C’è un intero filone cinematografico – presente in modo consistente soprattutto nel cinema americano – che racconta le vicende di personaggi con handicap acquisiti: è l’insieme dei film sui reduci di guerra. Questo filone s’ingrossa, ovviamente, ad ogni dopoguerra: dopo la prima guerra mondiale, dopo la seconda, dopo la guerra del Vietnam … Pensiamo a classici come Uomini (o Il mio corpo ti appartiene) e a film abbastanza recenti come Tornando a casa e a Nato il 4 luglio. I protagonisti sono sempre personaggi di sesso maschile.

Film di guerra e di disabili

Questi film sono, in genere, imperniati su un duplice conflitto: un conflitto interiore, psicologico, e un conflitto esterno, sociale. Il conflitto interiore, vissuto dai protagonisti di questi film, è tra la loro identità (costruita sull’essere sani, forti e – spesso – spavaldi) e la loro nuova condizione, “indebolita” da una disabilità fisica.
Questi film finiscono – più o meno consapevolmente, più o meno esplicitamente – con lo sviluppare una critica al modello di maschio imperante nella società occidentale. Quel modello, infatti, entra in crisi non appena chi lo persegue deve fare i conti con un’avversità imprevista quale è l’acquisire un handicap.
Fino agli anni cinquanta, tuttavia, questa conflittualità doveva essere riassorbita e superata tutta e solo dal protagonista. Costui doveva riuscire ad accettare la propria disabilità, mettere da parte un po’ della propria orgogliosa indipendenza e accettare di dover farsi aiutare. Gli altri – i parenti, la fidanzata, gli amici, tutta la società circostante – facevano poco più che consolare e attendere pazientemente il superamento dello shock e la “riabilitazione” del reduce disabile. Da questi film emerge una concezione dell’handicap che possiamo considerare puramente riabilitativa.
Soltanto a partire dai film post-Vietnam l’approccio cambia. Pensiamo ai già citati Tornando a casa e Nato il 4 luglio e ad uno dei personaggi secondari di Forrest Gump (1994) di Robert Zemeckis.
Il conflitto interiore resta, rimane lo sforzo per ridefinire la propria identità. Ma non è più solo il reduce a doversi riadattare. Il sessantotto non è passato invano. Questi film sono permeati da uno spirito contestatario. Il reduce disabile rappresenta una spina nel fianco della società, che costringe tutti a interrogarsi sui propri valori di fondo.

Accettare poco a poco

Passiamo ora a considerare film in cui si raccontano personaggi con handicap che non sono stati acquisiti sul campo di battaglia. Anticipiamo che alcuni temi restano più o meno gli stessi.
Un primo passaggio classico delle storie è il processo di accettazione della propria nuova condizione. Questo processo si distende lungo una parte del film. Infatti, non è immediato capire cosa si può ancora fare (magari in modi diversi da prima) e cosa resta precluso. La cognizione delle proprie nuove capacità si matura durante la riabilitazione. E’ una messa a fuoco progressiva, che si attua non solo a livello mentale, ma anche a livello pratico, provando e riprovando.
Un esempio ce lo offre Vita di cristallo (1992) di Neil Jimenez e Michael Steinberg. E’ un film intenso ed è distribuito da una major, ma nelle sale italiane in pratica non ha girato. Qualche chance in più l’ha avuta nella circolazione in videocassetta.
E’ un film ambientato nello stesso istituto di riabilitazione dove era stato girato Tornando a casa. I personaggi principali – tutti e tre in sedia a rotelle in seguito ad un incidente stradale – sono interpretati da ottimi attori: Eric Stoltz, Wesley Snipes e William Forsythe. Uno è scrittore, l’altro è un playboy di colore, il terzo è un motociclista rozzo e violento. Il film racconta i primi mesi di questi tre personaggi dopo l’incidente, cioè il periodo di riabilitazione in ospedale. La loro preoccupazione più acuta riguarda la sfera sessuale: l’incidente avrà compromesso la loro virilità ? In particolare, il film analizza la relazione tra lo scrittore Joel e una donna sposata, Anna (la radiosa Helen Hunt, resa poi nota da Qualcosa è cambiato ), col quale Joel aveva una relazione fin da prima dell’incidente e con la quale ora gli è difficile riprendere un rapporto normale, dovendo superare i nuovi ostacoli che l’handicap pone.
La progressiva accettazione dell’handicap e il processo di riabilitazione sono descritti in modo molto accurato e credibile, esatto fin nei dettagli. Non a caso, si tratta di un’opera semi-autobiografica: lo sceneggiatore e co-regista Neal Jimenez (un solido professionista di Hollywood) è da alcuni anni in sedia a rotelle e ha vissuto in prima persona un’esperienza come questa.
Un altro film che parte da un’esperienza autobiografica è lo svedese Oltre il dolore, oltre la pena (1983) di e con Agneta Elers-Jarleman, che rievoca la propria convivenza con un uomo gravemente handicappato dopo un incidente.
Ovviamente, fa molta differenza se la disabilità è stabile o invece – come, ad esempio, in Go now (1996) di Michael Winterbottom– è progressiva. Il protagonista di Go now – Nick, operaio e calciatore dilettante (interpretato dal sempre bravissimo Robert Carlyle, interprete di tanti film di Ken Loach e di Trainspotting e Full Monthy ) – scopre di essere affetto da sclerosi multipla in età adulta e deve accettare una condizione che s’aggrava mese dopo mese. L’epica della forza di volontà è molto difficile da applicare a situazioni come questa. Infatti il film parte su toni scanzonati e vitalistici, ma finisce poi con l’assumere una piega nettamente tragica, pur conservando notazioni umoristiche e realistiche. Particolarmente toccante è il rapporto tra Nick e la fidanzata Karen; in questo rapporto, amore e sesso seguono – a causa della malattia – percorsi non sempre coincidenti.

Il rapporto con gli altri e con sé stesso

Un secondo passaggio è capire quale sarà il percorso di riabilitazione e quanto durerà. Qui il protagonista deve sfoderare tutta la propria pazienza e tutta la propria forza di volontà.
Un terzo passaggio consiste nel fare i conti con il se stesso di prima, ragionare su come si era. E magari individuare nuove mete e nuovi valori prima trascurati.
E’ il caso di Billy Golfus in Quando Billy si è rotto la testa … e altre storie meravigliose (1995) di David Simson e Billy Golfus. E’ un bellissimo reportage d’autore. Un giornalista radiofonico – appunto Billy Golfus – subisce una lesione cerebrale e resta semiparalizzato per un incidente stradale. Decide allora di attraversare gli Stati Uniti per incontrare alcuni singolari personaggi handicappati. Il Billy di prima dell’incidente mai avrebbe pensato d’imbarcarsi in una simile impresa. Eppure questo viaggio attraverso gli USA risulta ricco di incontri straordinari, che aprono nuove prospettive allo stesso Billy.
Un ultimo passaggio, che s’interseca con i precedenti, sta nel ridefinire i propri rapporti con gli altri: far loro capire la propria nuova condizione, fare i conti con “lo sguardo degli altri”. Questo sguardo – l’opinione degli altri – contribuisce a favorire o ostacolare la riabilitazione del protagonista, condizionando le sue prospettive di vita affettiva e lavorativa.
Un esempio ci è fornito dal film canadese Sei bella Jeanne (1987) di Robert Menard. Una giovane donna, Jeanne, perde l’uso delle gambe in seguito ad un incidente. Si ritrova in carrozzina ed è costretta a cambiare radicalmente le sue abitudini di vita. Finirà con il legarsi ad un diverso compagno, paraplegico come lei. Solo con lui riesce a condividere una prospettiva di vita comune.
Un altro esempio è quello di Piero Motta (tetraplegico in seguito ad un tuffo in mare) che parla di sé in Piero e gli altri (1990) di Piero Motta e Davide Del Boca. In questo coinvolgente documentario di soli 23 minuti, Piero sostiene una tesi importante: le persone disabili devono “uscire” per le vie, mirare ad una vita normale e chiedere d’essere aiutati quando serve, senza timidezze. Gli “altri” si dimostreranno più disponibili se i disabili per primi affronteranno l’handicap con naturalezza. Il loro “sguardo” cambierà.
Un terzo esempio è nel film cecoslovacco Eclissi parziale (1982) di Jaromil Jires, che narra il dramma di una quattordicenne, Marta, che sta diventando cieca. L’eclissi che dà il titolo al film è “l’eclissi d’identità” subita dalla protagonista in seguito all’handicap. I parenti più vicini (la madre e la sorella) non capiscono il suo dramma. Gli insegnanti nell’istituto che frequenta hanno modi scortesi e autoritari. La salvezza di Marta arriverà grazie al dottor Mos, un giovane psicologo libertario ed eccentrico che può richiamare il personaggio interpretato da Robin Williams in L’attimo fuggente. Mos ridona fiducia e forza a Marta, insegnandole a distinguere le luci e le ombre anche in un mondo diversamente illuminato.

Per avere ulteriori informazioni (anche indicazioni per la reperibilità) su questi e altri film ci si può rivolgere alla Mediateca LEDHA (tel. 02-65.70.425 )

(*) curatore della Mediateca LEDHA

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