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autore: Autore: Alvise Anastasi

Il punto di vista della creatura

Non si può parlare di creatività senza considerare il rapporto tra creatore e creatura, senza prendere per una volta le parti della creatura, assumendone il punto di vista.
Partiamo da questa domanda: che cosa ferma la mano del pittore, che cosa lo induce a considerare il suo quadro come terminato? Una volta ho visto un filmato televisivo dedicato a Mirò che mi ha molto colpito. Il pittore era già anziano e lavorava ai suoi quadri nell’atelier. Si percepiva che questo luogo era qualcosa di sacro e Mirò nel suo lavoro era concentratissimo; la sua azione, il suo dare qua e là delle pennellate, era scandita da altrettanti momenti in cui si fermava ad osservare il risultato. Qualche volta si staccava lentamente dal quadro e si sedeva su una sedia a dondolo per osservarlo con più comodità. Mi ha colpito questa devozione, questo enorme rispetto per l’opera. Mi è apparso chiaro che l’artista è solo uno dei momenti della creazione e non, come invece siamo abituati a considerare, il centro di tutto. Quello che l’artista può fare è di prepararsi a ricevere l’ispirazione, da un lato studiando e impadronendosi delle varie tecniche, dall’altro esponendosi alla vita, caricandosi di suggestioni ed idee. Ma l’atto creativo è qualcosa di più, che supera il creatore e che lo lega molto profondamente al destino della sua creatura.
Picasso diceva: "Io non cerco, io trovo". Sarebbe sbagliato considerare solamente il punto di vista dell’artista, della sua ricerca, del suo travaglio. L’atto creativo si aggrappa alla creatura, trae senso dall’oggetto creato. Picasso è grande, più grande di altri, non solo perché ha cercato ma soprattutto perché ha trovato. Molti artisti, anzi teoricamente tutti gli artisti, chi più chi meno, cercano, sperimentano, si impratichiscono e si impadroniscono delle varie tecniche. Ma ciò che fa la differenza è che alcuni trovano ed altri invece rivisitano luoghi già scoperti. Se la cosa più importante fosse la tecnica, la dimensione del fare, allora anche il prodotto diventerebbe meno importante. Mirò non si siederebbe ad ammirare un proprio quadro (se non forse per dire: "quanto sono stato bravo") perché non ci sarebbe più quel legame così profondo tra creatore e creatura.
Ecco perché anche la creatività ha un limite che è dato proprio dalla creatura. La creatività non deve essere intesa tanto come potenza, dominio sulle cose, capacità di trasformare gli eventi ma assume un pieno significato quando è al servizio della creatura. Quando le necessità della creatura sono soddisfatte allora anche il creatore trova il riposo, il pittore smette di lavorare al quadro (per tornare alla domanda dalla quale siamo partiti), l’educatore si ferma ad ammirare il bambino che gioca. Se la creatività fosse solo potenza di produzione, capacità di controllare le cose, non avrebbe limite, non troverebbe riposo.
Quando il piccolo principe di Sant’Exupery incontra l’uomo d’affari si stupisce che quest’uomo si illuda di accumulare ricchezze contando e ricontando le stelle, depositando il loro numero in banca e pensando così di possederle.

– "Io," disse il piccolo principe "possiedo un fiore che innaffio tutti i giorni. Possiedo tre vulcani dei quali spazzo il camino tutte le settimane. Perché spazzo il camino anche di quello spento. Non si sa mai. E’ utile ai miei vulcani, ed è utile al mio fiore che io li possegga. Ma tu non sei utile alle stelle…" L’uomo d’affari aprì la bocca ma non trovò niente da rispondere e il piccolo principe se ne andò.-

Possedere non è più l’esercizio di un dominio ma un utilizzare-prendersi cura dell’oggetto (che è il contrario della cultura dell’usa e getta o, forse ancor peggio, dell’abitudine di comprare oggetti che poi non useremo né mai ripareremo). Mirò forse può "dominare" la tecnica con la quale dipinge il quadro, ma non può dominare il quadro, la sua opera d’arte, più di quanto possa dominare se stesso. Ammirare il quadro nel suo farsi e portarlo a compimento non risponde alla logica del produttivismo, dell’accumulo senza limiti: il piccolo principe non potrebbe né vorrebbe possedere cento vulcani per lo stesso motivo per cui sarebbe impensabile un Mirò che lavorasse freneticamente per sfornare ogni giorno cento quadri. Il creatore si prende cura della sua creatura ed è per questo che l’atto creativo diventa pienamente tale quando è anche un atto d’amore. Don Milani diceva che un uomo riesce realmente ad amare un numero limitato di persone (non più di 300 o 400, che per me è già una stima da santo) e che bisogna incominciare dai prossimi, da chi ci sta vicino. L’atto creativo ha un termine, ha un limite, si esercita in uno spazio ben definito.
Spesso si parla di creatività come insieme di tecniche (vedi i libri ad uso dei manager) in vista di uno scopo, come se il risultato finale non contasse più di tanto ma fosse importante il come ci si è arrivati. Anche Hitler, da un punto di vista meramente tecnico, potrebbe essere considerato un artista, un geniale uomo di stato che è riuscito a piegare la realtà al suo volere e a creare il Terzo Reich. Ma se la creatura implica distruzione, genocidio e guerra è evidente che, per quanto abbiamo utilizzato tecniche creative, ci siamo allontanati da una strada veramente creativa. Ogni atto creativo è tale solo se si armonizza con la totalità della realtà.
L’articolo che abbiamo riportato dal Notiziario (n°32 del settembre 1996) della Rete Radié Resch ci dà tantissimi suggerimenti e siamo convinti che inserirlo all’interno di questa parte di HP dedicata alla creatività veramente allarga gli orizzonti, ci apre ad una comprensione più profonda di quello che stiamo affrontando. L’articolo di Leonardo Boff può ricordare ad ogni educatore di considerare il proprio lavoro come al servizio di uno spirito di vita, che travalica la dimensione della relazione educatore-educato per raggiungere una dimensione più cosmica. La mistica quotidiana e molto concreta che Boff sta vivendo assieme ai poveri del suo paese, il Brasile, allarga la nostra consapevolezza e ci apre gli occhi su quello che è il nostro ruolo nel mondo. L’uomo è inserito come essere vivente in un grande essere vivente che gli indigeni chiamano Madre Terra, Pachamama. L’uomo è creatura e creatore al tempo stesso ma, accecato dal mercato che vuole il profitto e l’accumulazione lineare crescente, sta diventando il distruttore della natura e il distruttore di se stesso. Solo se sapremo ritornare veramente creativi, ritrovando il limite alla nostra creatività, potremo, come dice Boff, abitare la terra amandola, rispettandola, creatori e creature, fratelli e sorelle di tutti gli esseri viventi.

Pachamama, terra madre della liberazione
di Leonardo Boff, Monica Di Sisto

La macchina di morte che stermina il genere umano è il sistema neoliberale dello Stato minimo, della privatizzazione, che ha come effetto un’esclusione immensa, inimmaginabile. Secondo dati recenti della Banca mondiale la logica dell’accumulazione lineare mondialmente integrata dal capitale esige ogni due giorni una Hiroshima-Nagasaki di vittime umane, cioè 180 mila morti per fame e per degrado. Una realtà di genocidio continua, che sono loro, le stesse vittime, a denunciare e combattere. L’Argentina non mai avuto fame nella sua storia. E’ il Paese con la più imponente esportazione di carne nel mondo. Eppure oggi ci sono regioni in cui non ci sono nè gatti nè cani: se li sono mangiati tutti. In Brasile io ci vivo: 150 milioni di abitanti, un progetto sociale del governo per soli 80 milioni di persone, gli altri 70 milioni restano tagliati fuori, senza speranza.
Cosa fa la chiesa? Ci sono i vescovi-autorità religiose, che stanno nei palazzi, in diocesi, nei loro spazi chiusi, sacrali, e ci sono vescovi che gridano, profeti inascoltati. La lotta ormai non è più lotta di liberazione, ma di sopravvivenza. La teologia della liberazione in questo contesto diventa teologia della vita, teologia che garantisce un pasto al giorno per tutti. Io e mio fratello Waldemar abbiamo messo in piedi a Petropolis, settanta chilometri da Rio de Janeiro, il S.E.O.P. – Servizio di educazione e organizzazione popolare. Tredici operatori per dodici favelas, millecinquecento bambini di strada che ogni giorno mangiano il grande minestrone comunitario e frutta, si incontrano, attivano contatti umani, iniziano un percorso di coscientizzazione. Alternative: la fame e la disperazione. Organizzare la zuppa è un atto altamente evangelico, è un atteggiamento pastorale, l’unico possibile nei confronti degli affamati. Perché mai come oggi la chiesa si deve chiedere come lavorare con gli esclusi, quelli che non hanno lavoro che non sanno come mangiare, dove vivere. Un dio di vita contro gli dei di morte. Un dio di vita che non passa per le curie, per quel Vaticano che è solo un sistema di potere, interessato all’autofinalizzazione della chiesa. Pochi si chiedono, in quei grandi palazzi romani, in funzione di chi esiste la chiesa, come se essa avesse in se stessa un fine.

Vecchio, stanco, mondo

La teologia della liberazione intende se stessa come parola seconda. La prima parola spetta alla pratica di liberazione contro l’oppressione, ogni volta concreta, degli indios, delle popolazioni negre, delle donne, dei "sem terra", in America Latina come in Asia, in Africa. Al centro sta il processo reale di liberazione che i poveri, gli oppressi mettono in atto quando si organizzano. Quando i cristiani, sia come soggetto di questo processo che come alleati, come chiese, fanno una riflessione su questa pratica, nasce quella che chiamiamo teologia della liberazione. In questo senso sono convinto che sia una teologia sempre vivente, e che avrà sempre futuro nella misura in cui ha futuro la lotta di resistenza e di liberazione dei cristiani contro l’oppressione concreta dei propri simili. Oggi, negli anni Novanta, la sfida principale è la denuncia profetica e chiara dell’immensa e sanguinaria esclusione che Paesi interi, classi sociali intere, milioni di persone patiscono.
La seconda grande sfida è quella ecologica, un tema su cui convergono sia il Nord che il Sud del Mondo perché il pericolo è comune dell’umanità intera. Le chiese sono sempre state ostaggi di un certo antropocentrismo, di una certa lettura dei testi delle scritture che portavano a considerare l’essere umano al di sopra delle cose, e non insieme alle cose. Non ci si deve chiedere oggi che futuro ha la chiesa, o il cristianesimo, ma che futuro ha il pianeta terra, l’umanità e in che misura il cristianesimo può aiutare a garantire questo futuro che non è affatto scontato.
Il nuovo paradigma di benevolenza, di fratellanza, di convivenza con la natura è l’insieme di sogni di atteggiamenti, di pratiche che fanno la persona umana, uomo e donna, esseri insieme ad altri esseri, una specie che non distrugge gli altri ma che condivide l’avventura planetaria e cosmica, e che si assume la sua responsabilità etica di essere l’angelo custode della natura e non il satana della natura. Il mercato vuole il profitto e l’accumulazione lineare crescente. Questa voracità porta alla distruzione delle risorse e pone in pericolo l’equilibrio fisico e chimico del pianeta Terra. Già lo diceva Gandhi: "la terra può alimentare tutte le persone, però non è sufficiente per la voracità dei consumisti". Abbiamo di fronte una rivoluzione culturale che deve far nascere un nuovo modello di società, una economia della sufficienza al posto di un’economia della mera crescita dei beni e dei servizi.

Dagli indigeni un nuovo paradigma

Bisogna superare il tema "sviluppo sostenibile" che è un discorso proprio dell’ecocapitalismo, profondamente falso. Non bisogna infatti più discutere di sviluppo sostenibile, ma di società sostenibile, di pianeta sostenibile. Il primo infatti non ha superato ancora il paradigma della crescita infinita, che ha come presupposto una prima illusione – l’inesauribilità delle risorse – e una seconda illusione, il fatto che si possa portare all’infinito questo modello di sviluppo, che invece non è universale, nè universalizzabile. Quello che è sostenibile per le culture andine non lo è altrove, perché nelle culture andine non c’è questa idea di accumulazione lineare, ma c’è una cultura della sufficienza per tutti, della condivisone, della socializzazione di tutti i beni, della soddisfazione delle esigenze collettive, ma non a scapito della natura. Gli indiani d’America erano particolarmente ghiotti di fagioli rossi, che trovavano in grandi quantità nelle tane dei topi del deserto. Quando scovavano uno di questi rifugi ne tiravano fuori i fagioli rossi, ma ci lasciavano altre granaglie e alla fine pregavano l’amico topo di perdonarli e di accontentarsi del cambio. Una persona maya lavora cinquantatré giorni all’anno per alimentare una famiglia di cinque persone, e gli altri giorni condivide la vita della comunità nella costruzione di scuole, templi, e partecipa della gratuità della vita, delle feste, del teatro, della convivenza. Questa forma di organizzazione è altamente umana, ha il diritto di essere rispettata e non assoggettata all’oppressione della politica mondiale.
La disoccupazione strutturale causata dall’evoluzione tecnologica e dalla prescindibilità del lavoro umano dobbiamo salutarla come un processo irreversibile. L’ecologia mentale vuole rielaborare la tradizione della solidarietà tra esseri viventi, della compassione come "sentire con" gli altri esseri, nella stessa origine, nello stesso destino, nella stessa avventura planetaria. E’ trattare la terra non come un insieme di metalli, rocce, polvere e acqua, ma come la "pachamama", la grande madre recuperando il discorso delle culture originarie alla luce del simbolo più contemporaneo della terra come un superorganismo vivo, Gaia. Le persone umane sono dunque figli e figlie della terra, di questa terra che sente, che ama, e non sono semplicemente esseri che ci vivono castigati e aspirano all’altro mondo.
Bisogna inoltre capire che la terra non è sola nell’universo ma è solo una particella nell’universo più ampio, solare, galattico. Il nostro corpo è fatto di materiali che sono più vecchi della terra e del sistema solare, sono elementi quasi infiniti che entrano nel corpo. Tutti i viventi, dall’ameba originaria all’uomo sapiens sono fratelli e sorelle, perché hanno lo stesso codice genetico, sono fatti con lo stesso sistema alfabetico della vita, e questa esperienza totale di comunione li deve aiutare a costruire il nuovo paradigma. E’ un ritorno alla terra come patria, anzi la "matria" comune di Dio.

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Creatività artificiale

Che cos’è la creatività dell’uomo e che cos’è la creatività della macchina; Kasparov, il grande campione di scacchi battuto da un computer. Ma come può essere creativo un programma di un calcolatore? Per Hofstaedter esiste una misteriosa ma chiara connessione tra creatività e la bellezza

Quando Garry Kasparov, il geniale campione mondiale di scacchi, è stato battuto ripetutamente da un computer, per me e per altri milioni di scacchisti è stato uno shock. Ero convinto infatti che gli scacchi fossero un’arte e non solo un gioco. A favore di questa tesi avevo molti argomenti tra cui innanzitutto la bellezza del gioco in sè, lo stupore che provavo di fronte alla profondità di alcune mosse, la presenza di uno stile peculiare ad un giocatore come esiste lo stile di un musicista o di un pittore . E in più la mia ammirazione per gli scacchisti, per gli artisti della scacchiera, per la loro genialità, per il mistero che si portano dentro. Tutto questo devo dire che è stato messo in crisi, anzi, in un primo momento, è proprio crollato. Se un computer può battere Kasparov e qualsiasi altro scacchista, se può battere un uomo, ci sono due possibilità: o gli scacchi non sono arte, oppure i computer fanno arte. Come umano o come uomo (che differenza c’è tra questi due "come" quando vediamo un computer fare ciò che è umano?) già mando giù a fatica la prima ipotesi, ma per la seconda proprio mi ribello e quindi non mi resta che ammettere la sconfitta, la morte di un mito. Oppure c’è ancora una terza via che è quella di ripensare a cosa significa profondità, arte, gioco, e infine uomo e computer. Ci aiuta in questa ricerca un brano di Douglas R. Hofstadter, tratto dal suo libro fondamentale Goedel, Escher, Bach: un’Eterna Ghirlanda Brillante (1979), edito da Adelphi per fortuna anche nella collana economica, libro fondamentale per chi voglia iniziare a percorrere i sentieri dell’intelligenza artificiale, ma non solo. Infatti uno dei meriti principali di questo lavoro è di aver mostrato la complessità di un argomento del genere collegandolo continuamente alla "complessità" dell’uomo, con costanti riferimenti alla filosofia, alla mistica zen, alla scienza, all’arte, alla musica, ecc… In particolare il brano Creatività e casualità si chiede come possa un programma essere creativo. La risposta di Hofstadter è chiara e oscura allo stesso tempo, ma indica una direzione, la connessione tra creatività e bellezza. Il mistero è ancora tutto da esplorare e questo brano, forse "difficile" per il lettore che pretende una risposta esatta, è un invito alla ricerca.

Da parte mia, elaborato il lutto per la morte di un mito, ho ricominciato a trovare gli scacchi ancora belli e, uscito dallo sconforto (la bellezza ci rincuora!), sono tornato a giocare e ad ammirare le partite, sia degli umani che dei computer. Uno scacchista ha sostenuto, su una rivista, che le corse sui cavalli o quelle automobilistiche non hanno soppiantato la corsa sulle gambe. La macchina è più veloce ma il fascino di una partita tra due giocatori c’è ancora. Qualcosa questa esperienza me lo ha insegnato e innanzitutto che non dobbiamo aver paura dell’avvento dei computer musicisti , se mai ci saranno. Dopo un primo momento di smarrimento, la bellezza della musica ci salverà. Se sapremo ascoltare.

Creatività e casualità
di Douglas R. Hofstadter

E chiaro che stiamo parlando della meccanizzazione della creatività. Ma non è questa una contraddizione in termini? Lo è quasi, ma non lo è realmente. La creatività è l’essenza di ciò che non è meccanico. E tuttavia ogni atto creativo è meccanico. Esso ha una sua spiegazione, non meno di quanto ce l’abbia una crisi di singhiozzo. Il substrato meccanico della creatività può essere nascosto, ma esiste. D’altra parte, fin da oggi vi è qualcosa di non meccanico nei programmi flessibili. Ciò può non essere ancora creatività, ma quando i programmi cessano di essere trasparenti ai loro creatori, allora si comincia ad avvicinarsi alla creatività. E’ un luogo comune dire che la casualità è un ingrediente indispensabile degli atti creativi. Questo può essere vero, ma non ha alcuna influenza sulla meccanizzabilità, o meglio sulla programmabilità, della creatività. Il mondo è un enorme ammasso di casualità; quando un po’ di casualità si rispecchia nei nostri cervelli, questi ne assorbono una quantità. Di conseguenza, le strutture di attivazione dei simboli possono muoversi lungo percorsi che sembrano i più casuali possibile semplicemente perché derivano dall’interazione con un mondo pazzo, casuale. La stessa cosa succede anche con i programmi. La casualità è una caratteristica intrinseca del pensiero, non qualcosa che deve essere "inoculato artificialmente", con dadi, nuclei che decadono, tavole di numeri casuali o qualunque altra cosa venga in mente. E’un insulto alla creatività umana insinuare che essa dipenda da tali sorgenti arbitrarie.

Ciò che ci appare come casualità spesso è soltanto il risultato dell’osservare qualcosa di simmetrico attraverso un filtro "che distorce". (…) Proprio come la scienza è permeata a tutti i livelli e in ogni momento di "rivoluzioni concettuali", così il pensiero di ogni individuo è continuamente attraversato da atti creativi. Questi non si riscontrano solo al livello più elevato; si trovano dappertutto. La maggior parte di essi sono di poco conto e sono già stati compiuti milioni di volte, ma sono parenti stretti degli atti più altamente creativi e originali. I programmi oggi non sembrano produrre ancora queste innumerevoli piccole creazioni. La maggior parte di ciò che fanno è ancora assolutamente "meccanico". Questa è la riprova del fatto che essi non simulano da vicino il modo in cui pensiamo; ma ci si stanno avvicinando. Forse ciò che differenzia le idee altamente creative da quelle ordinarie è una certa qual combinazione del senso della bellezza, della semplicità e dell’armonia. In una delle mie "meta-analogie" preferite io paragono le analogie agli accordi. Il concetto è semplice: idee superficialmente simili spesso non sono collegate in modo profondo; e idee collegate in modo profondo spesso sono molto diverse in superficie. L’analogia con gli accordi viene naturale: le note materialmente vicine sono armonicamente distanti (per esempio mi, fa, sol o, nella notazione inglese, E,F,G), mentre le note armonicamente vicine sono materialmente distanti (per esempio sol, mi, si, che, nella notazione inglese, ci danno tre lettere ben note: G,E,B). (1) Idee che hanno lo stesso scheletro concettuale risuonano in una sorta di analogo concettuale dell’armonia; questi "accordi di idee" armoniosi hanno componenti molto lontane, se misurate su una "immaginaria tastiera dei concetti". E naturalmente non è sufficiente allargarsi sulla tastiera e battere tasti a caso: si può colpire una settima o una nona! Forse la presente analogia è come un accordo di nona: esteso ma dissonante.

(1) G.E.B. sono le iniziali del libro Goedel, Escher, Bach

Il lavoro dell’artista

Che cosa significa la parola "lavoro" per un artista? E’ tanto diversa la sua creatività da quella che noi sperimentiamo ogni giorno? Dalle sue stesse parole emerge una immagine di Van Gogh forse meno scontata e stereotipata, più concretamente immersa nella realtà di tutti i giorni.

La lettera che pubblichiamo, scritta da Van Gogh al fratello Theo il 10 settembre 1889, è una delle più belle, sicuramente una delle più articolate e lunghe del fitto carteggio che l’artista ha intrattenuto con il fratello durante tutta la sua vita. Theo Van Gogh è stato per Vincent una presenza costante, il primo a credere nelle sue capacità ma anche sempre pronto a sostenerlo concretamente nei momenti di bisogno. Questa lettera è stata scritta dalla casa di cura di Sant-Paul-de-Manson, vicino a Saint-Rémy nella Francia del sud, dove volontariamente il pittore si era fatto ricoverare l’8 maggio 1889. Il suo equilibrio nervoso era già fortemente minato. Il 23 dicembre dell’anno prima aveva tentato di colpire con un rasoio Gauguin, che dal 22 ottobre dopo molte insistenze aveva accettato di essere suo ospite ad Arles, e in seguito quella stessa notte si era tagliato il lobo dell’orecchio sinistro.
Nell’ultima lettera indirizzata al fratello, trovata incompiuta nella sua tasca subito dopo essersi sparato nel pomeriggio del 27 luglio 1990 (morirà due giorni dopo) il pittore scriveva: "Ebbene, nel mio lavoro ci rischio la vita e la mia ragione vi si è consumata per metà (…)". Van Gogh ha dimostrato una dedizione totale al proprio lavoro di artista, un lavoro tenace, in cui la volontà viene messa a dura prova. In un’altra lettera, dall’Aja nell’ottobre 1882, scrive: "Che cosa è il disegno? Come lo si impara? E’ lavorare attraverso una muraglia invisibile in ferro che sembra sorgere tra quanto si sente e quanto uno sa fare. Come attraversare quel muro – visto che sbatterci contro è inutile? Bisogna minare subdolamente il muro, scavandovi sotto lentamente e pazientemente, a parer mio. E, vedi un po’, come si può continuare a lavorare con assiduità senza che la stessa presenza di quel muro ci disturbi o distragga – a meno di non riflettere e di non regolare di conseguenza la propria vita, secondo i propri principi? E lo stesso si verifica in altre cose, oltre che nell’arte. Le cose grandi non sono incidentali, devono essere opera della volontà. Se siano i principi di un uomo a originare dalle azioni o le azioni dai principi, è un problema che mi pare insolubile e altrettanto degno di venire risolto quanto quello dell’uomo e della gallina. Ma ritengo sia estremamente positivo e di grande valore che si debba tentare di sviluppare le proprie capacità di riflessione e di volontà."
Non si sottolinea mai abbastanza il rapporto profondo che c’è tra creatività e lavoro. Quando si pensa a Van Gogh come all’artista un po’ pazzo che di getto crea dei capolavori, si fa un torto enorme proprio al lavoro duro cui si è sottoposto durante tutta la sua vita, un lavoro di ricerca, risultato di forza di volontà ma anche senso del dovere, dedizione e amore verso la realtà che lo ispirava. "Vedi, l’uomo non ha amico più fedele del suo dovere e benché a volte possa essere un rude e severo docente, finché si lavora a servizio del dovere non si diventa facilmente dei falliti." (l’Aja, giugno 1883).

Ma qual’è il dovere del pittore?
Riportiamo l’inizio di una lettera scritta a Drenthe nel novembre 1883 che oltre ad offrirci una suggestiva visione della realtà attraverso gli occhi stessi del pittore ci fa capire quale fosse per Van Gogh la funzione del pittore:
"Caro fratello, devo raccontarti di una mia gita a Zweeloo, il villaggio dove abitò per lungo tempo Liebermann" e dove eseguì gli studi del suo quadro per l’ultimo Salon, quello con le lavandaie. Anche Termeulen e Jules Bakhuvzen vi soggiornarono a lungo. Raffigurati un viaggio attraverso la brughiera alle tre del mattino, su un carretto scoperto (andai col mio padrone di casa, che doveva andare al mercato ad Assen) lungo una strada che qua chiamano diek, arginata di fango anziché di sabbia. Era ancor più strano che andare con la chiatta. Al primo bagliore dell’alba, quando i galli presero a cantare dappertutto, accanto alle capanne sparse per tutta la brughiera e a quelle poche accanto alle quali passammo – circondate da pioppi esili di cui si sentivano cadere al suolo le foglie ingiallite – la tozza vecchia torre di un cimitero, il muro di cinta di terra, la siepe di betulle – Il paesaggio piatto della brughiera e dei campi di grano – tutto, tutto allora divenne identico ai più bei Corot. Una tranquillità, un mistero, una pace come solo lui ha dipinto. Quando poi arrivammo a Zweeloo alle sei del mattino era ancora buio; i veri Corot li avevo visti al mattino, ancora più presto. L’ingresso al villaggio era magnifico: enormi tetti di muschio, stalle, pastori e pollai.
Le case, dalla facciata larga, si trovano qua tra querce di un magnifico color bronzo. E muschio ha tonalità di un verde dorato; nel terreno, tonalità rossastre, bluastre e giallastre tutte tendenti al viola scuro, al grigio; il verde dei campi di grano ha toni di una purezza inesprimibile; sui tronchi bagnati, toni di nero, che contrastavano con la pioggia dorata di foglie autunnali che vorticavano e si riunivano poi in ammassi – foglie pendenti in gruppi sparsi, come se appena le avesse portate là il vento, col cielo che tra l’una e l’altra mandava bagliori – dai pioppi, dalle betulle, dalle piante di mele e di limoncino. Il cielo era terso, luminoso, non bianco ma di un color lilla difficile a cogliersi, bianco a bagliori rossi, blu e gialli in cui tutto si rifletteva; lo si sentiva dappertutto sopra ogni cosa, vaporoso, si confondeva con la nebbiolina leggera sottostante – fondeva tutto in una gamma di grigi delicati. Tuttavia non ho trovato un solo pittore a Zweeloo e la gente mi disse che non ne veniva neppure uno d’inverno.
Io, per contro, spero di esserci proprio quest’inverno.
Dato che non c’erano pittori, decisi di non aspettare il ritorno del mio padrone di casa, ma di tornare a piedi e di fare qualche disegno lungo il cammino. Così iniziai a fare uno schizzo di un frutteto, quello dal quale Liebermann aveva tratto il suo quadro grande. Poi me ne tornai a piedi per la strada che avevamo percorso al mattino. (…) Quando si cammina per ore ed ore per questa campagna, davvero si sente che non esiste altro che quella distesa infinita di terra – la verde muffa del grano o dell’erica e quel cielo infinito. Cavalli e uomini sembrano formiche. Non ci si accorge di nulla, per quanto grande possa essere, si sa solo che c’è la terra e il cielo. Tuttavia, in veste di piccola particella che guarda altre piccole particelle – per trascurare l’infinito – ogni particella risulta essere un Millet. (…)"
"Dato che non c’erano pittori (…)": Van Gogh interpretava il proprio lavoro come un servizio, nei termini di come ne abbiamo parlato in HP63, cioè un prendersi cura della creatura. Forse si potrà obbiettare che un pittore geniale come lui ha un destino diverso dal nostro, da quello di noi comuni mortali: forse il suo può apparire persino come un non-lavoro, così poco assomiglia a quello che facciamo per vivere, per arrivare a fine mese, così poco simile alle nostre frustrazioni giornaliere, alla difficoltà di lavorare in gruppo, alla difficoltà di rendere stimolante magari il solito tran-tran quotidiano. Domanda da un milione: siamo noi a avere una accezione sbagliata del lavoro o è Van Gogh ad averla? La domanda da un miliardo che segue è: per essere dei geni della creatività bisogna essere pazzi come Van Gogh? Leggendo la lettera, che è anche un atto di accusa contro l’abbandono in cui sono lasciati i malati di mente ospiti della casa di cura, ci si convince che chi l’ha scritta non è stato un grande perché era pazzo e che nella sua creatività c’è più lavoro e dovere, insomma c’è più qualcosa di simile alla nostra vita di tutti i giorni di quanto possiamo credere. Il lavoro può a volte aiutare a superare le varie difficoltà-handicap che la vita ci pone davanti se sappiamo come Van Gogh ammirare la bellezza di ciò che ci circonda e se abbiamo la forza e volontà di esprimerla con la nostra creatività. In fondo basterebbe, anche senza scomodare il super-enalotto, rispondere alle due precedenti domande per guadagnare il premio in denaro (1001 milioni) per smettere di lavorare, nel senso che si intende comunemente. Ma che cosa avrebbe fatto Van Gogh?

"Mio caro Theo"
Saint-Rémy, 10 settembre 1889

Mio caro Theo,
trovo la tua cara lettera, quello che dici di Rousseau, di artisti come Bodmer, che in ogni modo erano uomini e che di simili se ne desidererebbe pieno il mondo – è proprio ciò che penso anch’io. E trovo perfetto che J. H. Weissenbruch conosca e faccia le strade fangose lungo i fiumi, i salici intristiti, gli scorci e le prospettive sapienti e strane dei canali così come Daumier conosceva e faceva gli avvocati. Tersteeg ha fatto bene ad acquistare del lavoro suo; gente così non si vende, e secondo me dipende dal fatto che ci sono troppi venditori che cercano di vendere per ingannare il pubblico e prenderlo in giro. Sai tu che ancora oggi, quando leggo per caso la storia di qualche industriale energico e soprattutto di un editore, mi tornano la stessa indignazione, le stesse collere di quando ero presso i Goupil & C.?
La vita passa così, il tempo non ritorna. Ma io mi accanisco nel mio lavoro, e anche per questo so che anche le occasioni di lavorare non ritornano.
Soprattutto nel mio caso, nel quale una crisi più violenta può distruggere per sempre la mia capacità di dipingere.
Durante la crisi mi sento vile per l’angoscia e la sofferenza – più vile di quanto sarebbe sensato sentirsi, ed è forse questa viltà morale che, mentre prima non mi faceva provare nessun desiderio di guarire, ora mi fa mangiare per due, lavorare tanto, e risparmiarmi nei miei contatti con gli altri malati per paura di ricadere – insomma in questo momento cerco di guarire come uno che avendo voluto suicidarsi, e avendo trovato l’acqua troppo fredda, cerca di riguadagnare la riva.
Mio caro fratello, sai bene che sono venuto nel sud e che mi sono buttato nel lavoro per mille ragioni. Per vedere un’altra luce, credendo che, guardando la natura sotto un cielo più chiaro, si potesse dare un’idea più esatta del modo di sentire e di disegnare dei giapponesi. Infine per vedere questo sole più forte, perché si sente che senza conoscerlo non si potrebbero capire dal punto di vista dell’esecuzione e della tecnica i quadri di Delacroix e perché si sente che i colori del prisma sono velati dalla bruma del nord.
E tutto ciò è in parte esatto. Quando poi si aggiunga una simpatia istintiva verso questo sud che Daudet ha descritto in Tartarin, e che qua e là io stesso ho trovato delle cose e degli amici da amare, capirai che, pur trovando orribile la mia malattia, sento che quand’anche mi fossi attaccato troppo qui – attaccamento che può far sì che mi riprenda in seguito la voglia di lavorare qui – pure può avvenire che relativamente presto io ritorni nel nord.
Si, perché non ti nascondo che, sebbene in questo momento mi nutra con avidità, mi viene un desiderio tremendo di rivedere gli amici e la campagna del nord.
Il lavoro va benissimo, trovo delle cose che ho cercato invano per anni; e sentendo ciò mi viene sempre in mente quella frase di Delacroix che tu conosci, che aveva trovato la pittura quando non aveva più né denti né fiato.
Ed io, con la mia malattia mentale, penso a tanti altri artisti che soffrono moralmente e mi dico che ciò non costituisce un impedimento per dipingere come se niente fosse.
Dato che mi accorgo che qui le crisi tendono a prendere uno sfondo decisamente religioso, arrivo a credere che sia persino necessario ritornare nel nord. Non parlare troppo di questo con il dottore quando lo vedrai – ma non so se ciò dipenda dal fatto di aver vissuto per tanti mesi al ricovero di Arles e qui, in questi vecchi chiostri. Insomma, bisogna che non viva in un ambiente come questo; in tal caso è meglio persino la strada. Non sono indifferente, e nella sofferenza talvolta i pensieri mi consolano. E questa volta durante la malattia mi è successa una disgrazia – quella litografia di Delacroix, La Pietà, con altre tavole era caduta nell’olio e nella pittura e si era rovinata.
Ne ero rattristato – e allora nel frattempo mi sono preoccupato di dipingerla e tu la vedrai un giorno, su una tela da 5 o 6 e ne ho fatto una copia che credo sia sentita.
Del resto, avendo visto poco tempo fa il Daniel e le Odalische e il ritratto di Brias e la Mulatta a Montpellier, sono ancora sotto l’impressione che mi ha provocato.
Ecco ciò che mi edifica, come leggere un bel libro quale quello di Beecher Stowe o di Dickens, mentre quello che mi da’ fastidio è di vedere in ogni momento quelle brave donne che credono alla Vergine di Lourdes e che inventano delle cose del genere, oppure di sapersi prigioniero di un’amministrazione come questa, che favorisce molto volentieri queste aberrazioni religiose, mentre sarebbe necessario guarirne. E allora mi ripeto ancora una volta che sarebbe forse meglio andare, se non all’ergastolo, almeno sotto le armi. E mi rimprovero la mia viltà; avrei dovuto difendere meglio il mio studio, avrei dovuto battermi con le guardie e con i miei vicini. Altri al mio posto si sarebbero serviti di un revolver, e se come artista avessi anche ucciso degli imbecilli come quelli, sarei stato assolto. Ecco, sarebbe stato meglio se lo avessi fatto, invece sono stato vigliacco e ubriaco.
Anche ammalato, ma non sono stato coraggioso. E ora, davanti alla sofferenza che mi danno queste crisi, mi sento pieno di timore, e non so se il mio zelo dipenda da qualcosa di diverso da quello che dico, e cioè come colui che, volendosi suicidare e trovando l’acqua troppo fredda, lotta per riguadagnare la riva.
Ma stammi a sentire, stare a pensione come ho visto fare tempo fa – fortunatamente molto tempo fa – Braat, questo no, proprio no.
Altro sarebbe se papà Pissarro oppure Vignon, ad esempio, volessero prendermi con loro. – Va’ là, io sono un pittore, è una cosa che si può combinare ed è meglio che i soldi vadano nelle tasche dei pittori, piuttosto che in quelle delle eccellenti suore. Ieri ho domandato a bruciapelo al signor Peyron: dato che lei va a Parigi, che direbbe se le proponessi di prendermi con lei? Ha risposto in modo evasivo – che era una cosa troppo precipitosa e che bisognava scriverti prima. Ma lui è molto buono e molto indulgente con me, e pur non essendo il padrone assoluto qui – tutt’altro – gli devo molta libertà. Perché non bisogna solo far dei quadri, ma bisogna anche vedere le persone e, di tanto in tanto, frequentando degli altri, rifarsi il carattere e fare provvista di idee. Ormai abbandono la speranza che non ritorni più – al contrario mi dico che di tanto in tanto avrò una crisi. Ma allora in quei momenti si potrebbe entrare in una casa di salute o persino nella prigione comunale, dove di solito c’è una cella. Comunque non farti cattivo sangue in nessun caso – il lavoro va bene e non puoi immaginare quanto mi dia gioia poter dire: farò ancora questo e quest’altro, i campi di grano, ecc.
Ho fatto il ritratto dell’infermiere e ne ho fatto una copia anche per te. Esso fa un curioso contrasto con il ritratto che ho fatto di me, dove lo sguardo è vago e velato, mentre lui ha qualcosa di militare e degli occhi neri, piccoli e vivi. Gliel’ho regalato, e ne farò uno anche a sua moglie, se vorrà posare. E’ una donna appassita, infelice rassegnata e non un gran che, e cosi insignificante che mi venuta voglia di farci insieme quel filo d’erba pieno di polvere. Ho parlato qualche volta con lei quando dipingevo gli ulivi dietro la loro piccola capanna, e allora mi diceva che non credeva che io fossi malato – e anche tu lo diresti ora, se mi vedessi lavorare, con i pensieri limpidi, la mano sicura con cui ho disegnato senza prendere una sola misura quella Pietà di Delacroix, nella quale ci sono ben quattro mani e braccia in primo piano, gesti e posizioni di corpo non proprio comode e semplici.
Te ne prego, mandami presto la tela se ciò ti è possibile, e inoltre credo di aver bisogno di altri dieci tubi di bianco di zinco.
E io so che la guarigione viene – se si è coraggiosi – dal di dentro, con la rassegnazione alla sofferenza e alla morte, con l’abbandono della propria volontà e dell’amor proprio. Ma ciò non ha importanza per me, mi piace dipingere, mi piace vedere gente e cose, e mi piace tutto ciò che costituisce la nostra vita – diciamo pure anche superficiale. Si, la vita vera sarebbe un’altra cosa, ma io non credo di appartenere a quella categoria di anime che sono pronte a vivere e anche a soffrire in qualsiasi momento.
Che cosa strana è il tocco, il colpo di pennello.
All’aria aperta, esposti al vento, al sole, alla curiosità della gente, si lavora come si può, si riempie il quadro alla disperata. Ed è proprio facendo così che si coglie il vero e l’essenziale – questa è la cosa più difficile. Ma quando dopo un certo tempo si riprende lo stesso studio e si dispongono le pennellate nel senso degli oggetti è certamente più armonioso e piacevole da vedere, e ci si può aggiungere quanto si ha di serenità e di sorriso.
Ah, non potrò mai rendere le mie impressioni di alcune figure viste qui. Certo, c’è la strada, dove ci sono tante cose nuove, la strada del sud, ma gli uomini del nord fanno fatica a capirla.
E io prevedo già che il giorno in cui avrò un certo successo, comincerò a rimpiangere la mia solitudine e il mio accoramento di qui allorché guardo attraverso le sbarre di ferro della mia cella il falciatore nei campi ai miei piedi. La disgrazia serve a qualcosa.
Per riuscire, per assicurarsi un successo che duri, bisogna avere un temperamento diverso dal mio, io non farò mai ciò che avrei potuto e dovuto volere e perseguire.
Ma a me non è consentito vivere, soffrendo così spesso di vertigini, che in una posizione di quarto, quinto rango. E anche quando sento il valore, l’originalità e la superiorità di Delacroix, di Millet per esempio, allora mi faccio forte e dico: si, sono qualcosa, anch’io posso qualcosa. Ma ho bisogno di trovare un appoggio in quegli artisti, e poi produrre quel poco che posso nella stessa direzione. Papà Pissarro ha avuto un grave colpo con quelle due disgrazie contemporanee.
Appena ho letto mi è venuta l’idea di chiedergli se non ci fosse la possibilità di andare a stare con lui.
Se tu gli pagassi la stessa retta che paghi qui, vi troverebbe il suo vantaggio, perché non ha bisogno di gran cosa – altro che di lavorare. Fagli perciò la proposta chiara, e se lui non volesse andrò da Vignon. Ho un po’ paura di Pont-Aven, c’è tante gente, ma quello che dici di Gauguin mi interessa molto. E io mi ripeto sempre che Gauguin ed io forse torneremo a lavorare insieme. So che Gauguin può fare cose molto superiori a quelle che fa, ma per mettere a suo agio quello li! Spero sempre di fargli il ritratto.
Hai visto quel ritratto che mi aveva fatto, mentre dipingevo i girasoli? La mia faccia da allora si è molto rischiarata, ma ero proprio io, estremamente stanco e carico di elettricità, come ero allora. Ma intanto, per vedere il paese bisogna vivere con il popolino, e in case piccole, e nei caffè, ecc.
E anche ciò che dicevo a Boch, che si lagnava di non veder niente che lo tentasse o gli facesse provare qualcosa. Passeggio con lui per due giorni e gli faccio vedere almeno trenta quadri cosi diversi dal nord come lo sarebbe il Marocco. Sarei curioso di sapere cosa sta facendo in questo momento.
E poi vuoi sapere perché i quadri di Delacroix – i quadri religiosi e storici, La barca di Cristo, La Pietà, Le Crociate, hanno quell’atmosfera? Perché Eugène Delacroíx quando dipinge un Getsemani è andato prima a vedere sul posto ciò che era un oliveto, e lo stesso vale per il mare frustato dal mistral, e perché si è detto: la gente di cui ci parla la storia, dogi di Venezia, crociati, apostoli, sante donne, erano dello stesso tipo e vivevano in modo analogo a quello dei loro attuali discendenti.
E perciò te lo devo dire – e tu lo puoi vedere nella Berceuse, per quanto quel tentativo sia mancato e debole – se avessi avuto la forza di continuare, avrei fatto dei ritratti di santi e di sante dal vero, e che sarebbero sembrati di un altro secolo, pur essendo gente di oggi, e avrebbero avuto un’intima parentela con i cristiani più primitivi.
Le emozioni che questo ci provoca sono però troppo forti, io rinuncio, ma più tardi, più tardi non è detto che non ritorni alla carica.
Che grand’uomo quel Fromentin – lui resterà sempre la guida per quelli che vorranno vedere l’Oriente. Lui ha stabilito per primo la congiunzione tra Rembrandt e il sud, fra Potter e quello che vedeva lui. Hai mille e mille ragioni – non bisogna pensare a queste cose – bisogna fare – anche se si trattasse di studi di cavoli e di insalata per calmarsi, e dopo essersi calmati, solo allora – fare ciò di cui siamo capaci. Quando li rivedrò farò delle copie di quello studio della diligenza di Tarascon, della vigna, della mietitura, e soprattutto del caffè rosso, quel Caffè di notte che, come colore è ciò che vi è di più caratteristico. Ma la figura bianca del centro deve essere rifatta proprio come colore, costruita meglio. Ma esso – oso dirlo è proprio un sud autentico, una combinazione ben calcolata di verdi e di rossi. Le mie forze si sono esaurite troppo presto, ma vedo fin d’ora la possibilità per altri di fare un’infinità di belle cose. E rimane sempre vera e valida l’idea che per facilitare il viaggio di altri, sarebbe stato opportuno fondare uno studio da qualche parte in questa zona, Fare tutto un viaggio dal nord alla Spagna, per esempio, non va bene, non vi si può vedere ciò che si deve vedere – bisogna farsi gli occhi prima e gradualmente alla luce diversa. lo non ho troppo bisogno di vedere i Tiziano e i Velázquez nel musei, ho visto alcuni tipi vivi, che fanno sì che sappia meglio ciò che è un quadro del sud di quanto lo sapessi prima del mio viaggio.
Dio mio, Dio mio, la brava gente fra gli stessi artisti che dice che Delacroix non è l’Oriente vero! Di un po’, ma allora l’Oriente vero è quello che fanno i parigini tipo Géróme?
Perché voi sapete dipingere un pezzo di muro assolato, anche dal vero, e bene ed esatto secondo il vostro modo di vedere del nord. Ciò prova forse che voi abbiate visto la gente dell’Oriente? Ora è questo che cercò Delacroix, il che non gli ha assolutamente impedito di dipingere dei muri nelle Nozze ebraiche e nelle Odalische. Non è vero ciò.? E anche se Degas dice che è un pagare troppo caro il bere nei tabarin dipingendo i quadri, non lo nego, ma vorrebbe forse che io vada nei conventi o nelle chiese? E’ proprio lì che ho paura. Ecco perché faccio uno sforzo di evasione con la presente lettera; una forte stretta di mano a te e a Jo.
Bisogna ancora che ti faccia gli auguri in occasione del compleanno della mamma, avevo scritto loro ieri, ma la lettera non è ancora partita, perché mi è mancata la testa per completarla.
E’ strano che già prima mi sia venuta due o tre volte l’idea di andare da Pissarro, e quest’ultima volta, dopo che mi hai parlato delle sue ultime disgrazie, non esito a dirti di chiederglielo.
Si, bisogna farla finita con quaggiù, non posso fare due cose contemporaneamente, lavorare e avere un sacco di guai per vivere in mezzo a questi strani malati che ci sono qui. E’ una cosa che rovina la salute.
Mi dovrei sforzare inutilmente di scendere con loro. Ed ecco, perciò sono già due mesi che non sono stato all’aria aperta.
Stando qui, a lungo andare perderei la facoltà di lavorare, ma a questo punto comincio a dire: alto là, e allora li mando tutti – se tu sei d’accordo – a farsi benedire.
E ancora pagare per tutto ciò, no: nella disgrazia, un artista o un altro sarà pur disposto a tenermi con sé. E’ una fortuna che tu mi possa scrivere che stai bene e anche Jo e che sua sorella è li con voi.
Vorrei che quando nascesse il vostro figliolo fossi già di ritorno non con voi, certamente no, è impossibile, ma nei dintorni di Parigi insieme a un altro pittore.
Per citarne un terzo potrei andare dai Jouve, che hanno tanti bambini e una casa grande.
Come hai capito ho cercato di fare il paragone fra la seconda crisi e la prima e ti dico solo questo, che mi sembra sia stata imputabile a non so quale influenza esterna, piuttosto che a una causa che albergava in me stesso. Posso sbagliarmi, ma ciò nonostante credo mi darai ragione se ho un senso di terrore per qualsiasi esagerazione religiosa. Il buon signor Peyron ti racconterà un sacco di cose, ti parlerà di probabilità e di possibilità, di atti involontari. Bene, ma se entra nei particolari non ci credo. E allora vedremo in che particolari entrerà, se ci entrerà. Il trattamento dei malati in questo ricovero è molto facile, e può essere seguito anche in viaggio, perché non si fa loro assolutamente niente, li si lascia vegetare nell’ozio e li si nutre con cibo scadente e un po’ avariato. Ora ti dirò che fin dal primo giorno ho rifiutato di mangiare quel cibo e che fino alla mia crisi ho mangiato solo pane e un po’ di minestra, e che fin che resterò qui non prenderò altro. E’ vero che il signor Peyron dopo questa crisi mi ha dato vino e carne, e che nei primi giorni l’ho accettato volentieri, ma non vorrei derogare a lungo dalla regola del ricovero, ed è giusto valutare una casa di salute secondo il suo regime normale. Devo anche dirti che il signor Peyron non mi dà molte speranze per l’avvenire, la qual cosa trovo giusta, mi fa pensare che tutto è dubbio e che niente può essere assicurato anticipatamente. Io stesso sono sicuro che ritorneranno, ma il lavoro mi occupa talmente che, con il mio fisico, credo che potrò continuare a lungo cosi. L’ozio nel quale vegetano quei poveri infelici è una calamità e diventa un male generale disseminato fra le città e le campagne sotto questo sole più ardente, e dato che ho imparato questo e altro, è mio dovere resistergli. Chiudo questa lettera ringraziandoti ancora della tua, pregandoti di scrivermi di nuovo presto e stringendoti forte la mano col pensiero.

Un calcio alla disabilità

Lo sport è un’attività ai confini della riabilitazione. Come si pone un allenatore nei confronti di atleti con deficit e normodotati? Intervistiamo Fabiano Fontana, allenatore della squadra di calcio in carrozzina della società sportiva SP.4.R. di BolognaD. Parlami della tua carriera sportiva.
R. Ho iniziato con il football americano. Sono diventato campione italiano nell’87 con la squadra Bonfiglioli Warriors di Bologna. Poi mi sono dedicato allo Squash.

D. Mi pare di capire che tu preferisci i cosiddetti sport minori…
R. In Italia praticamente esiste solo il calcio, ed è una cosa che non sopporto.

D, Come ti sei avvicinato al calcio in carrozzina?
R. Avevo un’amica che frequentava l’ambiente ed ero alla ricerca di nuovi stimoli. Ho visto subito che questa disciplina poteva essere una base per le mie aspirazioni. L’aspetto pionieristico mi affascina molto.

D. Cosa ti piace di questo sport?
R. Riesco a fare delle cose agonisticamente parlando con persone che al di fuori dello sport sono dei disabili. In questo sport ci adattiamo tutti e due, SP e QR, spingitori normodotati e quattroruote disabili, non esistono differenze.

D. Come ti poni nei confronti dei giocatori?
R. Come allenatore pretendo da tutti e due lo stesso impegno, spirito agonistico, lo stesso sacrificio. Lo sforzo comune è quello di far vincere la squadra. Per me esiste la squadra, che ha delle esigenze – ripeto -non esiste il disabile o il normodotato. Come il carburatore della moto da cross: alla fine non è importante cosa fa e che differenza c’è con lo spinterogeno. La cosa importante è che la moto vada avanti, mi renda bene. In effetti sono abbastanza stronzo con tutti (ride)…devo esserlo e qualche volta mi costa. La cosa che ho sempre evitato di fare è l’approccio pietistico con il disabile della serie “tu hai dei problemi”. Chi vince è la squadra.

D. C’è un episodio della vita agonistica della squadra dell’SP.4.R. che mi sembra significativo. Il nostro portiere aveva un difetto, quando prendeva gol piangeva e si disperava. Lo faceva in allenamento ma cosa ancor più grave lo faceva anche in partite serie, importanti. Tu, ricordo, l’hai portato negli spogliatoi e gli hai fatto un cazziatone tale che ha smesso di piangere. Anzi adesso se prende gol quasi non ci rimane più tanto male …
R. Sì, mi ricordo. Lui si stava comportando al di sotto delle sue possibilità. Non è che l’allenatore sia una fredda macchina da guerra, deve sapere cosa può fare un suo giocatore, che cosa pretendere da un suo giocatore. Quel portiere, che tra l’altro è uno dei migliori in Italia, dopo la cazziata è sempre venuto in ritiro con me, lo ho abituato ad un determinato atteggiamento.

D. Quali sono le strategie di gioco principali nel calcio in carrozzina?
R. La cosa più importante è il grande affiatamento tra SP e QR, ci deve essere intesa tra i due. Ognuno deve sacrificarsi. Voglio compattezza, un organico che ha voglia di giocare.

D. Quali sono le cose più importanti sulle quali un SP deve allenarsi?
R. Non deve assolutamente pensare di avere un attrezzo davanti, i due giocatori devono volere la stessa cosa. Non deve sentirsi il fenomeno, il protagonista. Mi fa arrabbiare quando un SP non rimane nei ranghi: perché non è funzionale al gioco, è una specie di pietismo alla rovescia, si sostituisce al QR. Bisogna evitare che pensi al “tanto loro (i disabili) devono divertirsi”. Devi giocare perché hai voglia di giocare e quindi salvare il culo a te e al tuo compagno, perché ne ho viste tante di gambe di spingitori “buoni” falciate dalle carrozzina in corsa di chi gioca veramente, di chi fa sport a livello agonistico.

D. E un QR? Su cosa deve allenarsi?
R. Nel QR c’è una buona parte di egoismo o egocentrismo. Deve lavorare sul possesso di palla ma anche sul passaggio, deve fare un lavoro duro per la squadra. Anche per lui il rischio è di sentirsi un fenomeno, di individualizzare la sua azione di gioco…la squadra deve essere una cosa sola. Deve essere un orologio perfetto e questo accade solo se le coppie di giocatori funzionano bene fra di loro, se SP e QR sono affiatati.

D Come vivi i momenti di confronto con altre squadre?
R. Bene, ovviamente. E’ fondamentale capire i propri limiti e questo lo ottieni se ti confronti con gli altri.

D. C’è un annoso problema, ancora in parte irrisolto nel calcio in carrozzina, ovvero il problema della classificazione degli atleti disabili in base alle tipologie di deficit.
R. Sì, ultimamente si è proposta una classificazione in base alle funzionalità e viene dato un punteggio sulla base di alcuni parametri. È ovviamente assurdo far giocare amputati contro spastici, gente a cui manca una gamba ma con quella buona da seduto tira più forte di me e di te, contro spastici che in alcuni casi hanno una ridottissima mobilità degli arti inferiori. E’ un po’ il discorso dei pesi piuma e i pesi massimi nella boxe…purtroppo adesso la situazione è questa perché ci sono poche squadre e ci adattiamo a queste disparità. Per fare un salto di qualità bisogna diffondere questo sport e creare dei tornei parificati.

D. Quali sono i principali esercizi per i giocatori?
R. Per il QR certamente il controllo e il passaggio della palla, la sensibilità sulla palla. Abituarsi a reagire nelle più svariate situazioni di gioco, dalla difesa all’attacco. Per l’SP invece la corsa con la carrozzina, la frenata, la dimestichezza con situazioni di pericolo, il gestire l’attrezzo carrozzina. C’è un esercizio particolare in cui l’SP monta sulla carrozzina e viene spinto come se fosse un QR, è fondamentale per abituarsi ai punti di vista sul gioco, per capire molte cose tecniche.

D. E per tutti e due?
R. Conoscere gli schemi.

D. Vuoi aggiungere qualcosa a questa intervista?
R. I love this game!