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 Lettere al direttore

Risponde Claudio Imprudente claudio@accaparlante.it

Gentilissimo signor Claudio,
sono una studentessa di Scienze dell’Educazione di Torino, ho 26 anni e sono non vedente dalla nascita.
Le scrivo ora perché sto facendo una tesi di laurea sulla disabilità, in particolare sull’inserimento lavorativo dei non vedenti. Mentre guardavo il materiale con la mia tutor mi è capitato di leggere anche il suo libro Una vita imprudente e un’intervista che lei aveva fatto nel 2003 sul libro Diversabilità a cura di Andrea Canevaro e Dario Ianes, proprio quando il 2003 divenne l’anno europeo della “diversabilità”, così come un tempo amava definirla lei.
Leggendo questo materiale sono rimasta molto affascinata da quello che lei dice, infatti mi ha dato un grande insegnamento di vita, così come hanno fatto i miei genitori. Io provengo da una famiglia piuttosto aperta a questi temi, mio padre è professore delle medie e mia mamma, ora pensionata, era insegnante di scuola dell’infanzia, è lei che oggi mi aiuta a studiare per gli esami, leggendomi ad alta voce i libri, dal momento che con la sintesi vocale sarebbe troppo noioso.
Devo molto ai miei genitori perché, fin da quando sono nata, hanno fatto in modo che la mia disabilità non fosse un problema né per me né per gli altri, anche se in questa società è difficile che gli altri accettino i nostri deficit, ma lei questo lo saprà meglio di me. L’esperienza mi ha comunque fatto capire che nella vita ci sono cose peggiori che essere non vedenti e questo l’ho imparato attraversando dei momenti difficili che non avevano strettamente a che fare con la disabilità ma piuttosto con le mie emozioni, gli incontri e i passaggi di crescita intrapresi dopo.
Mi riconosco molto sulle cose che lei dice e mi trovo d’accordo anche riguardo alle proposte che in passato lei ha fatto rispetto ai termini da usare quando parliamo di disabilità, anche a me piace l’idea di usare il termine “diversabilità” e non disabilità, credo che racchiuda in sé più significati.
Le ho scritto quindi ora non solo per chiederle consiglio rispetto alla mia tesi ma per dirle quanto apprezzo il suo lavoro e per ringraziarla per tutto quello che mi sta insegnando anche se non ci conosciamo.
Per adesso le invio cordiali saluti.
Vanessa Topa

Cara Vanessa
Che bello ricevere questa tua lettera! Solo una cosa: non mi dare del “lei”, mi fa sentire un po’ anziano.
Scherzi a parte è sempre un piacere, per me, sapere che le cose che scrivo sono utili per la cultura dell’inclusività, nel senso pratico e quotidiano, per la vita delle persone.
Il lavoro chiaramente è una parte molto importante di essa, non solo perché occupa la maggior parte del nostro tempo ma anche e soprattutto perché contribuisce alla formazione della nostra identità, all’aumento dell’autostima, al riconoscimento dei nostri limiti e alla valorizzazione delle nostre risorse. Il concetto di lavoro è senza dubbio cambiato e in futuro, com’è naturale che sia, continuerà a farlo, i mestieri di un tempo verranno sostituiti da altri oppure ne verranno immaginati di nuovi che ora ci sembrerebbero inconcepibili.
Così come i mestieri anche i vocaboli, probabilmente, cambieranno forma e significato e anche ciò che chiamavamo “lavoro”, forse, verrà chiamato o inteso in un altro modo.
In parte, a pensarci bene, accade anche oggi. Disabilità e lavoro, per esempio, non sono due parole gemelle? Di solito, si sa, si fa fatica ad accostare questi due termini, la persona con disabilità è spesso ancora associata all’inattività, all’improduttività, di base è qualcuno che non può fare o essere qualcuno.
Stando così le cose se ora facessi un gioco e dovessi disegnare su un foglio bianco una rappresentazione di tutte queste caratteristiche probabilmente disegnerei una lattina di birra vuota, solitaria e a terra. Un rifiuto insomma, uno scarto, non di certo una persona.
Non è una bella immagine, è chiaro. Eppure c’è qualcuno che l’ha presa alla lettera e ne ha fatto addirittura un mestiere inclusivo. È successo vicino a casa mia, con il gruppo de “La città verde”, una cooperativa gestita da persone con disabilità con sede a Pieve di Cento, in provincia di Bologna, che si occupa per l’appunto di inserimento lavorativo per persone con deficit, impiegandole nell’ambito del riciclo rifiuti e della cura del verde. Interessante. A me piace soprattutto la parte della gestione e del recupero dei rifiuti perché la ritengo una metafora sensazionale parlando del ruolo attivo delle persone con disabilità nella società e, di conseguenza, anche nel mondo degli impieghi professionali.
Le persone con disabilità sono state storicamente scartate, rifiutate e messe ai margini specie in un mondo competitivo come quello del lavoro. Quelle stesse persone rifiutate e scartate ora lavorano per le nostre comunità andando proprio a trasformare questi rifiuti in altri elementi, differenziandoli, riciclandoli.
Includere e nello stesso tempo evitare di sprecare, di scartare, evitando di foraggiare quella “cultura dello scarto” tanto cara a Papa Francesco.
Che dire, cara Vanessa, spero di averti dato qualche spunto.
Tu continua così e fammi sapere come andrà la tua vita!
Grazie, a presto!
Claudio Imprudente



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