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Il ritmo della solidarietà

Un gruppo di africani balla in cerchio. Il ritmo dei tamburi è incalzante. Niente di strano, se non fosse che sullo schermo del mio computer, dal quale sto seguendo il video delle danze su un cd, compare improvvisamente una scritta che lascia sbalorditi: “Più della metà dei danzatori è sorda”. Sembrerebbe paradossale: come si può danzare seguendo la musica se non la si può ascoltare? Eppure l’esperienza e l’abilità di questi danzatori è tale che non si nota alcuna differenza o incertezza nell’esecuzione rispetto ai loro colleghi udenti. Del resto l’impegno principale di African Footprints è proprio quello di rendere evidente che la disabilità non vuol dire inabilità e che è necessario riconoscere e valorizzare il talento artistico e le capacità di tante persone svantaggiate e senza prospettiva.
African Footprints International è un’organizzazione del Ghana, senza scopo di lucro, che attraverso la musica, la danza, il racconto, la formazione alle tecnologie e la consapevolezza ambientale, intende aiutare le persone con disabilità ad acquisire cultura, consapevolezza di sé, creatività e le competenze necessarie per inserirsi nella vita del mondo moderno. Le persone affette da sordità costituiscono quindi un punto di partenza e un modello per tutte le altre persone svantaggiate che attendono di essere riconosciute nelle loro abilità.
Negli ultimi anni il gruppo di African Footprints ha collaborato con molti gruppi di musica, teatro, danza e percussioni e si è esibito in molteplici occasioni in Africa, Olanda, Danimarca e Francia riscuotendo un vasto successo di pubblico e di critica. In questo contesto si è realizzata la tournée “Orme d’Africa”, organizzata dall’AIFO (Associazione Italiana Amici di Raoul Follereau) in occasione delle celebrazioni della 52a Giornata Mondiale dei malati di lebbra, l’appuntamento di solidarietà che si rinnova dal 1954, anno in cui l’AIFO ha cominciato ad impegnarsi contro la lebbra in Africa e a realizzare progetti nei Paesi in via di sviluppo per garantire l’accesso alla salute alle popolazioni più svantaggiate.

L’esperienza dal vivo: tra ammirazione, spensieratezza e riflessione

Incuriosita dalla particolarità dell’iniziativa, ho deciso di assistere dal vivo a uno degli spettacoli della tournéé di African Footprints in un teatro bolognese.
Il pubblico in sala era sorprendentemente numeroso ed entusiasta: giovani e anziani, disabili e “normodotati”; c’era anche un gruppo di non udenti che agitava in aria le mani per applaudire. Tutti in attesa di assistere a un evento che subito gli organizzatori hanno definito irripetibile.
E infatti, ancora una volta la realtà ha superato ogni aspettativa e immaginazione. La prima esibizione è stata strumentale, solo tamburi e altre percussioni. Mi ha colpito subito l’energia con cui quei giovani africani battevano ritmicamente i loro tamburi, sicuri e perfettamente coordinati tra loro, con i palmi aperti delle mani o bacchette di legno. Poi le danze. La presentatrice ha annunciato che sarebbero state eseguite solo da danzatori non udenti e ha spiegato che erano tratte da cerimonie popolari che rivestono grande importanza nella vita sociale delle popolazioni del Ghana. Infatti, alcune di esse si riallacciano alla storia e rappresentano il momento della liberazione dalla prigionia del popolo dei Volta, altre rappresentano scene di vita sociale e hanno un valore educativo negli ambiti del rispetto dei diritti delle donne e delle persone con disabilità, del rispetto dell’ambiente, dell’educazione sanitaria. Alcune di esse, infine, sono tratte dai riti di passaggio che caratterizzano il “cerchio della vita” di ogni persona nella comunità, dalla nascita all’ingresso nella vita adulta, al matrimonio, fino alla morte. I ballerini, uomini e donne, si sono presentati sul palco avvolti in tessuti sgargianti e si sono lasciati trascinare dalla musica, facendo tintinnare i braccialetti ai polsi e alle caviglie. Sembravano completamente pervasi dal ritmo, sorridevano mentre il loro corpo si scuoteva a ogni tocco di tamburo. Eppure non sentivano. Ecco l’incredibile. Quei danzatori stavano dimostrando che la musica non è privilegio solo di chi può ascoltarla con le orecchie ma anche di chi riesce a coglierne le vibrazioni nel proprio corpo e nell’aria, nel terreno, seguendo il movimento delle mani che battono sul tamburo e sentendo il tocco risuonare profondamente dentro la mente. Il pubblico era come ipnotizzato, ma alla prima pausa c’è stata un’esplosione di applausi: la loro abilità era stata apprezzata e così hanno continuato a sorprenderci con la danza dell’energia giovanile e del corteggiamento. La scena era dominata da due coppie di giovani che si incontravano, si avvivicinavano, si respingevano… Prima le donne allontanavano gli uomini con finta superiorità e civetteria, poi erano i ragazzi a rifiutare le avances delle loro compagne. È stato divertente, anche perché oltre alla danza si sono esibiti in una vera e propria pantomima: i gesti e le espressioni facciali erano estremizzati, le labbra suggerivano le parole del corteggiamento e noi potevamo immaginare le loro discussioni, le voci che si cercavano. L’atmosfera era totalmente coinvolgente e loro non sembravano avvertire alcuna fatica, nonostante i movimenti sfrenati, i salti e le circonvoluzioni dei corpi. L’ultima danza si chiamava Green Hill, la danza del risveglio dei sensi. E ancora una volta siamo stati pervasi dalla loro energia, dal loro entusiasmo, dal loro abbandono alla musica, finché la musica si è spenta ed è arrivato il momento dei saluti. Sono saliti sul palco gli organizzatori, il presidente dell’AIFO e altre persone, missionari e laici, che hanno dedicato la propria vita agli “ultimi” del mondo, a tutte le popolazioni svantaggiate. Hanno spiegato che nei paesi poveri il problema non è solo aiutare fisicamente i bisognosi ma intraprendere un percorso che conduca a una maggiore consapevolezza, perché ogni essere umano ha dei diritti che devono essere riconosciuti e rispettati da tutti, soprattutto se si tratta di diritti vitali come quello a bere acqua che non sia piovana e il diritto all’assistenza sanitaria. Tutti gli operatori dell’AIFO in ogni parte del mondo condividono questo obiettivo. Ha parlato anche il coordinatore del gruppo, che ha presentato uno a uno i ballerini: erano tutti non udenti e prima di entrare a far parte di African Footprints il loro handicap era ulteriormente aggravato dalla situazione di marginalità sociale in cui si trovavano. Li abbiamo salutati agitando in aria le mani, anziché applaudire. Il coordinatore ha ripetuto più volte la parola bridge, per spiegare che questi giovani africani sono un ponte tra quella che noi chiamiamo diversità e la più rassicurante normalità. Perché smettiamo di pensare che chi ha un deficit fisico non possa avere comunque talento o capacità artistiche. Perché, in fondo, handicap è anche quello che noi etichettiamo come tale. Si è conclusa così una serata che sicuramente ha lasciato un segno, un’impronta (footprint…), associando la spensieratezza della musica e della danza alla riflessione seria su una realtà spesso dimenticata o sottovalutata. Non so se e quando il gruppo dell’African Footprints tornerà in Italia ma se lo farà consiglio a tutti di dedicargli una serata.
Ricordo, per concludere, che il ricavato dello spettacolo è stato devoluto alla cura dei malati di lebbra in Africa dove l’AIFO sta attualmente portando avanti 31 progetti di lotta alla malattia e di riabilitazione.

AIFO – Associazione Italiana Amici di Raoul Follereau, via Borselli 4-6, 40135 Bologna, tel. 051/43.34.02, fax  051/43.40.46, sito web: www.aifo.it.

 




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