare, che ti ha reso persona sensibile, acuta, ironica, amante
della vita così come ti è stata donata. Io non ho mai costruito castelli al mare, né sono rimasta a custodirli. Ho viaggiato purtroppo per troppi ospedali, troppi… Ho costruito però altri castelli, disfatti e rifatti a seconda delle esigenze, con ponte levatoio e senza, con il fossato di protezione e senza. I miei 65 anni hanno “altri castelli”, a volte fragili, più di quelli di sabbia, altre volte così forti che nessuna burrasca li abbatte.
Ti penso e con tutti i tuoi lettori ti auguro di scrivere in lunga estensione pagine così belle. Così tue e così “nostre”.
Un caro abbraccio,
Olga

Cara Olga,
è sempre un piacere leggere le vostre risposte, le vostre esperienze.
Quella de Il custode di castelli, lo immaginerai, è una riflessione a me particolarmente cara, non solo perché racconto un episodio della mia infanzia e ripercorro le sfide di mia mamma, ma anche perché penso che i castelli di sabbia, di fatto, non finiscano mai. I castelli nascono sempre su territori di confine, sul limite cioè su cui campeggiano anche i nostri sogni, desideri, fantasie e avventure.
La spiaggia e la riva, in fondo, cosa sono? Un limite tra la terra e il mare, un confine tra i nostri limiti e
quelli della gente, oggi come allora.
Il limite è un luogo dove vivere le nostre progettualità e qui sta la sfida: non scappare dal limite ma trasformarlo in futuro.
Più ci spingiamo sui confini del limite, più saremo in grado di costruire nuovi castelli, che non sono il
punto d’arrivo, il rifugio per sfuggire dalla realtà ma progettualità in divenire, fatte per essere di volta in
volta distrutte, ricostruite e abitate.
I castelli si costruiscono insieme, si condividono con altri, ognuno con il suo compito, come quello, ad esempio, di farsi da improvvisati a provetti custodi.
C’è anche chi, come mi scrive Francesca, mamma di una bimba con disabilità, i castelli li distrugge al
suo passaggio. E allora?
E allora ben venga! Perché l’importante non sono le mura dei castelli ma i ponti levatoi, ponti che per-
mettono il passaggio tra il dentro e il fuori, tra l’esterno e l’interno di noi stessi.
Che dire allora? Gettate a terra i ponti levatoi e uscite!

 

Lettere al direttore

Risponde Claudio Imprudente  claudio@accaparlante.it

Ciao Claudio,
devo raccontarti un paio di cose sperando di non occupare troppo del tuo tempo… Dai, concedimi questo lusso! Sono alcuni anni che ti leggo e ascolto e, in seguito all’emergere della solita problematica del le ore di sostegno scolastiche, tre anni fa, mi sono chiesto: ma sono l’unico genitore ad avere questi problemi? No, mi è stato riferito… Allora ho incomin ciato a girare nelle scuole della mia valle e a contat tare altri genitori formulando sostanzialmente la se guente proposta: se abbiamo tutti gli stessi proble mi, perché non ci uniamo per condividerli? Così ho preso spunto dalla tua idea di “Accaparlante” per for mare il gruppo Genitori Acca.
In questo modo sono riuscito a cogliere e raccontare l’esperienza della sofferenza e della diversità, come padre e come uomo; tuttavia non sono stato in grado di descrivere appieno le parole “integrazione” e “inclusione” fino al momento in cui, durante una tua conferenza, hai chiesto a ognuno di noi in platea di scambiarci di posto con il vicino… E mi hai illumina to in merito!
Ci sono due persone che mi hanno fatto cambiare di posto senza un “apparente” motivo (dico apparente…): una sei tu, l’altra mia figlia Miriam tredici anni fa; la prima in modo gentile, la seconda invece facendomi fare un doppio carpiato indietro, con un atterraggio per nulla morbido.
Non è facile cambiare di posto, bisogna fare lo sforzo di alzarsi e spostarsi, mettersi nello spazio caldo di qualcun altro, che non è mai come il nostro. Cambiare di posto significa lasciare quella posizione, che in qualche modo avevamo scelto, per andare verso l’altro; cambiare di posto vuol dire rimanere nello stesso luogo ma adottando una visuale nuova e compagni diversi… è movimento, è attenzione.
Ecco allora che sono più chiare anche le parole di Pablo Neruda quando dice “lentamente muore chi diventa schiavo delle abitudini, ripetendo ogni giorno gli stessi percorsi, lentamente muore chi non capo volge il tavolo, chi non rischia la certezza per l’incertezza, chi non fa domande sugli argomenti che non conosce”.
E “lentamente muore chi non cambia mai di posto”, aggiungo io… ed è per questo che ad oggi come Ge nitori Acca dobbiamo ringraziare i nostri figli per non averci fatto morire lentamente nelle nostre abitudini. Il nostro augurio è che ognuno possa davvero avere l’opportunità e la determinazione di cambiare posto ogni qualvolta la vita ne offrirà l’opportunità.
Luca, Genitori Acca

Caro Luca,
quando leggo lettere come la tua mi rendo conto di non parlare sempre a vuoto e questo rappresenta una bella soddisfazione per me!
Mentre scorrevo le tue riflessioni mi sono tornati subito alla mente i bei romanzi di Massimiliano Verga, Zigulì, un caso editoriale noto a tutti, e il più recente Un gettone di libertà, editi da Mondadori. Perché torno a citarlo? Perché, oltre ad avere affrontato una tematica così delicata come il rapporto con un figlio disabile in maniera diretta, a tratti violenta e senza ipocrisie, Massimiliano ha dato finalmente voce a tutti quei padri che solitamente, e questo è un dato di fatto, restano ai margini della questione.
I padri, si dice, mollano prima delle madri: questo rappresenta, almeno fino a questo momento, se non un dato antropologico almeno un dato statistico e di letteratura comune.
La tua bella lettera, tuttavia, dimostra come le cose stiano in parte prendendo una nuova forma, se non altro in termini di una maggiore attenzione e comunicazione da parte dei diretti interessati, che, come scrivi tu, hanno molto da dire in materia, come il fatto che anche chi è più cresciuto e pensa di averle già viste tutte nella vita si ritrova improvvisamente a es sere costretto a cambiare e a sovvertire le proprie convinzioni.
In più c’è la sempreverde questione di genere, la di visione dei ruoli maschili e femminili, una disparità che ancora condiziona la vita familiare, personale e normativa del nostro Paese da entrambe le parti. Quanto, ad esempio, mi chiedo, i padri si sentono oggi costretti dentro falsi stereotipi di virilità, gelosia, forza e disinteresse nei confronti dei figli o nella vita in generale? Sono molto curioso di sapere cosa ne pensate. 

Caro Claudio,
innanzitutto grazie per ciò che hai scritto sul mio li bro Impossibili possibilità… Mi ha fatto molto piace re. Sì, io e i miei genitori abbiamo scelto di usare l’immagine del camaleonte proprio perché rappresenta il cambiamento e crediamo che la narrazione della nostra storia familiare rappresenti un piccolo esempio di trasformazione e cambiamento che ogni giorno abbiamo dovuto affrontare e continuiamo a farlo.
La mia mano su cui il camaleonte è appoggiato co me dici tu può farsi camaleonte, è vero. A seconda del contesto e del momento la trovo rilassata, tesa, incrociata o rigida, in base anche al mio stato psico fisico, emotivo e al contesto in cui mi trovo.
Nella mia vita (e spero di averne ancora tanta), an che se nel percorso ho sperimentato diverse difficoltà, credo di essere riuscita a trovare delle strade nuove, alternative, da percorrere insieme alle perso ne che hanno creduto nelle mie possibilità, non na scondendo i limiti ma dimostrando i cambiamenti… A proposito di camaleonte!
Un saluto
Tatiana

Cara Tatiana,
ti ringrazio per avere risposto così prontamente alla mia recensione sul tuo bel libro, Impossibili possibilità (Trento, EricksonLIVE, 2014), per l’appunto, pubblicata qualche tempo fa sul portale Superabile.it. A colpirmi è stata proprio l’immagine della copertina di cui parli, il camaleonte, classico simbolo di cambia mento, emblema di adattamento a nuove forme e co lori a seconda delle sfide che ogni giorno si troverà ad affrontare. Certo le sfide sono tante, non solo per il camaleonte ma anche per chi lo ha visto nascere, crescere e ha imparato con lui a cambiare pelle. Lo testimoniano i racconti dei tuoi genitori, che io cono sco molto bene, come tuo padre Iader, che, pur ac cettando inizialmente con difficoltà la tua disabilità, ha saputo trasformarla in pura invenzione, costruen do personalmente ogni giorno un nuovo ausilio a se conda delle necessità. Quella della vostra famiglia è una storia che si è trasformata in avventura, un bel l’esempio per tanti, una lettura che consiglio al Signor Bonaventura e a tutti i papà.

Lettere al direttore

Ciao Claudio,
ti ho ascoltato ieri in piazza Verdi! È stato veramente un gran piacere per me ascoltarti, ma la cosa che più mi ha dato emozione è stato vederti, alla fine, inseguire Paul, anche lui in carrozzella. Paul è un ragazzo che ho conosciuto da poco e a cui ho proposto di venire in piazza Verdi. Convincerlo non è stato affatto semplice, dal momento che pensava addirittura di andarsene via prima. Eppure non è successo. Ha assistito da lontano alla scena e spero che le tue pa- role gli abbiano dato la sicurezza di cui ha tanto bisogno!
Sto cercando di entrare in contatto con Paul ma è davvero difficile e indubbiamente io faccio fatica a capire quello che lui può provare, perché non mi trovo su una sedia a rotelle come lui.
Proverò a fargli conoscere l’Associazione di cui tu sei presidente onorario e magari, se sarà possibile da parte tua e se a lui piacerà l’idea, sarebbe bello se lui potesse incontrarti ancora, anche solo per bere una birra insieme!
Ma di questo magari ne riparleremo un’altra volta.
Grazie ancora per la tua testimonianza.
Edmondo

Caro Edmondo,
è stata davvero carina la serata “In aperitivo veritas”, organizzata di recente a Bologna in piazza Verdi, nel cuore della movida universitaria.
Sapere che le mie parole sono state importanti per qualcuno mi emoziona ancora. Capisco perfettamente le difficoltà di Paul; spesso quando giro l’Italia tra convegni e formazioni, molti ragazzi con disabilità, soprattutto i più giovani, mi fanno domande complesse del tipo: “Come hai accettato la tua disabilità?Perché tutto questo è successo proprio a me?”.
Domande difficili e con una loro storia, percorsi tortuosi, personali e differenti.
Quante volte ho sentito queste domande nella mia vita! E quante volte io stesso, da ragazzo, me le sono poste. Anzi, devo ammettere che persino ora, in alcune occasioni, mi capita di tornarci su.
Credo che quelle che ho citato siano due domande fondamentali nel percorso di accettazione dei nostri limiti, a partire dalla consapevolezza di noi stessi.
Domande che tutti si sono fatti, giovani e anziani, disabili e normodotati…“Perché proprio a me?”.
Dopo diversi anni ho capito che è inutile e dannoso cercare eventuali colpevoli, perché non ce ne sono, in quanto ognuno è protagonista della sua esistenza.
Questa convinzione è necessaria nella costruzione della propria identità, oltre che per liberarsi di inutili sensi di colpa.
Non va poi dimenticato che queste sono esperienze che non riguardano solo le persone con disabilità ma
che coinvolgono tutti noi e che per tutti hanno un peso sulla collettività. Imparare a guardare non la disabilità ma il mondo a partire dalla disabilità è oggi il messaggio che ancora mi sento di dare ai più giovani, a cui spetta il compito di abitare il futuro.
Che dire dunque? Al prossimo spritz insieme, cari Edmondo e Paul!

Caro Claudio,
mi permetto di darti del tu.
Sono un’insegnante, collega di Marisa, donna meravigliosa di grande sensibilità e cultura.
Un giorno mi ha consegnato un libro da leggere dal titolo “Una vita imprudente” e, con il suo solito sorriso rassicurante, mi ha detto: “Leggilo, è interessante…”. Ed è proprio così che, piano piano, ho cominciato a conoscere la tua storia.
Leggerti è stato bellissimo e commovente! La tua bellissima autoironia richiede umiltà, modestia e coraggio. L’autoironia è uno strumento comunicativo potente e utile per promuovere cambiamenti positivi nella vita di chiunque, e tu sei veramente un gran comunicatore di vita vera e di amore! Davvero stupendo il tuo libro.
Complimenti Claudio! Sei una persona meravigliosa! Grazie per le tue bellissime riflessioni, ma ancora di
più per la vita che stai vivendo!
Ora sto leggendo Lettere imprudenti sulla diversità, conversazione con i lettori del Messaggero di Sant’Antonio, il libro che mi hai regalato, attraverso Marisa, in occasione della Santa Pasqua. Grazie davvero Claudio, ho molto da imparare da una persona come te! Sono sempre più convinta di avere conosciuto una “persona più” in questo mondo. Fisicamente non ti ho mai incontrato, ma ciò non mi ha impedito di conoscere la tua essenza. I tuoi discorsi, le tue parole, i tuoi scritti valgono una vita intera. E ho compreso che dalle ferite si può ripartire, anche se sono tante e profonde, e un giorno mi piacerebbe incontrarti!
Buona vita!
Con affetto, Lea

Cara Lea,
quanti elogi! Non sono sicuro di meritarmeli tutti, perché, come si suol dire, “chi si loda s’imbroda” e a me il brodo non piace… Detto ciò, mentre leggevo la tua bella lettera ho pensato a quanto sarebbe rivoluzionario se nella scuola venisse introdotta una nuova materia… Non un nuovo tipo di Matematica, di Geografia o di Storia ma qualcosa di un po’ più trasgressivo come, ad esempio, una sana “Educazione all’Ironia”. Una provocazione certo la mia, che però, pensateci, renderebbe i ragazzi più autonomi e più consapevoli, forti dei propri limiti e capaci di sdrammatizzare. Prendersi meno sul serio implica infatti la capacità di concentrarsi meno su se stessi e di più su quello che ci circonda, vuol dire ampliare lo sguardo all’insieme e capire in che modo ne facciamo parte. Il microcosmo scolastico ovviamente non aiuta, sia per la sua struttura interna che per la sua funzione, che rimane, per forza di cose, giudicante, anche quando lo è in senso responsabile e positivo. Basterebbe semplicemente insegnare a sovvertire lo sguardo nella più piccola quotidianità, a partire dalla relazione tra alunno e insegnante, nella classe e tra gli insegnanti stessi. Le paure si affrontano sdrammatizzando e mettendole così in crisi, da tutti i punti di vista. In questo, credo, l’impegno dei singoli può fare davvero molto. Come dice Crozza quando interpreta l’Onorevole Razzi: “Senta a me! Fatti una scuola tutta tua!”.
Che ne dici? Buona vita a te!

6. La musica è fantasia e i musicisti sono fantasiosi

di Claudio Imprudente

La musica è fantasia. La fantasia è musica. I musicisti, allora, sono fantasiosi (o almeno ce lo possiamo augurare).
Mi ha scritto una lettera Paolo Falessi, membro dei “Ladri di carrozzelle”, storica e sovversiva filiale dei “Ladri di biciclette”, da quasi vent’anni attiva in studio e dal vivo. Il nome della band lascia spazio a pochi dubbi, ma per chi non li conoscesse vale la pena tracciarne un po’ le caratteristiche.
I Ladri infatti sono un gruppo di musicisti diversamente abili e non, che propone un progetto volto a fornire un’immagine diversa della disabilità. Lo fanno calcando in prima persona scene e palcoscenici, e questo già potrebbe bastare; registrando dischi (quasi venti, sinora) e anche questo sarebbe sufficiente; proponendo nelle scuole progetti formativi nei quali l’aspetto musicale non è che una componente, forse un addolcente come il miele di Lucrezio…
Il lato più interessante di questa attività di formazione parallela è che la maggior parte degli argomenti affrontati non ha niente a che fare con la disabilità e con l’esperienza diretta dei componenti della band in questo senso.
Ma siccome la musica è fantasia e i musicisti sono fantasiosi, questo non deve stupirci più di tanto. Anche se sospetto che non sia solo una questione di sensibilità musicale, artistica o di inclinazione alla creatività…
Piuttosto, infatti, sembra esserci alle spalle l’idea per cui argomenti apparentemente distanti hanno effettivi legami, magari sotterranei e non immediatamente palesi, ma a una seconda analisi davvero evidenti.
Cosa lega, infatti, disabilità, pace, nonviolenza, musica e ambiente? O, meglio, cosa consente di affrontare gli aspetti critici relativi a questi campi con un approccio organico, per cui tutto possa tenersi insieme?
Non vorrei semplificare troppo il discorso, ma ho il sospetto che un filo unisca tra loro tanti aspetti problematici, discriminatori e di ingiustizia che caratterizzano il mondo odierno. È immaginabile risolverne e ricomporne alcuni trascurandone altri?
Un percorso che parta dall’esperienza della disabilità e dalla riflessione su temi a essa correlati può trovare naturali prosecuzioni, incursioni in altri “contenitori di criticità”: la tutela ambientale, la nonviolenza, la politica di pace sono sicuramente tra questi. Mi spiego meglio: non c’è forse un nesso tra la precarizzazione del lavoro sempre più spinta, la riforma della scuola pubblica, l’allentamento delle maglie della “vita” sociale, la competizione come modello delle relazioni sociali e l’esclusione di chi non ce la fa o il fastidio per chi ce l’ha fatta al posto nostro? È come se il mondo fosse tendenzialmente “dominato” da logiche di un certo tipo che determinano uno sviluppo simile per cose anche distanti tra loro; ed è esercitando, praticando logiche di segno diverso che possiamo cercare di ribaltare dei modelli consolidati. Un sentire di segno diverso che ci consenta un approccio comprensivo ai problemi.
I “Ladri di carrozzelle” da anni ragionano attorno ai temi legati alla disabilità e all’handicap: hanno così maturato strumenti, formazione e sensibilità per affrontare problematiche altre, ma non estranee.
Hanno costruito uno modo di guardare alle cose del mondo, e ne propongono all’esterno la validità. Potremmo descrivere questo sguardo sulle cose come un atteggiamento nei confronti del prossimo (e dell’ambiente a noi “prossimo”) che sia inclusivo, rispettoso delle unicità diverse e consapevole dell’interdipendenza tra gli esseri e le cose.
Ecco perché chi vive e condivide la disabilità, avendone già fatto tema “d’indagine”, può proporre un approccio “trasversale” ai problemi in modo credibile e senza rischiare di semplificarne e sminuirne la portata.
Se vedete i “Ladri di carrozzelle”, allora, non chiamate i carabinieri: non sono briganti, ma solo musicisti fantasiosi. E non è poco…

Lettere al direttore

Risponde Claudio Imprudente claudio@accaparlante.it

Caro Claudio,
come geranio non sei un granché. Come tifoso te la cavi meglio, ma questi sembrano non essere tempi per noi. Come professionista, ecco, qui si inizia a intravvedere la tua vera grandezza che, infine, esplode nella constatazione che sei una persona veramente straordinaria conoscendoti. Sei puntuale sulla notizia. Preciso nel commento. Profondo nell’osservazione. Acuto nella battuta.
Sei uno che sa comunicare. E che sa comunicare bene. Hai fatto un casino con quel “diversamente abile”, che adesso mi tocca rincorrere mezzo mondo per fargli capire che non si dice così. Ma per sollevare l’interesse che hai sollevato tu ci vuole credito. E non è il credito che viene concesso a tante, troppe, persone oggi.
Quelle che basta un’alzata di voce, una passata in televisione ed è subito successo. Tu hai credito perché te lo meriti.
Perché il linguaggio lo studi e lo conosci. E lo conosci sempre di più perché lo studi sempre di più. Tu fai il linguaggio. E infatti quel “diversamente abile” ora mi aiuti a far capire che va detto in un altro modo. Tutti siamo diversi, e meno male! In questa diversità alcuni eccellono nel fornire alla comunità i giusti strumenti per autoregolarsi. Tu fra questi. Tu fra i migliori di questi. Perché, sai, mica Claudio Imprudente lo nascono tutti. Imprudente si nasce. E un po’ si diventa. Imprudente meraviglioso tu sei. Tu amministri la parola con lo sguardo. Tutto è comunicazione in te. E per essere comunicazione, buona comunicazione, ci vuole abilità. Ci vuole che devi essere bravo. Di più, che devi essere bello. Perché la bellezza non è esclusivamente una questione estetica. Gran figo, amico mio, tu sei una bella persona perché il tuo modo di fare conferisce bellezza a questa collegialità che ha bisogno di riferimenti come te.
Grazie, mio caro, perché come geranio sei proprio brutto ma come persona pochi come te.
Un sorriso,
Antonio Malandrina

 Caro Antonio,
di fronte a queste tue parole, ricevute da un giornalista del tuo calibro per giunta, non so proprio che dire… Sono davvero lusingato! In realtà non è vero, cioè lusingato lo sono, ma qualcosa da dire ce l’ho.
Il Geranio di cui tu parli infatti non ha smesso di raccontarsi né di sperimentarsi nel suo lungo cammino pedagogico, durante il quale gli incontri, le esperienze e le relazioni che ne sono nate lo hanno reso resistente e presente a tutte le stagioni.
Dopo il fare e il comunicare, tuttavia, arriva un tempo e forse anche un periodo della vita in cui diventa necessario sedimentare, raccogliere i frutti raccolti e soprattutto rimetterli in ordine. Capire dove si è andati è fondamentale per capire dove si sta andando e dove si andrà. Lo è per tutti ma per un educatore, che ogni giorno maneggia il proprio percorso parallelamente a quello altrui, è un atto di responsabilità.
È chiaro che a questo punto sorge spontanea una domanda: “Come può un geranio diventare educatore?”. Ho tentato di dare la mia personale versione dei fatti all’interno di un libro in prossima uscita per la casa editrice Erickson di Trento. Il titolo, Da Geranio a Educatore. Frammenti di un percorso possibile, parla già chiaro.
Qui, insieme al mio collaboratore Enrico Papa, ho raccolto una serie di chicche, di piccole esperienze del passato e del presente, che hanno contribuito allo sviluppo del mio viaggio nei territori dell’educazione.
A fare la differenza, lo scoprirete, è sempre l’humus di partenza. L’humus che ha permesso la crescita del Geranio è lo stesso che ha favorito la nascita e lo sviluppo del “fantabosco” Centro Documentazione Handicap/Progetto Calamaio e delle piante e degli animali che lo popola- no e lo animano. Perché si sa, i gerani, oltre che allontanare le zanzare, abbelliscono i contesti!
Scrivere per qualcuno che possa sempre scrivere dopo, così come diceva il grande poeta Edoardo Sanguineti. È così che si fa, o no?
Che dire Antonio,
grazie ancora per la tua stima e il tuo affetto. Per Natale avrai qualcosa da leggere!
A presto,
Il Geranio

 Lettere al direttore

Risponde Claudio Imprudente claudio@accaparlante.it

Caro Claudio,
l’altro giorno stavo riflettendo sulla parola “bellezza” e mentre ripetutamente la recitavo nella mia testa, mi accorsi che stavo pensando a voi del Progetto Calamaio.Etimologicamente parlando la parola bellezza significa: qualità di ciò che appare o è ritenuto bello ai sensi e all’anima, è da questo che si genera connessione tra l’idea di bello e quella di bene. Ecco, sta tutto lì… lì in quella connessione fra bello e bene. Non è forse vero che se proviamo del bene nei confronti di una persona a noi cara, automaticamente ai nostri occhi risulta bella? Mi viene da pensare a una mamma e un papà con il proprio bambino, a due ragazzi che si amano, a due genitori, agli amici. Quando il bene entra in gioco e sprigiona la sua forza è in grado di valicare ogni ostacolo, anche quello fisico.
Ebbene eccomi qui che scrivo a voi per ringraziarvi di tutto, perché quel bene di cui parlavo prima è subito entrato in azione e ha distrutto piano piano tutte quelle barriere che ci impediscono di vedere l’altro da un’altra prospettiva. Quel paio di occhiali che indossavo a una sola gradazione, piano piano hanno iniziato ad andare oltre, per prima cosa cambiando montatura, poi provando lenti differenti, infine sono andati in profondità, valicando le cornici del superfluo e del superficiale ed è proprio in questa profondità che ho scoperto voi: una grande équipe che mi ha accompagnata, che ha lasciato un segno, posizionandosi nel mio cuore nella sezione “ricordi più intimi e preziosi”.
Grazie perché ognuno di voi è stato importante in questo mio percorso e mi avete insegnato tanto, molto più di tutti i libri letti e studiati finora.
Volevo lasciarvi con queste righe scritte da un professore… righe illuminanti, che ho sempre riletto nei momenti difficili perché danno forza e speranza a tutti gli educatori un po’ addormentati o frustrati, a coloro che hanno perso la voglia di lottare e di mettersi in gioco, a chi si è fermato anche solo per un po’ e a chi per sempre.
L’“educatore dell’oltre” è in grado di coltivare il senso della propria “eccezionalità” e “irripetibilità”, evitando che esse vadano a discapito dei sentimenti e dei vissuti di eccezionalità e irripetibilità dei soggetti ai quali si rivolge. Egli sa cogliere il valore della propria differenza, senza spezzare i legami con il contesto sociale, consapevole che la persona può essere rispettata solo se, all’interno delle organizzazioni e dei contesti di cura, vige anche una cultura del rispetto reciproco che consenta agli operatori di concentrarsi realmente sui loro interlocutori, anziché piegarsi su di sé.
L’educatore dell’oltre è “incompiuto e connesso con il mondo”, sa mettersi in ascolto più che fungere da modello e, quand’anche i suoi modelli vengano veicolati e proposti con forza, egli sa che devono poter essere rifiutati. L’educatore dell’oltre educa e vive con lo sguardo rivolto oltre questi ripari, perché l’educazione sia anche rifugio, non solo rifugio, anche dipendenza, non solo dipendenza, anche errore, non solo errore: apertura a un mondo, nel quale la paradossalità possa essere sciolta, perché esso offre, finalmente, più di una via d’uscita.
Un abbraccio a tutti voi animatori… unici e irripetibili.
Vi voglio bene… Silvia

Cara Silvia,
che bellezza! Come diceva un noto comico “è bello ciò che è bello ma che bello, che bello, che bello!”.
Si scorge fin dalle tue prime parole che il Calamaio ha lasciato su di te la sua macchia indelebile, dove, come ci piace dire proprio quando incontriamo i giovani educatori di domani, la diversità diventa davvero la parola più contenta di spiegare al mondo intero la bellezza di un pensiero!
Mi vorrei ora soffermare però sull’ultima parte della tua lettera, in cui sottolinei il ruolo dell’educatore, qualcuno capace non solo di risolvere le situazioni e avanzare proposte ma anche qualcuno in grado di accettare e di confrontarsi con i propri limiti. Rispetto ai miei tempi, oggi le figure educative sono molte più di prima, più giovani e spesso molto più specializzate. La responsabilità che queste figure hanno però è la stessa di allora, ancora tanta, benché ultimamente messa in crisi dalle difficoltà nel mondo del lavoro.
In estate, di solito, ci sono per esempio gli educatori che si occupano dei cosiddetti “campi estivi”, dall’estate ragazzi, dai pomeriggi di gioco alle gite fuori porta. In questi contesti, educatori e operatori rappresentano per i ragazzi un’occasione di divertimento, riflessione ed evoluzione, che difficilmente ricapiterà, e sarà proprio il loro approccio a fare la differenza, così come emerge dalla tua esperienza. Educare in questi ambiti significa mettere costantemente alla prova la propria creatività, nell’offrire ai bambini e agli adolescenti qualcosa che sia sempre nuovo e calibrato rispetto ai loro limiti e risorse, oltre che nel fare uscire le potenzialità e i caratteri propri di ognuno. Per farlo bisogna essere pronti ad accettare anche le proprie difficoltà e sconfitte, trasmettendo l’idea che essere se stessi è il primo passo per conoscersi e entrare spontaneamente in relazione con gli altri. Voglio allora esortare i giovani educatori di domani a insegnare ai più piccoli a stare insieme, a impegnarsi per far scoccare in loro la scintilla, a offrire uno spunto che possa essere colto e coltivato durante l’anno, a mostrarsi sinceri perché anche le vacanze, così come ci suggerisce l’etimo della parola, possano essere l’occasione per renderci liberi e favorire l’autenticità.
Questa, a mio parere, la missione dell’educatore.
Grazie per il tuo passaggio Silvia e buona vita!
Claudio Imprudente

 Lettere al direttore

Risponde Claudio Imprudente claudio@accaparlante.it

Gentilissimo signor Claudio,
sono una studentessa di Scienze dell’Educazione di Torino, ho 26 anni e sono non vedente dalla nascita.
Le scrivo ora perché sto facendo una tesi di laurea sulla disabilità, in particolare sull’inserimento lavorativo dei non vedenti. Mentre guardavo il materiale con la mia tutor mi è capitato di leggere anche il suo libro Una vita imprudente e un’intervista che lei aveva fatto nel 2003 sul libro Diversabilità a cura di Andrea Canevaro e Dario Ianes, proprio quando il 2003 divenne l’anno europeo della “diversabilità”, così come un tempo amava definirla lei.
Leggendo questo materiale sono rimasta molto affascinata da quello che lei dice, infatti mi ha dato un grande insegnamento di vita, così come hanno fatto i miei genitori. Io provengo da una famiglia piuttosto aperta a questi temi, mio padre è professore delle medie e mia mamma, ora pensionata, era insegnante di scuola dell’infanzia, è lei che oggi mi aiuta a studiare per gli esami, leggendomi ad alta voce i libri, dal momento che con la sintesi vocale sarebbe troppo noioso.
Devo molto ai miei genitori perché, fin da quando sono nata, hanno fatto in modo che la mia disabilità non fosse un problema né per me né per gli altri, anche se in questa società è difficile che gli altri accettino i nostri deficit, ma lei questo lo saprà meglio di me. L’esperienza mi ha comunque fatto capire che nella vita ci sono cose peggiori che essere non vedenti e questo l’ho imparato attraversando dei momenti difficili che non avevano strettamente a che fare con la disabilità ma piuttosto con le mie emozioni, gli incontri e i passaggi di crescita intrapresi dopo.
Mi riconosco molto sulle cose che lei dice e mi trovo d’accordo anche riguardo alle proposte che in passato lei ha fatto rispetto ai termini da usare quando parliamo di disabilità, anche a me piace l’idea di usare il termine “diversabilità” e non disabilità, credo che racchiuda in sé più significati.
Le ho scritto quindi ora non solo per chiederle consiglio rispetto alla mia tesi ma per dirle quanto apprezzo il suo lavoro e per ringraziarla per tutto quello che mi sta insegnando anche se non ci conosciamo.
Per adesso le invio cordiali saluti.
Vanessa Topa

Cara Vanessa
Che bello ricevere questa tua lettera! Solo una cosa: non mi dare del “lei”, mi fa sentire un po’ anziano.
Scherzi a parte è sempre un piacere, per me, sapere che le cose che scrivo sono utili per la cultura dell’inclusività, nel senso pratico e quotidiano, per la vita delle persone.
Il lavoro chiaramente è una parte molto importante di essa, non solo perché occupa la maggior parte del nostro tempo ma anche e soprattutto perché contribuisce alla formazione della nostra identità, all’aumento dell’autostima, al riconoscimento dei nostri limiti e alla valorizzazione delle nostre risorse. Il concetto di lavoro è senza dubbio cambiato e in futuro, com’è naturale che sia, continuerà a farlo, i mestieri di un tempo verranno sostituiti da altri oppure ne verranno immaginati di nuovi che ora ci sembrerebbero inconcepibili.
Così come i mestieri anche i vocaboli, probabilmente, cambieranno forma e significato e anche ciò che chiamavamo “lavoro”, forse, verrà chiamato o inteso in un altro modo.
In parte, a pensarci bene, accade anche oggi. Disabilità e lavoro, per esempio, non sono due parole gemelle? Di solito, si sa, si fa fatica ad accostare questi due termini, la persona con disabilità è spesso ancora associata all’inattività, all’improduttività, di base è qualcuno che non può fare o essere qualcuno.
Stando così le cose se ora facessi un gioco e dovessi disegnare su un foglio bianco una rappresentazione di tutte queste caratteristiche probabilmente disegnerei una lattina di birra vuota, solitaria e a terra. Un rifiuto insomma, uno scarto, non di certo una persona.
Non è una bella immagine, è chiaro. Eppure c’è qualcuno che l’ha presa alla lettera e ne ha fatto addirittura un mestiere inclusivo. È successo vicino a casa mia, con il gruppo de “La città verde”, una cooperativa gestita da persone con disabilità con sede a Pieve di Cento, in provincia di Bologna, che si occupa per l’appunto di inserimento lavorativo per persone con deficit, impiegandole nell’ambito del riciclo rifiuti e della cura del verde. Interessante. A me piace soprattutto la parte della gestione e del recupero dei rifiuti perché la ritengo una metafora sensazionale parlando del ruolo attivo delle persone con disabilità nella società e, di conseguenza, anche nel mondo degli impieghi professionali.
Le persone con disabilità sono state storicamente scartate, rifiutate e messe ai margini specie in un mondo competitivo come quello del lavoro. Quelle stesse persone rifiutate e scartate ora lavorano per le nostre comunità andando proprio a trasformare questi rifiuti in altri elementi, differenziandoli, riciclandoli.
Includere e nello stesso tempo evitare di sprecare, di scartare, evitando di foraggiare quella “cultura dello scarto” tanto cara a Papa Francesco.
Che dire, cara Vanessa, spero di averti dato qualche spunto.
Tu continua così e fammi sapere come andrà la tua vita!
Grazie, a presto!
Claudio Imprudente

 Lettere al direttore

Risponde Claudio Imprudente claudio@accaparlante.it

Ciao Claudio,
sono una mamma e moglie felice. Quando aspettavo il mio primogenito, Lorenzo, affetto da gravissima malformazione, e ho deciso con mio marito di portare avanti la gravidanza, ho incontrato tante resistenze, soprattutto da chi mi diceva: condanni un figlio all’infelicità. Lorenzo è morto subito dopo la nascita, ma mi ha insegnato a vivere, ad accettare i figli come dono e non come diritto acquisito, mi ha insegnato la bellezza della vita malgrado la sofferenza. Ma ora sono sconvolta. Sono rimasta veramente turbata dalla scelta di dj Fabo di porre fine a una vita che riteneva non degna di essere vissuta. Tu cosa ne pensi? Dall’alto della mia salute e della bellezza dei figli che mi sono arrivati dopo Lorenzo, è fin troppo facile dire che la vita è meravigliosa e comunque degna di essere vissuta, ma ora mi viene il dubbio: Lorenzo sarebbe stato felice di essere vivo? Gli sarebbe bastato il nostro amore per vivere felice?
Con tanto amore da chi ti potrebbe essere madre.
Isabella

Cara Isabella,
grazie innanzitutto per la tua bella lettera, profonda e intensa. Immagino che per te non sia stato facile scrivere queste parole così come per me non è stato immediato leggerle e provare a risponderti.
Per cominciare mi sento di dire con grande umiltà che non ho ricette a riguardo e, quando mi trovo di fronte a questi casi, mi chiedo sempre: chi sono io per giudicare? Prima azione da compiere, quindi, sospendere ogni giudizio. Potrà sembrare un modo per ovviare al problema ma non lo è, è il contrario. La società contemporanea, la società del televoto, del dentro e fuori, dei reality e della comunicazione ci porta sempre di più a commentare gli accadimenti più che a dare spazio ai fatti e al racconto in quanto tali, a esprimere cioè la nostra opinione a prescindere anche quando o non siamo realmente preparati sull’argomento o si tratta, come nel caso di dj Fabo, di tematiche fortemente personali, delicate e complesse. Seconda azione: accettarsi confusi. Credo che ogni educatore e ogni genitore debba concedersi lo spazio e il tempo per sentirsi e dichiararsi confuso e spiazzato di fronte a una questione molto più grande di lui. Accettare questo, lo sappiamo, è faticoso e difficile, una figura educativa infatti di solito si sente chiamata in causa per risolvere i problemi, pensa di dover avere sempre tutto sotto controllo ma non è così, bisogna accettarlo ed essere confusi è un passaggio necessario. Terza azione: imparare a convivere con la sensazione di non avere risposte. Non tutto è immediatamente comprensibile al primo sguardo, ci vuole tempo, conoscenza e a volte anche questo si rivela un in più. È una cosa su cui ho riflettuto spesso e mi sono detto che, forse, è proprio il fatto di non avere risposte che mi ha permesso di resistere e di farlo con entusiasmo ed energia, forse, mi sono anche detto, se avessi avuto la presunzione di averle avrei agito diversamente. Una bella sfida vinta a mio parere, ma per chi si occupa di educazione venire a patti con questi aspetti significa venire a patti prima con se stessi che con gli altri, si pensa spesso infatti che se non hai una risposta pronta per ogni occasione tu non possa definirti davvero un bravo educatore. Niente di più sbagliato. Accettare i propri limiti è il primo passo per aprirsi a quelli degli altri. Detto ciò, cara Isabella, spero proprio di “non aver risposto” alle tue domande, tenendo presente che ogni scelta va rispettata così come il tuo grande coraggio. Un abbraccio.

Caro Claudio,
ho dedicato la vita all’educazione dei giovani e quando Franca Falcucci ha operato la “rivoluzione del 1977”, ero vicino a Lei perché operavamo nella stessa associazione cattolica. Poi, qualche anno dopo, sono diventato ispettore tecnico del MIUR e ho lavorato con Lei per lungo tempo. Ora, forse non lo sapevi, è già stata chiamata alla casa del Padre. Con Franca cominciammo (il plurale non è maiestatico ma secondo verità) un percorso di apertura e cambiamento verso un’autentica integrazione. Dopo i provvedimenti del 1977 (L.517 e L.348) maturò quel tentativo di accogliere sempre di più e sempre meglio oltre ai disabili anche gli svantaggiati, gli sfortunati, i soli (perché è solo un bambino che vede la madre uscire alle 7 e rientrare alle 20). Fu definito il tempo prolungato poi quello “pieno” per non lasciare per strada proprio i più deboli. Mancò però un’autentica penetrazione nella mentalità soprattutto dei dirigenti scolastici, legati ancora a orari di comodo. Oggi le cose sono cambiate, provo grande tristezza perché molti insegnanti hanno perso l’anima, scambiata in nome delle nuove aride tecnologie, che qualcuno ritiene sostitutive dei veri legali con i genitori, i fratelli, i nonni.
Sinceri auguri e cari saluti. Franco Martignon

Caro Franco,
ti ringrazio molto per la tua lettera e le tue osservazioni.
Mi ha fatto piacere ricevere le tue riflessioni, che condivido pienamente. Con il gruppo di lavoro del Centro Documentazione Handicap lavoriamo quotidianamente per una cultura dell’inclusione di tutte le persone svantaggiate all’interno della scuola e della collettività, consapevoli che quel percorso avviato dal basso a cui tu fai riferimento, richiede ancora il contributo e la presa in carico di tutti. Sono trascorsi ormai 40 anni dall’approvazione della L.570, e torneremo sicuramente ad affrontare il tema pubblicamente. Come scrivi, dai tempi di Franca è cambiato molto, sono migliorate le tecnologie e le classi si sono fatte sempre più inclusive ma ciò non ha escluso la nascita di altre problematiche come l’eccessiva classificazione, dai BES a chi più ne ha più ne metta, oppure le difficoltà negli insegnanti, soprattutto quelli di sostegno, a trovare uno spazio e un ruolo all’interno degli Istituti. Se negli anni ’70 fu fondamentale apportare delle modifiche oggi lo è tornare allo spirito rivoluzionario di allora, rivoluzionario perché capace di portare cambiamenti. Un caro saluto e buona vita,
Claudio Imprudente

Lettere al direttore

Risponde Claudio Imprudente claudio@accaparlante.it

Caro Claudio,
sono Elena Colombo, figlia di Antonia e Paolo. Frequento il terzo anno di Design del Prodotto Industriale e quest’anno affronteremo come tema generale di tesi il cibo e la sostenibilità. Dobbiamo quindi progettare un device, un servizio o un prodotto riguardante questo tema tramite ricerca, contatto con le persone, prototipazione e progettazione.
Partendo da questo vasto argomento io ho deciso di dedicarmi al cibo in relazione alle disabilità.
All’inizio avevo pensato di fare un progetto per le nuove realtà di ristorazione che vedono come protagonisti le persone disabili mentali e Down ma parlando con i professori non convinceva molto l’idea. In seguito a ciò mi è stato consigliato di vedere la disabilità nei suoi punti di forza, giocando attraverso cibo e sensi, per esempio pensare a quei sensi che sono più sviluppati in persone che hanno problemi di vista o di sordità (cene al buio, ecc.), oppure allargando il campo della disabilità a problemi di lingua come il turismo nelle grandi città che provoca problemi di comunicazione o ancora dedicarsi a uno specifico problema di disabilità che ha delle problematiche legate al cibo.
Mi farebbe quindi piacere sapere cosa ne pensi, sapere la tua relazione con la nutrizione e conoscere il tuo punto di vista. In attesa di una tua risposta ti ringrazio per la disponibilità.
Cari saluti, Elena Colombo

Ciao Elena,
grazie per avermi scritto, il tema che porti è interessante e benché ogni giorno ci coinvolga direttamente non se ne parla infatti così spesso. Per cominciare ti butto lì una piccola immagine, così ci rifletti: un uomo di mezza età che viene imboccato da un altro uomo di mezz’età. L’atto di imboccare, si sa, è cosa comune quando si incontra una persona con disabilità grave, semplicemente perché costituisce una prima necessità. Imboccare tuttavia non è un’azione qualsiasi, è un fatto che comporta una relazione, una relazione molto stretta e a volte sbilanciata, non a caso di solito siamo abituati a pensare a chi imbocca come a una mamma che nutre il proprio bambino.
Guardandola da questo punto di vista è facile cadere nel medesimo cliché e istituire cioè una dipendenza diretta tra chi dà il cibo e chi lo riceve, da lì all’equazione disabile uguale bambino il passo è breve.
All’interno di questa riflessione credo tuttavia che trovi spazio anche un’altra parola: responsabilità. Guardandomi spesso in giro noto come ancora di questi tempi dar da mangiare a qualcuno che potrebbe rischiare di affogarsi con l’acqua o che fa fatica a deglutire, può essere visto come un pericolo e non come un’opportunità di crescita da parte di entrambi i protagonisti coinvolti. Trovare del personale disposto a prendersi questa responsabilità da un lato, e una persona con disabilità capace di esplicitare i propri bisogni dall’altro, può perciò alle volte risultare difficile.
Quando mi confronto a proposito della parola responsabilità, su ciò che questa comporta in termini di azione e relazione, mi rivolgo sempre sia ai disabili che a chi li affianca e cito a tal proposito un episodio. Una volta mi è capitato, mentre ero a casa durante un pomeriggio di relax, di chiedere a una mia amica la cortesia di mettermi davanti alla televisione. Prontamente la mia amica ha preso la mia carrozzina e l’ha posizionata davanti alla tv. Benissimo, dirai tu, la tua amica è stata gentile, e ti ha correttamente messo dove chiedevi. Peccato che io non avessi specificato che ipotizzavo di guardare la tv da accesa… Avete capito bene, mi sono ritrovato davanti a una tv spenta di fronte alla quale la mia amica immaginava volessi passare l’intero pomeriggio. Risate seguenti a parte, ti pongo cara Elena, questa domanda: la responsabilità in questo caso di chi era? Mia o sua? Lei avrebbe potuto capirlo, certo, ma non è infrequente che una persona voglia semplicemente prendersi un momento per riposare nell’angolo preferito di casa sua, quindi una simile opzione, anche da parte mia, non era del tutto improbabile.
Ecco allora che la responsabilità è chiaramente di entrambi, sua, per aver eseguito senza mettersi in dialogo con me, mia per non essere stato chiaro nella richiesta. Il passaggio tra azione e relazione, non mi stancherò mai di ripeterlo, è infatti il fondamento di ogni rapporto, educativo e non solo.
Vale ovviamente anche per il cibo, a volte si ha un bel dire a spingere la persona con disabilità verso l’autonomia quando ci si ritrova a dipendere completamente da altri, si innescano facilmente dinamiche di potere, seppur inconsapevoli che mettono chi riceve il cibo sempre in una dimensione di “richiedente”, alle volte pesante o fastidiosa. Ciò non toglie che non è possibile entrare nella testa di tutti e che tutto passa attraverso la conoscenza. Far conoscere, esplicitare e così affermare la propria personalità e identità è compito di chi necessita di una mano, allo stesso modo agevolare questa dinamica lo è da parte di chi si mette in gioco alla pari dell’altro.
Non dimentichiamo poi che il cibo è piacere, mangiare bene fa parte del benessere, qualcuno sostiene addirittura della felicità. Meglio, sostengo io, farlo divertendosi, in compagnia, nei luoghi che preferiamo e mangiare sempre quello che ci piace!
Detto ciò, buon appetito! Un caro saluto e buona vita

 

2. I Fab Four

Le origini del Calamaio secondo Claudio Imprudente.

In principio furono i Fab Four. Io, Michele Morritti, Andrea Tinti e Alberto Fazzioli, tutti e quattro persone con disabilità, con cui ci incontravamo a casa mia tre mattine a settimana, a Bologna in zona Corticella. Insieme ad Alberto c’era anche Andrea Pancaldi, un ragazzo che all’epoca faceva l’obiettore di coscienza all’AIAS (Associazione Italiana Assistenza Spastici), venti mesi in tutto.
Prima però riavvolgo il nastro e vi riporto alle origini dell’antefatto.
Era il 1968, anni di contestazione a Bologna e nel mondo, anni di apertura, di ricerca di una cultura e di un’educazione nuove, anni di uomini grandi come il sindaco Giuseppe Dozza che aveva appena terminato il suo mandato insieme al cardinale Lercaro, anni in cui imperversavano gli hippies, le minigonne e i Beatles cambiavano la storia del rock.
Un panorama pieno di vita insomma in cui i quattro di Liverpool non erano certo i soli giovani scarafaggi irrequieti. Ogni scarrafone d’altronde è bell’a mamma soja ed è sulle note di “Imagine” che quattro ragazzetti senza molti peli sulla lingua cominciavano a muovere i loro primi passi nella città delle due Torri.
Ovviamente sto parlando di me, Michele, Andrea e Alberto, un’amicizia di lunga data, la nostra, condivisa sui banchi di scuola, a cominciare dalle elementari alla Scuola Beltrame, all’epoca delle scuole speciali, tutti e tre nella stessa classe. Quando è arrivata la legge sull’integrazione scolastica, nel ’77, alle scuole medie “Irma Bandiera” ci siamo divisi, stessa scuola ma classi diverse, eccetto io e Alberto, per il quale rappresentavo un riferimento importante e che la nostra insegnante ha cercato di inserire con me. Non per questo mancavano gli incontri con Michele e Andrea nei corridoi, parlando di calcio, giochi e fughini.
Alle superiori c’è stata la diaspora, io ho fatto lo scientifico, Alberto le magistrali, Andrea il classico e Michele ragioneria. Il pomeriggio però ci si ritrovava tutti al cosiddetto Centro Bernardi, il Centro Riabilitazione Spastici di Bologna, in via Bernardi per l’appunto, dove, tra un esercizio e l’altro, ci si scambiava opinioni e ci si confrontava.
Sullo sfondo, ad accompagnare i nostri passaggi di vita e le battaglie per l’integrazione c’era sempre l’AIAS, a cui avevamo aderito già alle medie, quando a scuola, inviavano gli obiettori di coscienza ad affiancarci e si creavano subito forti legami. Ovviamente dietro c’erano anche le famiglie, famiglie rivoluzionarie, che non avevano paura di in- ventare soluzioni prima ancora di cercarle. Così, una volta terminate le superiori, ci siamo guardati intorno e insieme a tutto questo gruppo di persone ci siamo chiesti: “E adesso? Che cosa combiniamo? Chi ce lo trova un lavoro? E soprattutto quale?”.
Io, Michele, Andrea e Alberto cominciammo allora a incontrarci più spesso, per stare insieme ma anche con l’idea di cominciare un’ipotetica attività. Da lì è nato il primo nucleo del CDH, il Centro Documentazione Handicap che oggi conoscete, costituito quindi da Imprudente, Morritti, Tinti, Fazzioli e il giovane Pancaldi, che citavo all’inizio, a cui si è poi aggiunto Mauro Sarti, oggi noto giornalista, che ha cominciato a fare l’obiettore di coscienza affiancando Andrea e insieme abbiamo continuato il lavoro, prima dell’82. Successivamente abbiamo trovato una sede per il CDH, all’interno dell’AIAS.
Là in via Alamandini, nei pressi di via Mirasole a Porta San Mamolo, sempre a Bologna, è proseguito il tutto.
Il Professor Andrea Canevaro, allora pedagogista e ricercatore presso l’Università di Bologna, che già bazzicava la nostra realtà, ci ha poi donato 100 libri per cominciare così a concretizzare la nostra idea, quella cioè che per rendere visibile la disabilità bisognasse cominciare a parlarne, da lì l’idea di fare documentazione e soprattutto la nascita di una domanda fondamentale: “Che cosa può fare un disabile grave per la società e non viceversa?”.
Prima di documentare ci siamo infatti resi conto che era anche importante informare e soprattutto pensare a come fare un’informazione che mettesse al centro la faccia e il ruolo delle persone con disabilità, che fossero presenti, visibili e riconosciute con un’immagine corrispondente alla realtà, che superasse il pietismo, la paura e i pregiudizi, proprio come cantava Lennon in “Imagine”.
Cominciammo a farlo con un giornalino fotocopiato in bianco e nero, il primo numero di “HP-Accaparlante”, allora solo “Accaparlante”, che fece subito discutere, dalla scelta del nome che pretendeva di dare voce a una lettera muta, contrapponendosi provocatoriamente a una rivista allora in voga e dedicata alla disabilità chiamata proprio “H muta”.
Dopodiché da cosa nasce cosa ed essendosi sparsa la voce che era nato il Centro Documentazione Handicap la gente chiamava Andrea per avere delle informazioni su quello che il Centro offriva e sui nostri progetti. Un bel giorno ci ha telefonato una scuola di Finale Emilia, chiedendoci di parlare di diversità ai loro bambini.
Andrea mi ha detto: “Aoh, Claudio, io da solo non me la sento, se vuoi proviamo insieme”. E io ho accettato. L’incontro ha avuto un gran successo e da lì è cominciata un’altra storia. Io usavo ancora la tavoletta di legno e una cosa del genere rappresentava per me una grossa novità oltre che una grande sfida. Come posso fare a raccontare ai bambini cos’è la diversità in maniera diretta e accattivante? Parlando il loro linguaggio, questa fu la mia risposta di allora, e fu così che nacque la favola di Re 33 che gettò le basi di quello che poi nel 1986 sarebbe diventato il Progetto Calamaio, un contenitore e un gruppo di persone disabili e non (e non più solo io) che con il suo passaggio ha cominciato a macchiare la realtà della scuola, lasciando il segno dell’inclusione e della creatività.
Grazie a Re 33, infatti, la voce che c’erano persone con disabilità e non che insieme raccontavano ai bambini la diversità con il gioco e l’ironia è diventata insistente e insieme a lei le richieste di incontri e laboratori, che si sono poi sviluppati molto lentamente in fieri, mentre ruotavano obiettori di coscienza, operatori, volontari e si inserivano nuove persone con disabilità inviata dall’AIAS, che piano piano hanno accresciuto e modificato la storia del gruppo. Tra i molti che sono passati ricordo con affetto Lorenzo Fanti, un caro amico che abitava nel mio quartiere, a Corticella, e che stava praticamente tutto il giorno con me, ventiquattro ore su ventiquattro.
Persone, informazione e educazione, queste sono state le parole che hanno cominciato a scrivere la storia del CDH e parallelamente del Progetto Calamaio, una storia che cambia di anno in anno, così come cambiano le persone con disabilità, oggi con molti più diritti ma non ancora completamente incluse, così come cambiano le politiche, i confini, il mondo del lavoro, della comunicazione, i giovani e i nuovi cittadini in fuga con cui sempre più ci troviamo a confronto.
Fare memoria di questo percorso vuol dire oggi prendere in mano le nostre origini per non smettere di scrivere la storia, la nostra storia. Lo scenario che ora si apre è infatti molto più ampio di quello dei primi anni Settanta e non si limita più al semplice tessuto sociale.
Ora siamo chiamati a mescolarci. Mescolarci nella cultura, nella politica, nello sport, nell’arte e nel tempo libero, creare una cultura di pace che abbia nella diversi- tà il suo valore. Sporcarsi le mani per un mondo più pulito.
Perché la storia siamo noi, cantava Francesco De Gregori, anche lui, insieme ai Beatles uno dei preferiti dei Fab Four di Corticella.

E poi la gente [Perché è la gente che fa la storia]
Quando si tratta di scegliere e di andare
Te la ritrovi tutta con gli occhi aperti
Che sanno benissimo cosa fare:
Quelli
che hanno letto milioni di libri
E quelli che non sanno nemmeno parlare;
Ed è per questo che la storia i brividi,
Perché nessuno la può fermare.
La storia siamo noi, siamo noi padri e figli,
Siamo noi, bella ciao, che partiamo
La storia non ha nascondigli, la storia non passa la mano.
La storia siamo noi
Siamo noi questo piatto di grano.

Lettere al direttore

Risponde Claudio Imprudente

Un intellettuale del nostro tempo, forse l’ultimo intellettuale del nostro tempo. È così che descriverei il professore Alain Goussot, di origine belga, docente di Pedagogia Speciale all’Università di Bologna, scomparso lo scorso marzo.
Un caro amico, oltre che un collega, che vale la pena ricordare con le debite parole e senza reticenze. Perché Alain, nel suo campo, quello dell’Educazione e della Pedagogia ma anche della Psicologia e dell’Antropologia ha lasciato il segno. Il segno del sapere, gettando importanti basi per nuove ricerche e il segno della persona, attenta, anzi di più, curiosa, anche su quello che non condivideva del tutto. Ateo convinto, Alain non ha infatti mai smesso di interessarsi alla religione, o meglio, alle religioni, e le ha messe in pratica tutte, capace di mettersi in gioco nel profondo e ponendosi sempre dalla parte dei più deboli.
La diversità, a partire da ciò che anche per lui si palesava come alieno e distante, è sempre stata una sfida, l’occasione per andare oltre e destrutturare i meccanismi incorporati nella società e nelle nostre percezioni umane fino a ribaltarle in una nuova dimensione etico-politica.
Attivo tra i ricercatori dei cosiddetti Disabilty Studies Alain si è dunque occupato da vicino della disabilità, concentrando la sua riflessione in particolare sugli aspetti legati all’adultità, al rapporto tra la disabilità e le altre discipline in un’ottica transculturale fino a sottolineare, negli ultimi anni, come il passaggio tra i termini integrazione e inclusione nella Scuola si è negativamente autoridotto nelle stigmatizzazioni dei BES (Bisogni Educativi Speciali). “Sulla questione dell’inclusione – scrive Alain su un articolo uscito su La letteratura e noi – occorre confrontarsi e chiarire meglio di cosa stiamo parlando. Per anni si è parlato di integrazione, in particolare in riferimento all’integrazione scolastica e sociale degli alunni con disabilità.
Si diceva che fosse importante creare delle opportunità e delle situazioni educative e formative in grado di rimuovere barriere e ostacoli. Poi da alcuni anni si è cominciato a parlare d’inclusione, precisando che si voleva sottolineare che il cambiamento non poteva essere a senso unico ma reciproco (soggetto e ambiente). Ma sorge un dubbio: se il concetto d’inclusione è strettamente connesso agli indirizzi proposti sui cosiddetti BES, e si muove nella direzione del differenzialismo, allora cosa vuol dire includere?”.
Difficile, se non impossibile, non aprire un dibattito dopo una domanda di Alain o leggendo le sue numerose pubblicazioni.
Tra queste ce n’è una che mi è particolarmente cara, Il disabile adulto [Maggioli editore, 2009], in cui Alain sottolinea come l’entrata nella società della persona con disabilità dopo l’uscita dal contesto scolastico porti con sé una rivoluzione sociale intrinseca che chiama in causa l’altro ma anche una responsabilità del singolo perché “vivere è l’adattamento passivo di chi rinuncia a esistere, mentre esistere implica la scelta e va nel senso di una integrazione attiva nella realtà”.
È accaduto lo stesso con altri temi, che sempre hanno preso voce a partire da un vero e proprio chiodo fisso del Professore: l’ideologia della diversità.
L’idea cioè che si debba sempre “cercare la diversità dell’altro anche in termini positivi”. Tornare all’uguaglianza, questo chiedeva Alain, vedere l’altro come altro io ma diverso da me. Partendo dalle similitudini accettare le differenze.
Perché le differenze stanno insieme, e insieme, in quanto tali, non creano più né separazione né scissione.
In questa rubrica ho il piacere di condividere con voi alcuni stralci di una corrispondenza avuta con suo figlio Enrico.

Carissimo Claudio,
mi chiamo Enrico e sono il figlio di Alain. Volevo ringraziarti per le parole che hai usato per omaggiare mio padre, il tuo amico e compagno di tante battaglie. Sto rimanendo colpito da tutti i messaggi che ancora oggi, a distanza di quasi sei mesi, sto ricevendo dai suoi studenti e dai suoi colleghi. Sono stato malissimo a seguito della sua morte, un evento dirompente, improvviso e traumatico che ha squarciato la nostra vita familiare.
Non riesco ancora a realizzare che lui se ne sia andato, tante e troppe cose sono rimaste in sospeso da quella notte tanto oscura quando lo abbiamo trovato per terra senza vita. Spesso me lo vedo sbucare dal suo studio di casa ma poi mi accorgo che la sua scrivania oramai è vuota perché lui se n’è andato davvero.
È stato un papà straordinario, mi ricordo che da ateo ci accompagnava al catechismo. Ci ha lasciati liberi di intraprendere ciascuno la propria strada. Ricordo bene il giorno in cui mio fratello gemello gli ha detto di voler entrare in seminario e lui con gioia gli ha semplicemente risposto di essere contento.
Ultimamente forse si stava ponendo tante domande sul senso della vita, l’ultima cosa che ha fatto prima di morire è stata guardare la via crucis di Papa Francesco. Con questo ha salutato il mondo.
Sono certo che nel tragitto dalla sua camera alla cucina, dove è morto, ha fatto un incontro speciale, ha visto Dio.
Come professore non era un accademico ordinario, aveva qualcosa che lo rendeva unico e speciale. Non ho mai incontrato nella mia vita una persona con la sete di cultura che aveva il Babbo.
Cercherò di portare in ogni dove il suo pensiero e spero che anche a livello accademico non venga dimenticato, perché lo merita.
Io farò di tutto perché ciò non avvenga. Ti abbraccio forte e ti ringrazio di cuore.
Fraternamente
Enrico

Caro Enrico,
innanzitutto grazie a te per aver trovato le parole per scrivermi, sono sincero: non credo che noi due ci siamo mai incontrati e la perdita del tuo papà ritenevo che fosse prima di tutto un evento da vivere tra voi familiari e poi mi dicevo “forse un giorno avremo modi di vederci”… invece mi hai scritto tu per primo. Grazie!
In questi giorni ripensavo a trovare le parole per scriverti, a un segno con il quale vorrei assicurarti che non potrò dimenticare mai una persona come Alain, così come vorrei anch’io che a livello accademico rimanesse sempre traccia di tutto quel gran lavoro che è stato fatto da tuo padre… Invece vorrei raccontarti alcuni piccoli particolari che mi tornano in mente quando penso ad Alain come uomo, oltre che come professore, ai pranzi consumati insieme in un bar davanti alla Facoltà di Cesena mentre si discuteva e lui aveva sempre un mare di idee, mi chiedevo spesso chi era intorno a lui come facesse a seguirlo in tutto, o come non ricordare il suo accento, era inconfondibile al telefono come in una sala conferenze!
Sono rimasto molto colpito dalla lettera che hai scritto in occasione di una giornata alla Facoltà di Scienze della Formazione, l’8 aprile a cui non hai potuto partecipare, in cui ti rivolgevi a tutti gli studenti che avrebbero dovuto sostenere l’esame di Alain.
Ti ringrazio ancora e ti auguro Buona Vita, a presto.
Claudio

Carissimo Claudio,
il Babbo ha sempre parlato molto di te, io ti conosco grazie ai suoi racconti. Gli si illuminavano sempre gli occhi!
Vorrei poterlo avere ancora qui, è andato via troppo presto, io ho ancora bisogno di lui!
Ma nella fede cerco di vivere questa attesa di rivederlo, consapevole di non poter cogliere ora il mistero della morte.
Ti abbraccio tanto fraternamente e spero che un giorno ci possiamo incontrare dal vivo perché vorrei abbracciarti.
A presto
Enrico

Scorrendo ancora una volta le riflessioni di Enrico penso a come la radice della parola cultura sia tutt’uno con quella del verbo latino còlere, “coltivare”. Alain è stato un grande coltivatore, di intelligenze ma soprattutto di punti di vista. Lui, che il Cristianesimo l’ha messo in pratica pur conservando la sua laicità, ha lasciato che l’espressione dei suoi figli potesse dirsi libera. Un esempio di inclusione agita e non solo teorizzata, preziosa e indimenticabile per tutti noi.
Beh, che dire Enrico, spero veramente di conoscerti personalmente il prima possibile.

 

Lettere al direttore

Caro Claudio,
perdonami se ti dò del tu, ma leggendo i tuoi articoli, mi trovo sempre in perfetta sintonia con quello che scrivi e pensi. Siamo in una società, io credo, in cui non c’è, almeno nella realtà, un vero
rispetto per chi è diverso, che sia straniero, handicappato, omossessuale, o più semplicemente diversamente abile.
Nell’approccio quotidiano, in generale, ho l’impressione che ci sia quasi sempre un rapporto di compatimento, se non addirittura di diffidenza o paura nei confronti di queste persone.
Io penso, invece, che tutte le persone siano uniche e che ognuna sia portatrice di cose belle, ma anche di cose brutte o non necessariamente brutte ma meno belle, che sono le specchio del loro vissuto fino a quel momento.
L’inclusione o l’esclusione dipende unicamente da quello che pensiamo di queste persone, dal valore che noi diamo.
Per quanto mi riguarda tutte le persone hanno il sacrosanto diritto di vivere una vita dignitosa, dove nessuno si debba sentire diverso, ma facente parte a pieno titolo della società in cui vive.
Mi trovo molto d’accordo con te quando dici che l’inclusione la si vive nel quotidiano, nelle piccole cose di ogni giorno, nelle occasioni d’incontro, nei piccoli gesti quotidiani, un sorriso, una parola, un momento di condivisione.
Ho avuto diverse occasioni nella vita di relazionarmi con persone con difficoltà motorie molto gravi e ho sempre cercato di rapportarmi con loro in modo normale, non pensando di avere davanti una persona con handicap, ma esclusivamente una persona, con pregi ma anche difetti come tutti noi
abbiamo e che spesso non vogliamo riconoscere per orgoglio.
Sempre, nel relazionarmi con loro, penso di aver più ricevuto che dato.
Io lavoro in fabbrica e qui vengono assunti, per obbligo di legge, alcune persone con handicap, alle quali vengono affidate mansioni semplici, ripetitive e alla lunga alienanti.
Credo che questo non porti molto beneficio per loro, se non in minima parte.
Ognuno di noi ha il diritto di sentirsi utile e quindi valorizzato per ciò che fa o riesce a fare.
Vorrei che la nostra società facesse dell’inclusione una sua bandiera, molto più bella di quella della guerra, dello sfruttamento dell’uomo sull’uomo, della competizione, del consumismo, del denaro e dell’arrivismo.
Cambierei, provocatoriamente, il primo articolo della nostra Costituzione, “una Repubblica fondata sull’inclusione”, ecco forse allora avremo una società più giusta, meno frenetica e più sicuramente a misura d’uomo.
Cordialmente,
Berto Graziano

Berto caro,
sei forse il marito della Berta che filava la lana, come cantava il nostro Rino Gaetano?
Sempre per restare in tema comincio con il risponderti che, a proposito della tua proposta di modificare il primo articolo della Costituzione in “l’Italia è una Repubblica fondata sull’inclusione”, sono assolutamente d’accordo con te.
Sappi però, caro Berto, che negli anni Settanta, anni d’oro per me e per Rino Gaetano, c’era già molto movimento intorno al concetto di inclusione.
Erano gli anni della Legge sull’Integrazione Scolastica, anni in cui i dibattiti su scuole speciali e insegnanti preparati al sostegno erano effervescenti.
Io ero un giovane, quasi ventenne, osservatore giudicante e giudicato da figure addette al mio contesto inclusivo. Educatori, famiglia, insegnanti, pedagogisti e via dicendo, professionisti che hanno scelto un lavoro a contatto con quella che è una delle mie molteplici realtà: la disabilità.
A costellare questo contesto però non c’erano solo loro. C’era spazio anche per altre figure, meno di spicco, che contribuivano a rendere la vita altrettanto felice e interessante.
Parlo degli “inconsapevoli promotori di inclusività”, di tutte quelle figure cioè che riempiono la quotidianità delle nostre vite, dal giornalaio, al barbiere al taxista, che possono fare la differenza e migliorarne la qualità.
Non necessariamente le persone con disabilità devono essere circondate da psicologi, pedagogisti, educatori o volontari, anzi, sono spesso le persone come tante che ci permettono di sviluppare i nostri gusti e le nostre potenzialità, che contribuiscono a costruire la nostra ordinaria identità.
E ciò accade anche sul lavoro, uno dei contesti più critici, per tutti.
Tu lo sai bene, come scrivi lavori in fabbrica, dove, ormai, non mancano più nemmeno lì progetti di inserimento lavorativo per persone con disabilità. Posto che sono in linea con te, che non sempre un lavoro meccanico e ripetitivo sia la soluzione (ma questo in generale) credo anche che il modo in cui i tuoi colleghi vengono coinvolti nella loro attività lavorativa possa essere un discrimine importante. È un passaggio, come dice un mio amico, il professore Andrea Canevaro, “dal sistema del sostegno al sistema dei sostegni, attraverso incontri di prossimità”, scoprendo che chi si incontra per caso, magari anche un collega con cui scambiare una chiacchiera da una postazione all’altra,  può diventare una risorsa.
Hai pensato, caro Berto, prima di mettere mano alla Costituzione, all’atteggiamento e ai ruoli che tu e i tuoi compagni interpretate verso i tuoi colleghi con disabilità?
Dalle tue bellissime parole sembra di sì, continua così e anche la Costituzione si farà inclusiva.
Grazie e buona vita!

Gentile Signor Claudio,
sono la sorella di P., ospite da molti anni di una comunità per disabili psichici.
L’ambiente della psichiatria è diventato parte di me, sposata con tre figli, ma anche con profondo amore fraterno verso la pecora nera di mio fratello.
Ognuno con la propria esperienza e specificità può recitare un ruolo attivo e può dare e ricevere qualcosa dagli altri per combattere la cultura dello scarto con la cultura dell’inclusione.
Ci credo talmente tanto che ho voluto includere il periodo precedente, scritto da lei, in ciò che io sto scrivendo a lei.
Ci vorrà del tempo affinché la cultura del farsi prossimo diventi fattiva, ma penso che l’educazione della persona parta proprio dalla famiglia e soprattutto,  me lo conceda, da noi donne.
Chi educa una donna educa una persona, una famiglia, un popolo, una nazione.
Con queste semplici considerazioni Le volevo augurare un sereno anno e farle sapere che io la pecora nera nel mio presepe l’ho messa: ho invitato P. a casa mia il giorno di Natale (prima di leggere il suo articolo!); non succedeva per causa di forza maggiore da anni! Noi parenti di pecore nere siamo felici!
Con tanto affetto,
Laura Pegoraro

“Ancora una notte gelida nella campagna vicino Betlemme, d’altra parte siamo quasi a ottocento metri di altitudine. Per riscaldarci l’una con l’altra siamo costrette a rimanere vicinissime”. Iniziavo così un mio articolo per “Il Messaggero di Sant’Antonio” dove, giocando un po’ con le metafore, sottolineavo il ruolo che le cosiddette pecore nere possono recitare nella società.
Un ruolo attivo, un ruolo importante. Vediamo perché.
Per noi pecore nere le regole sono chiare e soggette alle norme di purità stabilite dalla legge ebraica. Non possiamo rientrare all’ovile. Siamo costrette a seguire ovunque i nostri pastori. Non è così per le pecore di lana bianca. Il loro gregge è considerato purissimo e possono tornare dopo il tramonto a dormire nell’ovile. L’altro gruppo, formato da pecore con lana in parte bianca e in parte nera, è più fortunato del nostro. Anche loro possono rientrare nell’ovile, ma fuori dal centro abitato di Betlemme, visto che la loro lana non testimonia un’assoluta purezza.
Vero, noi pecore siamo in parte diverse. Il nostro manto è completamente nero, non candido come desiderano gli uomini. Eppure anche noi mangiamo tanta erba, abbiamo una lana calda e morbida e siamo in grado di produrre latte. Proprio come le pecore bianche.
Quella notte di dicembre sembrava diversa da tutte le altre. Il cielo era particolarmente stellato. Al nostro gregge si avvicinò un angelo. Noi pecore nere e i nostri pastori all’inizio ci spaventammo finché l’angelo del Signore ci rassicurò e ci annunciò la nascita del Salvatore e di un bellissimo cambiamento epocale, soprattutto per i più deboli come noi pecore nere. Insieme ai nostri pastori, siamo state le prime a vedere e a sentire la Buona Notizia, proprio perché eravamo le uniche a essere fuori. Questa è la testimonianza in prima persona, unica e originale, di una pecora nera, prima che l’evangelista Luca ci narrasse la Nascita del Signore.
Ma chi sono queste pecore nere? Sono quella parte della società composta da emarginati ed esclusi. Persone con disabilità, poveri, prostitute, una parte della collettività che esiste ma viene poco considerata e tutelata. Papa Francesco nell’Enciclica Laudato si’ afferma:“Se teniamo conto del fatto che anche l’essere umano è una creatura di questo mondo, che […] ha una speciale dignità, non possiamo tralasciare di considerare gli effetti […] dell’attuale modello di sviluppo e della cultura dello scarto sulla vita delle persone”.
Dalla nostra storia impariamo che anche le pecore nere hanno molto da raccontare. Ognuno con la propria esperienza e specificità può recitare un ruolo attivo e può dare e ricevere qualcosa dagli altri, per combattere la cultura dello scarto con la cultura dell’inclusione.
“Inclusione” non significa fare in modo che tutte le pecore siano bianche, ma riuscire a dare un ruolo a tutti i tipi di ovini, rispettando e valorizzando le diversità e le abilità.
Non a caso al Gesù uomo piacerà molto relazionarsi con le pecore nere e vivere le periferie, proprio Lui ci testimonia quanto gli emarginati abbiano molto da offrire ai nostri contesti.
Che dire? Se volete rendere la vostra Betlemme più accogliente, mettete tutti gli anni  una pecora nera nel presepe.

Lettere al direttore

Carissimi Claudio, Prof. Andrea Canevaro e Donatella,
vi scrivo, piena di gioia, per comunicarvi che finalmente Thiago è riuscito a finire i suoi studi presso l’ Università. Laurea in Geografia. Questa è la conclusione di una strada cominciata ventitré anni fa!
In questi ultimi giorni sono venuti alla mente tanti ricordi legati a tutto l’ultimo periodo…
Quando è nato Thiago, io e mio marito abbiamo fatto tante scelte diverse, scelte di quelle che tutti facevano con bambini per l’appunto così diversi. Lo abbiamo inserito in tutte le attività della vita. Eramo diversi però anche come famiglia perché lo portavamo in giro dappertutto, parlavamo con lui anche quando lui sembrava non rispondere, è andato a scuola come gli altri, abbiamo viaggiato tante volte, visitato musei, posti, persone. Abbiamo in più altri due figli – allora non eravamo solamente diversi, eravamo anche matti!
Per un buon paio di anni mi sono chiesta se c’era o non c’era a questo mondo una persona di riferimento, un modello, una linea di ricerca che parlasse di quello che facevamo noi, che rafforzava quello che facevamo e pensavamo. Un giorno, mentre cercavo testi su internet mi è venuto alla mano un contributo del Prof. Andrea Canevaro, per la precisione un estratto del Seminario da lui tenuto a Roma il 4 giugno 2002, dal titolo “Aspetti pedagogici, psicologici e sociologici del modello Italiano. Una premessa metodologica”. Ho letto e ho pianto. Finalmente  qualcuno che parlava di quello che pensavamo e vivevamo…. A un certo punto si scrive persino che le risposte che si possono ricevere dal dialogo con un figlio con disabilità sono “appassionanti, tali, da dare un senso alle fatiche”. Proprio quello che pensavamo nei confronti di Thiego! Ringrazio ancora Dio per trovato questo contributo!
Dopo alcuni anni, cercavamo ancora una volta delle possibilità rispetto al lavoro, a quello che si sarebbe prospettato per Thiego una volta adulto e terminati gli studi. Ho trovato a tal proposito un nome, quello di un certo Claudio Imprudente…. Non ho esitato e gli ho subito scritto. Ci siamo scambiati un paio di email, ed è finita che parlavo sempre di lui a cena con la mia famiglia, del suo lavoro al CDH… e loro mi hanno chiesto: ” Ma chi è questo Claudio?” E sono andata a cercare una sua foto. Quando l’ho vista, ho preso il cellulare e gridato a mio marito: ” Presto, dai, cerca un negozio, compra il materiale per una cosa fantastica che faremo quando tu arriverai a casa” . E così abbiamo fatto la prima tavoletta trasparente con l’alfabeto, personalizzata per Thiago. Questo ha cambiato tutta la sua vita e la nostra!
Nel mentre Donatella non si è mai stancata di darci informazioni su leggi, università, possibilità rispetto gli studi di Thiago.
Inoltre tutto questo tempo siete stati con noi in tanti momenti. Ci avete aiutati a trovare il sentiero giusto per Thiago e per noi come famiglia.
Come vi ho detto qualche mese fa, abbiamo deciso di lavorare sulla possibilità di diffondere il metodo di comunicazione di Thiago. Quello della tavoletta per l’appunto. Quanta più gente lo conosce, più grande è la possibilità di trovare una persona per Thiago (o un’altra persona come lui) che parli davvero con lui, al di là di limitarsi a un semplice “ciao Thiago”.
A questo proposto abbiamo fatto quattro incontri  per cominciare a casa nostra . Ma non siamo stati soddisfatti dei risultati. Abbiamo invitato professionisti e genitori finché non abbiamo pensato di cercare un campo più fertile: la scuola, l’incontro con i ragazzi, senza tuttavia fare nulla di concreto su questo.
Un bel giorno però ecco che viene a bussare alla nostra casa un ragazzo, un amico che Thiago si era fatto al Liceo. Lì era stato il suo tutor ora è preside in un istituto comprensivo. Non ci ha pensato due volte, appena ha rivisto Thiago e scoperto il suo nuovo modo di comunicare, subito l’ha invitato a visitare la sua scuola. 

Così abbiamo accolto l’invito e siamo andati alla scuola dell’amico di Thiago, a dire il vero senza molte aspettative. Eppure, dalle dieci della mattina alle tre del pomeriggio sono arrivati da noi moltissimi bambini e ragazzi per capire come Thiago comunicava. Siamo rimasti perplessi e… Felicissimi! Perché? Per il loro interesse, curiosità e disponibilità. Dopo la professoressa che ci ha accompagnato all’uscita ci ha detto  quanti  buoni commenti ha ricevuto rispetto alla visita di Thiago a scuola!
Avete visto? Il vostro seme ha volato verso l’Oceano e ha fatto frutti qui!
Vi ringraziamo tantissimo di cuore per tutto, per esserci!
Molto probabilmente l’anno prossimo saremo un’altra volta in Italia. Speriamo di conoscerci!
Un forte  abbraccio da tutti noi.
Rosane, João, Thiago, Bruno e Amanda

Carissima Rosane,
ringrazio di essere ormai nell’era digitale, perché è anche grazie al mare magnum della rete se la mia tavoletta, la mia piccola barchetta per viaggiare, comunicare e soprattutto far comunicare, sarebbe rimasta ancorata sui Lidi Ferraresi dove le zanzare, probabilmente, mi avrebbero mangiato con lei! Invece, complice l’era digitale, la mia tavoletta ha finito per attraversare l’Oceano e arrivare fino alle terre d’Argentina da Thiago e la sua vivacissima famiglia.
Più che una barchetta la tavoletta è dunque diventata una vera e propria tavola da surf, che, come tutte le tavole da surf che si rispettano, ha bisogno di una grande onda per volare sull’acqua e consentire al surfista di fare le sue acrobazie tra vento, moti imprevisti e paesaggi mozzafiato. Ecco, per me il bello viene proprio qui, nel mezzo della grande onda che sorregge la tavola da surf, perché è proprio lì, in quel movimento, fatto di scosse e andirivieni che l’inclusione si palesa. D’altronde un surfista non sarebbe tale senza la sua onda! Ma chi è che riempie quest’onda? Chi è che la rende così forte da sorreggere una “tavoletta da surf”? In mezzo a fare la differenza ci sono le persone, non necessariamente, come anche tu, Rosane, hai provato sulla tua pelle, figure deputate o professionisti del settore, ma più spesso persone comuni, come l’amico di Thiago che da compagno di banco si è trasformato in preside dandogli così l’occasione, inaspettata e casuale, di entrare a scuola e lasciare lì il suo personalissimo segno.
Perché l’inclusione non sta mai ferma, l’inclusione è liquida e vive di scambi.
L’amico di Thiago infatti, benché sia comparso nel posto giusto al momento giusto, non è si è comportato solo da amico, è stato uno di quelli che io chiamo gli “inconsapevoli promotori di inclusività”…Tutte quelle figure parte della nostra quotidianità , e con loro mi riferisco anche a baristi, giornalai, barbieri, che non sono psicologi né pedagogisti, né educatori né volontari ma persone come tante che nell’incontro con la disabilità decidono semplicemente di essere se stesse. E’ così che intanto cresce una nuova mentalità, più accogliente delle diversità. Un passaggio, come dice proprio il caro amico Andrea Canevaro che tu citi, “dal sistema del sostegno al sistema dei sostegni, attraverso incontri di prossimità”, scoprendo che chi si incontra per caso può diventare una risorsa!
Le tue parole e la storia di Thiago mi fanno poi  tornare indietro a quarant’anni fa, a una gita in montagna con una persona a me molto cara, un grande amico che tutt’ora mi è vicino quando ne ho bisogno e viceversa. Ricordo una lunga passeggiata nel bosco e ricordo anche che, tra una chiacchiera e l’altra, quella passeggiata fu  improvvisamente interrotta da un grosso ostacolo. Un torrente nel bel mezzo del sentiero. Che fare? Come arrivare dall’altra parte? Mai desistere! Il mio amico, con coraggio e un pizzico di irresponsabilità, mi ha guardato negli occhi e ha capito che, insieme, ce l’avremmo fatta. Così con la mia complicità ha spinto me e la mia carrozzina dall’altra parte del torrente. Ricordo perfettamente quella giornata. Ricordo perfettamente quell’acqua gelida. Ricordo anche la soddisfazione reciproca una volta giunti dall’altra parte: eravamo insieme sull’altra sponda, ce l’avevamo fatta. Bisogna buttarsi, usare quella che io chiamo  “l’irresponsabilità della responsabilità”, solo con la voglia, prima che il coraggio, di cambiare prospettiva,  sarà possibile valicare i torrenti e arrivare agli oceani.
Voi, cara Rosane, avete fatto la stessa cosa. Se foste rimasti fermi sulla riva la tavoletta sarebbe ancora in Italia, sui Lidi Ferraresi a difendersi dalle zanzare, invece, mettendovi alla ricerca, aprendovi agli altri e mettendo Thiago sempre al centro di tutti i vostri spostamenti avete letteralmente smosso mari e monti e portato la tavoletta fino a vostro figlio che ne ha poi fatto l’uso che desiderava.
La tavoletta di Thiago ha cominciato a planare sulle onde e sicuramente molti saranno ancora i sali e scendi e le cadute ma ormai il nostro giovane surfista ha aperto la sfida e fermarlo sarà impossibile!
Perché, come cantava Bruno Lauzi:  “Onda su onda/il mare mi porterà/alla deriva/ in balia di una sorte bizzarra e cattiva/onda su onda/ mi sto allontanando ormai/ la nave è una lucciola persa nel blu/ mai più ritornerò”.
Cari Rosane e Thiago buona navigazione…Ovviamente digitale!
Claudio Imprudente

Lettere al direttore

Risponde Claudio Imprudente

Ciao carissimo Claudio
sono Federico, leggo sempre la tua rubrica, mi colpisce sempre la parola diversamente, a volte mi chiedo “Diverso da chi?”. Io sono omosessuale, un altro bel marchio che la società ci mette… Già dire disabile, omosessuale o altro è marchio, la distinzione… Ma da che cosa? Si tratta poco l’argomento omosessualità, eppure ci vuole veramente coraggio a portare i marchi, ma non è impossibile.
Ti saluto e ti auguro ogni bene.
Federico da Chieti

Carissimo Federico,
sono perfettamente d’accordo con te.
Anzi spesso ho scritto di quanto sia inutile dare dei nomi, fare delle classificazioni, delle tabelle… È oggettivo come a volte questo conduca alla superficialità dei giudizi e alla banalizzazione. Ancora oggi rifletto su questa corsa alla classificazione che investe tutti gli ambiti della nostra vita a partire dalla scuola. Nel confronto a riguardo con l’Emerito Professore Canevaro, mio caro amico, abbiamo spesso parlato proprio di questo, a proposito dei BES, i cosiddetti Bisogni Educativi Speciali che hanno introdotto nell’ambiente scolastico sigle e siglette piuttosto arbitrarie e fortemente condizionanti rispetto al percorso dei singoli, un vero e proprio marchio alla base, come quello di cui parli anche tu. Il bisogno crescente di siglare e di classificare fa parte infatti della nostra società e si riscontra ovunque, non solo nelle scuole ma in tutti gli ambiti che contengono ciò che chiamiamo diversità, dall’omosessualità, all’incontro con lo straniero, alla disabilità, come se certe frontiere possano aiutare a trovare in fretta soluzioni a dei problemi che in realtà sono molto più complessi. Perché l’idea collettiva, e non sto parlando solo di integrazione scolastica, è quella che catalogare ci aiuti a definire e a circoscrivere meglio i problemi.
Quello che è recentemente successo a Venezia ne è la dimostrazione… Una vera e propria messa all’indice, da parte del sindaco Luigi Brugnaro di 49 volumi di favole e fiabe per ragazzi, ritirati dalle scuole perché considerati libri gender. Chiaramente non sto scrivendo per fare valutazioni politiche su un personaggio che fra l’altro si è insediato nella città lagunare da poco, né tantomeno giudicare delle considerazioni che per me rimangono strettamente personali. Sto raccontando un fatto. Il fatto è che ben 49 volumi sono stati ritirati dalle scuole perché considerati libri gender. Erano stati introdotti dalla precedente giunta con l’obiettivo di offrire agli insegnanti e ai bambini strumenti per affrontare il tema delle differenze di genere, di religione, nazionalità e cultura. La prima cosa che mi salta all’occhio è che, come capita spesso in questi casi, si è sparato sul mucchio. Tra i libri vietati ci sono infatti dei capolavori della letteratura per l’infanzia, capaci di insegnare ai nostri bambini valori fondamentali come l’amicizia, il coraggio, il rispetto e soprattutto l’esistenza della diversità.
Io credo che di solido non può esserci nulla nell’integrazione. L’inclusività deve fondersi per poi diventare liquida (o perlomeno gassosa), così da insinuarsi in ogni frontiera che la nostra cultura pregna di stereotipi produce. Proprio perché l’integrazione è liquida entra ed esce continuamente da questi schemi, quindi va fatta lavorando con le persone, non con tipologie di persone. I marchi, in questa liquidità, finiscono per annegare…
E ciò vale anche per l’omosessualità, per questo non posso che concordare con ciò che dici. Piano piano vedrai che anche certi tabù verranno superati. Anche grazie a persone come Papa Francesco.
Grazie mille e buona vita
Claudio Imprudente

Caro Claudio,
mi trovo a scriverti questa lettera in un momento di estremo dolore: abbiamo appena scoperto che nostro figlio di appena 5 mesi ha la SMA 1. Proprio ora che stavamo prendendo le nostre abitudini, che ci stavamo capendo, che stavamo vivendo una vita normale dopo i primi mesi di rodaggio con un neonato, ci è piombata addosso questa bomba. Lorenzo (così si chiama) è un bambino sveglissimo, sorride e parla alla sua maniera, solo che si muove poco. All’inizio sembrava pigrizia ma purtroppo le analisi genetiche non hanno lasciato dubbi. I movimenti si ridurranno sempre più e purtroppo riguarderanno prima o poi anche il respiro e il linguaggio. Una cura non c’è, ci sarebbero delle sperimentazioni tra l’altro lontano da casa nostra e non so quanto valga la pena parteciparvi. Vorrei che la breve vita di Lorenzo fosse trascorsa a casa e con gli amici e non in ospedale come cavia: la sperimentazione consisterebbe in sei iniezioni nell’arco di tredici mesi e lui potrebbe anche essere il bimbo controllo a cui non verrebbe somministrato niente: ne vale la pena? Tredici mesi sono comunque tanti a quest’età e potremmo passarli a casa o al mare o dovunque tranne che in ospedale. Tra l’altro le sperimentazioni attuali non stanno dando risultati, perciò saremmo quasi orientati a lasciar perdere.
C’è però un’altra scelta a cui siamo messi davanti ora, se così si può chiamare: decorso naturale della malattia (che potrebbe anche essere breve, entro i due anni di età) o respirazione assistita (che, attraverso la ventilazione non invasiva prima e la tracheotomia poi, invece potrebbe prolungare la vita fino a vent’anni)? L’egoismo potrebbe portarmi a scegliere la seconda opzione, anche se molto impegnativa, ma mi chiedo: Lorenzo non potrà muoversi né probabilmente parlare, gli sarà insegnato il linguaggio aumentativo, ma come farà a relazionarsi con gli altri? Non potrà nemmeno mangiare e dovrà stare quasi sempre disteso. Riusciremo a portarlo fuori di casa quando sarà più grande? Riusciremo a fargli scoprire il mondo? E poi: proverà dolore? Su questo gli studi sulla SMA non hanno ancora molti riscontri. E inoltre ci hanno già detto che siccome in questi bambini l’intelligenza è pari o superiore alla norma, saranno frustrati perché, nonostante la loro forza di volontà, potranno fare poco o niente. Un’altra cosa che mi ha spaventato è che l’educatrice del linguaggio aumentativo ci ha riferito che una delle prime frasi dette da molti bambini SMA1 è “Ho paura” o “Mi viene da piangere”. Come posso fare questo a mio figlio? Farlo vivere nella paura e nell’incomunicabilità? Scusa se sono così diretta: certo la tua situazione penso sia diversa, ma com’è stata la tua infanzia? Come hai fatto a relazionarti con gli altri che non fossero i tuoi familiari? Ecco perché la strada naturale a volte mi sembra più giusta: accompagnarlo per quello che gli resta nella felicità e nella tranquillità della nostra casa è ora il mio scopo di vita. Una soluzione non c’è… Vorrei che tutto questo fosse un incubo e invece al posto di scegliere che asilo nido far frequentare a mio figlio mi trovo a scegliere quanto e come farlo vivere. Non ti nascondo che sono arrabbiata col Signore… ma questo è un altro capitolo…
Ti ringrazio infinitamente se saprai darmi qualche ulteriore spunto di riflessione…
Grazie
T

Cara T., non è passato un giorno, da quando ho ricevuto la tua email, in cui non ho riflettuto su quanto mi hai scritto…
Non ti nascondo che mi hai fatto mettere in discussione con tutte le domande e le contraddizioni che hai messo in campo.
Mi chiedevi come è stata la mia infanzia, giustamente c’è da mettere in evidenza come io non fossi affetto da una malattia degenerativa, ma ero comunque impossibilitato a muovermi e a comunicare. La tavoletta, come mediatore tra me e gli altri, arriverà solo verso i dieci anni! Fino ad allora i miei interlocutori per eccellenza sono stati i miei genitori e mia nonna, che comprendevano i miei pensieri attraverso lo sguardo, loro capivano che io capivo e anche senza fare troppi discorsi cercavamo di relazionarci. Dovrò aspettare le scuole medie per fare altre conoscenze, oltre la mia famiglia, per mezzo della tavoletta.
So bene quanto la mia situazione sia differente rispetto a ciò a cui voi andrete incontro, ma c’è una domanda che accomuna me e Lorenzo: “Perché proprio a me?”. Non ho una risposta, ma in questi anni ho fatto un percorso, che mi ha permesso di abbracciare la situazione, nel senso di stare nel mio limite, con le difficoltà che questo comporta giorno dopo giorno.
Con ciò cosa ti vorrei dire, cara T., tu in questi mesi sei accanto a Lorenzo e stai vivendo questa situazione personale, chi sono io per giudicare?
Mi chiedi quale spunto di riflessione posso darti a riguardo e giustamente mi fai notare come altre sarebbero dovute essere le tue preoccupazioni… L’unica cosa che posso suggerirti è di non smettere di confrontarti con gli altri, così come io ti ho parlato della mia esperienza, ti invito ora a scrivere ancora, ad altre persone più o meno note, che si siano avvicinate alla condizione di cui parli. Perché la necessità di condividere è spartire il peso specifico delle cose. Di che cosa, in questo caso? Dell’handicap. Al di là dell’esattezza fisica del termine, mi è sempre piaciuto pensare che l’handicap (molto più del deficit) abbia un peso specifico e che questo sia variabile, non dato. Perché questo passaggio dal dato all’indefinito possa avvenire, occorre che la gravità sia distribuita. Non è solo un modo per condividere la fatica data da una situazione (la situazione di handicap per l’appunto), ma per condividerne il portato, le prospettive di consapevolezza che può aprire. Nel momento in cui divido il peso, ecco che aumento la capacità di rivelare delle cose. Non condivido unicamente la fatica, ma la condizione in cui la fatica mi pone. Distribuire non ha solo l’obiettivo (egoistico o mosso dalla necessità) di alleggerire, quindi di sottrarre, ma anche quello di condividere in termini di crescita, di disvelamento. Si rinuncia a una parte di peso per distribuire la consapevolezza alla quale il peso porta.
Questi sono solo i miei pensieri ma spero comunque d’esserti stato d’aiuto, un abbraccio a te e al tuo bambino.
Claudio Imprudente

Lettere al direttore

Risponde Claudio Imprudente

Donne du du du… In cerca di?
Hai proprio ragione caro Adelmo Fornaciari, quando fai cantare le donne dal palco delle città italiane… Le donne sono sempre in cerca di qualcosa, a volte sono guai (ma per colpa di chi?) e il più delle volte, come tutti noi, sono alla ricerca della propria identità.
Ma c’è di più, soprattutto se pensiamo a come la loro figura si è evoluta negli anni, dal punto di vista dell’immagine, a partire dagli stereotipi che porta con sé (bellezza, maternità, accoglienza) fino alle responsabilità legate all’impiego del proprio corpo (dalla libertà sessuale al diritto all’aborto). Detto ciò non si può infatti negare che il potere decisionale femminile sia ancora una faccenda strettamente vincolata alle leggi della comunità. La domanda che forse oggi va riproposta è quanto questa comunità si metta o non metta in relazione alle scelte del singolo e con quale legittimità.
Leggendo la monografia di questo numero avrete incontrato molte esperienze che aprono la riflessione ma che invitano anche a rimboccarsi le maniche, per fare in modo di non ripetere gli errori del passato, come la storia già ci insegna in molti campi.
Mi piacerebbe ora dare voce in questo spazio ad altre storie che, per esempio, ci raccontano di che cosa vuol dire per una donna con disabilità costruirsi un percorso professionale all’interno di un contesto scolastico o, ancora, come affrontare la nascita di un figlio con disabilità anche quando questo non è del tutto voluto dalla mamma. Un tema delicato quest’ultimo che ha generato tra i miei lettori un dibattito tra due posizioni diverse, che riporto ora così come le ho ricevute a commento in risposta a un mio articolo sul Messaggero di Sant’Antonio, “A me che importa?”, condiviso qualche tempo fa sui social. Io ho detto la mia. Voi, ditemi la vostra!

Ciao Claudio,
sono una ragazza di 29 anni con due lauree, con un lavoro precario ma stupendo, con pochi amici ma con un fidanzato filosofo, con una famiglia di vecchio stampo e un canarino giallo, che mi capisce al meglio, con una paraparesi spastica alle gambe dalla nascita e un cervello curioso e testardo. In questi giorni sono a letto per una seria sciatalgia alla schiena e così piuttosto che fissare orizzontalmente il soffitto, dispiacermi per aver perso una settimana di supplenza alla scuola dell’infanzia dove erano previste le mie attività preferite, ho letto più libri possibili tra cui il tuo, Una vita imprudente. Mi mancano da finire due tirocini e la tesi poi potrò essere anche un’insegnante di sostegno… Ma secondo te visto la mia piccola invalidità, potrò veramente aiutare nel migliore dei modi i bambini e essere una buona insegnante?
E se mi assegnassero un bimbo autistico che scappa come un fulmine? Come faccio a raggiungerlo se sono più lenta di lui nel correre? Mi è venuta questa perplessità perché le segreterie che mandano le convocazioni non hanno studiato l’ICF e non fanno interagire i funzionamenti delle persone…
Tu cosa ne pensi?
Grazie per quello che fai nelle scuole, grazie per i libri che hai scritto, grazie perché penso a te come a un amico… Più vero di quelli che continuano a vantarsi di organizzare cene di volontariato e non sanno scrivere nemmeno una volta l’anno.
Detto ciò mi prendo un altro libro… Perché l’immobilità ci può rendere colti!
Ciao,
Valentina

Cara Valentina,
beh, per risponderti mi piacerebbe partire dal tuo nome… Valentina un nome un programma… Un programma pedagogico si potrebbe dire… Hai mai pensato che a impedirti di afferrare il bimbo autistico non fosse tanto la tua disabilità quanto il tuo nome? Pensaci bene… Giochi di parole a parte, sai che mi piace scherzare, quello su cui vorrei farti riflettere è l’identità che caratterizza il tuo nome e te stessa, Va-lentina, maestra con disabilità. Muoversi lentamente è senza dubbio un tratto che contraddistinguerà il tuo modo d’insegnare… Questo, di certo, non lo potrai cambiare. Nemmeno io, in fondo, mi chiamo Claudio per caso… A guardarci bene significa claudicante, ovvero zoppo. Eppure questi dati di realtà non ci impediscono di pensare in grande e arrivare con la mente dove altri arrivano prima con il corpo. I bambini si adeguano con empatia e naturalezza a chi sta loro accanto e sanno benissimo che cosa tu sei o non sei in grado di fare. Probabilmente quel bambino si rivolgerà a te in un momento di gioco e di ragionamento, mentre, a prenderlo in corsa ci penserà un’altra insegnante. Lavorare insieme, ecco un altro punto importante. Partire dalle nostre caratteristiche e difficoltà significa infatti sapersi confrontare come gruppo su un piano di progettazione comune che tenga conto delle abilità e non abilità di tutti. Una vera ricchezza per i bambini che ne beneficeranno, che impareranno così a vivere tra la diversità delle persone e delle identità. Rallentare la scuola non significa fare cattiva scuola ma, anzi, significa aggiungere un grande valore: la lentezza.
Detto ciò… Vai, vai lentina!


Gentile Claudio,
leggo un articolo che hai scritto sul Messaggero di Sant’Antonio riguardo ai fratelli di persone disabili… A me è capitato di intervenire su una famosa rivista di moda alla confessione di una giovane donna che dichiarava di aver abortito perché il figlio che portava in grembo non era perfetto ma destinato a divenire disabile. L’ho rimproverata, forse troppo duramente, lo ammetto, per aver ucciso la sua creatura e come risposta ho avuto la testimonianza di una ragazza che aveva un fratello disabile. Raccontava di mille sacrifici e del pentimento dei suoi genitori per non aver eliminato per tempo quella creatura che non rispondeva esattamente ai loro canoni. Io sono rimasta a bocca aperta perché, nonostante tutti i sacrifici e le privazioni, penso che un essere umano sia da amare sempre e comunque.
Ecco come risponde Lucia T. alla nostra lettrice e il dialogo che ne è seguito:
Lucia T: Cara Rossana, la disperazione di quella sorella dovrebbe insegnarti che non bisogna mai giudicare, condannare, rimproverare aspramente, ma solo cercare di comprendere e rispettare le scelte individuali, spesso frutto di un dolore e un travaglio inimmaginabili…
Rosanna L: La vita, una volta concepita, deve essere protetta con la massima cura; l’aborto, come l’infanticidio, sono abominevoli delitti. Per non citare lo stesso attuale nostro Santo Padre Francesco che ha definito l’aborto una falsa compassione cara Lucia.
Lucia T: La tua giovane età, e la mia, purtroppo, già avanzata, mi spingono ad approfondire un argomento che mi sta molto a cuore, la carità cristiana. A voi giovani, da vecchia insegnante, non mi stancherò mai di chiedere una costante riflessione sul messaggio cristiano che considero di una bellezza rivoluzionaria, l’accoglienza e il perdono. E come ha detto molto saggiamente il nostro grande pontefice.
Rosanna L: Cara Lucia, come ho ammesso già prima so di essere stata dura ma so anche per certo che i figli non sono nostri ma un dono di Dio, di conseguenza eliminare quelli che non rispondono alle nostre aspettative ha ben poco di cristiano… Mi ricorda gli antichi spartani che gettavano nel dirupo i figli con qualche difetto fisico.
Lucia T: Non credo che il pontefice parlasse di falsa compassione per parlare di comprensione nei confronti di chi compie questa scelta. Io ho due figli desiderati e amati con tutta me stessa. Averli potuti avere e tenere è stata un’immensa fortuna, non mi sento per questo una brava cristiana bensì una donna cui è stato concesso un dono immenso.

Prima di rispondere a Rosanna e Lucia, riprendo con voi un estratto del mio articolo sul Messaggero di Sant’Antonio, che francamente non immaginavo avrebbe scatenato un simile dibattito e su tale fronte:
Ma chi erano Caino e Abele? Primo e secondogenito di Adamo ed Eva, una storia che tutti noi conosciamo. Il primo assassino e il primo martire della storia. L’invidia come causa del primo crimine, del primo rapporto difficile tra fratelli.
Quando sento parlare di Caino e Abele, tuttavia, non penso solo ai conflitti della storia mondiale ma, scendendo più vicino, non posso non accorgermi di altri rapporti tra fratelli e sorelle che vivono in mezzo a noi, come il mondo dei siblings, fratelli e sorelle di persone con disabilità.
Essere genitori o fratelli di una persona con disabilità sono esperienze diverse. Certo il rischio, care Rosanna e Lucia, è quello di sovrapporre i due ruoli che sottintendono la stessa domanda: perché è capitato a me?
Il tema è senza dubbio delicato e, indipendentemente dalle posizioni religiose, credo sia importante restare aperti all’ascolto e concentrarsi sulle origini di questa domanda. Il corpo che abbiamo ricevuto, nel bene o nel male, è il nostro e siamo noi, uomini e donne, che dobbiamo imparare a relazionarci con esso anche quando contiene in sé una nuova vita. Giudicare a mio parere è deleterio, sia come genitori che come fratelli oltre che come semplici cittadini.
Il vero problema è capire, al di là delle opinioni, perché la disabilità sia ancora vissuta in termini di sfiga, amplificando una serie di dinamiche culturali già in atto.
Il rifiuto nasce quando siamo bloccati dagli steccati che circondano le nostre convinzioni. Uscire da quegli steccati è rischioso. Mi viene in mente a tal proposito una recente pubblicazione per l’infanzia di Davide Calì e Serge Bloch, Il nemico. Una favola contro la guerra, Terre di mezzo Editore. Un soldato isolato in trincea immagina al di là del confine un nemico terribile e sanguinario. Un giorno si troverà a dover uscire dal suo rifugio e a incontrare il nemico faccia a faccia. Scoprirà e conoscerà un soldato molto simile a lui con le sue stesse paure e sogni. Una storia semplice ma emblematica.
La disabilità non è un nemico che ci colpisce alle spalle, è qualcosa che ci sta di fronte e che ci costringe a uscire fuori dalle trincee per guardarla negli occhi. Perché lo stesso accade dall’altra parte, proprio come ci racconta il nostro soldatino: È quasi l’alba e il nemico ancora non si vede. Ho capito dov’è. È nel mio buco! Anche lui ha pensato di sorprendermi nel sonno e di far finire questa guerra. A quest’ora mi starà aspettando ma forse ha capito che io sono nel suo buco e che non posso uscire.
Buona vita!