Non si può parlare di creatività senza considerare il rapporto tra creatore e creatura, senza prendere per una volta le parti della creatura, assumendone il punto di vista.
Partiamo da questa domanda: che cosa ferma la mano del pittore, che cosa lo induce a considerare il suo quadro come terminato? Una volta ho visto un filmato televisivo dedicato a Mirò che mi ha molto colpito. Il pittore era già anziano e lavorava ai suoi quadri nell’atelier. Si percepiva che questo luogo era qualcosa di sacro e Mirò nel suo lavoro era concentratissimo; la sua azione, il suo dare qua e là delle pennellate, era scandita da altrettanti momenti in cui si fermava ad osservare il risultato. Qualche volta si staccava lentamente dal quadro e si sedeva su una sedia a dondolo per osservarlo con più comodità. Mi ha colpito questa devozione, questo enorme rispetto per l’opera. Mi è apparso chiaro che l’artista è solo uno dei momenti della creazione e non, come invece siamo abituati a considerare, il centro di tutto. Quello che l’artista può fare è di prepararsi a ricevere l’ispirazione, da un lato studiando e impadronendosi delle varie tecniche, dall’altro esponendosi alla vita, caricandosi di suggestioni ed idee. Ma l’atto creativo è qualcosa di più, che supera il creatore e che lo lega molto profondamente al destino della sua creatura.
Picasso diceva: "Io non cerco, io trovo". Sarebbe sbagliato considerare solamente il punto di vista dell’artista, della sua ricerca, del suo travaglio. L’atto creativo si aggrappa alla creatura, trae senso dall’oggetto creato. Picasso è grande, più grande di altri, non solo perché ha cercato ma soprattutto perché ha trovato. Molti artisti, anzi teoricamente tutti gli artisti, chi più chi meno, cercano, sperimentano, si impratichiscono e si impadroniscono delle varie tecniche. Ma ciò che fa la differenza è che alcuni trovano ed altri invece rivisitano luoghi già scoperti. Se la cosa più importante fosse la tecnica, la dimensione del fare, allora anche il prodotto diventerebbe meno importante. Mirò non si siederebbe ad ammirare un proprio quadro (se non forse per dire: "quanto sono stato bravo") perché non ci sarebbe più quel legame così profondo tra creatore e creatura.
Ecco perché anche la creatività ha un limite che è dato proprio dalla creatura. La creatività non deve essere intesa tanto come potenza, dominio sulle cose, capacità di trasformare gli eventi ma assume un pieno significato quando è al servizio della creatura. Quando le necessità della creatura sono soddisfatte allora anche il creatore trova il riposo, il pittore smette di lavorare al quadro (per tornare alla domanda dalla quale siamo partiti), l’educatore si ferma ad ammirare il bambino che gioca. Se la creatività fosse solo potenza di produzione, capacità di controllare le cose, non avrebbe limite, non troverebbe riposo.
Quando il piccolo principe di SantExupery incontra l’uomo d’affari si stupisce che quest’uomo si illuda di accumulare ricchezze contando e ricontando le stelle, depositando il loro numero in banca e pensando così di possederle.
– "Io," disse il piccolo principe "possiedo un fiore che innaffio tutti i giorni. Possiedo tre vulcani dei quali spazzo il camino tutte le settimane. Perché spazzo il camino anche di quello spento. Non si sa mai. E’ utile ai miei vulcani, ed è utile al mio fiore che io li possegga. Ma tu non sei utile alle stelle…" L’uomo d’affari aprì la bocca ma non trovò niente da rispondere e il piccolo principe se ne andò.-
Possedere non è più l’esercizio di un dominio ma un utilizzare-prendersi cura dell’oggetto (che è il contrario della cultura dell’usa e getta o, forse ancor peggio, dell’abitudine di comprare oggetti che poi non useremo né mai ripareremo). Mirò forse può "dominare" la tecnica con la quale dipinge il quadro, ma non può dominare il quadro, la sua opera d’arte, più di quanto possa dominare se stesso. Ammirare il quadro nel suo farsi e portarlo a compimento non risponde alla logica del produttivismo, dell’accumulo senza limiti: il piccolo principe non potrebbe né vorrebbe possedere cento vulcani per lo stesso motivo per cui sarebbe impensabile un Mirò che lavorasse freneticamente per sfornare ogni giorno cento quadri. Il creatore si prende cura della sua creatura ed è per questo che l’atto creativo diventa pienamente tale quando è anche un atto d’amore. Don Milani diceva che un uomo riesce realmente ad amare un numero limitato di persone (non più di 300 o 400, che per me è già una stima da santo) e che bisogna incominciare dai prossimi, da chi ci sta vicino. L’atto creativo ha un termine, ha un limite, si esercita in uno spazio ben definito.
Spesso si parla di creatività come insieme di tecniche (vedi i libri ad uso dei manager) in vista di uno scopo, come se il risultato finale non contasse più di tanto ma fosse importante il come ci si è arrivati. Anche Hitler, da un punto di vista meramente tecnico, potrebbe essere considerato un artista, un geniale uomo di stato che è riuscito a piegare la realtà al suo volere e a creare il Terzo Reich. Ma se la creatura implica distruzione, genocidio e guerra è evidente che, per quanto abbiamo utilizzato tecniche creative, ci siamo allontanati da una strada veramente creativa. Ogni atto creativo è tale solo se si armonizza con la totalità della realtà.
L’articolo che abbiamo riportato dal Notiziario (n°32 del settembre 1996) della Rete Radié Resch ci dà tantissimi suggerimenti e siamo convinti che inserirlo all’interno di questa parte di HP dedicata alla creatività veramente allarga gli orizzonti, ci apre ad una comprensione più profonda di quello che stiamo affrontando. L’articolo di Leonardo Boff può ricordare ad ogni educatore di considerare il proprio lavoro come al servizio di uno spirito di vita, che travalica la dimensione della relazione educatore-educato per raggiungere una dimensione più cosmica. La mistica quotidiana e molto concreta che Boff sta vivendo assieme ai poveri del suo paese, il Brasile, allarga la nostra consapevolezza e ci apre gli occhi su quello che è il nostro ruolo nel mondo. L’uomo è inserito come essere vivente in un grande essere vivente che gli indigeni chiamano Madre Terra, Pachamama. L’uomo è creatura e creatore al tempo stesso ma, accecato dal mercato che vuole il profitto e l’accumulazione lineare crescente, sta diventando il distruttore della natura e il distruttore di se stesso. Solo se sapremo ritornare veramente creativi, ritrovando il limite alla nostra creatività, potremo, come dice Boff, abitare la terra amandola, rispettandola, creatori e creature, fratelli e sorelle di tutti gli esseri viventi.
Pachamama, terra madre della liberazione
di Leonardo Boff, Monica Di Sisto
La macchina di morte che stermina il genere umano è il sistema neoliberale dello Stato minimo, della privatizzazione, che ha come effetto un’esclusione immensa, inimmaginabile. Secondo dati recenti della Banca mondiale la logica dellaccumulazione lineare mondialmente integrata dal capitale esige ogni due giorni una Hiroshima-Nagasaki di vittime umane, cioè 180 mila morti per fame e per degrado. Una realtà di genocidio continua, che sono loro, le stesse vittime, a denunciare e combattere. L’Argentina non mai avuto fame nella sua storia. E’ il Paese con la più imponente esportazione di carne nel mondo. Eppure oggi ci sono regioni in cui non ci sono nè gatti nè cani: se li sono mangiati tutti. In Brasile io ci vivo: 150 milioni di abitanti, un progetto sociale del governo per soli 80 milioni di persone, gli altri 70 milioni restano tagliati fuori, senza speranza.
Cosa fa la chiesa? Ci sono i vescovi-autorità religiose, che stanno nei palazzi, in diocesi, nei loro spazi chiusi, sacrali, e ci sono vescovi che gridano, profeti inascoltati. La lotta ormai non è più lotta di liberazione, ma di sopravvivenza. La teologia della liberazione in questo contesto diventa teologia della vita, teologia che garantisce un pasto al giorno per tutti. Io e mio fratello Waldemar abbiamo messo in piedi a Petropolis, settanta chilometri da Rio de Janeiro, il S.E.O.P. – Servizio di educazione e organizzazione popolare. Tredici operatori per dodici favelas, millecinquecento bambini di strada che ogni giorno mangiano il grande minestrone comunitario e frutta, si incontrano, attivano contatti umani, iniziano un percorso di coscientizzazione. Alternative: la fame e la disperazione. Organizzare la zuppa è un atto altamente evangelico, è un atteggiamento pastorale, l’unico possibile nei confronti degli affamati. Perché mai come oggi la chiesa si deve chiedere come lavorare con gli esclusi, quelli che non hanno lavoro che non sanno come mangiare, dove vivere. Un dio di vita contro gli dei di morte. Un dio di vita che non passa per le curie, per quel Vaticano che è solo un sistema di potere, interessato allautofinalizzazione della chiesa. Pochi si chiedono, in quei grandi palazzi romani, in funzione di chi esiste la chiesa, come se essa avesse in se stessa un fine.
Vecchio, stanco, mondo
La teologia della liberazione intende se stessa come parola seconda. La prima parola spetta alla pratica di liberazione contro l’oppressione, ogni volta concreta, degli indios, delle popolazioni negre, delle donne, dei "sem terra", in America Latina come in Asia, in Africa. Al centro sta il processo reale di liberazione che i poveri, gli oppressi mettono in atto quando si organizzano. Quando i cristiani, sia come soggetto di questo processo che come alleati, come chiese, fanno una riflessione su questa pratica, nasce quella che chiamiamo teologia della liberazione. In questo senso sono convinto che sia una teologia sempre vivente, e che avrà sempre futuro nella misura in cui ha futuro la lotta di resistenza e di liberazione dei cristiani contro l’oppressione concreta dei propri simili. Oggi, negli anni Novanta, la sfida principale è la denuncia profetica e chiara dellimmensa e sanguinaria esclusione che Paesi interi, classi sociali intere, milioni di persone patiscono.
La seconda grande sfida è quella ecologica, un tema su cui convergono sia il Nord che il Sud del Mondo perché il pericolo è comune dell’umanità intera. Le chiese sono sempre state ostaggi di un certo antropocentrismo, di una certa lettura dei testi delle scritture che portavano a considerare l’essere umano al di sopra delle cose, e non insieme alle cose. Non ci si deve chiedere oggi che futuro ha la chiesa, o il cristianesimo, ma che futuro ha il pianeta terra, l’umanità e in che misura il cristianesimo può aiutare a garantire questo futuro che non è affatto scontato.
Il nuovo paradigma di benevolenza, di fratellanza, di convivenza con la natura è l’insieme di sogni di atteggiamenti, di pratiche che fanno la persona umana, uomo e donna, esseri insieme ad altri esseri, una specie che non distrugge gli altri ma che condivide l’avventura planetaria e cosmica, e che si assume la sua responsabilità etica di essere l’angelo custode della natura e non il satana della natura. Il mercato vuole il profitto e l’accumulazione lineare crescente. Questa voracità porta alla distruzione delle risorse e pone in pericolo l’equilibrio fisico e chimico del pianeta Terra. Già lo diceva Gandhi: "la terra può alimentare tutte le persone, però non è sufficiente per la voracità dei consumisti". Abbiamo di fronte una rivoluzione culturale che deve far nascere un nuovo modello di società, una economia della sufficienza al posto di uneconomia della mera crescita dei beni e dei servizi.
Dagli indigeni un nuovo paradigma
Bisogna superare il tema "sviluppo sostenibile" che è un discorso proprio dellecocapitalismo, profondamente falso. Non bisogna infatti più discutere di sviluppo sostenibile, ma di società sostenibile, di pianeta sostenibile. Il primo infatti non ha superato ancora il paradigma della crescita infinita, che ha come presupposto una prima illusione – linesauribilità delle risorse – e una seconda illusione, il fatto che si possa portare all’infinito questo modello di sviluppo, che invece non è universale, nè universalizzabile. Quello che è sostenibile per le culture andine non lo è altrove, perché nelle culture andine non c’è questa idea di accumulazione lineare, ma c’è una cultura della sufficienza per tutti, della condivisone, della socializzazione di tutti i beni, della soddisfazione delle esigenze collettive, ma non a scapito della natura. Gli indiani dAmerica erano particolarmente ghiotti di fagioli rossi, che trovavano in grandi quantità nelle tane dei topi del deserto. Quando scovavano uno di questi rifugi ne tiravano fuori i fagioli rossi, ma ci lasciavano altre granaglie e alla fine pregavano l’amico topo di perdonarli e di accontentarsi del cambio. Una persona maya lavora cinquantatré giorni all’anno per alimentare una famiglia di cinque persone, e gli altri giorni condivide la vita della comunità nella costruzione di scuole, templi, e partecipa della gratuità della vita, delle feste, del teatro, della convivenza. Questa forma di organizzazione è altamente umana, ha il diritto di essere rispettata e non assoggettata all’oppressione della politica mondiale.
La disoccupazione strutturale causata dall’evoluzione tecnologica e dalla prescindibilità del lavoro umano dobbiamo salutarla come un processo irreversibile. L’ecologia mentale vuole rielaborare la tradizione della solidarietà tra esseri viventi, della compassione come "sentire con" gli altri esseri, nella stessa origine, nello stesso destino, nella stessa avventura planetaria. E’ trattare la terra non come un insieme di metalli, rocce, polvere e acqua, ma come la "pachamama", la grande madre recuperando il discorso delle culture originarie alla luce del simbolo più contemporaneo della terra come un superorganismo vivo, Gaia. Le persone umane sono dunque figli e figlie della terra, di questa terra che sente, che ama, e non sono semplicemente esseri che ci vivono castigati e aspirano all’altro mondo.
Bisogna inoltre capire che la terra non è sola nell’universo ma è solo una particella nelluniverso più ampio, solare, galattico. Il nostro corpo è fatto di materiali che sono più vecchi della terra e del sistema solare, sono elementi quasi infiniti che entrano nel corpo. Tutti i viventi, dallameba originaria alluomo sapiens sono fratelli e sorelle, perché hanno lo stesso codice genetico, sono fatti con lo stesso sistema alfabetico della vita, e questa esperienza totale di comunione li deve aiutare a costruire il nuovo paradigma. E’ un ritorno alla terra come patria, anzi la "matria" comune di Dio.
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