Il Terzo settore chiede di contare di più nella progettazione delle politiche sociali. E promette due cose: un ampliamento della partecipazione democratica e la creazione di nuovi posti di lavoro. Ma quale sviluppo intende promuovere? Quale ruolo devono avere cittadini nella promozione del benessere della comunità?
Terzo settore, terzo sistema, economia civile, economia solidale. La confusione comincia già dal nome. Ed aumenta se proviamo ad elencare i soggetti che ne farebbero parte: la Fondazione Agnelli e le cooperative sociali, le associazioni di volontariato e l’università Bocconi, le Ipab (Istituzioni pubbliche di assistenza e beneficenza, che gestiscono molte case di cura) e le fondazioni bancarie. Un ambito segnato da una grandissima eterogeneità, per il quale manca una definizione soddisfacente.
Il vasto mondo che non è riconducibile né allo stato né al mercato -terzietà residuale, per alcuni- è oggi apprezzato sia da Giovanni Agnelli, icona vivente del capitalismo nostrano, sia da Marco Revelli, punto di riferimento di una sinistra che non si vuole "integrare". E in Francia il Terzo settore, insieme alla riduzione delI’orario di lavoro e al reddito minimo, è uno dei tre punti dell’Appello dei 35, firmato dal gruppo antiutilitarista di Alan Caillé e Serge Latouche e da esponenti del cattolicesimo sociale di Esprit, dell’anima tecnocratica ed elitaria di Transversales, del radicalismo post-rivoluzionario di Futur antérieur.

Un processo di aggregazione crescente

Dal canto suo, quello che ora è definito "Terzo settore" è in piena effervescenza.
Si assiste, pur tra diffidenze e rivalità non sempre celate, ad un processo di aggregazione crescente, ad un proliferare di coordinamenti, consulte, forum. Il 16 dicembre del 1994 si costituisce, per iniziativa di 20 organizzazioni nazionali, l’associazione "Verso la Banca etica", che il giugno del 1995 si trasforma in cooperativa. L’obbiettivo è ambizioso: costituire una banca che, secondo principi di trasparenza e partecipazione, finanzi le attività del settore. Il capitale da raccogliere "per partire" è di 5 miliardi. La scadenza prevista è il giugno ’96. Ma non si va oltre i due miliardi e la Banca d’Italia esige ora che si dia vita a una banca popolare con capitale minimo 12,5 miliardi. Il 25 marzo 1995 nasce "Libera", un’organizzazione a cui aderiscono 600 gruppi nazionali e locali, dal Gruppo Abele alla parrocchia di Reggio Calabria.
Il fine, recita lo statuto, è di "promuovere una cultura della legalità, della solidarietà e dell’ambiente basata sui principi della Costituzione" e "l’elaborazione di strategie di lotta non violenta contro il dominio mafioso del territorio": Subito un successo: l’approvazione della legge per la confisca dei beni ai mafiosi per destinarli a fini sociali, due giorni prima dell’ultimo scioglimento delle Camere. Il 28 novembre 1995 si tiene a Roma la prima assemblea nazionale del "Forum permanente del Terzo settore", un organismo che riunisce le più importanti organizzazioni di quest’ambito: Arci ed Acli, Legambiente e Gruppo Abele, Cnca e Agesci, Focsiv e Cipsi, Lila e Movi, per dirne alcune. Primi atti del Forum: la costituzione di un Tavolo di consultazione permanente con i gruppi parlamentari e l’istituzione di un tavolo quadrangolare con un governo, sindacati e Confindustria.
Per qualcuno si tratta di una lobby che gioca per la difesa dei propri interessi, e ricorda la spartizione indecorosa avvenuta per l’elezione dei comitati di gestione dei "centri di servizio per il volontariato", strutture previste dalla legge sul volontariato del 1991.
Per i promotori, invece è nato un soggetto sociale e politico unitario che intende battersi per "garantire un ruolo di pari dignità, nella distinzione di ruoli e di responsabilità, tra le organizzazioni dei cittadini e i poteri pubblici, al fine di promuovere una costruttiva cooperazione per assicurare l’effettiva tutela e l’ampliamento dei diritti di cittadinanza", riconoscendo "come nostro ruolo specifico promuovere la partecipazione attiva dei cittadini agli istituti della vita democratica".
Cosa chiede il Terzo Settore? Ce ne facciamo un’idea scorrendo l’Appello diffuso in occasione della manifestazione nazionale organizzata a Napoli, il 4 e 5 ottobre, dal Forum, da Libera e dall’Unione degli studenti: la riforma dell’obiezione di coscienza e della cooperazione allo sviluppo, poteri reali di coordinamento ed intervento per il ministero per la Solidarietà sociale, politiche sociali basate sui nuovi diritti di cittadinanza, una politica di maggior attenzione nei confronti dei giovani e delle attività formative, una nuova legge organica sull’immigrazione. Ma certo salta all’occhio la fitta serie di richieste che riguardano la promozione del settore: la deducibilità fiscale dei costi sostenuti da singoli e famiglie per una serie di servizi alla persona; una normativa di incentivazione per l’imprenditorialità sociale che comporti anche un miglior accesso al credito; l’utilizzo di parte del patrimonio pubblico immobiliare o delle aree dismesse per assicurare una sede ai soggetti del Terzo settore, e via di questo passo. E una richiesta su tutte: "Che si approvi la proposta di legge sulla defiscalizzazione delle organizzazioni non lucrative di utilità sociale (Onlus)".
La normativa sulle Onlus è il primo provvedimento legislativo con il quale si regolamenta, seppure limitatamente all’aspetto fiscale, tutto il mondo del no profit.
Una valanga di interventi e polemiche ha accompagnato e seguito il lavoro della commissione creata ad hoc dalI’ora ministro delle Finanze Fantozzi, e presieduta dall’economista Stefano Zamagni. Per godere, infatti, delle agevolazioni fiscali previste da questa normativa – approvata dal governo come disegno di legge governativo il 14 dicembre 1995 – occorre rispondere a determinati requisiti.
Chi è rimasto fuori come le Ipab – ha gridato all’ingiustizia. E molti hanno sottolineato il rischio che dietro lo schermo del no profit si possano piuttosto celare corposi interessi: molte imprese for profit avranno interesse a creare organizzazioni no profit per usufruire indirettamente di esenzioni e di deducibilità.

Il lavoro che c’è

Ma che cosa offre in cambio il Terzo settore? Il lavoro.
Sulla scia di Riflkin, infatti, si va ripetendo come l’ambito dei servizi alla persona e della salvaguardia all’ambiente sia l’unico che possa garantire in futuro un numero consistente di nuovi posti di lavoro, se opportunamente sostenuto, s’intende. Sulla qualità di questo lavoro, però, i più sorvolano. In realtà non vi è attualmente un’altra area del mercato del lavoro più deregolamentata (nessun contratto nazionale specifico avente forza di legge), sottopagata e desindacalizzata. Ed è ormai uso chiedere ai "prestatori d’opera" – che di assunzione non se ne parla – un sovrappiù di "volontariato", cioè ore di lavoro non retribuite.
A qualcuno viene "chiesto" di aprire la partita Iva, fingendosi "libero professionista". A questo bisogna aggiungere l’alto turn over del privato-sociale ("appena trovo un lavoro migliore, me ne vado") e i frequenti spostamenti, in funzione dei finanziamenti pubblici, dalle case-famiglia alle unità di strada, dai servizi ai minori a quelli per le persone con handicap. Paga l’operatore, ma paga anche "l’utente" naturalmente, perché la qualità di un servizio, e in particolare di quello alle persone, dipende anche dalla soddisfazione che ne ricava chi quel lavoro lo fa. E dalla possibilità di usufruire di formazione e supervisione del lavoro svolto (che però, sfortunatamente, hanno un costo). Questa situazione non pare preoccupare – e indigna re – gli addetti ai lavori. Non i sindacati, ché gli opera tori sociali non hanno tessera; non i dirigenti del privato-sociale, ché loro hanno da pensare a come abbassare i costi nelle micidiali gare d’appalto; non gli operatori, purtroppo, ridotti al rango di "braccianti sociali" (anche per propria responsabilità), con scarsa soggettività e inesistente capacità contrattuale.
Non stupisce, dunque, che la proposta avanzata da Ugo Ascoli, preside della facoltà di economia all’università di Ancona – "perché non inserire fra i criteri che identificano un’organizzazione non lucrativa di utilità sociale anche criteri come la retribuibilità, i compensi, i rapporti di lavoro?" – non sia una priorità nell’agenda di alcuno.

Il welfare market

Il rischio è, allora, che il Terzo settore finisca per essere, com’è negli intendimenti della Confindustria e diversi economisti, e con la complicità più o meno consapevole di molti altri soggetti, un mercato del lavoro "di serie B", per chi non è in grado di inserirsi in quello "di prima categoria".
Il Terzo settore sarebbe un ammortizzatore sociale per evitare una conflittualità sociale troppo elevata a causa dell’uscita dal mondo del lavoro e dell’esclusione di una parte consistente della popolazione. In questa prospettiva, come nota in un pregevole saggio apparso su Animazione sociale (giugno/luglio ’96) il sociologo Massimo Campedelli – il "teorico" del Gruppo Abele -. non si intende "dare pari dignità" ai lavori di manutenzione sociale. Anzi, è proprio la flessibilità nella remunerazione del fattore lavoro che in queste aziende di manutenzione dovrebbe permettere di far quadrare il difficile bilancio, visto che le risorse verranno ridotte" E’ da questo fronte che si propaganda l’idea del "welfare market", di un grande mercato dei servizi incui vige il principio della concorrenza, unica via possibile per l’efficienza. E allora ecco spuntare la proposta del "voacher": un buono spesa, rilasciato dallo stato, che si può spendere presso agenzie diverse per ottenere un certo servizio. L’operatore sociale diventa un "venditore" e l’utente un "cliente". Quale sia il risultato della concorrenza tra organizzazioni, quanto costi ad operatori ed utenti, lo si può vedere già ora. In più il voacher, rivela Campedelli, spingerebbe le organizzazioni ad offrire pacchetti integrativi di servizi, oltre quelli ottenibili con il contributo statale, pagati a parte: "L’agenzia non profit sarà spinta a vendere le proprie prestazioni prima di tutto a quelle persone che sono in grado di acquistare la parte integrativa a loro spese e solo in seconda battuta a tutti gli altri.[…] Non è impossibile che i "non paganti" possano anche essere in qualche modo non presi in carico".

per un walfare municipale

Ma c’è una altra considerazione da fare: questo modello pone gli individui, e le organizzazioni del Terzo settore, come entità isolate: ho un bisogno, quindi cerco l’organizzazione che mi offre il miglior servizio. Si tratta di una prospettiva individualistica assolutamente inadeguata rispetto ai problemi del nostro tempo. Quelli di un tessuto sociale lacerato, in cui si f sempre più fatica a prendersi cura degli altri: quasi 9 milioni di persone, tra cui un milione di bambini, vivono in Italia sotto la soglia della povertà; il tasso di disoccupazione è intorno al 12% (oltre 2.700.000 persone); 500.000 ragazzi sotto i 14 anni lavorano, 300.000 ogni anno sono oggetto di violenze, 700 so no scomparsi, dai 30 ai 50.000 sono abbandonati e vivono in istituto; 35.000 ragazzi ogni anno abbandonano la scuola dell’obbligo (il 90% vive nel mezzogiorno); un anziano su quattro vive in situazione di povertà, 2.800.000 vivono soli e oltre un milione non sono autosufficienti e sono privi di assistenza. E la crescita dei tassi di suicidio, dell’uso di psicofarmaci tra gli adolescenti…bastano i dati ISTAT a chi ha orecchie per intendere.
In questo quadro, il lavoro sociale va inteso come "produzione di socialità". E Campedelli arriva così a criticare la tradizionale concezione del Welfare come "una specie di grande macchina amministrativa che raccoglie ricchezza e la ridistribuisce in beni e servizi, per via politica, alle diverse componenti sociali", propugnando invece una nuova legittimazione: favorire l’autorganizzazione dei cittadini per la promozione del benessere della comunità. Retorica? A Venezia, a Milano, a Vicenza c’è già chi opera nella prospettiva dello "sviluppo di comunità": si aiutano gli abitanti di un territorio a prendere coscienza dei problemi della loro comunità, a co-progettare insieme gli interventi, a costituire comitati che gestiscono le azioni decise in assemblea, a creare dei coordinamenti tra i vari comitati. Una vera e propria riappropriazione del territorio. Ciò è possibile solo in una dimensione territoriale ristretta, in cui istituzioni, profit, no profit, sindacati, banche, cittadini si uniscono in un patto per lo sviluppo della comunità. Un Welfare municipale, appunto.

…e una sinistra "anarchica"

Questo significa interrogarsi non solo sullo sviluppo del Terzo settore, ma su quale sia lo sviluppo che il Terzo settore intende promuovere. E questa domanda investe tutta la sinistra. Ora che lo stato non è più in grado di reggere il peso del Welfare state, per Marco Revelli – autore de "Le due destre" (Bollati Boringhieri) – la sinistra deve mettere in discussione uno dei suoi dogmi: che lo stato è il garante istituzionale del principio di uguaglianza. "Se la sinistra sopravviverà a questa crisi – afferma Revelli -, dovrà farlo inventando soluzioni al dilemma della socialità esterne e contrapposte al terreno della statualità […] sperimentando forme di socialità capaci di recuperare l’autonomia delle origini, la forza positiva – pragmatica e operativa – del mutualismo, la ricchezza associativa che fu della società di mutuo soccorso, fondate sul principio del "fare da sé", dell’associarsi per e non solo contro, dell’elaborazione di strumenti tecnici per l’autoamministrazione". Certo, in questo momento è opportuno che lo statoconservi, ai vari livelli, le funzioni della programmazione dei servizi fondamentali della comunità, del coordinamento delle risorse, del controllo. Ma in un orizzonte che sfida la deregulation individualistica sul suo terreno, aprendo processi di socializzazione dal basso che rendono la società civile sempre più protagonista. L’autonomia delle origini" del movimento operaio, I’autonoma socialità – esterna al mondo statuale – fondata sulla solidarietà e su un fitto reticolo di patti federativi. E il Terzo settore diviene la forma di un’economia riconciliata con le esigenze dell’individuo e della società, una sfera di rapporti non retificati, non impersonali, fondati sul principio di reciprocità e non su quello dell’utilità, in cui si è produttori autonomi. Autorganizzazione, mutuo soccorso, autoamministrazione: é curioso vedere come le parole d’ordine dell’anarchismo – l’unica componente della sinistra che non ha accettato quel dogma – siano oggi ripetute non solo da intellettuali come Revelli, ma anche da misurati ministri dell’Ulivo. Un sindacalista pugliese mi diceva che negli anni ’70 il sindacato organizzava i lavoratori contrastando il caporalato; oggi le sue sedi territoriali si sono trasformate in centri di servizio per chi deve sbrigare qualche pratica burocratica. Le grandi organizzazioni di massa hanno perso il loro radicamento sociale, rifugiandosi, con la fine del conflitto di classe, nella esangue prospettiva dei diritti di cittadinanza. Ci si rivolge ad un pubblico indifferenziato tramite i mass media – accreditandosi come i paladini dei diritti sociali. Come se ci fosse qualcuno – dice Pietro Barcellona ne "La strategia dei diritti come nucleo della teoria democratica" (contenuto in Democrazia: quale via di scampo?, ed. La Meridiana) – che, ad esempio, non sia a favore dell’esistenza di un "diritto dei bambini a crescere bene e a sviluppare tutta la loro personalità; "eppure questo diritto così radicato nella coscienza comune non può essere realizzato "giuridicamente", attraverso una legge, perché richiede spazi attrezzati, piazze, strade e parchi naturali dove muoversi e incontrare altri bambini, tempo per costruire i suoi giochi e le sue scoperte dell’ambiente circostante, affetto non oppressivo degli adulti che gli stanno accanto. "Insomma – continua Barcellona – la libertà dei bambino richiede un’altra città […], una riforma del nostro vivere e del nostro abitare, della nostra organizzazione urbana e sociale, dello stesso nostro modo di pensare". In breve, fare società. La carne e il sangue della politica. Qualcuno della "sinistra di governo" l’ha capito?

(Tratto dal numero di gennaio della rivista Confronti)