Sapete come è iniziato in Italia l’anno dell’handicappato? Con l’applicazione dell’IVA sulle carrozzine, a decorrere dal primo gennaio. La tolsero dagli arazzi, mi pare, e la misero sulle carrozzine. Spostamenti di pura tecnica fiscale, mi dirai, ma intanto… Ti chiedi se al Governo ci sono dei buontemponi! Noi siamo stati contrari all’anno dell’handicappato. Sono buffonate. Cose che lasciano il tempo che trovano. Buone solo per lavare la coscienza degli ipocriti. Come sono buffonate l’anno della donna, del bambino, del negro, del povero, del disgraziato… e chi più ne ha più ne metta. Tanta retorica e non uno dei problemi viene risolto.
L’emarginazione è un fatto politico. E’ il frutto di una certa organizzazione sociale, dove il valore delle persone è stabilito in base al rapporto che esse hanno col profitto. Gli individui più deboli sono meno importanti, e la società tende a dimenticarli. Ma c’è anche una grossa componente culturale. Paesi non meno «capitalistici» del nostro hanno molto più rispetto, più attenzioni. E’ sufficiente andare in Francia o in Germania per rendersene conto. 0 almeno questa è l’impressione che mi son fatta, ascoltando e leggendo.
Da noi alcune famiglie baratterebbero volentieri i pochi e inadeguati interventi dell’ente pubblico con un po’ di soldi in più da avere in tasca e da spendere come meglio si crede. Altro che battaglie di civiltà! E in effetti un assegno mensile di 300.000 lire per un handicappato grave a cosa ti serve? Non ti basta per pagare una persona che ti aiuti nelle faccende essenziali. E allora o la miseria, e una vita di sacrifici inenarrabili, o l’istituto.
L’istituto, di per sé, potrebbe essere anche meglio di una famiglia che non ce la fa. Ma bisogna vedere quale istituto. Noi siamo per la diffusione su larga scala di piccole comunità, inserite nei condomini, nei quartieri. Siamo contrari ai Cottolengo, per capirci. A quelle vere e proprie megalopoli, gigantesche corti dei miracoli. Tanto di cappello a Cottolengo in persona, quando ai suoi tempi iniziò un discorso importante sull’assístenza, e lo mise in pratica come poté. Ma nel Duemila bisogna trovare altri sistemi. I mostri, si favoleggia; ci sono mostri orribili che nessuno vorrebbe vedere, e addirittura nascono leggende su impossibili incroci fra donne e cavalli, uomini e cagne. Quanti sono veramente í « mostri » là dentro? Cosa vuol dire esattamente « mostro »?
Ricordo una trasmissione radiofoníca molto vivace: intervenne un tizio che telefonò e disse: « Bisognerebbe ucciderli, gli handicappati, prima ancora che nascano, o subito dopo ». Si scatenò un’ira generale. Tutti scandalizzati, rovesciarono sul malcapitato una marea di insulti. Che cosa proponevano in cambio? Istituti, reclusorí. Insomma, hai capito? Era una nobile tenzone fra pena di morte ed ergastolo. E delle due, la proposta più radicale era meno condita di moralismo e falsità.
Uccidere i mostri: sfrondando il mio ragionare da ogni forma di pietà religiosa o moralistica sollevo una obiezione di fondo. Anche se fosse meglio ucciderli che costringerli a vivere come li facciamo vivere, chi stabilisce il confine tra mostro e non mostro? Dov’è il limite oltre il quale è meglio morire? E’ un’ipotesi impraticabile. Secondo Hitler i mostri erano i negri, gli ebrei, i non ariani…
Cominciamo col tirar fuori dagli istituti tutto il possibile. Creiamo comunità, centri di lavoro, day hospitals. Incrementiamo l’assistenza domiciliare, l’inserimento nel lavoro. Poi riparleremo dei « mostri », se ce ne saranno ancora.
Oggi, se ti vengono a mancare i genitori, rischi di andare alla deriva come una bottiglia vuota. Rischi di finire in un cronicario, insieme ad altri uomini soli e vecchi che muoiono l’uno dopo l’altro. E anche tu, lì, ad aspettare la fine…
Penso ad un handicappato veramente grave, ad uno psicotico, penso alla difficoltà di tenerlo in casa: sì, è vero, è una cosa tremenda, sconvolgente. Allora, visto che ammazzarlo non sta bene, che fai? Lo prendi, lo chiudi, gli dai solo da mangiare, da bere e gli neghi tutto il resto. Non è quasi la stessa cosa?
E stato giusto aprire i cancelli del manicomio. Conosco gente che ti chiedi perché mai ha trascorso dieci, quindici anni là dentro. Dicono: sono pericolosi, violenti, uccidono. Quando un malato di mente commette un delitto si dice: hai visto? Non ci sono più i manicomi… Non si vede che sono soprattutto i sani a uccidere, a violentare le ragazze, a commettere ogni genere di nefandezze? Certo, ogni tanto i malati di mente uccidono qualcuno: esattamente come i sani.
Infatti il problema non è questo. E che bisogna smetterla di fare le riforme a questo modo, senza creare strutture intermedie ed alternative adeguate, lasciando tutto allo sbando, come se una mente politica perversa, mentre da una parte introduce una novità, dall’altra facesse di tutto per affossarla ed esporla al pubblico ludibrio. Non è colpa di Basaglia, non è davvero colpa di Basaglia.
Abbiamo progetti bellissimi, concezioni assistenziali che sfiorano la perfezione. All’estero invidiano le nostre teorie, la nostra fantasia. Però non invidiano i nostri ospedali, le nostre strutture di base. Cosa volete che vi dica: sono vent’anni e più che vivo in ospedale. Le tecniche sono migliorate, i progressi scientifici ci sono stati. Eppure oggi i malati si lamentano più di ieri, i rapporti con i medici mi sembrano più freddi, più distaccati. Chi ingesserebbe più il mio Koala di peluche? (Sì, una sera finsi per gioco col dottor Enrico che il mio Koalino si fosse rotto una gamba. E la mattina dopo lo trovai ingessato. Guarì dopo quindici giorni.)
Ospedali, istituti: ci vorrebbe più buon senso. Gli sprechi, la disorganizzazione andrebbero combattuti come le epidemie, con la stessa sollecitudine, lo stesso sforzo. Chi lavora bene e tanto deve essere ben remunerato, deve essere premiato in qualche modo. Va ripristinata una scala di valori, in base ai meriti reali. Altrimenti, anche quando l’assistenza c’è, non è all’altezza.
La beneficenza, il buon cuore: discorsi vecchi, superati. Lo dico senza disprezzo. Il buon cuore può essere una bella disposizione d’animo individuale. Ma alle volte ti fa sentire anche peggio, ti fa sentire compatito. Noi quindi non ci occupiamo di serate benefiche. Abbiamo scelto un rapporto robusto con l’ente locale, ne siamo diventati interlocutori importanti. E chiediamo fatti, rivendichiamo diritti. Sappiamo che questa è la civiltà delle parole… vi sono state culture, in passato, che incoraggiavano alla soppressione dei minorati, come a Sparta. Altre, che inneggíavano a un presunto legame fra gli handicappati e il Dio che per sbaglio, o perché ubriaco, o per un disegno superiore e incomprensibile agli uomini, li faceva venire al mondo. La nostra invece è la civiltà delle parole, la cultura delle parole. Si parla di handicappati, si scrive, ma siamo sempre lì…
Anche le conquiste che paiono acquisite sono sempre rimesse in discussione. Credi già che gli handicappati, quelli fisici almeno, non incontrino più grossi problemi in fabbrica: ebbene ecco che invece cominciano addirittura a licenziare le donne perché hanno le mestruazioni e restano, di tanto in tanto, incinte. Dicono: la produzione deve essere competitiva, il costo del lavoro va contenuto, un conto è l’assistenza, un conto il profitto d’impresa. Discutiamone.

Troviamo forme adeguate. Ma al centro, per favore, mettiamo l’uomo, non il profitto d’impresa.
In Svizzera vi sono catene di montaggio alle quali operano prevalentemente persone handicappate, con difficoltà di movimento, che debbono ripetere solo due o tre gesti. Non è un modello (non vorrei mai fabbriche create su misura solo per paraplegici, altre per ciechi, altre per sordi, e così via!), comunque vale la pena di pensare a soluzíone intelligenti.
Inserire un handicappato in un posto di lavoro vuol dire ridiscutere il rapporto uomo?lavoro?fabbrica. Per questo si incontrano molte resistenze. Occorre un sistema di incentivi. Perché non si studiano agevolazioni fiscali per alleggerire gli imprenditori più disponibili?
A Genova sono stati inseriti nelle fabbriche circa cento psichici. Sono seguiti da personale qualificato. Non creano problemi, mi risulta. Costa? Certo che costa: non più dei manicomi però, anzi.
Noi ci daremo da fare. La rivista è nata per questo.
Vorrei realizzare degli audiovisivi, portarli nei quartieri, diffondere di più e meglio i dati di cui disponiamo. Vorrei far discutere di più, essere ancora più combattiva.
Alle volte mi chiedono quale eredità politica e morale vorrei lasciare. Spero che il lavoro che ho iniziato vada avanti. Ecco l’eredità. E che aiuti chi ne ha bisogno a pensare: «Se lei l’ha fatto, vuol dire che si può fare ».
L’idea della morte una volta mi faceva più paura. Forse non si dovrebbe evitare sempre l’argomento, bisognerebbe tentare di parlarne, di accettare l’idea. Io credo nell’aldílà, ma mi sgomenta non sapere esattamente di che cosa si tràtta. Come ho raccontato sono stata vicino alla morte due volte. Mi dava angoscia pensare che avrei perduto le cose più semplici: l’acqua fresca, il sole che sorge, gli amici, i giornali al mattino… Mio padre dice: « Se è vero che esiste un paradiso, tu ci andrai subito. E se non esiste ulla non ti devi preoccupare. In un modo o nell’altro non hai niente da perdere. »
E se mi beatificassero, o mi facessero santa? No, tutt’al più potrei rientrare fra i martiri… ma mi farebbe rabbia una fila di handicappati davanti al Signore, non vorrei dover continuare anche lassù le mie battaglie! A parte gli scherzi, del Signore mi fido. I suoi rappresentanti sulla terra mi piacciono un po’ meno. Sul serio: meriterebbe di meglio.
Comunque vorrei lasciare di me il ricordo di una persona con pregi e difetti, un po’ matta, con molta ironia di sé, che amava le cose semplici, e che ha cercato di non fare troppe brutte figure. Ai miei funerali voglio tanti fiori. lo sarò vestita con l’abito lungo (non mi importa il colore) e i guanti lunghi, e avrò un grande cappello. Suoneranno il Silenzio fuori ordinanza, o l’Internazionale, devo ancora decidere. Voglio immaginare tutti che piangono. Papà ha deciso che poi tornerò a Morbello. Sono d’accordo.
Ma c’è tempo, signori, c’è tempo!
Quanti anni potrò vivere ancora? Per fortuna è difficile rispondere.
I casi di sopravvivenza in un polmone non sono così numerosi da costruirvi una statistica attendibile. C’è una signora che ha vissuto circa trent’anni in queste condizioni. Io mi preparo alle nozze d’argento, i 25 anni. Abbiamo già pensato alla festa, ai confetti e alle bomboníere: tanti piccoli polmoncini colorati. Ma dipende anche dalla vita che fai. Per esempio, pare che mi faccia bene uscire ogni tanto con la corazza, ed avere il cervello impegnato, in modo da fuggire l’inedia, la deriva psicofisica.
Però non riesco a condurre una vita molto regolata. I professori, scherzandoci sopra, dicono che loro al mio posto sarebbero già morti. E pensare che adesso, soffrendo un poco di diabete, sono costretta a stare più attenta!
Altrimenti: pizza o farinata a mezzanotte, sono ghiotta di tutti i cibi che fanno male, come il salame, i sottaceti, a maionese. Ho fatto un patto con i medici. Che non mi rompano troppo le scatole, se mi sento male peggio per me’ non darò la colpa a loro. Forse non é un patto con i medici. E’ un patto con Dio, che essendo «tutto» ed ogni cosa, è sicuramente anche ghiotto, e quindi mi proteggerà.
La mattina non ho un orario fisso per svegliarmi. Dormicchio fino alle nove e mezza?dieci. Faccio le pulizie, mi cambio, poi arriva il fisioterapista che mi massaggia per favorire la circolazione e far vivere i muscoli… ce n’è bisogno, perché non mi muovo mai e le articolazioni ne soffrono. Se mi piegano, sapete, sto in una scatolina.
Dopo la ginnastica, dipende, vedo qualcuno, chiacchiero, leggo i giornali, o sento musica. A mezzogiorno mangio: poco. Nel pomeriggio e la sera ci si vede per la rivista. Le ultime giornate, prima di «darla alle stampe», si lavora come ossessi fino alle due di notte. Se invece c’è un po’ di calma, un buco libero, giochiamo a poker. Se sono brava? Vinco. Ma dicono che ho fortuna e, siccome ho degli amici sporcaccioni, non usano la parola fortuna.
Credo di aver raccontato tutto. 0 almeno le cose più importanti. Ho voluto esprimere anche delle opinioni, perché fanno parte integrante della mia vita. E non per sputare sentenze, sia chiaro. Non ho la verità in tasca solo perché vivo nel polmone. Non l’ho mai preteso.
Sono contenta, lasciatemelo dire, orgogliosa, di non essermi fatta sconfiggere. Non ho rimpianti. Ripeto che sono felice di aver vissuto questi vent’anni, e sono pronta, con serenità, a vivere gli altri. Serenità e allegria. L’allegria è fondamentale, quindi spero che questo non sia un libro triste. La gente non vuole leggere libri tristi, e ha ragione.
Certo non succederà, ma se un giorno tornassi a camminare con le mie gambe, prima di tutto correrei a ríngraziare i medici che mi hanno curata, gli amici, le persone che mi sono state vicine. Poi vorrei viaggiare: vedere Venezia, Firenze, Parigi, Cuba. Forse un giorno in treno, con la corazza, visiterò davvero Parigi.
E poi vorrei andare da sola sulla spiaggia, in un pomeriggio d’autunno, sul tardi, e fare una lunga camminata sotto la pioggia.

Tratto da Rosanna Benzi, Il vizio di vivere. Venta’anni nel polmone di acciaio, a cura di Saverio Paffumi, 1989 Rusconi

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