Seduto sul lato assolato di una panchina del cortile, Diego fumava una sigaretta dopo l’altra in attesa di riprendersi il bambino. Mancavano dieci minuti alla fine della seduta. Tirava un fresco venticello autunnale, e, al centro dello spiazzo sterrato che separava il reparto dei convulsivi da quello dei cerebrolesi, alcuni ragazzi epilettici giocavano a rincorrersi sotto lo sguardo distratto di un’anziana signora intenta a sferruzzare. Due terapiste stavano tentando di mettere in posizione eretta un bimbetto dalla testa microscopica. Diego aveva già notato quella creaturina disarticolata, che sembrava uno scherzo della natura. Tra sé lo chiamava "il mostrino".
Non vide l’uomo sinché non gli si sedette accanto, dal lato della panchina immerso nell’ombra. Un quarantenne alto e olivastro, profondi occhi neri, un’eleganza che rasentava la ricercatezza. Diego si mise a fissare con ostinazione la punta delle proprie scarpe.
Di solito, i genitori si scambiavano un cenno di saluto o qualche commento sul tempo e sui figli. Diego non si era mai concesso il conforto di una chiacchiera. Che aiuto gli avrebbero potuto dare le lamentazioni o i consigli degli altri? C’era stato un tempo in cui aveva provato vergogna per la disgrazia che gli era capitata. Infine, s’era persuaso che nel dolore, così come nella rabbia, si è sempre soli e impotenti.
L’uomo aveva preso a picchiettare col piede per terra, ossessivamente. All’improvviso gli sfuggì un profondo sospiro. Diego si sorprese suo malgrado a fissarlo. L’altro intercettò il suo sguardo e gli rivolse un sorriso mite.
"Anche lei è qui per un figlio?"
Aveva detto queste parole con calma, staccando nettamente sugli accenti. L’inflessione era incerta, ma sicuramente straniera, forse mediorientale, a giudicare dalla carnagione olivastra e dall’ombra di una barba che pareva sfidare anche la più accurata rasatura. Diego sospirò a sua volta, annuendo.
"Di questa stagione, nel mio Paese, nei villaggi sotto le alture si fa grande festa. Danziamo per tenere lontano la paura dell’inverno. Mi chiamo Walid."
Strinse la mano che l’altro gli tendeva e farfugliò un "Marini Diego" che lo fece sentire ridicolo e lo infuriò al tempo stesso.
"Qual è il suo Paese?" aggiunse subito.
"Oh, è un Paese molto lontano. Ma non è molto diverso dall’Italia. Anche lì ci sono le montagne e il mare, e ogni tipo di gente. Noi della costa diciamo che quelli della montagna si lavano poco, perché fa freddo. Quelli della montagna dicono che noi della costa puzziamo di pesce. Quello è mio figlio Yusuf."
Era quindi il padre del "mostrino". Strano, però, lui così scuro e quel bambino con un ciuffetto di capelli biondi in cima alla testina…
Poi ripenso al tono con cui aveva pronunciato il nome del bambino: con orgoglio e dolore. Di questo l’aveva rimproverato tante volte sua moglie, di non aver mai saputo dire il nome del figlio con altrettanto orgoglio e altrettanto dolore.
"Il mio è ancora dentro" borbottò, e alzandosi di scatto aggiunse, a mo’ di scusa, " è ora che vada a riprenderlo".
Quando raggiunse la sala della terapia, le ragazze avevano già rivestito Giacomo e una madre attendeva impaziente il suo turno stringendosi al petto una ragazzina dalle guance arrossate, che esplorava senza sosta con la lingua 1’interno del palato.
Diego si chinò a sussurrare qualcosa all’orecchio del figlio. Il volto del piccolo s’illuminò d’un sorriso radioso, e lo sentì lanciare il suo grido di felicità, un "eeeh-eeeh!" al contempo monocorde e modulato con cui lo ringraziava per averlo ripreso con sé, liberandolo dalle terapiste.
Per lui ogni seduta era una tortura: ma si trattava, secondo i medici, di una tortura necessaria allo sviluppo del suo cervello malformato. In capo a due anni di assidue cure, Giacomo aveva imparato a sorridere ai genitori e a reggersi il ciuccio con il dorso di una mano. Riusciva a restare in piedi, se sorretto, per una trentina di secondi. Diego era ormai convinto di essersi rassegnato alla malattia di Giacomo: ma quando, certi giorni, in casa, si respirava un vago ottimismo per i "progressi" del piccolo, veniva colto da violenti accessi di rabbia. Tutta quella fatica gli sembrava inutile, o, peggio, un’assurda violenza. Fosse stato qualcosa di più di un semplice impiegato del Ministero di Grazia e Giustizia, avrebbe potuto dire di sé stesso che, dopo la nascita del figlio, era morto dentro.
Nel cortile ritrovò Walid: era al centro dello spiazzo, e ballava abbracciato al mostrino. La testa del piccolo pendeva da un lato, i suoi occhi erano vuoti, ma sulle labbra gli aleggiava lo stesso sorriso del padre.
Si ritrovarono accanto, ciascuno alla guida del proprio passeggino, e percorsero affiancati il tratto di strada che li separava dall’uscita dell’Istituto. Sulla soglia della porta a vetri che immetteva in un lungo vialone trafficato si fermarono per dare un’aggiustatina ai bambini. Giacomo continuava a sorridere, un filo di bava all’angolo della bocca screpolata. Yusuf si era addormentato.
Si scambiarono un cenno di saluto, sul volto di Walid riaffiorò un sorriso mite, poi si avviò in direzione di una lunga berlina nera parcheggiata di fronte all’Istituto. Dal posto di guida scese un mediorientale, in divisa da autista, s’inchinò a Walid e lo aiutò a sollevare il piccolo.
Mentre si avviava verso la sua "Panda" scassata, Diego pensò che gli sarebbe piaciuto rivedere quel padre tanto sereno. E provò una profonda vergogna per aver pensato a Yusuf come al "mostrino".

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