Lettere al direttore
- Autore: Claudio Imprudente
Risponde Claudio Imprudente claudio@accaparlante.it
Ciao Claudio,
sono una mamma e moglie felice. Quando aspettavo il mio primogenito, Lorenzo, affetto da gravissima malformazione, e ho deciso con mio marito di portare avanti la gravidanza, ho incontrato tante resistenze, soprattutto da chi mi diceva: condanni un figlio all’infelicità. Lorenzo è morto subito dopo la nascita, ma mi ha insegnato a vivere, ad accettare i figli come dono e non come diritto acquisito, mi ha insegnato la bellezza della vita malgrado la sofferenza. Ma ora sono sconvolta. Sono rimasta veramente turbata dalla scelta di dj Fabo di porre fine a una vita che riteneva non degna di essere vissuta. Tu cosa ne pensi? Dall’alto della mia salute e della bellezza dei figli che mi sono arrivati dopo Lorenzo, è fin troppo facile dire che la vita è meravigliosa e comunque degna di essere vissuta, ma ora mi viene il dubbio: Lorenzo sarebbe stato felice di essere vivo? Gli sarebbe bastato il nostro amore per vivere felice?
Con tanto amore da chi ti potrebbe essere madre.
Isabella
Cara Isabella,
grazie innanzitutto per la tua bella lettera, profonda e intensa. Immagino che per te non sia stato facile scrivere queste parole così come per me non è stato immediato leggerle e provare a risponderti.
Per cominciare mi sento di dire con grande umiltà che non ho ricette a riguardo e, quando mi trovo di fronte a questi casi, mi chiedo sempre: chi sono io per giudicare? Prima azione da compiere, quindi, sospendere ogni giudizio. Potrà sembrare un modo per ovviare al problema ma non lo è, è il contrario. La società contemporanea, la società del televoto, del dentro e fuori, dei reality e della comunicazione ci porta sempre di più a commentare gli accadimenti più che a dare spazio ai fatti e al racconto in quanto tali, a esprimere cioè la nostra opinione a prescindere anche quando o non siamo realmente preparati sull’argomento o si tratta, come nel caso di dj Fabo, di tematiche fortemente personali, delicate e complesse. Seconda azione: accettarsi confusi. Credo che ogni educatore e ogni genitore debba concedersi lo spazio e il tempo per sentirsi e dichiararsi confuso e spiazzato di fronte a una questione molto più grande di lui. Accettare questo, lo sappiamo, è faticoso e difficile, una figura educativa infatti di solito si sente chiamata in causa per risolvere i problemi, pensa di dover avere sempre tutto sotto controllo ma non è così, bisogna accettarlo ed essere confusi è un passaggio necessario. Terza azione: imparare a convivere con la sensazione di non avere risposte. Non tutto è immediatamente comprensibile al primo sguardo, ci vuole tempo, conoscenza e a volte anche questo si rivela un in più. È una cosa su cui ho riflettuto spesso e mi sono detto che, forse, è proprio il fatto di non avere risposte che mi ha permesso di resistere e di farlo con entusiasmo ed energia, forse, mi sono anche detto, se avessi avuto la presunzione di averle avrei agito diversamente. Una bella sfida vinta a mio parere, ma per chi si occupa di educazione venire a patti con questi aspetti significa venire a patti prima con se stessi che con gli altri, si pensa spesso infatti che se non hai una risposta pronta per ogni occasione tu non possa definirti davvero un bravo educatore. Niente di più sbagliato. Accettare i propri limiti è il primo passo per aprirsi a quelli degli altri. Detto ciò, cara Isabella, spero proprio di “non aver risposto” alle tue domande, tenendo presente che ogni scelta va rispettata così come il tuo grande coraggio. Un abbraccio.
Caro Claudio,
ho dedicato la vita all’educazione dei giovani e quando Franca Falcucci ha operato la “rivoluzione del 1977”, ero vicino a Lei perché operavamo nella stessa associazione cattolica. Poi, qualche anno dopo, sono diventato ispettore tecnico del MIUR e ho lavorato con Lei per lungo tempo. Ora, forse non lo sapevi, è già stata chiamata alla casa del Padre. Con Franca cominciammo (il plurale non è maiestatico ma secondo verità) un percorso di apertura e cambiamento verso un’autentica integrazione. Dopo i provvedimenti del 1977 (L.517 e L.348) maturò quel tentativo di accogliere sempre di più e sempre meglio oltre ai disabili anche gli svantaggiati, gli sfortunati, i soli (perché è solo un bambino che vede la madre uscire alle 7 e rientrare alle 20). Fu definito il tempo prolungato poi quello “pieno” per non lasciare per strada proprio i più deboli. Mancò però un’autentica penetrazione nella mentalità soprattutto dei dirigenti scolastici, legati ancora a orari di comodo. Oggi le cose sono cambiate, provo grande tristezza perché molti insegnanti hanno perso l’anima, scambiata in nome delle nuove aride tecnologie, che qualcuno ritiene sostitutive dei veri legali con i genitori, i fratelli, i nonni.
Sinceri auguri e cari saluti. Franco Martignon
Caro Franco,
ti ringrazio molto per la tua lettera e le tue osservazioni.
Mi ha fatto piacere ricevere le tue riflessioni, che condivido pienamente. Con il gruppo di lavoro del Centro Documentazione Handicap lavoriamo quotidianamente per una cultura dell’inclusione di tutte le persone svantaggiate all’interno della scuola e della collettività, consapevoli che quel percorso avviato dal basso a cui tu fai riferimento, richiede ancora il contributo e la presa in carico di tutti. Sono trascorsi ormai 40 anni dall’approvazione della L.570, e torneremo sicuramente ad affrontare il tema pubblicamente. Come scrivi, dai tempi di Franca è cambiato molto, sono migliorate le tecnologie e le classi si sono fatte sempre più inclusive ma ciò non ha escluso la nascita di altre problematiche come l’eccessiva classificazione, dai BES a chi più ne ha più ne metta, oppure le difficoltà negli insegnanti, soprattutto quelli di sostegno, a trovare uno spazio e un ruolo all’interno degli Istituti. Se negli anni ’70 fu fondamentale apportare delle modifiche oggi lo è tornare allo spirito rivoluzionario di allora, rivoluzionario perché capace di portare cambiamenti. Un caro saluto e buona vita,
Claudio Imprudente
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