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Jane Sommers

Stavo per andare dritta a casa, perché all’improvviso mi sentivo stanchissima. Ma ho chiesto al tassista di lasciarmi da Maudie Fowler. Ho cominciato a bussare e picchiare alla porta. Gelo. Silenzio assoluto. Sono stata presa dal panico – che fosse morta? – ma mi sono anche accorta, non senza interesse, che una delle mie reazioni era di sollievo. Alla fine, un movimento delle tende alla finestra del suo "salotto", una stanza che Maudie sembra non usare mai. Ho aspettato. Niente. Ho continuato a bussare bussare, assolutamente furiosa, ormai. Ero pronta a strangolarla. Poi la porta si è aperta verso l’interno, scricchiolando e grattando, ed è comparsa lei, un minuscolo fagotto nero, con quella faccetta bianca in cima. E l’odore. Non serve a niente che mi dica che non devo far caso a questi particolari. Ci faccio caso, eccome. L’odore… tremendo, acre, un lezzo dolce e penetrante. Ma era chiaro che la vecchina era appena in grado di reggersi in piedi.

Ero così arrabbiata che di certo dovevo aver dimenticato di agire in modo "accattivante".

"Perché mi tieni qua fuori al freddo?" ho detto, e sono entrata, passandole davanti, costringendola a spostarsi. Lei mi ha preceduta giù per il corridoio, appoggiandosi con una mano alla parete.

Nella stanza sul retro, un mucchio di ceneri spente nella stufa. C’era una stufetta elettrica, però: un solo elemento, e faceva rumore, il che significava che non era sicura. La casa era fredda, sporca, puzzolente, e la gatta mi si è attorcigliata subito alle gambe. Maudie si è lasciata scivolare nella sua poltrona ed è rimasta seduta a guardare la stufa.

"Bè, perché non hai fatto entrare l’infermiera?" le ho gridato.
"L’infermiera," ha detto lei in tono amaro. "Quale infermiera?"
"Lo so che è venuta."
"Non fino a lunedì. Per tutto il week-end sono rimasta sola, senza nessuno."
Stavo per mettermi a urlare, "E perché non l’hai fatta entrare quando è venuta lunedì?" ma ho capito che non ne valeva la pena, non sarebbe servito a niente.

Ero di nuovo piena di energia-rabbia.

"Maudie," le ho detto, "sei impossibile, impossibile, fai di tutto per peggiorare le cose. Bè, ora metto su il bollitore."
E così ho fatto. Sono andata a prendere il carbone. Ho trovato la commode piena di urina, ma niente di peggio, grazie al cielo. Grazie al cielo è stato quello che ho pensato in quel momento, ma d’altra parte ci si abitua ad avere tutto. Poi sono uscita con un sacchetto. Pioggia grigia, nevischio. E io, coi miei vestiti eleganti di Monaco, a raccogliere pezzetti di legna da terra. E di nuovo quelle facce alle finestre, che mi guardavano.
Tornata dentro, ho ripulito la stufa, nuvole di polvere dappertutto. Poi ho preparato la legna e il carbone, e ho acceso il fuoco, con l’esca. Dopo un pò la stufa ha cominciato a funzionare.

Ho preparato il tè, dopo aver scaldato le tazze luride. Devo smettere di essere così pignola. E’ davvero tanto importante che, le tazze siano sporche o pulite? Certo! Certo, certo, certo, certo. Lei non si è mossa, ha continuato a guardare il fuoco.

"La gatta," ha detto.
"Le ho dato da mangiare."
"Allora falla uscire un po’."
"Piove, nevica, praticamente."
"Non importa. Lei non ci bada."

Ho aperto la porta sul retro. Sono stata subito investita da un’ondata di pioggia gelida, e la gatta, grassa e gialla, che spingeva per arrivare alla porta, ha miagolato ed è tornata subito dentro. Si è diretta verso la cantina.

"E’ andata in cantina," ho detto.
"Allora dovrò pensarci io, suppongo," ha detto Maudie.

Sono stata presa da una rabbia cieca. Fremmevo, addirittura.
Come al solito, avevo voglia di scuoterla di picchiarla, e come al solito avevo anche voglia di abbracciarla.
Ma fortunatamente non ho perso la testa, e ho fatto tutto quello che dovevo fare, senza, grazie a Dio, trasformarmi all’improvviso in un essere condiscendente, accattivante o "divertente".

"Hai mangiato qualcosa?"
Nessuna risposta.

Sono uscita di nuovo, per fare la spesa. Il negozio all’angolo era deserto. L’indiano seduto alla cassa aveva l’aria grigia e infreddolita, e aveva tutte le ragioni, poveretto.

Ho detto che volevo qualcosa per Mrs.Fowler, per scoprire se era stata lì in quei giorni.

Lui ha detto, "Oh, la vecchina, non è mica malata, vero?"
"Si, è malata," ho detto.
"Perché non la mettono in un ricovero?"
"Non vuole andarci."
"Non ha parenti?"
"Forse sì, ma non si fanno mai vedere."
"E’ una cosa terribile," ha detto lui, per farmi capire che tra la sua gente una cosa del genere non sarebbe mai accaduta, che nessun indiano avrebbe mai abbandonato a se stessa una povera vecchia.
"Sì, è una cosa terribile, e lei ha proprio ragione, " ho detto io.

Quando sono tornata dentro, ho di nuovo pensato alla morte.
Maudie era seduta con gli occhi chiusi, immobile, sembrava addirittura non respirare.
Ma poi, all’improvviso, ha aperto gli occhi azzurri e ha fissato il fuoco.

"Bevi il tuo tè," le ho detto. "E adesso ti preparo un po’ di pesce. Ce la fai, a mangiare?"
"Sì."

In cucina, ho cercato disperatamente qualche oggetto che non fosse unto e bisunto ma ho dovuto rinunciarci. Ho messo il pesce sulla griglia, e ho aperto un attimo la porta per far entrare un pò di aria fresca. Sempre quel nevischio.

Le ho portato il pesce, e lei si è raddrizzata nella poltrona e l’ha mangiato tutto, lentamente, con le mani che le tremavano. Ma l’ha finito, e ho capito che doveva essere affamata.

Le ho detto, "Sono stata a Monaco. A vedere le collezioni d’autunno. Tutti i nuovi modelli."
"Io non sono mai uscita dall’Inghilterra."
"Be’, ti racconterò tutto quando starai un po’ meglio."
A questo non ha risposto.

Ma alla fine, proprio quando stavo pensando di andarmene, ha osservato, "Ho bisogno di qualcosa di pulito da mettermi addosso."

Non sapevo come interpretare quella frase. Una cosa ho capito subito, però – ormai sono diventata abbastanza sensibile – che quella non era affatto una richiesta semplice.
Voleva che le comprassi dei vestiti nuovi?
L’ho guardata. Lei si è sforzata di restituirmi lo sguardo, e ha detto, "Sono nell’altra stanza, le cose."

"Quali cose?"

Lei ha scrollato le spalle, un po’ tremante, con aria scoraggiata.

"Maglia. Mutande. Sottoveste. Non porti la biancheria, tu, che devi chiedere che cosa?"

Di nuovo, automaticamente, quella rabbia, come se avesse schiacciato un bottone. Sono andata nell’altra stanza, quella dove lei di solito non vuole che vada.

Il letto con la trapunta buona, l’armadio, il tavolino da toilette con i ninnoli di porcellana, le librerie buone. Ma dappertutto mucchi e mucchi di spazzatura. Non riuscivo a crederci. Giornali di cinquant’anni prima, ormai friabili: rimasugli di stoffa, orribili, gialli e macchiati, pezzetti di pizzo, fazzoletti sporchi, nastri strappati – non avevo mai visto niente del genere in vita mia. Non buttava via niente da anni, da decenni, credo. Nei cassetti, disordine, ed erano pieni di – ma ci vorrebero pagine e pagine, per descriverne il contenuto. Avrei voluto aver con me un fotografo – riflesso condizionato! Sottovesti, camicie, mutande, corsetti, maglie, vecchi vestiti, o pezzi di vecchi vestiti, camicette… e niente che avesse meno di vent’anni, c’era anche roba della prima guerra mondiale. La differenza tra i vestiti di adesso e quelli di allora: erano tutti di fibre "vere", cotone, seta, lana. Non c’era niente di artificiale. Ma strappati, o macchiati, o sporchi. Ho tirato fuori un fagotto di roba, e ho passato in rassegna un capo dopo l’altro, da principio per curiosità, e poi per vedere se c’era qualcosa di portabile, o di pulito. Alla fine ho trovato una maglia di lana, un paio di mutande lunghe pure di lana, una sottoveste di seta rosa piuttosto bella, un vestito di lana, blu, e un cardigan. Era tutta roba pulita, o quasi. Ho lavorato di buona lena, là dentro, tremando di freddo, e intanto pensavo a come avevo amato me stessa negli ultimi giorni, a come amo me stessa per il controllo che ho sulle situazioni, per la posizione che detengo, privilegiata: e ho pensato che se volevo cercare di capire lo stato d’impotenza della povera Maudie dovevo ricordare com’era la mia vita da piccola, quando speravo sempre di farcela a non bagnare le mutandine prima di arrivare al gabinetto.

Ho portato i vestiti nell’altra stanza, ormai caldissima, con il fuoco che divampava. Le ho detto, "Vuoi che ti aiuti a cambiarti?" Subito quel movimento laterale, irritato, della testa, che significava che mi stavo comportando da stupida, ormai lo sapevo.

Ma non riuscivo a capire perché.

Così mi sono seduta di fronte a lei e ho detto, "Finirò di bere il mio tè prima che diventi freddo." Mi sono resa conto, con interesse, che lo stavo bevendo senza provar nausea: mi sono abituata a bere da quelle tazze sudicie. Una volta Maudie doveva essere stata come me: sempre a lavarsi, a lavar tazze, piatti, a spolverare, a lavarsi i capelli.

Stava parlando, senza un filo logico, mi sembrava di quando era stata in ospedale. Io la ascoltavo un po’distratta, perché pensavo che non sarebbe stato male che medici e infermiere sentissero che cosa pensavano dei loro ospedali le persone come Maudie. Prigioni. Riformatori. Ma poi mi sono resa conto che mi stava raccontando di come, quando stava troppo male per fare il bagno nella vasca, due infermiere l’avessero lavata senza muoverla dal letto, e ho capito.

"Ora metto su i bollitori," ho detto. "Tu però mi devi dire cosa fare."

Ho messo l’acqua sul fuoco, ho trovato una bacinella di smalto e l’ho esaminata con molto interesse, perché erano anni che non ne vedevo che di plastica, e ho cercato del sapone e un panno morbido. Li ho trovati in un buco nella parete sopra il lavandino: Maudie aveva tolto un mattone e dipinto la cavità.

Ho preso la bacinella, i bollitori, il sapone, il panno e una brocca di acqua fredda dall’altra stanza. Maudie si stava dando da fare per togliersi il primo strato di vestiti. L’ho aiutata e mi sono subito resa conto di non essermi organizzata per quel lavoro. Mi sono messa a cercare dei giornali, ho sgombrato il tavolo, ce li ho stesi sopra, a strati, ho preparato la bacinella, i bollitori, la brocca, il necessario per lavarsi. Non c’erano asciugamani. Sono corsa in cucina, ho trovato un vecchio strofinaccio umido e sporco, ho cercato nel salotto. Mi sembrava di essere al lavoro da un giorno intero. Ma in realtà erano passati solo pochi minuti. Mi preoccupava l’idea di Maudie nell’altra stanza, seminuda, malata, con la tosse. Finalmente ho trovato un asciugamano abbastanza pulito. Maudie era dritta vicino al lavandino, nuda dalla vita in su e magrissima. Una cassa toracica fragilissima sotto uno strato di pelle gialla e rugosa, le clavicole e le scapole di uno scheletro, e, in fondo alle braccia sottilissime, un paio di mani, forti, ancora efficienti. Lunghi seni penduli e sottili.

Ho faticato a strofinare il sapone sul panno, che, manco a dirlo, era unto. Avrei dovuto lavarlo, prima. Sono tornata di corsa nell’altra stanza, ho strappato un pezzetto da un vecchio asciugamano pulito, e gliel’ho portato. Sapevo che avrebbe voluto sgridarmi per aver strappato l’asciugamano: e l’avrebbe fatto, se non avesse dovuto risparmiare il fiato.

Le ho lavato delicatamente il torace, con molto sapone e acqua calda, ma sul collo c’erano spesse incrostazioni di sporcizia: per toglierle avrei dovuto sfregare forte, e non potevo certo farlo. Maudie tremava per la debolezza. Io stavo confrontando quel corpo vecchio e fragile con quello di mia madre: ma ero riuscita a dare solo di sfuggita qualche occhiata al corpo malato della mamma. Si era sempre lavata da sola – e solo adesso comincio a capire con quanta fatica – fino a quando era stata ricoverata in ospedale. E ci pensava Georgie, quando veniva, a darle una rinfrescata. Ma non la sua figlia-bambina, non io. E ora lavavo Maudie Fowler, e pensavo a Freddie, alle sue ossa che sembravano piatte, sottilissime, sotto la pelle tesa. Può darsi che Maudie sia solo pelle e ossa, ma il suo corpo non ha quell’aspetto distrutto, sconfitto, della carne che affonda nelle ossa. Maudie era gelata, era malata, era debole – ma sentivo qualcosa pulsare dentro di lei: la vita. Com’è tenace, la vita. Non ci avevo mai pensato prima, non l’avevo mai recepita in quel modo, non come in quel momento, mentre lavavo Maudie Fowler, una vecchietta arrabbiata e indomita. E lo era davvero, arrabbiata. All’improvviso ho capito che tutta la sua vitalità risiede in quella rabbia. Non devo, non devo assolutamente risentirmene, non devo reagire violentemente.

Tratto da : Il diario di Jane Sommers di Doris Lessing, Feltrinelli editore




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