Che cosa significa la parola "lavoro" per un artista? E tanto diversa la sua creatività da quella che noi sperimentiamo ogni giorno? Dalle sue stesse parole emerge una immagine di Van Gogh forse meno scontata e stereotipata, più concretamente immersa nella realtà di tutti i giorni.
La lettera che pubblichiamo, scritta da Van Gogh al fratello Theo il 10 settembre 1889, è una delle più belle, sicuramente una delle più articolate e lunghe del fitto carteggio che lartista ha intrattenuto con il fratello durante tutta la sua vita. Theo Van Gogh è stato per Vincent una presenza costante, il primo a credere nelle sue capacità ma anche sempre pronto a sostenerlo concretamente nei momenti di bisogno. Questa lettera è stata scritta dalla casa di cura di Sant-Paul-de-Manson, vicino a Saint-Rémy nella Francia del sud, dove volontariamente il pittore si era fatto ricoverare l8 maggio 1889. Il suo equilibrio nervoso era già fortemente minato. Il 23 dicembre dellanno prima aveva tentato di colpire con un rasoio Gauguin, che dal 22 ottobre dopo molte insistenze aveva accettato di essere suo ospite ad Arles, e in seguito quella stessa notte si era tagliato il lobo dellorecchio sinistro.
Nellultima lettera indirizzata al fratello, trovata incompiuta nella sua tasca subito dopo essersi sparato nel pomeriggio del 27 luglio 1990 (morirà due giorni dopo) il pittore scriveva: "Ebbene, nel mio lavoro ci rischio la vita e la mia ragione vi si è consumata per metà (…)". Van Gogh ha dimostrato una dedizione totale al proprio lavoro di artista, un lavoro tenace, in cui la volontà viene messa a dura prova. In unaltra lettera, dallAja nellottobre 1882, scrive: "Che cosa è il disegno? Come lo si impara? E lavorare attraverso una muraglia invisibile in ferro che sembra sorgere tra quanto si sente e quanto uno sa fare. Come attraversare quel muro – visto che sbatterci contro è inutile? Bisogna minare subdolamente il muro, scavandovi sotto lentamente e pazientemente, a parer mio. E, vedi un po, come si può continuare a lavorare con assiduità senza che la stessa presenza di quel muro ci disturbi o distragga – a meno di non riflettere e di non regolare di conseguenza la propria vita, secondo i propri principi? E lo stesso si verifica in altre cose, oltre che nell’arte. Le cose grandi non sono incidentali, devono essere opera della volontà. Se siano i principi di un uomo a originare dalle azioni o le azioni dai principi, è un problema che mi pare insolubile e altrettanto degno di venire risolto quanto quello dell’uomo e della gallina. Ma ritengo sia estremamente positivo e di grande valore che si debba tentare di sviluppare le proprie capacità di riflessione e di volontà."
Non si sottolinea mai abbastanza il rapporto profondo che cè tra creatività e lavoro. Quando si pensa a Van Gogh come allartista un po pazzo che di getto crea dei capolavori, si fa un torto enorme proprio al lavoro duro cui si è sottoposto durante tutta la sua vita, un lavoro di ricerca, risultato di forza di volontà ma anche senso del dovere, dedizione e amore verso la realtà che lo ispirava. "Vedi, luomo non ha amico più fedele del suo dovere e benché a volte possa essere un rude e severo docente, finché si lavora a servizio del dovere non si diventa facilmente dei falliti." (lAja, giugno 1883).
Ma qualè il dovere del pittore?
Riportiamo linizio di una lettera scritta a Drenthe nel novembre 1883 che oltre ad offrirci una suggestiva visione della realtà attraverso gli occhi stessi del pittore ci fa capire quale fosse per Van Gogh la funzione del pittore:
"Caro fratello, devo raccontarti di una mia gita a Zweeloo, il villaggio dove abitò per lungo tempo Liebermann" e dove eseguì gli studi del suo quadro per l’ultimo Salon, quello con le lavandaie. Anche Termeulen e Jules Bakhuvzen vi soggiornarono a lungo. Raffigurati un viaggio attraverso la brughiera alle tre del mattino, su un carretto scoperto (andai col mio padrone di casa, che doveva andare al mercato ad Assen) lungo una strada che qua chiamano diek, arginata di fango anziché di sabbia. Era ancor più strano che andare con la chiatta. Al primo bagliore dell’alba, quando i galli presero a cantare dappertutto, accanto alle capanne sparse per tutta la brughiera e a quelle poche accanto alle quali passammo – circondate da pioppi esili di cui si sentivano cadere al suolo le foglie ingiallite – la tozza vecchia torre di un cimitero, il muro di cinta di terra, la siepe di betulle – Il paesaggio piatto della brughiera e dei campi di grano – tutto, tutto allora divenne identico ai più bei Corot. Una tranquillità, un mistero, una pace come solo lui ha dipinto. Quando poi arrivammo a Zweeloo alle sei del mattino era ancora buio; i veri Corot li avevo visti al mattino, ancora più presto. L’ingresso al villaggio era magnifico: enormi tetti di muschio, stalle, pastori e pollai.
Le case, dalla facciata larga, si trovano qua tra querce di un magnifico color bronzo. E muschio ha tonalità di un verde dorato; nel terreno, tonalità rossastre, bluastre e giallastre tutte tendenti al viola scuro, al grigio; il verde dei campi di grano ha toni di una purezza inesprimibile; sui tronchi bagnati, toni di nero, che contrastavano con la pioggia dorata di foglie autunnali che vorticavano e si riunivano poi in ammassi – foglie pendenti in gruppi sparsi, come se appena le avesse portate là il vento, col cielo che tra l’una e l’altra mandava bagliori – dai pioppi, dalle betulle, dalle piante di mele e di limoncino. Il cielo era terso, luminoso, non bianco ma di un color lilla difficile a cogliersi, bianco a bagliori rossi, blu e gialli in cui tutto si rifletteva; lo si sentiva dappertutto sopra ogni cosa, vaporoso, si confondeva con la nebbiolina leggera sottostante – fondeva tutto in una gamma di grigi delicati. Tuttavia non ho trovato un solo pittore a Zweeloo e la gente mi disse che non ne veniva neppure uno d’inverno.
Io, per contro, spero di esserci proprio questinverno.
Dato che non cerano pittori, decisi di non aspettare il ritorno del mio padrone di casa, ma di tornare a piedi e di fare qualche disegno lungo il cammino. Così iniziai a fare uno schizzo di un frutteto, quello dal quale Liebermann aveva tratto il suo quadro grande. Poi me ne tornai a piedi per la strada che avevamo percorso al mattino. (…) Quando si cammina per ore ed ore per questa campagna, davvero si sente che non esiste altro che quella distesa infinita di terra – la verde muffa del grano o dell’erica e quel cielo infinito. Cavalli e uomini sembrano formiche. Non ci si accorge di nulla, per quanto grande possa essere, si sa solo che c’è la terra e il cielo. Tuttavia, in veste di piccola particella che guarda altre piccole particelle – per trascurare l’infinito – ogni particella risulta essere un Millet. (…)"
"Dato che non cerano pittori (…)": Van Gogh interpretava il proprio lavoro come un servizio, nei termini di come ne abbiamo parlato in HP63, cioè un prendersi cura della creatura. Forse si potrà obbiettare che un pittore geniale come lui ha un destino diverso dal nostro, da quello di noi comuni mortali: forse il suo può apparire persino come un non-lavoro, così poco assomiglia a quello che facciamo per vivere, per arrivare a fine mese, così poco simile alle nostre frustrazioni giornaliere, alla difficoltà di lavorare in gruppo, alla difficoltà di rendere stimolante magari il solito tran-tran quotidiano. Domanda da un milione: siamo noi a avere una accezione sbagliata del lavoro o è Van Gogh ad averla? La domanda da un miliardo che segue è: per essere dei geni della creatività bisogna essere pazzi come Van Gogh? Leggendo la lettera, che è anche un atto di accusa contro labbandono in cui sono lasciati i malati di mente ospiti della casa di cura, ci si convince che chi lha scritta non è stato un grande perché era pazzo e che nella sua creatività cè più lavoro e dovere, insomma cè più qualcosa di simile alla nostra vita di tutti i giorni di quanto possiamo credere. Il lavoro può a volte aiutare a superare le varie difficoltà-handicap che la vita ci pone davanti se sappiamo come Van Gogh ammirare la bellezza di ciò che ci circonda e se abbiamo la forza e volontà di esprimerla con la nostra creatività. In fondo basterebbe, anche senza scomodare il super-enalotto, rispondere alle due precedenti domande per guadagnare il premio in denaro (1001 milioni) per smettere di lavorare, nel senso che si intende comunemente. Ma che cosa avrebbe fatto Van Gogh?
"Mio caro Theo"
Saint-Rémy, 10 settembre 1889
Mio caro Theo,
trovo la tua cara lettera, quello che dici di Rousseau, di artisti come Bodmer, che in ogni modo erano uomini e che di simili se ne desidererebbe pieno il mondo – è proprio ciò che penso anch’io. E trovo perfetto che J. H. Weissenbruch conosca e faccia le strade fangose lungo i fiumi, i salici intristiti, gli scorci e le prospettive sapienti e strane dei canali così come Daumier conosceva e faceva gli avvocati. Tersteeg ha fatto bene ad acquistare del lavoro suo; gente così non si vende, e secondo me dipende dal fatto che ci sono troppi venditori che cercano di vendere per ingannare il pubblico e prenderlo in giro. Sai tu che ancora oggi, quando leggo per caso la storia di qualche industriale energico e soprattutto di un editore, mi tornano la stessa indignazione, le stesse collere di quando ero presso i Goupil & C.?
La vita passa così, il tempo non ritorna. Ma io mi accanisco nel mio lavoro, e anche per questo so che anche le occasioni di lavorare non ritornano.
Soprattutto nel mio caso, nel quale una crisi più violenta può distruggere per sempre la mia capacità di dipingere.
Durante la crisi mi sento vile per l’angoscia e la sofferenza – più vile di quanto sarebbe sensato sentirsi, ed è forse questa viltà morale che, mentre prima non mi faceva provare nessun desiderio di guarire, ora mi fa mangiare per due, lavorare tanto, e risparmiarmi nei miei contatti con gli altri malati per paura di ricadere – insomma in questo momento cerco di guarire come uno che avendo voluto suicidarsi, e avendo trovato l’acqua troppo fredda, cerca di riguadagnare la riva.
Mio caro fratello, sai bene che sono venuto nel sud e che mi sono buttato nel lavoro per mille ragioni. Per vedere un’altra luce, credendo che, guardando la natura sotto un cielo più chiaro, si potesse dare un’idea più esatta del modo di sentire e di disegnare dei giapponesi. Infine per vedere questo sole più forte, perché si sente che senza conoscerlo non si potrebbero capire dal punto di vista dell’esecuzione e della tecnica i quadri di Delacroix e perché si sente che i colori del prisma sono velati dalla bruma del nord.
E tutto ciò è in parte esatto. Quando poi si aggiunga una simpatia istintiva verso questo sud che Daudet ha descritto in Tartarin, e che qua e là io stesso ho trovato delle cose e degli amici da amare, capirai che, pur trovando orribile la mia malattia, sento che quand’anche mi fossi attaccato troppo qui – attaccamento che può far sì che mi riprenda in seguito la voglia di lavorare qui – pure può avvenire che relativamente presto io ritorni nel nord.
Si, perché non ti nascondo che, sebbene in questo momento mi nutra con avidità, mi viene un desiderio tremendo di rivedere gli amici e la campagna del nord.
Il lavoro va benissimo, trovo delle cose che ho cercato invano per anni; e sentendo ciò mi viene sempre in mente quella frase di Delacroix che tu conosci, che aveva trovato la pittura quando non aveva più né denti né fiato.
Ed io, con la mia malattia mentale, penso a tanti altri artisti che soffrono moralmente e mi dico che ciò non costituisce un impedimento per dipingere come se niente fosse.
Dato che mi accorgo che qui le crisi tendono a prendere uno sfondo decisamente religioso, arrivo a credere che sia persino necessario ritornare nel nord. Non parlare troppo di questo con il dottore quando lo vedrai – ma non so se ciò dipenda dal fatto di aver vissuto per tanti mesi al ricovero di Arles e qui, in questi vecchi chiostri. Insomma, bisogna che non viva in un ambiente come questo; in tal caso è meglio persino la strada. Non sono indifferente, e nella sofferenza talvolta i pensieri mi consolano. E questa volta durante la malattia mi è successa una disgrazia – quella litografia di Delacroix, La Pietà, con altre tavole era caduta nellolio e nella pittura e si era rovinata.
Ne ero rattristato – e allora nel frattempo mi sono preoccupato di dipingerla e tu la vedrai un giorno, su una tela da 5 o 6 e ne ho fatto una copia che credo sia sentita.
Del resto, avendo visto poco tempo fa il Daniel e le Odalische e il ritratto di Brias e la Mulatta a Montpellier, sono ancora sotto limpressione che mi ha provocato.
Ecco ciò che mi edifica, come leggere un bel libro quale quello di Beecher Stowe o di Dickens, mentre quello che mi da fastidio è di vedere in ogni momento quelle brave donne che credono alla Vergine di Lourdes e che inventano delle cose del genere, oppure di sapersi prigioniero di un’amministrazione come questa, che favorisce molto volentieri queste aberrazioni religiose, mentre sarebbe necessario guarirne. E allora mi ripeto ancora una volta che sarebbe forse meglio andare, se non allergastolo, almeno sotto le armi. E mi rimprovero la mia viltà; avrei dovuto difendere meglio il mio studio, avrei dovuto battermi con le guardie e con i miei vicini. Altri al mio posto si sarebbero serviti di un revolver, e se come artista avessi anche ucciso degli imbecilli come quelli, sarei stato assolto. Ecco, sarebbe stato meglio se lo avessi fatto, invece sono stato vigliacco e ubriaco.
Anche ammalato, ma non sono stato coraggioso. E ora, davanti alla sofferenza che mi danno queste crisi, mi sento pieno di timore, e non so se il mio zelo dipenda da qualcosa di diverso da quello che dico, e cioè come colui che, volendosi suicidare e trovando l’acqua troppo fredda, lotta per riguadagnare la riva.
Ma stammi a sentire, stare a pensione come ho visto fare tempo fa – fortunatamente molto tempo fa – Braat, questo no, proprio no.
Altro sarebbe se papà Pissarro oppure Vignon, ad esempio, volessero prendermi con loro. – Va là, io sono un pittore, è una cosa che si può combinare ed è meglio che i soldi vadano nelle tasche dei pittori, piuttosto che in quelle delle eccellenti suore. Ieri ho domandato a bruciapelo al signor Peyron: dato che lei va a Parigi, che direbbe se le proponessi di prendermi con lei? Ha risposto in modo evasivo – che era una cosa troppo precipitosa e che bisognava scriverti prima. Ma lui è molto buono e molto indulgente con me, e pur non essendo il padrone assoluto qui – tutt’altro – gli devo molta libertà. Perché non bisogna solo far dei quadri, ma bisogna anche vedere le persone e, di tanto in tanto, frequentando degli altri, rifarsi il carattere e fare provvista di idee. Ormai abbandono la speranza che non ritorni più – al contrario mi dico che di tanto in tanto avrò una crisi. Ma allora in quei momenti si potrebbe entrare in una casa di salute o persino nella prigione comunale, dove di solito c’è una cella. Comunque non farti cattivo sangue in nessun caso – il lavoro va bene e non puoi immaginare quanto mi dia gioia poter dire: farò ancora questo e quest’altro, i campi di grano, ecc.
Ho fatto il ritratto dellinfermiere e ne ho fatto una copia anche per te. Esso fa un curioso contrasto con il ritratto che ho fatto di me, dove lo sguardo è vago e velato, mentre lui ha qualcosa di militare e degli occhi neri, piccoli e vivi. Glielho regalato, e ne farò uno anche a sua moglie, se vorrà posare. E una donna appassita, infelice rassegnata e non un gran che, e cosi insignificante che mi venuta voglia di farci insieme quel filo d’erba pieno di polvere. Ho parlato qualche volta con lei quando dipingevo gli ulivi dietro la loro piccola capanna, e allora mi diceva che non credeva che io fossi malato – e anche tu lo diresti ora, se mi vedessi lavorare, con i pensieri limpidi, la mano sicura con cui ho disegnato senza prendere una sola misura quella Pietà di Delacroix, nella quale ci sono ben quattro mani e braccia in primo piano, gesti e posizioni di corpo non proprio comode e semplici.
Te ne prego, mandami presto la tela se ciò ti è possibile, e inoltre credo di aver bisogno di altri dieci tubi di bianco di zinco.
E io so che la guarigione viene – se si è coraggiosi – dal di dentro, con la rassegnazione alla sofferenza e alla morte, con l’abbandono della propria volontà e dellamor proprio. Ma ciò non ha importanza per me, mi piace dipingere, mi piace vedere gente e cose, e mi piace tutto ciò che costituisce la nostra vita – diciamo pure anche superficiale. Si, la vita vera sarebbe unaltra cosa, ma io non credo di appartenere a quella categoria di anime che sono pronte a vivere e anche a soffrire in qualsiasi momento.
Che cosa strana è il tocco, il colpo di pennello.
All’aria aperta, esposti al vento, al sole, alla curiosità della gente, si lavora come si può, si riempie il quadro alla disperata. Ed è proprio facendo così che si coglie il vero e l’essenziale – questa è la cosa più difficile. Ma quando dopo un certo tempo si riprende lo stesso studio e si dispongono le pennellate nel senso degli oggetti è certamente più armonioso e piacevole da vedere, e ci si può aggiungere quanto si ha di serenità e di sorriso.
Ah, non potrò mai rendere le mie impressioni di alcune figure viste qui. Certo, c’è la strada, dove ci sono tante cose nuove, la strada del sud, ma gli uomini del nord fanno fatica a capirla.
E io prevedo già che il giorno in cui avrò un certo successo, comincerò a rimpiangere la mia solitudine e il mio accoramento di qui allorché guardo attraverso le sbarre di ferro della mia cella il falciatore nei campi ai miei piedi. La disgrazia serve a qualcosa.
Per riuscire, per assicurarsi un successo che duri, bisogna avere un temperamento diverso dal mio, io non farò mai ciò che avrei potuto e dovuto volere e perseguire.
Ma a me non è consentito vivere, soffrendo così spesso di vertigini, che in una posizione di quarto, quinto rango. E anche quando sento il valore, l’originalità e la superiorità di Delacroix, di Millet per esempio, allora mi faccio forte e dico: si, sono qualcosa, anch’io posso qualcosa. Ma ho bisogno di trovare un appoggio in quegli artisti, e poi produrre quel poco che posso nella stessa direzione. Papà Pissarro ha avuto un grave colpo con quelle due disgrazie contemporanee.
Appena ho letto mi è venuta l’idea di chiedergli se non ci fosse la possibilità di andare a stare con lui.
Se tu gli pagassi la stessa retta che paghi qui, vi troverebbe il suo vantaggio, perché non ha bisogno di gran cosa – altro che di lavorare. Fagli perciò la proposta chiara, e se lui non volesse andrò da Vignon. Ho un po’ paura di Pont-Aven, c’è tante gente, ma quello che dici di Gauguin mi interessa molto. E io mi ripeto sempre che Gauguin ed io forse torneremo a lavorare insieme. So che Gauguin può fare cose molto superiori a quelle che fa, ma per mettere a suo agio quello li! Spero sempre di fargli il ritratto.
Hai visto quel ritratto che mi aveva fatto, mentre dipingevo i girasoli? La mia faccia da allora si è molto rischiarata, ma ero proprio io, estremamente stanco e carico di elettricità, come ero allora. Ma intanto, per vedere il paese bisogna vivere con il popolino, e in case piccole, e nei caffè, ecc.
E anche ciò che dicevo a Boch, che si lagnava di non veder niente che lo tentasse o gli facesse provare qualcosa. Passeggio con lui per due giorni e gli faccio vedere almeno trenta quadri cosi diversi dal nord come lo sarebbe il Marocco. Sarei curioso di sapere cosa sta facendo in questo momento.
E poi vuoi sapere perché i quadri di Delacroix – i quadri religiosi e storici, La barca di Cristo, La Pietà, Le Crociate, hanno quellatmosfera? Perché Eugène Delacroíx quando dipinge un Getsemani è andato prima a vedere sul posto ciò che era un oliveto, e lo stesso vale per il mare frustato dal mistral, e perché si è detto: la gente di cui ci parla la storia, dogi di Venezia, crociati, apostoli, sante donne, erano dello stesso tipo e vivevano in modo analogo a quello dei loro attuali discendenti.
E perciò te lo devo dire – e tu lo puoi vedere nella Berceuse, per quanto quel tentativo sia mancato e debole – se avessi avuto la forza di continuare, avrei fatto dei ritratti di santi e di sante dal vero, e che sarebbero sembrati di un altro secolo, pur essendo gente di oggi, e avrebbero avuto unintima parentela con i cristiani più primitivi.
Le emozioni che questo ci provoca sono però troppo forti, io rinuncio, ma più tardi, più tardi non è detto che non ritorni alla carica.
Che grand’uomo quel Fromentin – lui resterà sempre la guida per quelli che vorranno vedere l’Oriente. Lui ha stabilito per primo la congiunzione tra Rembrandt e il sud, fra Potter e quello che vedeva lui. Hai mille e mille ragioni – non bisogna pensare a queste cose – bisogna fare – anche se si trattasse di studi di cavoli e di insalata per calmarsi, e dopo essersi calmati, solo allora – fare ciò di cui siamo capaci. Quando li rivedrò farò delle copie di quello studio della diligenza di Tarascon, della vigna, della mietitura, e soprattutto del caffè rosso, quel Caffè di notte che, come colore è ciò che vi è di più caratteristico. Ma la figura bianca del centro deve essere rifatta proprio come colore, costruita meglio. Ma esso – oso dirlo è proprio un sud autentico, una combinazione ben calcolata di verdi e di rossi. Le mie forze si sono esaurite troppo presto, ma vedo fin d’ora la possibilità per altri di fare un’infinità di belle cose. E rimane sempre vera e valida l’idea che per facilitare il viaggio di altri, sarebbe stato opportuno fondare uno studio da qualche parte in questa zona, Fare tutto un viaggio dal nord alla Spagna, per esempio, non va bene, non vi si può vedere ciò che si deve vedere – bisogna farsi gli occhi prima e gradualmente alla luce diversa. lo non ho troppo bisogno di vedere i Tiziano e i Velázquez nel musei, ho visto alcuni tipi vivi, che fanno sì che sappia meglio ciò che è un quadro del sud di quanto lo sapessi prima del mio viaggio.
Dio mio, Dio mio, la brava gente fra gli stessi artisti che dice che Delacroix non è l’Oriente vero! Di un po’, ma allora l’Oriente vero è quello che fanno i parigini tipo Géróme?
Perché voi sapete dipingere un pezzo di muro assolato, anche dal vero, e bene ed esatto secondo il vostro modo di vedere del nord. Ciò prova forse che voi abbiate visto la gente dell’Oriente? Ora è questo che cercò Delacroix, il che non gli ha assolutamente impedito di dipingere dei muri nelle Nozze ebraiche e nelle Odalische. Non è vero ciò.? E anche se Degas dice che è un pagare troppo caro il bere nei tabarin dipingendo i quadri, non lo nego, ma vorrebbe forse che io vada nei conventi o nelle chiese? E proprio lì che ho paura. Ecco perché faccio uno sforzo di evasione con la presente lettera; una forte stretta di mano a te e a Jo.
Bisogna ancora che ti faccia gli auguri in occasione del compleanno della mamma, avevo scritto loro ieri, ma la lettera non è ancora partita, perché mi è mancata la testa per completarla.
E strano che già prima mi sia venuta due o tre volte l’idea di andare da Pissarro, e quest’ultima volta, dopo che mi hai parlato delle sue ultime disgrazie, non esito a dirti di chiederglielo.
Si, bisogna farla finita con quaggiù, non posso fare due cose contemporaneamente, lavorare e avere un sacco di guai per vivere in mezzo a questi strani malati che ci sono qui. E una cosa che rovina la salute.
Mi dovrei sforzare inutilmente di scendere con loro. Ed ecco, perciò sono già due mesi che non sono stato all’aria aperta.
Stando qui, a lungo andare perderei la facoltà di lavorare, ma a questo punto comincio a dire: alto là, e allora li mando tutti – se tu sei d’accordo – a farsi benedire.
E ancora pagare per tutto ciò, no: nella disgrazia, un artista o un altro sarà pur disposto a tenermi con sé. E una fortuna che tu mi possa scrivere che stai bene e anche Jo e che sua sorella è li con voi.
Vorrei che quando nascesse il vostro figliolo fossi già di ritorno non con voi, certamente no, è impossibile, ma nei dintorni di Parigi insieme a un altro pittore.
Per citarne un terzo potrei andare dai Jouve, che hanno tanti bambini e una casa grande.
Come hai capito ho cercato di fare il paragone fra la seconda crisi e la prima e ti dico solo questo, che mi sembra sia stata imputabile a non so quale influenza esterna, piuttosto che a una causa che albergava in me stesso. Posso sbagliarmi, ma ciò nonostante credo mi darai ragione se ho un senso di terrore per qualsiasi esagerazione religiosa. Il buon signor Peyron ti racconterà un sacco di cose, ti parlerà di probabilità e di possibilità, di atti involontari. Bene, ma se entra nei particolari non ci credo. E allora vedremo in che particolari entrerà, se ci entrerà. Il trattamento dei malati in questo ricovero è molto facile, e può essere seguito anche in viaggio, perché non si fa loro assolutamente niente, li si lascia vegetare nell’ozio e li si nutre con cibo scadente e un po’ avariato. Ora ti dirò che fin dal primo giorno ho rifiutato di mangiare quel cibo e che fino alla mia crisi ho mangiato solo pane e un po’ di minestra, e che fin che resterò qui non prenderò altro. E vero che il signor Peyron dopo questa crisi mi ha dato vino e carne, e che nei primi giorni l’ho accettato volentieri, ma non vorrei derogare a lungo dalla regola del ricovero, ed è giusto valutare una casa di salute secondo il suo regime normale. Devo anche dirti che il signor Peyron non mi dà molte speranze per lavvenire, la qual cosa trovo giusta, mi fa pensare che tutto è dubbio e che niente può essere assicurato anticipatamente. Io stesso sono sicuro che ritorneranno, ma il lavoro mi occupa talmente che, con il mio fisico, credo che potrò continuare a lungo cosi. L’ozio nel quale vegetano quei poveri infelici è una calamità e diventa un male generale disseminato fra le città e le campagne sotto questo sole più ardente, e dato che ho imparato questo e altro, è mio dovere resistergli. Chiudo questa lettera ringraziandoti ancora della tua, pregandoti di scrivermi di nuovo presto e stringendoti forte la mano col pensiero.