Raccontare l’esistenza di John Merrick, l’Uomo elefante vissuto nella Londra vittoriana fra il 1862 e il 1890, è una scommessa destinata al fallimento. Si ha infatti la tentazione di fare di lui un archetipo della diversità, una creatura dell’orrore paragonabile a Dracula, al mostro di Frankenstein, magari a Jekyll & Hyde o a Gwynplaine…

Ma l’uomo elefante non è paragonabile a nessuno di loro, ci si ritrae rattristati da questo proposito non appena si ricorda che, contrariamente a queste creature, John Merrick, l’Uomo elefante, non è stato un personaggio , ma una persona. Per tutti i cinefili la sua vita appartiene ormai al film di David Lynch e prima ancora era di pertinenza della medicina grazie agli studi clinici compiuti su di lui dal dottor Frederick Treves. Il dolore dell’Uomo elefante non è stato vissuto solo nelle pagine di un libro di patologia, nella pellicola di Lynch o nella pièce teatrale che ne porta il nome. Eppure proprio la più preziosa delle testimonianze, l’unica voce – quella di Merrick, appunto – che potrebbe sciogliere il mistero di una vita tormentata e straordinaria, tace, e ci costringe ad inseguirne il significato ora nelle pagine lasciate da Treves in cui si alternano considerazioni scientifiche e slanci umanitari, ora nei lavori teatrali e cinematografici che hanno cercato di interpretarlo. La sofferenza della creatura di Frankenstein e di Dracula, l’ambiguità di Jekyll & Hyde, la storia di Gwynplaine appartengono a tutti coloro che abbiano lette, viste e amate le avventure di questi mostri. La sofferenza, l’ambiguità e la storia di John Merrick, l’Uomo elefante, sono appartenute soltanto a lui.
Se la sua esistenza è stata vissuta in una continua rappresentazione della diversità, prima nei baracconi maleodoranti dei freak show, quindi nelle aule di medicina, la sua morte non ha significato una liberazione da questo destino. Il film, il dramma, i saggi e le biografie a lui dedicate continuano a ostentarlo come una sacra reliquia, e questa attenzione, nel suo aspetto più specioso, è culminata nella morbosità di una consistente offerta – dignitosamente rifiutata – fatta da Michael Jackson per ottenere il corpo di Merrick dalla Royal Society.
Anche noi, scrivendo questo articolo, sottoponiamo l’Uomo elefante alla ribalta di una nuova esibizione in cui l’unico punto di riferimento possibile non è la sua vita, ma sono le rappresentazioni che di essa sono state date, a partire dalla più celebre : l’Elephant man (1980) di David Lynch.

L’Elephant man di David Lynch

Quando nel 1977 Stuart Cornfeld, un produttore cinematografico, telefonò a David Lynch per complimentarsi dell’originalità del suo primo lungometraggio intitolato Eraserhead (Eraserhead. La mente che cancella, 1976), chiedendogli a che progetto stesse lavorando in quei giorni si sentì rispondere: "aggiusto tetti. L’accoglienza al film non è stata molto positiva e non ho ricevuto altre proposte". Era il principio di un sodalizio che spinse Cornfeld ad aiutare Lynch a trovare nuove possibilità. Intanto il cineasta cominciava a farsi un nome fra gli appassionati di midnight movie. Una formula già conosciuta e rilanciata dal distributore Ben Barenholtz la cui strategia di mercato era di proiettare film eccentrici e particolari agli spettacoli notturni lasciando loro il tempo di diventare una sorta di rito collettivo. Eraserhead era strano quanto bastava allo scopo di Barenholtz tanto che il motto di chi ne aveva fatto esperienza era "I saw it" ("l’ho visto"). Il film più che una normale struttura narrativa, seguiva le suggestioni di un incubo in un bianco e nero evocativo del cinema dei primordi e raffigurava un mondo interiore di orrore ed inquietudine che fece subito pensare a Lynch quando una sceneggiatura sulla vita dell’Uomo elefante, firmata da Christopher De Vore ed Eric Bergren e acquistata da Jonathan Sanger, finì sulla scrivania di Cornfeld. Ma la caccia a una casa di produzione disponibile al progetto sarebbe risultata per un certo periodo infruttuosa, almeno fino a quando Cornfeld non propose l’idea a un personaggio apparentemente incongruo con la nostra storia: Mel Brooks, il regista e interprete di numerose parodie comiche nonché fresco fondatore della Brooksfilm. Dopo che questi ebbe visto Eraserhead, Lynch e Cornfeld temevano una sua reazione negativa, ma tutto quello che il comico, incantato dalla visionarietà del film, riuscì a dire a Lynch fu: "sei pazzo, ma ti adoro", apostrofandolo con quella definizione di "un James Stewart venuto da Marte" che lo avrebbe accompagnato a lungo nella sua carriera. Così Lynch si trovava a lavorare per la prima volta con una produzione dalla risorse ragguardevoli, fuori dal suo paese e su un soggetto che non era stato sviluppato interamente da lui. L’operazione era tanto più delicata se si considera che al declinare degli anni ’70 la vita di John Merrick era un argomento alla moda. Nel 1978 il critico Leslie Fiedler gli aveva dedicato alcune pagine toccanti nel suo saggio sui freak. Accanto ad esse si collocavano le opere di Ashley Montagu e Frederick Drimmer, una biografia scritta da Michael Howell e Peter Ford, oltre all’opera teatrale di Bernard Pomerance interpretata da David Bowie con cui la troupe del film finì col percepire un particolare antagonismo. In realtà il film e il dramma non avevano altro in comune se non il titolo e le fonti da cui trarre ispirazione, perché per il resto, a partire dalle scelte stilistiche fino ad arrivare al mezzo espressivo, tutto era diverso. Tanto da suggerire a Bruce Kawin, acuto critico di Film Quarterly, uno stimolante paragone.

«La scelta più rilevante compiuta da Pomerance è stata di non dare un ruolo centrale al make-up dell’Uomo elefante. Al contrario quest’ultimo è interpretato da un "normale" attore che adatta postura e portamento mentre agli spettatori sono mostrate fotografie originali di Merrick. La platea, quindi, è continuamente costretta a ricordare che Merrick è grottescamente deforme, mentre contempla l’evidenza che è un essere meraviglioso. Il compito dell’attore è di alludere ai suoi handicap fisici e al contempo di manifestarne l’intelligenza e la sensibilità».

 

Lo sguardo degli altri

Il critico americano osserva poco oltre che Lynch compie una scelta pressoché antitetica a quella di Pomerance. Nel film la deformità dell’Uomo elefante sarà ricostruita attraverso un make-up raffinato e sapiente ideato da Cristopher Tucker che costringerà John Hurt, l’attore che interpreta il ruolo di Merrick, a sette ore di seduta giornaliera in sala trucco. Inevitabilmente, scrive Kawin, il cinema non si può permettere una scelta così "intima" come quella di separare l’apparenza e l’interiorità dell’Uomo elefante. «[…]il teatro come la letteratura incoraggia il suo pubblico a crearsi un’immagine partendo da un mondo concettuale laddove un film, presentando un mondo visivo, incoraggia lo spettatore a interiorizzare quelle immagini in concetti, emozioni e metafore celate in quanto si è visto». Osservazioni non dissimili saranno espresse da un altro critico, Gerard Courant, in un paragone che non riguarderà più una rappresentazione teatrale, ma il già citato Eraserhead. Scrive Courant che Lynch «è riuscito in ciò che pochi cineasti avevano tentato prima di lui: fare del suo secondo film (Elephant man) il contrario del primo (Eraserhead). […] in Elephant man, l’orrore si è spostato, quasi normalizzato. Il film non mostra più l’interno (del cervello) del protagonista [Courant si riferisce agli incubi che popolano Eraserhead], ma lo sguardo che gli altri portano su quest’uomo "dalla testa di elefante"». Molti notarono inoltre che se Eraserhead era un film underground, Elephant man adottava scelte narrative di un rigore classico al punto da far dire che l’unico elemento di continuità fra le due opere era rappresentato dall’utilizzo del bianco e nero. Non si deve per questo attribuire troppa importanza al fatto che Lynch potesse essere influenzato da fattori esterni nella sua prima produzione non del tutto autonoma, o dal fatto che avesse ereditato una sceneggiatura non elaborata da lui. Pare che Mel Brooks abbia lasciato una certa libertà al giovane regista e, soprattutto, che il copione di De Vore e Bergren sia stato ampiamente rimaneggiato dall’intervento di Lynch. Infatti per quanto egli avesse espresso un parere positivo sulla sceneggiatura questa, a suo dire, manteneva un rapporto troppo diretto con la vera storia di Merrick, perdendo così, di afflato drammatico e narrativo. Paradossalmente la vita dell’Uomo elefante interessava al cinema, ma per poter essere rappresentata doveva essere spettacolarizzata, o, quanto meno, modificata. Anche il film di Lynch, inevitabilmente e consapevolmente, diventerà allora un freak show. E come tutti i freak show avrà bisogno di un prologo e di una vicenda movimentata ed avvincente.

Le nostre paure, la paura del freak

Scorgiamo sullo schermo gli occhi enormi di una donna ritratta in una fotografia che capiremo essere della madre di Merrick, e udiamo la melodia di un carillon. Si sovrappongono le sequenze deformate di una marcia di elefanti di cui è ingrandita la grinzosità della pelle, la donna ora è riversa a terra e urla terrorizzata scuotendo la testa, quindi sentiamo il pianto di un bambino accompagnato dalla visione di un piccolo fungo di fumo bianco. La convinzione che la forza immaginativa, in seguito a uno choc subito dalla madre nell’atto del concepimento o durante la gravidanza, potesse provocare un parto abnorme che riproducesse le caratteristiche dell’elemento traumatizzante, aveva origini antiche e, come sentiremo dalle parole dell’imbonitore e padrone di Merrick, era ancora ben radicata nell’Ottocento vittoriano. Dopo ciò vediamo il dottor Frederick Treves, interpretato da un giovane Anthony Hopkins, aggirarsi per i baracconi di una fiera popolare alla ricerca dell’attrazione principale: l’Uomo elefante. Pur non riuscendovi subito a causa dell’intervento della polizia, ottiene da Bytes, il sordido "impresario" di Merrick, di avere una visione privata del suo "protetto". Lo spettatore non ha modo né ora, né per buona parte del film, di vedere direttamente Merrick, ma coglie la reazione di chi lo osserva, in questo caso Treves, i cui occhi si riempiono silenziosamente di lacrime. Il medico ha il permesso di Bytes di visitare il malato in clinica, dove viene presentato in un nuovo tipo di freak show: un convegno di patologi. Qui, attraverso una tenda scorgiamo come un’ombra cinese la sagoma del suo corpo martoriato dalla neurofibromatosi multipla, tumore dei nervi periferici del cranio e della pelle. Treves scoprirà poi che Bytes maltratta brutalmente Merrick e glielo sottrarrà per ricoverarlo in ospedale dove gli viene assegnata una camera personale. Una giovane infermiera viene incaricata di portargli il pranzo e seguiamo con ansia il suo avvicinamento alla porta chiusa, posta all’ultimo piano dell’ospedale. In una sequenza che sfrutta tutti i canoni del cinema horror ci aspettiamo che finalmente venga rivelato l’aspetto di Merrick e in effetti l’attesa sarà soddisfatta, ma all’urlo di terrore dell’infermiera si accompagnerà anche lo spavento dell’Uomo elefante. Lo spettatore vede così «che questo mostro che deve fargli paura, ha paura a sua volta. E’ in questo momento che Lynch libera lo spettatore dalla trappola che gli ha teso fin dall’inizio […], come se egli dicesse: non sei tu che conti, è lui, l’Uomo elefante; non è la tua paura ad interessarmi, è la sua; non è la tua paura di aver paura che voglio manipolare, è la sua paura di far paura, la paura che egli ha di vedersi nello sguardo dell’altro».

Lo spettacolo continua

Per convincere il direttore dell’ospedale della sensibilità del suo paziente e quindi della necessità della sua permanenza in ospedale, Treves gli fa imparare alcune frasi di circostanza ed una citazione biblica che Merrick però ripeterà meccanicamente. Ma una volta svelato l’espediente ed usciti dalla stanza, i due uomini sono sorpresi dal fatto che Merrick continui la citazione oltre quanto gli era stato insegnato, e più precisamente con il salmo del buon pastore, le cui parole, in quest’occasione, inducono a un sorriso di amara ironia e ad un moto di commozione ("Il Signore è il mio pastore:/ non manco di nulla;/ su pascoli erbosi mi fa riposare,/ ad acque tranquille mi conduce…Se dovessi camminare per una valle oscura,/ non temerei alcun male, perché tu sei con me"). L’Uomo elefante finirà col fare breccia non solo negli affetti del personale ospedaliero, che lo accoglierà stabilmente, ma nell’immaginario di tutta l’alta società vittoriana, il cui ultimo vezzo sarà quello di recargli visita. Merrick, che certamente ha migliorato la sua condizione, non abbandona però il ruolo di fenomeno da esibire. Al suo capezzale si alternano ora la principessa Alessandra, una celebre attrice dell’epoca, Madge Kendal, con cui scambierà alcune battute tratte da Romeo e Giulietta, e la moglie stessa del dottor Treves, commossa dalla sensibilità da lui dimostrata. In tutti questi incontri, sia attraverso i "volti di reazione" – come scrive Chion nella sua monografia – sia attraverso la tecnica della dissolvenza in nero, anche lo spettatore viene invitato ad esprimere la sua reazione. O meglio, la sua commozione. Così Lynch stacca sulla sorpresa di Merrick quando la Kendal gli dice che lui ha la natura di un Romeo, o addirittura dissolve l’immagine quando Anne Treves, durante il suo colloquio con Merrick, scoppia in lacrime e questi offre a lei, e simbolicamente alla platea, un fazzoletto, sussurrando dolcemente "prego". Le dissolvenze, questi "angoli bui in cui singhiozzare", come le definisce Chion, non sono solo gli stratagemmi di uno dei film più efficacemente strappalacrime della storia del cinema, ma anche un breve spazio in cui far riflettere lo spettatore, perché se in definitiva tutta l’esistenza di Merrick e molte sequenze del film si sono svolte alle luci di una ribalta, non importa che sia quella polverosa di una fiera o quella asettica di una conferenza medica, Lynch non dimentica che anche quella che sta mostrando ora è una nuova rappresentazione, un’inedita ribalta per Merrick stesso. Lo sguardo dello spettatore deve così necessariamente affiancare quello dei curiosi, dei medici e quelli dell’alta società vittoriana.

I colpi di mano della gente

Il film a questo punto parrebbe arenarsi nelle secche di un’acquisita serenità, ma Lynch, per uscirne, inventa l’episodio dickensiano del guardiano dell’ospedale. Questi, rendendosi conto del profitto che potrebbe ricavare facendo da anfitrione alla suburra londinese desiderosa di vedere l’ormai celebre fenomeno, incomincia ad organizzare delle visite notturne che si tingono anche di un sottofondo erotico. Merrick vivrà così un’esistenza assolutamente duplice e speculare. Da una parte i giorni scanditi dalle visite della haute bourgeoisie vittoriana, dall’altra le notti che lo riportano all’umiliazione delle sue esperienze precedenti. In una di queste notti Merrick verrà rapito dal redivivo Bytes e portato fuori dall’Inghilterra, ad esibirsi in una fiera di Ostenda, dove trattato senza pietà verrà liberato da altri fenomeni da baraccone in una congiura dei diversi che rende omaggio al vecchio film Freaks di Tod Browning. Ritornato alla stazione di Londra sarà importunato da un bambino che gli chiede insistentemente il motivo per cui si nasconde sotto il suo inquietante copricapo di sacco. L’Uomo elefante cerca di scappare in una sequenza angosciante la cui tensione è esasperata dal frastuono e dal sibilo dei treni, culminando nel momento in cui, nel suo tentativo di fuga, travolge involontariamente una bambina. Una piccola folla si mette allora ad inseguirlo smascherandolo e costringendolo nei bagni della stazione, dove Merrick, nell’unico momento di disperazione che si concederà geme : "I’m not an elephant ! I’m not an animal ! I’m an human being…" ("Non sono un elefante ! Non sono un animale ! Sono un essere umano…") La polizia accorre identificandolo e riportandolo in ospedale. Successivamente, per festeggiare il suo ritorno, Treves accompagnerà Merrick a teatro dov’è di scena una pantomima del Gatto con gli stivali in cui recita anche la Kendal. Come scrive Kawin questo "è l’unico momento in cui Elephant man offre una visione soggettiva ed oggettiva insieme, la visione della rappresentazione che ha lo spettatore e quella che ne ha Merrick si sovrappongono". Quasi a dire che il solo modo in cui possiamo fare nostra la sua prospettiva è offerto dall’esperienza fantastica del teatro e, quindi, del cinema. Alla fine della rappresentazione la Kendal inviterà la platea a dedicare un applauso all’ospite d’onore. Per la terza volta nel film, come in una singolare via crucis, si dovrà alzare, anche se ora non gli si chiede di farlo in veste di freak da baraccone, né in un consesso medico, ma per ricevere un omaggio che tuttavia non può che avvenire nel ristretto spazio di una finzione dove il suo volto deturpato è accettabile come quello di una maschera. Fatto ritorno a casa e terminata la ricostruzione della cattedrale di San Filippo – una rielaborazione ideale, in realtà, perché la vista della chiesa gli è in gran parte ostruita dagli edifici circostanti – Merrick si sdraia in una posizione per lui fatale, togliendo i cuscini che lo costringono a dormire seduto per evitare che la voluminosa massa del suo cranio renda difficoltosa la respirazione fino al soffocamento. I critici si sono dibattuti sul significato di questo gesto e l’ineffabile Kawin lo collega giustamente a quell’ovazione tributatagli in teatro a mo’ di apoteosi.

«La platea applaude. A Merrick viene richiesto di alzarsi e ciò significa che è ancora una volta "in scena". Quando si alza il pubblico gli concede una standing ovation. Questo potrebbe essere interpretato in due modi e voi dovrete scegliere fra essi (ricordando che ciò condizionerà il senso del conseguente suicidio di Merrick […]). Se cioè egli si tolga la vita perché comprende che non potrà mai fare interamente parte di un pubblico – dell’umanità stessa -, ma che costituirà sempre e comunque lo spettacolo, oppure perché questo pubblico, applaudendolo calorosamente, piuttosto che sbalordirsi e urlare alla sua vista, rappresenta un buon pubblico e riconosce il suo valore».

La morte su un morbido cuscino

Il suo gesto estremo non somiglia tuttavia alla scelta prometeica di lasciarsi morire eroicamente e sdegnosamente che contraddistingue altri personaggi come Quasimodo e Gwynplaine. Merrick non toglie i cuscini perché vuole suicidarsi, ma per dormire come fanno tutti malgrado questo rappresenti la morte. Se prestiamo ascolto alle testimonianze dirette di chi lo conobbe, tutta l’esistenza di Merrick dal momento in cui venne accolto nelle protettive mura dell’ospedale non rappresenta più il destino di un reietto, ma la condizione di un malato rassegnato eppure insofferente del suo incolmabile distacco dalla normalità. Un resoconto efficace, pur nel suo perbenismo di maniera, ce lo offre F. C. Carr Gomm, il direttore dell’ospedale in cui era ricoverato Merrick, in una sua lettera pubblicata sul "Times".

 

«Qui, dunque, il povero Merrick poté trascorrere gli anni rimanenti della propria vita nella solitudine e nel conforto. Le autorità ospedaliere, il personale medico, il cappellano, le suore e gli infermieri si unirono per alleviare il più possibile la miseria della sua esistenza, ed egli imparò a chiamare la propria camera … la sua casa. Ricevette inoltre molte visite gentili, tra le quali quelle delle più alte personalità del paese … era un vorace lettore e veniva abbondantemente fornito di libri; per la cortesia di una signora, uno degli ornamenti più luminosi della professione teatrale gli fu anche insegnato a intrecciare panieri e più di una volta fu portato a vedere commedie, alle quali assisteva nascosto in un palco privato. Trasse grande beneficio dagli insegnamenti religiosi del nostro cappellano … e nell’ultima conversazione che ebbe con lui gli espresse la propria profonda gratitudine per … la misericordia di Dio nel portarlo in questo luogo. Ogni anno molto si rallegrava delle sei settimane di vacanza che trascorreva in un tranquillo cottage di campagna, ma al ritorno era sempre lieto di ritrovarsi "a casa". Nonostante tutte queste soddisfazioni era un uomo sereno e alla buona , assai grato per ciò che si faceva per lui e pronto ad accettare le restrizioni che si rendevano necessarie».

Una vita quieta, dunque, rallegrata dalle visite degli amici, connotata dall’abitudine borghese della villeggiatura estiva e da quella tranquilla regolarità che aveva costretto Lynch a lavorare di fantasia in sede di sceneggiatura per movimentare il film. Non ebbe bisogno invece di idee particolarmente fuorvianti per il finale. Quella morte così poeticamente nipponica non è frutto del lavoro del regista ma costituisce l’episodio culminante della vita di Merrick, come testimonia Treves nelle sue memorie.

«Circa sei mesi dopo il suo ritorno dalla campagna, Merrick fu trovato morto nel proprio letto. Accade nell’aprile 1890. Giaceva supino come se stesse dormendo ed era evidentemente morto all’improvviso e senza soffrire, non essendo in disordine neppure il copriletto. Il suo modo di morire fu singolare. Aveva la testa talmente grossa e pesante che non poteva dormire sdraiato. Quando si metteva in posizione distesa, il suo cranio enorme tendeva a cadere indietro, causando non poche sofferenze. La posizione che era quindi costretto ad assumere quando dormiva era assai curiosa. Stava seduto sul letto, con la schiena sorretta da una pila di cuscini, le ginocchia alzate e le braccia allacciate intorno alle gambe, mentre la testa riposava sulla punta delle ginocchia piegate. Mi diceva spesso che avrebbe voluto poter sdraiarsi per poter dormire "come gli altri". Penso che quell’ultima notte abbia voluto, con una certa determinazione, fare questo esperimento. Il cuscino era molle e la testa, quando vi si era appoggiata sopra doveva essersi piegata indietro provocando la rottura dell’osso del collo. La sua morte fu insomma dovuta al desiderio che aveva dominato tutta la sua vita, l’aspirazione patetica ma irrealizzabile ad essere "come gli altri" »

Essere come tutti

Lynch ha rispettato questa aspirazione alla normalità e la sua scelta, alla fine di un ventennio che della diversità aveva fatto un vessillo e che aveva definito la propria cultura come "freak", gli costò non poche critiche. Fra le recensioni italiane da noi passate in rassegna la più severa in questo senso è sicuramente quella di Emanuela Martini, apparsa su "Cineforum" del maggio ’81. La Martini rimprovera a Lynch di aver ricomposto "in una dimensione di pietismo mistico una storia che pietosa non è e che poteva essere risolta semmai, nel senso di una dolorosa e rabbiosa autoaffermazione". Continua sostenendo che «certo, il vero, disgraziatissimo John Merrick aveva tutte le ragioni per volere a tutti i costi essere accettato dall’universo di ipocrita raffinatezza che lo aveva sfiorato; ma dal John Merrick della finzione filmica ci saremmo aspettati un po’ più di combattività, più domande, rifiuti, amarezza e dolore pari a quelli che il vero Uomo elefante deve aver provato». Queste parole non sono toccate dall’idea che proprio l’aspetto più nuovo di tutto il film potesse essere la normalità e la remissività del suo eroe. Per lungo tempo l’arte aveva adottato la figura del "diverso" come emblema delle classi sociali disagiate, di una difficile condizione esistenziale o della marginalità stessa dell’artista dando un’accezione eroica a quello che la Martini, in vertiginosa successione, chiama "il coraggio della differenza", "lo snobismo solitario", "la follia altezzosa" e dimenticando che nella diversità non esiste solo il coraggio, ma anche la paura e che nella solitudine, oltre all’orgoglio, si manifesta sempre un legittimo desiderio di sincera appartenenza a un gruppo. Chion fa giustamente notare che se vi sono alcune sequenze in cui l’ansia di normalità di Merrick deborda nel ridicolo – quando, ad esempio, vestito per la prima volta con abiti "da gentiluomo", si pavoneggia come un dandy in un’immaginaria conversazione – è altrettanto vero che questa aspirazione è tanto profonda quanto drammatica. Non dimentichiamo che il suo unico momento di rivolta sarà proprio per invocare uguaglianza con gli altri essere umani. "Ed è forse questo ad aver dato fastidio: il non-rispetto di una tradizione, in fin dei conti contestabile, che rifiuta al diverso il diritto all’anonimato della normalità". Una normalità che naturalmente non si limitava agli atti umili e quotidiani, tanto notevoli agli occhi di Merrick proprio perché a lui negati, come prendere il tè e dormire come tutti, ma che naturalmente si estendeva a questioni più vitali, come il suo bisogno di avere accanto una donna, che però non sarebbe mai stato veramente soddisfatto. Molte andranno a rendergli visita e gli concederanno il proprio affetto, ma nessuna fra queste poté mai esser quella "donna idealmente cieca su cui amava fantasticare" e Treves testimonia che "la sua deformità fisica aveva lasciati intatti gli istinti e le sensazioni dei suoi anni". In The Transaction of the Pathological Society of London il medico annotava poi come fosse singolare, in un soggetto devastato dalla malattia nell’ottanta per cento del suo corpo, "che la pelle del pene e dello scroto fosse normale sotto ogni aspetto".

Tra l’uomo e l’animale e il Dio Ganesha

Treves avrebbe poi spiegato che, per gli stessi motivi per cui Merrick suscitava una singolare attrazione, provocava una repulsione altrettanto indomabile. Il segreto di questa ambiguità era già svelato dall’insegna che reclamizzava lo spettacolo cui si poteva assistere per l’economica spesa di due pence. «Una rozza immagine raffigur[ante] una spaventosa creatura che sarebbe stata possibile solo in un incubo. Era la figura di un uomo con le caratteristiche di un elefante. La metamorfosi non era molto avanzata. C’era ancora più dell’uomo che della bestia. Questo fatto – che fosse ancora umana – era l’attributo più repellente della creatura. Non c’era nulla in essa della miseria del malformato o del deforme, né del grottesco del freak, ma solo la disgustosa insinuazione di un uomo mutato in animale». Fiedler commenta le considerazioni del medico accostando un’altra immagine, non appartenente alla cultura occidentale, accanto a quella di Merrick, e cioè l’icona di Ganesha, la divinità indù saggia e sorridente dalla testa di elefante, la cui nascita viene anch’essa spiegata secondo "l’impressione", poiché i suoi divini genitori lo concepirono assistendo all’accoppiamento fra due pachidermi. Quando il critico americano si baloccava con queste considerazioni la realizzazione del film era ancora da venire e quindi non poteva prevedere le reazioni di protesta, motivate da uno scandalo religioso, che alla sua uscita avrebbe suscitato in India e che a tutt’oggi ne ostacolano la regolare distribuzione in quel paese. Secondo quanto scrive nel suo Bombay Duck F. Dhondy, un romanziere anglo-indiano, per la cultura indù non è possibile tollerare la contaminazione dell’immagine sacra con quella di un uomo affetto da una dolorosa malattia. Ma quella qui dimostrata è solo una delle possibili manifestazioni di censura operate nei confronti dell’Uomo elefante. Se l’elemento di oltraggio per la cultura indiana era stato determinato dall’accostamento con un dio dalla testa di pachiderma – una divinità già di per sé inconcepibile per un occidentale – ci domandiamo allora quale possa essere lo scandalo suscitato da Merrick nella cultura vittoriana. Probabilmente Treves non era andato lontano dall’indovinarlo parlando di un’indefinibile animalità che si innestava su un corpo umano, non abdicando né all’una, né all’altra condizione, ma confondendole inestricabilmente.

Jekyll e Hyde

Se per Fiedler le foto di Merrick rimandavano inevitabilmente al dio Ganesha, per noi la bestiale umanità dell’Uomo elefante porta ad un altro protagonista della temperie vittoriana: al Mister Hyde di Stevenson. Quando Enfield parla ad Utterson del suo aspetto lo fa in questi termini: «Non è facile da descrivere. C’è qualcosa che non va, nel suo aspetto; qualcosa di spiacevole, qualcosa di senz’altro detestabile. Non ho mai visto un uomo che mi repugnasse tanto, ma non saprei dire veramente perché. Dev’essere deforme, in qualche modo; dà una forte impressione di deformità, benché non si riesca, poi, a mettere il dito su niente di preciso. La stranezza sta nell’insieme, più che nei particolari». Il lettore accorto non ha esitazioni nel riconoscere nel ritratto offerto dal gentiluomo inglese quello stesso Marchio della Bestia di cui parlava anche Treves. Per sottolineare la contiguità fra Hyde e Merrick, Lynch trasse dal romanzo un episodio quasi senza modificarlo. Enfield vede per la prima volta l’alter ego di Jekyll quando questi, camminando di notte ad andatura sostenuta non si avvede di una bambina e la travolge, calpestandola. Una folla minacciosa lo circonda subito per pretendere giustizia. Sarà pressoché identica la sequenza in cui Merrick, in fuga fra i binari della stazione, farà cadere anch’egli una bambina – ci dev’essere una predisposizione delle piccole inglesi a trovarsi nel posto sbagliato al momento sbagliato, oppure si tratta della stessa bambina abbattuta da Hyde -, verrà a sua volta accerchiato, ma contrariamente ad Hyde dichiarerà rabbiosamente, dolorosamente la sua natura umana. Stevenson scrisse il suo racconto nel 1885, mentre Merrick ancora si esibiva nelle fiere e si muoveva nascosto dal suo cappuccio negli slum londinesi. Hyde e l’Uomo elefante sono quindi contemporanei e non è difficile comprendere che se l’abiezione dell’uno era morale, quella dell’altro era fisica. La natura corrotta di Hyde rivelava qualcosa che doveva rimanere celato agli occhi dell’etica vittoriana così come il corpo devastato di Merrick, presentato in uno strip-tease progressivo ma impietosamente integrale, doveva essere a sua volta nascosto.

Il film di Lynch trae energia da quella stessa ambiguità che anima il racconto di Stevenson. L’esistenza stessa di Merrick ci viene raccontata come nettamente divisa in due. Duplice, ci viene detto, è la sua natura: umana e ferina. Due le condizioni sociali con cui viene a contatto, quella miserabile dei quartieri più sordidi, della gente più abbruttita, e quella della buona società, tanto disposta ad accoglierlo quanto solerte ad occultarlo. E soprattutto due saranno i suoi tutori. Primo, interpretato non senza grandezza da Freddie Jones, Bytes, laido ubriacone legato al mondo delle fiere e delle loro bizzarre attrazioni che proprio in epoca vittoriana, sotto l’egida di un onnipotente positivismo, troveranno nuova collocazione nella teratologia, scienza incarnata da Frederick Treves. Questi due presentatori – tale è la loro funzione – potrebbero costituire l’inquietante binomio creato da Stevenson se già questo non fosse tutto contenuto nel singolare rapporto che lega il medico alla sua "creatura", e che sarà per Treves il motivo di un profondo turbamento. "Sono buono o cattivo ?"si chiederà consapevole sia del fatto che Merrick gli deve tutto, sia del fatto che lui stesso gli è debitore della sua fama di patologo. "Sono buono o cattivo ?"

L’ambiguità di John Merrick, come quella di Hyde, rivela inevitabilmente l’ambiguità di chi la osserva.

(*)dell’associazione culturale Hamelin

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