Caro Claudio,
perdonami se ti dò del tu, ma leggendo i tuoi articoli, mi trovo sempre in perfetta sintonia con quello che scrivi e pensi. Siamo in una società, io credo, in cui non c’è, almeno nella realtà, un vero
rispetto per chi è diverso, che sia straniero, handicappato, omossessuale, o più semplicemente diversamente abile.
Nell’approccio quotidiano, in generale, ho l’impressione che ci sia quasi sempre un rapporto di compatimento, se non addirittura di diffidenza o paura nei confronti di queste persone.
Io penso, invece, che tutte le persone siano uniche e che ognuna sia portatrice di cose belle, ma anche di cose brutte o non necessariamente brutte ma meno belle, che sono le specchio del loro vissuto fino a quel momento.
L’inclusione o l’esclusione dipende unicamente da quello che pensiamo di queste persone, dal valore che noi diamo.
Per quanto mi riguarda tutte le persone hanno il sacrosanto diritto di vivere una vita dignitosa, dove nessuno si debba sentire diverso, ma facente parte a pieno titolo della società in cui vive.
Mi trovo molto d’accordo con te quando dici che l’inclusione la si vive nel quotidiano, nelle piccole cose di ogni giorno, nelle occasioni d’incontro, nei piccoli gesti quotidiani, un sorriso, una parola, un momento di condivisione.
Ho avuto diverse occasioni nella vita di relazionarmi con persone con difficoltà motorie molto gravi e ho sempre cercato di rapportarmi con loro in modo normale, non pensando di avere davanti una persona con handicap, ma esclusivamente una persona, con pregi ma anche difetti come tutti noi
abbiamo e che spesso non vogliamo riconoscere per orgoglio.
Sempre, nel relazionarmi con loro, penso di aver più ricevuto che dato.
Io lavoro in fabbrica e qui vengono assunti, per obbligo di legge, alcune persone con handicap, alle quali vengono affidate mansioni semplici, ripetitive e alla lunga alienanti.
Credo che questo non porti molto beneficio per loro, se non in minima parte.
Ognuno di noi ha il diritto di sentirsi utile e quindi valorizzato per ciò che fa o riesce a fare.
Vorrei che la nostra società facesse dell’inclusione una sua bandiera, molto più bella di quella della guerra, dello sfruttamento dell’uomo sull’uomo, della competizione, del consumismo, del denaro e dell’arrivismo.
Cambierei, provocatoriamente, il primo articolo della nostra Costituzione, “una Repubblica fondata sull’inclusione”, ecco forse allora avremo una società più giusta, meno frenetica e più sicuramente a misura d’uomo.
Cordialmente,
Berto Graziano

Berto caro,
sei forse il marito della Berta che filava la lana, come cantava il nostro Rino Gaetano?
Sempre per restare in tema comincio con il risponderti che, a proposito della tua proposta di modificare il primo articolo della Costituzione in “l’Italia è una Repubblica fondata sull’inclusione”, sono assolutamente d’accordo con te.
Sappi però, caro Berto, che negli anni Settanta, anni d’oro per me e per Rino Gaetano, c’era già molto movimento intorno al concetto di inclusione.
Erano gli anni della Legge sull’Integrazione Scolastica, anni in cui i dibattiti su scuole speciali e insegnanti preparati al sostegno erano effervescenti.
Io ero un giovane, quasi ventenne, osservatore giudicante e giudicato da figure addette al mio contesto inclusivo. Educatori, famiglia, insegnanti, pedagogisti e via dicendo, professionisti che hanno scelto un lavoro a contatto con quella che è una delle mie molteplici realtà: la disabilità.
A costellare questo contesto però non c’erano solo loro. C’era spazio anche per altre figure, meno di spicco, che contribuivano a rendere la vita altrettanto felice e interessante.
Parlo degli “inconsapevoli promotori di inclusività”, di tutte quelle figure cioè che riempiono la quotidianità delle nostre vite, dal giornalaio, al barbiere al taxista, che possono fare la differenza e migliorarne la qualità.
Non necessariamente le persone con disabilità devono essere circondate da psicologi, pedagogisti, educatori o volontari, anzi, sono spesso le persone come tante che ci permettono di sviluppare i nostri gusti e le nostre potenzialità, che contribuiscono a costruire la nostra ordinaria identità.
E ciò accade anche sul lavoro, uno dei contesti più critici, per tutti.
Tu lo sai bene, come scrivi lavori in fabbrica, dove, ormai, non mancano più nemmeno lì progetti di inserimento lavorativo per persone con disabilità. Posto che sono in linea con te, che non sempre un lavoro meccanico e ripetitivo sia la soluzione (ma questo in generale) credo anche che il modo in cui i tuoi colleghi vengono coinvolti nella loro attività lavorativa possa essere un discrimine importante. È un passaggio, come dice un mio amico, il professore Andrea Canevaro, “dal sistema del sostegno al sistema dei sostegni, attraverso incontri di prossimità”, scoprendo che chi si incontra per caso, magari anche un collega con cui scambiare una chiacchiera da una postazione all’altra,  può diventare una risorsa.
Hai pensato, caro Berto, prima di mettere mano alla Costituzione, all’atteggiamento e ai ruoli che tu e i tuoi compagni interpretate verso i tuoi colleghi con disabilità?
Dalle tue bellissime parole sembra di sì, continua così e anche la Costituzione si farà inclusiva.
Grazie e buona vita!

Gentile Signor Claudio,
sono la sorella di P., ospite da molti anni di una comunità per disabili psichici.
L’ambiente della psichiatria è diventato parte di me, sposata con tre figli, ma anche con profondo amore fraterno verso la pecora nera di mio fratello.
Ognuno con la propria esperienza e specificità può recitare un ruolo attivo e può dare e ricevere qualcosa dagli altri per combattere la cultura dello scarto con la cultura dell’inclusione.
Ci credo talmente tanto che ho voluto includere il periodo precedente, scritto da lei, in ciò che io sto scrivendo a lei.
Ci vorrà del tempo affinché la cultura del farsi prossimo diventi fattiva, ma penso che l’educazione della persona parta proprio dalla famiglia e soprattutto,  me lo conceda, da noi donne.
Chi educa una donna educa una persona, una famiglia, un popolo, una nazione.
Con queste semplici considerazioni Le volevo augurare un sereno anno e farle sapere che io la pecora nera nel mio presepe l’ho messa: ho invitato P. a casa mia il giorno di Natale (prima di leggere il suo articolo!); non succedeva per causa di forza maggiore da anni! Noi parenti di pecore nere siamo felici!
Con tanto affetto,
Laura Pegoraro

“Ancora una notte gelida nella campagna vicino Betlemme, d’altra parte siamo quasi a ottocento metri di altitudine. Per riscaldarci l’una con l’altra siamo costrette a rimanere vicinissime”. Iniziavo così un mio articolo per “Il Messaggero di Sant’Antonio” dove, giocando un po’ con le metafore, sottolineavo il ruolo che le cosiddette pecore nere possono recitare nella società.
Un ruolo attivo, un ruolo importante. Vediamo perché.
Per noi pecore nere le regole sono chiare e soggette alle norme di purità stabilite dalla legge ebraica. Non possiamo rientrare all’ovile. Siamo costrette a seguire ovunque i nostri pastori. Non è così per le pecore di lana bianca. Il loro gregge è considerato purissimo e possono tornare dopo il tramonto a dormire nell’ovile. L’altro gruppo, formato da pecore con lana in parte bianca e in parte nera, è più fortunato del nostro. Anche loro possono rientrare nell’ovile, ma fuori dal centro abitato di Betlemme, visto che la loro lana non testimonia un’assoluta purezza.
Vero, noi pecore siamo in parte diverse. Il nostro manto è completamente nero, non candido come desiderano gli uomini. Eppure anche noi mangiamo tanta erba, abbiamo una lana calda e morbida e siamo in grado di produrre latte. Proprio come le pecore bianche.
Quella notte di dicembre sembrava diversa da tutte le altre. Il cielo era particolarmente stellato. Al nostro gregge si avvicinò un angelo. Noi pecore nere e i nostri pastori all’inizio ci spaventammo finché l’angelo del Signore ci rassicurò e ci annunciò la nascita del Salvatore e di un bellissimo cambiamento epocale, soprattutto per i più deboli come noi pecore nere. Insieme ai nostri pastori, siamo state le prime a vedere e a sentire la Buona Notizia, proprio perché eravamo le uniche a essere fuori. Questa è la testimonianza in prima persona, unica e originale, di una pecora nera, prima che l’evangelista Luca ci narrasse la Nascita del Signore.
Ma chi sono queste pecore nere? Sono quella parte della società composta da emarginati ed esclusi. Persone con disabilità, poveri, prostitute, una parte della collettività che esiste ma viene poco considerata e tutelata. Papa Francesco nell’Enciclica Laudato si’ afferma:“Se teniamo conto del fatto che anche l’essere umano è una creatura di questo mondo, che […] ha una speciale dignità, non possiamo tralasciare di considerare gli effetti […] dell’attuale modello di sviluppo e della cultura dello scarto sulla vita delle persone”.
Dalla nostra storia impariamo che anche le pecore nere hanno molto da raccontare. Ognuno con la propria esperienza e specificità può recitare un ruolo attivo e può dare e ricevere qualcosa dagli altri, per combattere la cultura dello scarto con la cultura dell’inclusione.
“Inclusione” non significa fare in modo che tutte le pecore siano bianche, ma riuscire a dare un ruolo a tutti i tipi di ovini, rispettando e valorizzando le diversità e le abilità.
Non a caso al Gesù uomo piacerà molto relazionarsi con le pecore nere e vivere le periferie, proprio Lui ci testimonia quanto gli emarginati abbiano molto da offrire ai nostri contesti.
Che dire? Se volete rendere la vostra Betlemme più accogliente, mettete tutti gli anni  una pecora nera nel presepe.

 

 

 

Continua a leggere: