“Accettando di fare dello spazio relazionale nel proprio ambito di lavoro si è costretti ad accettare uno scarsoriconoscimento professionale; ma socializzando il più possibile questo spazio è possibile che l’utilità sociale dell’handicap venga sfruttata da un maggior numero di persone e quindi sia più capita e apprezzata”
La definizione della professione dell’educatore come qualcosa di diverso dall’assistenza basata sul buon cuore, dalla distratta presenza alla festa a base di crescentine, bibite ed eventualmente "liscio", fu in passato una risposta difensiva che giustamente voleva rimarcare il carattere pedagogico e quindi la specificità e la complessità di un lavoro come il nostro.
Era forte, evidentemente, l’esigenza di una affermazione qualitativa, anche in risposta al luogo comune secondo cui, in fondo, con questi poveri ragazzi basta un po’ di pazienza e tanto amore.
Fin qui tutto a posto. Quest’affermazione di qualità, pur avendo nella pratica avuto luogo, non ha portato ancora risultati significativi.
Socialmente la considerazione della nostra professione oscilla tra il bidello e la colf.
Alla lunga la frustrazione logora; che fare? Come sentirsi un po’ riconosciuti?
Un meccanismo senz’altro molto diffuso è quello di mutare atteggiamenti e modalità dalle immagini stereotipate di altre professioni – sempre interne all’ambito dei servizi – di riversarle all’interno del nostro lavoro per trarne elementi di stima.
L’attenzione esasperata al piano sanitario – farmacologico ci permette di rosicchiare un po’ di prestigio dei medici o anche solo dei paramedici (ci si accontenta); la precisione nella documentazione ci lascia una porzione dello zelo degli amministrativi (non che essere precisi non serva ovviamente); lo scrupolo nel seguire i dogmi dell’approccio curricolare ci fa sentire un po’ insegnanti; lo stilare relazioni di fine anno con una certa densità culturale ci avvicina al mondo intellettuale universitario (così come forse, lo scrivere un libro) ed il rifugiarsi in modo a volte rigido nelle caselline della programmazione settimanale non fa che testimoniare il carattere vagamente psicotico della nostra professione e la nostra insicurezza.
La relazione quotidiana
A volte però la relazione quotidiana riesce ad evadere da questa prigione e ci permette di intravedere qualcosa di nuovo.
Il termine "produttività sociale" ne è un esempio: c’è qualcosa di originale, nella relazione con le persone handicappate, che non è la malacopia della relazione con i normali.
Vi sono elementi in essa da cui è difficile prescindere: l’ascolto, l’adeguamento di tempi diversi, il paradosso, lo humour. In una parola forte "decentramento" nella comunicazione. Si tratta di un contributo peculiare, di una ricchezza per tutti che va sfruttata.
Non ci si potrà, tuttavia, attendere una comunicazione semplice con il mondo esterno: la disponibilità a decentrarsi nella comunicazione è abbastanza rara; ognuno preferisce restare sui propri equilibri, dentro i propri sistemi, alle proprie autoimmagini.
C’è la minaccia latente della destabilizzazione.
Accettando di fare dello spazio relazionale il proprio ambito di lavoro si è costretti ad accettare, almeno a medio termine, uno scarso riconoscimento professionale: ma socializzando il più possibile questo spazio (ad esempio attraverso attività di animazione sociale, di drammatizzazione, che altri sperimentano e fruiscono, pur non essendo addetti ai lavori) è possibile che l’utilità sociale dell’handicap venga sfruttata da un maggior numero di persone e quindi che sia più capita ed apprezzata.
L’affettività
La nostra professione, come altre che si occupano della dimensione relazionale, include una rilevante dose di coinvolgimento emotivo ed affettivo; attraverso questa dimensione viene anche riassorbita una parte dello stress che può derivare dalle difficoltà di "adeguamento" alle persone handicappate.
Anche dall’affettività nel passato ci si è difesi perché essa rappresentava il terreno elettivo su cui le associazioni cattoliche di volontariato collocavano il rapporto con le persone handicappate; gli educatori hanno tentato di dimostrare non tanto e non solo che l’amore non basta, ma che può essere dannoso inventarsi degli amori verso gli handicappati per scopi di "santificazione personale" pericoloso per loro, usati per l’ennesima volta, pericoloso per la comunicazione, necessariamente periferica.
Se nonché, vivendo insieme a questa gente, ci si è accorti che ciò che si spingeva fuori dalla porta rientrava dalla finestra. Ovvero che la dimensione affettiva, anche se non per tutte le relazioni e non in modo sempre uguale è una componente rilevante del rapporto educativo.
Educazione significa implicazione.
Quindi anche amore e odio, rabbia, noia, entusiasmo, serenità, ansia.
Potrebbe essere il momento di riprendere in esame questa dimensione non come "deus ex machina" della relazione con l’handicappato, ma come aspetto della nostra professione.
Inoltre si è costretti ad ammettere che è sul terreno dell’affettività, e degli equilibri emotivi che tanto si è riuscito a costruire in termini di apprendimenti, di potenzialità residue, di convivenza quotidiana, di recupero di gusti e modalità personali.
Probabilmente anche la dimensione affettiva avrebbe diritto ad avere una sua dignità professionale, un suo riconoscimento e quindi un suo spazio di approfondimento anche teorico.
Ci si è accorti nella vita quotidiana, dell’importanza di questa dimensione per arrivare a creare uno "stile" di lavoro che sia sufficientemente sereno e divertente: e questo si riesce a realizzare solo se vi sono buone relazioni fra tutti, anche soprattutto tra gli educatori.
Ciò significa che il coinvolgimento emotivo gioca un ruolo decisivo anche a questo livello. Probabilmente in passato si è rischiato di rendere schizofrenica la relazione educativa, forse per esigenze di difesa personale, considerando professionale solo ciò che era attività, meglio ancora se di impronta "scolastica", e facoltativo o quanto meno lasciato alla libertà del singolo, tutto ciò che atteneva all’ambito affettivo – relazionale.
Forse non è più il caso di mantenere questa separazione: bisogna accettare il coinvolgimento affettivo come un aspetto costituito della nostra professione sul quale occorre lavorare meglio e soprattutto senza paura.
Chiamiamo di nuovo in causa, a titolo di conclusione, il grande Gregory Bateson per rimarcare brevemente che la prospettiva in cui ci muoviamo ora è quella della coevoluzione, del legame anche affettivo in una storia comune, unica speranza di comunicazione con un sistema "altro".
Non una pedagogia "del controllo", quindi, che decide cosa è buono per l’altro, programma gli obbiettivi e puntualmente li verifica, ma una pedagogia "che accompagna", che propone contesti di relazione, strutture di connessione all’interno delle quali tutti possano "abitare" confortevolmente, una pedagogia in cui l’educando entra a far parte della storia dell’educatore e viceversa.
"Andare con…"
Nel nostro vocabolario privato – chi non ne ha uno! – il termine educare non ha più quell’accezione vanamente comportamentistica che potrebbe suggerirci l’etimo latino, quella cioè di "condurre a": preferiamo intenderlo, ferma restando l’asimmetria del rapporto educativo, come un "andare con".
Tutto ciò implica, evidentemente, una diversa antitetica, visione dell’educando, che da oggetto diviene soggetto dell’educazione; ed ovviamente una diversa, opposta, visione dell’educatore: non colui che dà risposte, ma colui che fa domande; non colui che conduce, ma colui che accompagna; non colui che valuta, ma colui che interpreta; non colui che si pone l’obbiettivo di cambiare l’altro, ma colui che accetta, come parte integrante della sua professione, di cambiare se stesso.
"… educare vuol dire condurre, dunque guidare verso uno scopo. Condurre e in nessun luogo si escludono reciprocamente." (1)
Ma la nostra prospettiva è un’altra.
"La domanda è l’unica alternativa al dogma cioè: alla sicurezza imposta con la rinuncia al soggetto.
Una domanda senza fine non solo sul come, secondo quanto avviene nella cultura tecnologica ma anche e soprattutto sulla meta.
La domanda appartiene a un soggetto che deve cercare di rendere esplicite le condizioni del suo ascolto, in un certo luogo e in un certo tempo, dell’interiorità e delle icone che l’universo delle cose e degli uomini ci invia.
E’ allora importante che sia domanda di un soggetto che spera, che sa che il suo cammino è infinito e non porta in luoghi definiti: domanda di un soggetto che sa che l’importante è andare e che l’andare è l’unico modo di essere.
Fermarsi è rinunciare all’esodo, sperare è un modo di stare dentro la cultura e la scienza" (2)
Sperare è essere intenzionati oltre la prossimità.
E ancora:
"I messaggi cessano di essere tali quando nessuno li può leggere. Senza la stele di Rosetta non sapremo nulla di quanto era scritto nei geroglifici egiziani: essi sarebbero solo eleganti decorazioni sui papiri o sulla pietra.
Per avere significato – fin anche per essere riconosciuta come struttura – ogni regolarità deve incontrarsi con regolarità, o forse abilità complementari e tali abilità sono evanescenti quanto le strutture stesse.
Anch’esse sono scritte sulla sabbia o sull’acqua.
La genesi dell’abilità di reagire al messaggio costituisce il rovescio, l’altra faccia del processo evolutivo. E’ la coevoluzione.
Si tratta indubbiamente di tutt’altra scommessa.
Tutt’altra è del resto, la posta in gioco." (3)
Note:
(1) V. De Landsheere, Definire gli obbiettivi dell’educazione, La Nuova Italia, Firenze, 1977.
(2) AA. VV., a cura di P. Bertolini e M. Dallari, Pedagogia al limite.
(3) G. Bateson, Mente e natura, Adelphi, Firenze, 1984, pag. 63.