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Autore: admin

La seconda navigazione

Si è tenuto di recente un convegno organizzato dall’Unar, l’ufficio del Ministero delle Pari Opportunità contro le discriminazioni razziali. L’argomento riguardava tutte le forme di discriminazione: handicap, sesso, età, razza, genere, religione, idee politiche e via dicendo. La mia amica e collaboratrice Chiara ha partecipato a questo incontro e me ne ha riferito. Parlando con lei sono emersi alcuni temi a me molto cari.
Durante il convegno la Chiesa Cattolica è stata accusata di non avere ancora firmato la convenzione internazionale sui diritti delle persone disabili. Il Vaticano è l’unico stato che insieme al Quatar non ha sottoscritto questo documento. Ciò è dovuto al fatto che tra gli altri diritti contenuti nella carta c’è anche il diritto di aborto per le donne disabili. Naturalmente la Chiesa non può accettare che l’aborto passi per un diritto: non può fare una discriminazione tra le donne normali e quelle disabili. Le cose non sono mai come appaiono, è sempre necessario fare lo sforzo di una “seconda navigazione”, come diceva il buon vecchio Platone. Occorre avere uno sguardo profondo sulle cose prima di fare delle valutazioni. Ci si potrebbe interrogare sull’opportunità di questo rifiuto della Santa Sede. Non firmare un documento così importante e significativo per le persone con disabilità per colpa di un singolo articolo può sembrare poco lungimirante ma per la Chiesa la vita è un’unica realtà e il diritto alla vita nasce dal momento del suo concepimento e comprende l’intera esistenza umana. Perché permettere ai soggetti più deboli quello che si nega a tutti gli altri? Hanno meno dignità di cristiani i soggetti disabili? Forse che il peccato della persona con deficit è meno grave di quello degli altri? Le cose, dicevamo, non sono mai quelle che sembrano. Prendiamo l’esempio dell’esposizione mediatica che stanno avendo in questo momento le persone affette dalla sindrome di Down. Le possiamo vedere dalla De Filippi, a Buona Domenica, al telegiornale. Nei primi due casi vengono usati come intrattenitori e imbonitori del pubblico, che ride di fronte ai loro limiti, alle piccole manie, alle loro quotidiane difficoltà. Non è chiaro come abbia scoperto questo filone aureo, ma la De Filippi ha fatto passare via etere il messaggio che tutti i ragazzi Down sono terribilmente tirchi. Da questa scientifica osservazione esperita sul campo, eccola invitare amici e parenti a proporre al giovane scambi improbabili fra il loro sorridente porcellino salvadanaio e l’autografo del divo di turno. Poi, tutti a raccontare al pubblico le loro ingenuità e debolezze. I critici televisivi, tutti a dire che la Maria nazionale fa opera di bene contro le discriminazioni e i luoghi comuni sui deficit cognitivi. A me, invece, quei poveri ragazzi, inconsapevoli di essere stati risucchiati dal calderone mediatico che ci viene propinato ogni giorno, fanno tanta pena. Loro e le loro famiglie. Quelli che guardano queste trasmissioni magari sono gli stessi che, poi, pubblicano su Facebook i gruppi del tipo “Picchiamo i ragazzi Down”. Poi, ci sono quelli che, davanti a questi gruppi, si stracciano le vesti, si scandalizzano, alzano la voce, invocano la forca per gli autori. Ma fanno tutto ciò allo stesso modo in cui lo fanno per i gruppi che inneggiano alla violenza sui cani. Queste sono le stesse persone che non hanno mai nemmeno rivolto la parola a un giovane Down, non sanno neppure che tale sindrome non è una malattia, sono gli stessi che chiedono alle mamme dei bambini con la trisomia 21 se sono contagiosi per la loro prole, sono quelli che parcheggiano regolarmente nei posti riservati ai disabili. Parliamo delle stesse persone che forse non hanno mai chiesto a un genitore se avesse bisogno di aiuto nell’assistenza di un figlio disabile, che non conoscono la differenza fra una disabilità motoria, cognitiva e sensoriale, che propugnano un approccio medico nei confronti dell’handicap, quando il vero malato è solo il contesto sociale che rende tali le persone con deficit. Sono i medesimi individui che stabiliscono che, per legge, si diventa anziani a 65 anni, anche se si è disabili, perciò, al fatidico compleanno si passa dalla gestione dell’Asl competente a quella del servizio anziani. Così, a 65 anni, la persona con deficit cognitivo, anche grave, si ritrova a giocare a tombola insieme a tanti arzilli vecchietti, anche se, magari, non sa nemmeno contare fino a dieci o è sordo e non sente quando chiamano i numeri. E si arriva a rimpiangere persino l’attività di infilare perline per ore al centro diurno, per sviluppare le capacità di discernimento e riconoscimento di operazioni manuali semplici (e vorrei capire chi ha stabilito che infilare microscopiche perline in un filo trasparente è una operazione semplice). Tutto questo scandalizzarsi del sorgere di gruppi a derisione dei ragazzi Down fa seguito a problemi reali e quotidiani che sono ben più gravi di uno sparuto manipolo di bulletti che perde tempo a creare pagine sciocche sui social network. Forse bisognerebbe cominciare dall’imparare a non dare del tu a tutti i disabili indistintamente. Si potrebbe iniziare ad evitare di trattare i disabili fisici e sensoriali come se avessero anche deficit cognitivi, di lasciare il peso di tante, gravi situazioni solo sulle spalle delle famiglie, di costruire barriere architettoniche nei modi più sconsiderati, di pensare che un disabile non possa avere alcuna autonomia, di mettere le carrozzine nei cinema sempre in prima fila. Persino i sostenitori delle “classi miste” si stanno ricredendo. Dopo tante campagne in nome dell’integrazione, si comincia a capire che, forse, un bambino disabile si sente più realizzato e meno frustrato quando si trova fra coetanei nella sua stessa condizione di deficit. Solo a parità di condizioni di partenza, si possono apprezzare e vedere valorizzati i propri talenti. Questa è la vera non-discriminazione: permettere anche ai disabili di essere considerati diversi, senza timore, nel farlo, di passare per “politicamente scorretti”. Per uscire da tutti questi luoghi comuni è davvero necessaria una seconda navigazione e forse anche una terza per continuare la ricerca. L’errore più grave è quello di dare qualcosa per scontato e non cercare più.

Il mojito della disabilità, Superabile, Agosto 2012

Ma lo sapevate che dentro il cocktail dell’estate, l’esotico e fresco mojito, c’è anche dell’angostura? Sapete cos’è l’angostura? Un amaro concentrato, un estratto di corteccia dal sapore fortissimo, talmente acre da essere sgradevole all’olfatto E persino un po’ nauseante. Proprio per questo va utilizzato con il contagocce, a piccole dosi. Ho fatto questa scoperta alcune sere fa, mentre all’ora dell’aperitivo vedevo un mio amico barman intento nella preparazione di questo cocktail estivo. Triturava il ghiaccio, sminuzzava la menta, mescolava lo zucchero di canna, spremeva del lime… e alla fine eccolo con questa piccola e strana boccetta in mano che ha scatenato la mia curiosità. Una, due, tre gocce ed ecco il mojito servito! Appena l’ho annusato e sorseggiato ho sentito l’angostura… Effettivamente una sensazione nauseante anche se quel drink cubano era tanto buono quanto rinfrescante.

Mentre lo gustavo la mia mente ha cominciato a fantasticare e ho iniziato a pensare a questo cocktail come metafora dell’integrazione o forse, più in generale, della vita. L’angostura da sola, come già detto, è assolutamente disgustosa, eppure, se mischiata agli altri ingredienti rende più squisito il prodotto finale. Per questo ho pensato di paragonarla alla disabilità, una realtà amara, alcune volte perfino maleodorante e nauseante al primo impatto, se lasciata da sola, se abbandonata a se stessa.

Dunque, mischiamo alcune gocce di disabilità/angostura con un po’ di freschezza creativa/menta , un po’ di fiducia/lime e due cucchiaini di dolce ironia/zucchero di canna. Aggiungere ghiaccio tritato/stima reciproca. Ecco creato un mojito/contesto fresco, rinfrescante e con effetto inebriante! La bravura del barman/educatore è dunque quella di saper dosare bene tutti gli ingredienti/qualità a disposizione, di mescolarli con giudizio fino ad arrivare ad incantare ed affascinare, durante la preparazione di questo mix di elementi/ingredienti, tutti i clienti di passaggio di questo bar/società.

Mentre finivo il mio cocktail ho pensato all’happy hour di Ligabue… "E la vita che non spendi che interessi avrà?". Bella domanda… quasi quasi ne bevo un altro! E voi quali ingredienti pensate di miscelare nel vostro cocktail preferito in questa lunga e calda estate? Bevete alla mia salute e scrivete a claudio@accaparlante.it o sulla mia pagina facebook. (Claudio Imprudente)

Il Baskin: uno sport integrante e umanizzante

Il Baskin è un nuovo sport nato a Cremona nel 2002. Sta vivendo uno sviluppo importante nel Nord Italia, suscitando l’interesse crescente di vari mondi: l’universo scolastico, la realtà sportiva, il settore specializzato (nella disabilità) e il campo universitario. Dopo una breve descrizione oggettiva dell’attività (“vista da fuori”) per capire di cosa si tratta, ci soffermeremo più a lungo nel presentare un approccio al Baskin più esperienziale (“vissuto da dentro”) per affrontare il tema dello sviluppo educativo che produce il Baskin nei ragazzi che lo praticano.

Cos’è il Baskin visto da fuori?  (Prospettiva da chi lo sta scoprendo)
Iniziamo ricordando che il Baskin è sia una disciplina sportiva che una disciplina scolastica.
Il Baskin (abbreviazione di basket integrato) si ispira al basket ma ha caratteristiche particolari e innovative. Un regolamento, composto da 10 regole, ne governa il gioco conferendogli caratteristiche incredibilmente ricche di dinamicità e imprevedibilità. Questo nuovo sport è stato pensato per permettere a giovani normodotati e giovani disabili di giocare nella stessa squadra (composta sia da ragazzi che da ragazze!). In effetti, il Baskin permette la partecipazione attiva di giocatori con qualsiasi tipo di disabilità (fisica e/o mentale) che consenta il tiro in un canestro. Si mette così in discussione la rigida struttura degli sport ufficiali e questa proposta, effettuata nella scuola, diventa un laboratorio di società.
Le 10 regole valorizzano il contributo di ogni ragazzo/a all’interno della squadra: infatti il successo comune dipende realmente da tutti. Quest’adattamento, che personalizza la responsabilità di ogni giocatore durante la partita, permette di superare positivamente la tendenza spontanea a un atteggiamento “assistenziale” a volte presente nelle proposte di attività fisiche per persone disabili.

Il regolamento del Baskin adatta: 
– il materiale (uso di più canestri: due normali; due laterali più bassi; possibilità di sostituzione della palla normale con una di dimensione e peso diversi);
– lo spazio (zone protette previste per garantire il tiro nei canestri laterali);
– le regole (ogni giocatore ha un ruolo definito dalle sue competenze motorie e ha di conseguenza un avversario diretto dello stesso livello. Questi ruoli sono numerati da 1 a 5 e hanno regole proprie);
– le consegne (possibile assegnazione di un tutor, giocatore della squadra che può accompagnare più o meno direttamente le azioni di un compagno disabile).

Cos’è il Baskin vissuto da dentro? (Prospettiva da chi l’ha già scoperto)
Il Baskin è un “mondo di possibilità” che permette la formazione e l’estrinsecazione delle potenzialità del soggetto.
Il rapporto che ciascun giocatore instaura con il Baskin è un mondo incommensurabile che non si può riassumere con una descrizione esterna dei fatti, ma che necessita un’immersione nel vissuto esperienziale ed emotivo di ciascun giocatore. Perché, come spesso accade, l’essenziale rimane invisibile.
Ad esempio, cosa vedrà da fuori un occhio inesperto che guarda un ragazzo giocare a Baskin sulla sua carrozzina (ruolo 1)? Vedrà magari un giocatore disabile che rimane un po’ statico in una parte del campo mentre gli altri si agitano attorno a lui correndo da un canestro all’altro. Osserverà a volte avvicinarsi questi compagni per consegnargli la palla. E lo guarderà tirare nel canestro basso vicino a lui e segnare (a volte).
Ma se invece quest’osservatore inizia a conoscere meglio il Baskin, comincerà a vedere le cose anche attraverso gli occhi di questo ragazzo, intravedendo il suo mondo percettivo; e la sua sensibilità si aprirà alla comprensione di una realtà ben più complessa, ricca e sorprendente. In effetti scoprirà probabilmente un giocatore che sta seguendo con gli occhi lucidi di emozione le azioni dei suoi compagni; azioni che sente anche sue azioni, perché della squadra a cui sente intensamente appartenere, forse come mai l’aveva potuto sperimentare prima di giocare a Baskin. Vediamo come questa impetuosa marea di emozioni che si scatena all’interno di questo corpo apparentemente prigioniero dalla sua staticità contrasta con l’immagine che ha l’osservatore esterno. E tornando sull’intensità dell’esperienza che sta vivendo questo ragazzo, lontanissima da un sentimento di passività, può provare queste emozioni proprio perché sa di avere all’interno della squadra un ruolo che conta, e conta davvero; un ruolo che finalmente si carica di significato e di valore all’interno di un gruppo; un’identità che rinasce perché finalmente viene percepita, riconosciuta, compresa, insomma comincia a esistere. Arriva allora il momento in cui afferra la palla che un suo compagno gli ha portato. Tutti sanno – lui stesso, compagni, avversari, allenatori, spettatori – il valore e il peso nella partita di quello che sta accadendo. Dopo mesi di sforzo e impegno in allenamento, è da due settimane forse che, quando tira con i palloni più piccoli e più leggeri che gli permettono di realizzare un tiro con una minima traiettoria parabolica, riesce a giungere nel cerchio del canestro, ma non sempre; e adesso, davanti a tutti e con i compagni che sperano intensamente, deve essere una delle volte che la palla entra.

La conoscenza diretta del Baskin ci dota progressivamente di un filtro percettivo che funziona un po’ come una lente d’ingrandimento (sempre più potente) sulle situazioni ed emozioni che ciascuno vive in relazione ai suoi bisogni e alle sue potenzialità. L’esempio del ragazzo con disabilità motoria (ruolo 1) ci ha aiutato a capirlo. Ma questo ragionamento è estendibile a tutti i giocatori di Baskin, poiché ciascuno ha un ruolo preciso definito in base ai propri bisogni e potenzialità. Ciascuno scopre una modalità diversa di relazionarsi allo sport e alla diversità umana. Così che addentrarsi nel vissuto di ciascun giocatore ci fa scoprire un nuovo mondo incommensurabile. Se è vero per i ragazzi con una disabilità motoria, più o meno importante, è anche vero per i giocatori che hanno una disabilità mentale, più o meno importante. E non di meno, è vero anche per i giocatori che non possiedono una disabilità: per i ragazzi, per le ragazze, per chi non ha un profilo particolarmente sportivo o da atleta, con abilità motorie medie, quindi la maggior parte degli alunni nelle classi di educazione fisica, ma anche per chi invece ha ottime abilità motorie e sportive e pratica forse ad alto livello. Insomma il Baskin non sacrifica nessuno sull’altare dello sport ma neanche sull’altare dell’integrazione!
Senza poter raccontare qui il vissuto esperienziale di tutti i giocatori di Baskin, ci sembra interessante prendere il tempo di immergerci un attimo nel mondo di due altri attori del Baskin: un giocatore normodotato e un allenatore o insegnante. E proveremo a farlo questa volta veramente “da dentro”!
Se, per esempio, sono un giocatore normodotato (ruolo 5 o 4) da quando frequento la squadra di Baskin ho scoperto tante cose su di me. Per esempio adesso so che la mia capacità di muovermi non serve solo a me stesso ma è essenziale per permettere anche ad altri di entrare a far parte del gioco. So anche che devo utilizzarla con discernimento, questa capacità, perché è una risorsa importante per la squadra e devo scegliere a disposizione di chi metterla a seconda delle situazioni che la partita richiede. Ho imparato anche che un compagno, con disabilità o no, non è uno che compete con me, ma è uno che ha bisogno di me e io di lui, della sua bravura, dei suoi canestri. Adesso ho scoperto che quando un mio compagno tenta di fare canestro, magari facendo uno sforzo fisico e psicologico immane, io partecipo intensamente della sua fatica, la sento su di me e vorrei con tutto me stesso vedere la palla entrare regalando la gioia dell’obiettivo perseguito. E poi io, giocatore di ruolo 4 o 5, che credevo che tutti avessero bisogno di me, adesso ho scoperto di avere io bisogno degli altri, dei loro punti, ma anche dei loro sorrisi quando ci si trova per l’allenamento, e della forza morale che vedo nei miei compagni che sanno insistere con pazienza e fatica tanto più grandi della mia.
E se sono un allenatore o un insegnante? Per prima cosa imparo che allo sport appartiene una caratteristica che nel Baskin è fondamentale: la delicatezza. La vedo in tutti i ruoli, gli uni attenti e partecipi di ciò che fanno gli altri e mi accorgo che lo sport (il Baskin) mi sta educando, mi sta facendo cambiare. Voglio anche io essere delicato e voglio che tutti diano il massimo, sento che tutti sono fondamentali e che più il gioco procede più siamo gli uni indispensabili agli altri: questo sport è veramente integrante. Da insegnante mi rendo conto di essere realmente al servizio dei miei allievi e non più il contrario. Sto osservando i “miei” giocatori o allievi e li vedo “fiorire”. Il senso sociale dello sport li ha fatti crescere, non giocano più solo per la fama o per la propria esclusiva affermazione, adesso sentono di appartenere a ciò che li circonda. Sono tanti anni che insegno e penso che anche questo è un diritto che finalmente può essere rispettato: il diritto dei miei allievi di imparare a “sentire” l’importanza del contesto in cui vivono per la loro crescita come persona (la loro educazione ). Ma non solo: quando è arrivato un ragazzo non vedente in carrozzina, siamo stati capaci di farlo giocare insieme agli altri “inventando” l’emissione di un suono (lo schioccare delle dita) che partendo dalla prossimità del canestro permettesse al compagno di rappresentare nella sua mente la posizione del canestro. Ho parlato al plurale perché a questa soluzione finale “efficace” siamo arrivati grazie al contributo di vari soggetti compreso il ragazzo non vedente che ama sentire schioccare le dita. Ancora l’integrazione è figlia di integrazione e quando il giocatore che non vede sta per tirare, il pubblico si autozittisce per permettere che il suono dello schioccare delle dita pervenga alle orecchie del giocatore. Questo silenzio intriso di rispetto e aspettativa è parte di quella “delicatezza” a cui mi sto educando.

I valori educativi del Baskin e “i quattro pilastri formativi” 
Ci si chiede spesso se lo sport possiede valori educativi intrinsechi, cioè se la pratica dello sport educa di per sé, o se invece la trasmissione di questi valori educativi dipende dal modo in cui si fa praticare lo sport e quindi dalle persone. Il Baskin, più forse di qualsiasi altra attività sportiva finora, cambia un po’ il modo in cui solitamente si risponde a questa domanda ricorrente che attraversa le preoccupazioni di genitori, insegnanti, educatori, ma anche studiosi dello sport. Sembra in effetti che la struttura interna del Baskin generi un circolo virtuoso grazie al quale le dinamiche relazionali che si creano partecipano a produrre l’identità educativa di questo sport. Nel Baskin, è il prodotto originale che emerge dalla relazione tra le persone coinvolte e la natura dello sport che crea condizioni migliori per un processo educativo. È ciascuna delle persone coinvolte che, attirata e/o trasformata dalla logica interna di questo sport, conferisce all’attività un pezzetto della sua identità profondamente umanizzante, all’interno di questa dialettica circolare “soggetti-oggetto” in cui causa e effetto si confondono.
Nella seconda metà degli anni ’90, il Rapporto Delors (1997), tradotto in italiano con il significativo titolo Nell’educazione un tesoro, elaborato nell’ambito dell’UNESCO dalla “Commissione internazionale dell’educazione per il XXI secolo” e quindi con una prospettiva planetaria, ha proposto come pilastri fondamentali della formazione: il Sapere, il Saper fare, il Saper essere, il Saper convivere.
Nel Baskin, dall’interazione tra la struttura di questo sport e i diversi attori coinvolti (giocatori, compagni e avversari, allenatori o insegnanti, spettatori, ciascuno accompagnato dal proprio mondo incommensurabile) emerge un processo formativo profondamente umanizzante che si appoggia precisamente su questi 4 pilastri.

Saper fare (sviluppo motorio ma non solo)
Per rispettare la dignità di ogni giocatore nel Baskin, i “canestri” occorre saper farli e saper operare in modo che tutti li possano fare. Ciò comporta, oltre allo sviluppo delle abilità motorie di base, l’acquisizione di una serie di gesti tecnici e atletici che possiamo così riassumere: padroneggiare tecniche e tattiche specifiche del Baskin; sapere prendere decisioni; sapere accompagnare una persona in carrozzina; saper indirizzare un compagno verso la realizzazione del proprio compito.

Sapere (sviluppo cognitivo: conoscenze e sensibilità culturale)
Riprendendo ampiamente le parole di Charles Gardou, possiamo dire che l’esperienza del Baskin ci avvicina all’“infinità della diversità umana, la sua polifonia, la fluttuazione delle sue apparenze, la sua profonda non staticità, la sua vulnerabilità essenziale”. Ci insegna “che s’incrociano in ciascuno di tutti noi la sofferenza e la forza, il silenzio e il sogno, le tragedie e i superamenti esemplari”. Ci ricorda “che la vulnerabilità è alla radice, al centro, nella parte più intima di ogni essere e ogni esistenza” e che le persone con disabilità sono in qualche modo “lo specchio della nostra propria incompletudine”, sottolineando la nostra dovuta umiltà di fronte alla vita. Nel Baskin, impariamo “che siamo tutti singolarmente plurali e pluralmente singolari” secondo le belle parole di J-L Nancy.
Ancora, il Baskin sensibilizza al fatto che ognuno ha delle potenzialità che aspettano solo di essere valorizzate, che “nessuno da vicino è normale”, che il linguaggio delle emozioni è lo stesso per tutti, che tutti “ospitano” delle sorprese, dei tesori, che la diversità è e sarà sempre, intimamente, una ricchezza.

Saper essere (sviluppo psicologico e emotivo)
Il Baskin favorisce lo sviluppo dell’autostima, accettando i propri limiti ma sapendo anche apprezzare il proprio potenziale. Partecipa allo sviluppo dell’intelligenza emotiva, attraverso il potenziamento delle seguenti abilità: capacità di leggere dentro se stesso (consapevolezza di sé: punti forti e deboli), capacità di riconoscere le proprie emozioni e quelle degli altri (gestione delle emozioni), capacità di governare le tensioni (gestione dello stress, della frustrazione…). L’esperienza del Baskin insegna, sia ai giocatori che agli allenatori o agli spettatori, a saper vivere la competizione in modo equilibrato, grazie alla doppia competenza del saper vincere e saper perdere, assai utile nella vita (anche non sportiva). Ci offre l’opportunità di sviluppare la nostra abilità a comunicare con linguaggi non tradizionali che utilizzano i canali anche dell’affettività.

Saper vivere insieme (sviluppo sociale e relazionale)
Per ultimo ma non in ordine di importanza, in un mondo dominato dai valori della competizione, l’esperienza del Baskin risana il valore educativo della competizione insegnando innanzitutto a cooperare, per migliorare se stesso e per scoprire le fondamenta del vivere insieme. Infatti, ci aiuta a interagire e relazionarci con gli altri in modo positivo (abilità per le relazioni interpersonali), a comprendere gli altri esercitando la nostra empatia, a lasciare spazio agli altri, a collaborare, a condividere, a rispettare le regole per permettere l’espressione di tutti.

In conclusione, vogliamo sottolineare quanto i principi metodologici ed esistenziali del Baskin, nello sforzo strutturale di differenziare diverse competenze (sia sportive che umane) per valorizzare ciascuna come lo merita, siano vicini ai principi della teoria di Howard Gardner quando individua una pluralità di “intelligenze” ovvero di modalità di conoscere e rapportarsi con il mondo. Infine, sempre inspirandosi allo stesso autore che identifica fondamentalmente tre valori educativi universali che qualsiasi processo formativo governato dall’uomo dovrebbe sempre ricercare, il Vero, il Bello e il Buono, pensiamo che il Baskin, precisamente, educhi al vero, al bello e al buono.

Muyeye: a scuola con Le Parole Ritrovate

A pochi kilometri da Malindi, località della costa kenyana ben nota al turismo mondiale e soprattutto a quello italiano, sorge Muyeye, un piccolo villaggio i cui abitanti non hanno beneficiato in alcun modo dei guadagni e degli affari che crescono tra spiagge, alberghi e resort.
A causa della povertà diffusa, della quasi totale assenza di infrastrutture e delle difficili condizioni di vita cui versa la quasi totalità della popolazione, a Muyeye come nel resto del paese il diritto dei giovani a costruirsi un proprio degno futuro è tutt’altro che assicurato. Al di là delle classi primarie l’offerta formativa della scuola pubblica è minima, e i giovani sprovvisti di un sostegno a distanza o di una famiglia benestante alle spalle non proseguono gli studi poiché non possono sostenere i costi di frequenza degli istituti privati presenti sul territorio. Per far fronte a un simile stato di cose nel 2003 il Governo del Presidente Mwai Kibaki ha approvato una legge con la quale si garantiva l’istruzione scolastica gratuita a tutti, corredata da un piano quinquennale tra le cui azioni rientrava anche l’accoglimento di infrastrutture donate da organizzazioni di cooperazione internazionale. Al piano quinquennale del Governo Kenyano fa riferimento anche il progetto di costruzione della nuova scuola professionale di Muyeye – voluta da una rete di partner italiani e locali – che, completa di laboratori, forni per la cottura dell’argilla, di una piccola sartoria e di aule e strumentazioni specifiche, si propone di dare la possibilità ai giovani della zona di imparare a svolgere una professione, costruirsi un futuro e ritagliarsi un ruolo attivo nella comunità d’appartenenza.
Ciò che rende interessante il progetto “Fare assieme la nostra scuola a Muuyeye” è la rete di partner e sostenitori che lo anima, e soprattutto il fatto che il partner di Itake (associazione di volontariato frusinate capofila del progetto) e di Knut (gruppo di insegnanti kenyani grazie al quale è stato possibile individuare con precisione i bisogni della popolazione locale) è il sistema “Parole Ritrovate”, un movimento di utenti, operatori, familiari e cittadini che riunisce numerose ed eterogenee realtà impegnate in tutta Italia nella realizzazione di attività, manifestazioni ed eventi volti a veicolare un’attenzione positiva verso il mondo della salute mentale. La rete di Parole Ritrovate promuove un approccio partecipativo ribattezzato come “Fare assieme”, grazie al quale ognuno è chiamato a esprimere se stesso e le proprie qualità mettendosi in relazione con gli altri, con la comunità, con il mondo. È questa la strategia proposta dalla rete per sconfiggere pregiudizi e stigma sociale che – accresciuti da un contatto carente e difficile tra malattia mentale e società e dalla propensione dei mass media a trattare certe tematiche soltanto nelle pagine di cronaca nera – rappresentano senza dubbio l’ostacolo più evidente all’inclusione sociale di chi soffre di un disagio psichico.
Renzo De Stefani, primario del Servizio di Salute Mentale di Trento e ideatore del sistema Parole Ritrovate così spiega il significato della collaborazione con Itake per il progetto Fare assieme la nostra scuola a Muyeye: “Abbiamo scelto di prendere parte a questa avventura perché se da un lato era evidente la sua utilità e urgenza per la popolazione del villaggio finora sprovvisto di adeguate strutture scolastiche, dall’altra parte ci è sembrata un’ottima opportunità per veicolare un’immagine positiva del mondo della salute mentale e lavorare assieme per un cambiamento di respiro più ampio in questa direzione”.
“Questo non significa però – precisa lo psichiatra – che il collante del nostro progetto e del legame che vogliamo creare e tener vivo tra Parole Ritrovate e Muyeye debba essere necessariamente la malattia mentale in senso stretto: è vero che un punto fondamentale dell’accordo per la costruzione della scuola verte intorno all’integrazione scolastica di ragazzi che soffrono di un disagio psichico e sulla necessità di porre attenzione a questo aspetto, ma al di là di ciò, vogliamo che sia la vita a farci incontrare… I gruppi che si sono recati a Muyeye durante l’opera di costruzione della scuola, e quelli che vi si recheranno dopo, non partiranno con l’idea di imporre un modello d’integrazione, ma semplicemente andranno in cerca di un incontro, di uno scambio, di un avvicinamento al mondo, tenendo fede ai principi del Fare assieme e a una profonda e volutamente irragionevole fiducia nelle risorse di ognuno e nella possibilità di unirle per cambiare le cose”. Di qui gli sforzi di ogni gruppo per prepararsi alla partenza, per pensare a come sarà l’incontro con chi a Muyeye ci vive, con i bambini e con le loro famiglie, per ideare giochi e attività nelle quali trovarsi e conoscersi. Patrizia, un’utente del Social Point – realtà modenese partner di Parole Ritrovate – prima della sua partenza raccontava elettrizzata: “Adesso con tutto il gruppo stiamo pensando a quali giochi e attività potremmo proporre ai bambini di Muyeye. Chissà, forse giocheremo a calcetto o a pallavolo, e poi pranzeremo e ceneremo insieme, chissà!”.
E mentre a Muyeye la nuova scuola diventava una realtà, in tutta Italia i vari gruppi di Parole Ritrovate erano impegnati a fondo per organizzare iniziative e ideare soluzioni creative per raccogliere insieme i 60mila euro necessari a coprire la quota di partecipazione al progetto e a spesare i viaggi dei propri utenti. Manuela Ciambellini, coordinatrice del Social Point spiega: “Le serate e le iniziative organizzate per pubblicizzare e finanziare il progetto sono state prima di tutto momenti in cui il gruppo di operatori, utenti, famigliari e cittadini si è sentito unito per uno scopo comune, quello stesso scopo che a volte manca e scoraggia gli utenti a uscire dal guscio e a mettersi in gioco nelle relazioni con l’esterno”. Patrizia, che nelle serate di fund raising si occupava insieme ad altri di mixare i dischi, chiarisce sorridendo: “So che stiamo aiutando i bambini di Muyeye a costruirsi un futuro. Se potranno andare a scuola sarà più facile per loro trovare un lavoro, non restare da soli ed essere felici. È per questo che ci impegniamo così tanto”.
Consapevoli della delicatezza che la sfida della partecipazione porta in sé, gli operatori del Fare Assieme hanno accompagnato gli utenti e le loro famiglie attraverso questo progetto, cercando di affrontare e condividere i timori dei genitori: “Alla notizia che sarei partito per l’Africa mia mamma non era proprio tranquilla. Però poi ne abbiamo discusso, e grazie alle voci di mia sorella e di Manuela e degli altri operatori ha compreso anche lei di quale grande opportunità si trattasse… Adesso resta solo la paura dell’aereo” raccontava Luca a poche settimane dalla partenza. “Siamo ben coscienti che in una avventura come questa, dove ripetutamente operatori e utenti sono stati chiamati alla pari a mostrarsi in pubblico con le proprie forze e le proprie debolezze, in occasione delle serate o degli incontri pubblici e più ancora durante i viaggi in Africa, il timore dei propri limiti e del giudizio degli altri avrebbe giocato un ruolo cruciale” afferma Manuela. “È per questo che nel gruppo abbiamo condiviso ogni paura e ogni emozione, cercando di mantenere un buon equilibrio tra il tentativo di evidenziare da un lato la responsabilità e l’importanza del singolo contributo ed evitando dall’altro di far pesare eccessivamente un’assenza, una rinuncia, una piccola defaillance”.
È la dimensione dell’incontro e del cambiamento possibile che anima questo piccolo ma interessante progetto, l’idea di rendere migliore il mondo e dimostrarne di esserne capaci nonostante i propri limiti, nonostante quegli stessi pregiudizi di cui si rincorre il superamento. E ancora l’idea di solidarietà internazionale come incontro e arricchimento reciproco, come opportunità di crescita per tutti grazie all’intreccio di diversità, peculiarità, storie e risorse che insieme possono portare a un miglioramento della società e di chi ci si trova a vivere o a lottare per viverci.

Per ulteriori informazioni:
Le Parole Ritrovate
www.leparoleritrovate.com
Social Point Modena:
e-mail: socialpoint@volontariamo.it

L’estinzione degli imperfetti

Permane tuttora un angolo buio della nostra storia recente e che pochi, specie tra i giovani, ricordano o conoscono. Una mancanza piuttosto grave che ho toccato con mano ogni qualvolta mi sia trovato a discutere di quell’oscuro concetto sintetizzato sotto il termine di eugenetica.
Penso che ciascuno abbia una idea propria su questo ambito specifico della ricerca e per ragioni di opportunità vorrei eludere qualsiasi discorso sugli ultimi sviluppi che questa materia pseudoscientifica abbia attraversato; al contrario, il punto su cui insisto è dato dall’esame del piano internazionale di eugenetica, avviato intorno agli anni Venti del Novecento e continuato in alcuni stati di Europa, Asia e Stati Uniti fin quasi agli inizi degli anni Ottanta. I libri di storia inseriti nei programmi ministeriali della didattica italiana stranamente tacciono quel che invece dovrebbero diffondere, affinché gli sbagli della nostra collettività civile siano acquisiti e superati.
Ora, so bene che la rubrica de Il magico Alvermann ospita da sempre contributi di riflessione sulla disabilità a partire dalla letteratura. In un campo così vasto parrebbe ovvio concentrarsi sui passi e sulle parole che ci hanno emozionato, fatto riflettere, indotto a migliorare la nostra conoscenza. Tuttavia sono convinto che, per una volta, possa darsi anche un percorso inverso, a partire dagli episodi della vita di tutti i giorni o della nostra storia che ci hanno fatto stare male e che per un basilare senso del dovere andrebbero di tanto in tanto affrontati di nuovo, pena la loro rimozione.
L’eugenetica, intesa come lo studio e la costruzione di una razza virtualmente perfetta, ha radici lontane, riconducibili probabilmente fino al mito di Sparta, dove la selezione naturale prevedeva che alcuni neonati fossero gettati giù dalla rupe. Un discorso, quello spartano, chiaramente legato alla volontà di assicurarsi la migliore discendenza possibile, in relazione a una struttura corporea idonea per la guerra. Di per sé potrebbe bastare questa evidenza per comprendere quanto fossero fallaci le basi di un simile disegno, ma il problema vero consta nel fatto che il programma di eugenetica non fu una prerogativa del mondo antico. Trascurando l’arianesimo che conobbe il terreno più fertile proprio nella Germania nazista, occorre notare come paesi più che civilizzati come quelli scandinavi (Svezia e Norvegia sopra gli altri) abbiano avanzato e portato a termine piani di eugenetica che prevedessero la sterilizzazione, volontaria e no, di disabili mentali e fisici. In un periodo compreso tra il 1935 e il 1975, sulla scorta dell’idea di un neuro-psichiatra di nome Herman Bernhard Lundborg, il partito socialdemocratico svedese approvò una legge che causò quella che in tempi più recenti è stata giudicata una grave violazione dei diritti umani a danno di oltre 60.000 persone la cui unica colpa consistette nell’imperfezione dei loro geni.
Senza estendere ulteriormente la disamina storica, che però ho voluto introdurre per dare un quadro perlomeno sommario dell’argomento, sarebbe invece interessante riflettere su questi dati per formulare due domande strettamente imparentate coi fatti appena enunciati; la prima: perché mai, una società civile fondata sulla democrazia e sulla libertà dovrebbe predicare un futuro migliore declinato sul presupposto della superiorità genetica?
Questo argomento, che sicuramente riscosse largo consenso presso l’oligarchia spartana, trasposto all’alba del XX secolo non avrebbe dovuto fare proseliti. Così, se ciò sia avvenuto, le ragioni fondamentali andrebbero rintracciate nell’antropologia. È un impulso metastorico, e che definirei quasi vitale, quello di disporci in perenne confronto con gli altri, quello di classificare, di esprimerci secondo termini di paragone quali “migliore” o “peggiore” e, dunque, dalla tensione costante verso il confronto con i nostri simili può finanche derivare il rifiuto per tutto ciò che sia diverso. Inoltre un ulteriore meccanismo, in questo caso innescato dalla volontà di superare i propri limiti biologici, pare senz’altro dettato dalla difficoltà di accettare il nostro essere imperfetti. Ciascuno di noi, al di là di ogni ostentazione, riconosce la propria perfettibilità e per il fatto stesso che gli uomini siano la specie pensante più evoluta della Terra, il salto che ci divide dal sentimento di onnipotenza si fa piuttosto breve. L’eugenetica in entrambe le sue posizioni, negativa e positiva, concretamente non fa altro che rivelare la volontà da parte dell’uomo di determinare la propria natura. Facoltà che, per natura stessa, all’uomo non è concessa e che quest’ultimo ha inteso perseguire a ogni costo, sia appunto con l’eugenetica negativa (vietando agli altri di procreare), sia nella pratica positiva (escogitando il modo di favorire la dominanza dei caratteri ereditari preferibili, per esempio attraverso la fecondazione in vitro).
Detto questo, in effetti, il motivo per cui un progetto di eugenetica sia nato appare necessariamente non condivisibile ma comunque logico se spiegato come fenomeno connaturato alla condizione umana; ciò nondimeno, quel che dovrebbe destare allarme è che di una realtà storica così drammatica non si parli. Da qui la seconda domanda: perché mai, se la traduzione nella pratica dell’eugenetica, in ogni tempo e in ogni circostanza, si è tradotta invariabilmente in una palese e riconosciuta violazione dei diritti umani, a danno di innocenti e sovente inconsapevoli individui, disabili per nascita, oggi del fatto non si conserva adeguata memoria?
In assenza di una doverosa attività di documentazione e testimonianza, nulla impedirebbe alle generazioni future di ricascare nei medesimi e tragici errori del passato. Trascurando di dire che in ogni caso una seria rivalutazione di tutto il fenomeno, riconosciuta pubblicamente, attiverebbe discussioni utili a rafforzare la cosiddetta cultura dell’accettazione e dell’inclusione, sia in relazione alla disabilità mentale e fisica, sia per l’eliminazione una volta per tutte di preconcetti sulla presunta superiorità e inferiorità di un individuo rispetto a un altro.
Benefici, questi, che al di fuori dei discorsi pubblici, possono giungerci soltanto dalle arti, in quanto esse rappresentano l’unico e vero contributo umano alla riflessione e alla conoscenza. Giusto la letteratura, come nel caso de Il magico Alvermann, può fornirci in proposito insieme agli argomenti pure il supporto della testimonianza. E in fondo, si tratta di un’autentica lezione di libertà.
Pertanto, a coloro che ancora oggi sostengono di operare in nome di un bene comune, in barba ai diritti elementari dei soggetti più deboli e meno tutelati – come per anni sono stati gli uomini e le donne afflitti da malattia mentale o fisica – riporto i passi della trilogia che un dissidente cinese scrisse contro la rieducazione di massa imposta dal maoismo. Ne Il re degli alberi, il libello che narra la vicenda dei giovani studenti inviati tra i contadini allo scopo di essere rieducati, il tema dell’utilità collettiva duramente perseguita si traduce nel disboscamento degli alberi creduti superflui per lasciare posto alle piante migliori.

Li Li sbottò: – Quest’albero dev’essere abbattuto! Occupa molto spazio che potrebbe essere usato per piantarvi alberi utili!
– Quest’albero non è utile? – chiese il Grumo.
– Certo che no. A che serve? Ci si possono fare ciocchi per il fuoco? O mobili? O case? Non ha un gran valore economico -.
Il Grumo rispose: – Secondo me è utile. Io sono un uomo semplice, non so spiegare a cosa serve, ma esser cresciuto fino a diventare così grande non è una cosa da poco. Se fosse un bambino, colui che l’ha nutrito non l’abbatterebbe -.
Li Li scuoteva la testa esasperato: – Nessuno ha piantato quest’albero e di alberi selvatici come questo ce ne sono fin troppi. Se non ci fossero, avremmo da tempo portato a termine la messa a coltura delle terre. Per dipingere i quadri più nuovi e più belli ci vuole un foglio di carta bianca. Questi alberi sono un ostacolo, vanno abbattuti. Noi stiamo facendo la rivoluzione, non stiamo crescendo un bambino!
(Brano tratto da Acheng, Il re degli alberi, Milano, Bompiani, 1994, p. 63)

Rileggendo, trovo straordinaria la metafora dell’uomo che per farsi creatore esige un foglio di carta bianca. Malgrado sia tutto il dialogo, orchestrato intorno all’utilità, a rivolgerci un messaggio inequivocabile. Sul progresso che richiede prevaricazione. Sulle illusioni.

Disabili in viaggio… sui mass media

Mentre questo numero di “HP-Accaparlante” veniva chiuso in redazione, è capitato un episodio curioso sulla stampa on line. Repubblica.it ha pubblicato in molta evidenza la lettera di un lettore/scrittore che denunciava un caso di discriminazione avvenuto su un treno italiano contro un ragazzo disabile straniero. I toni della lettera e i successivi commenti e le riprese dell’articolo sono un’ottima fonte di riflessione per una rubrica come Informazione sociale. Riportiamo un bell’articolo di Franco Bomprezzi, comparso pochi giorni dopo l’accaduto sul Blog “FrancaMente” che lo stesso Bomprezzi cura per la sezione on line di “Vita” (www.vita.it/francamente).
Ho atteso qualche giorno. Avevo letto subito su Repubblica.it la denuncia di Shulim Vogelmann, giovane scrittore nato a Firenze, di cultura ebraica e cittadinanza anche israeliana, testimone di un trattamento discriminatorio nei confronti di un viaggiatore disabile in treno. Un racconto a tinte forti, pieno di particolari, ma anche, per certi versi, ai limiti dell’incredibile, pur essendo io, abbastanza logicamente, pronto a prendere le parti di una persona con disabilità che venga maltrattata.
La storia è nota ormai quasi a tutti, perché è diventata una delle notizie più commentate e riprese da giornali, tv e radio a fine d’anno. Una storia di ordinaria maleducazione, peggio, di maltrattamento verbale da parte del personale delle Ferrovie e della Polfer, nella totale indifferenza degli altri passeggeri, tranne lo scrittore, che racconta tutto per filo e per segno. In estrema sintesi un ragazzo disabile probabilmente romeno, privo di braccia, sale in treno senza biglietto ma con i soldi giusti pronti per pagarlo. Siamo sull’Eurostar Bari-Roma del 27 dicembre. Atteggiamento ostile del controllore donna, parole pesanti nei confronti dei disabili da parte degli agenti della Polfer, unico paladino del malcapitato disabile è lo scrittore che peraltro non provvede direttamente a pagare il biglietto mancante, ma si limita a intavolare una discussione con il capotreno. Alla fine, secondo Vogelmann, il giovane disabile viene fatto scendere dal treno.
Prima ancora che sia possibile avere una versione da parte delle Ferrovie, che in verità subito si scusano in attesa di verificare la vicenda, si apre sul sito di Repubblica.it una valanga incontenibile di commenti, quasi tutti di indignata solidarietà, senza alcun dubbio, nella convinzione che la storia non solo sia credibile così com’è stata raccontata, ma la sua veridicità dipende dal fatto che si inserisce in un quadro disastroso di episodi, citati dai lettori, a conferma della maleducazione dei ferrovieri, dei passeggeri, del popolo italiano, e così via lamentando.
Per la verità arrivano anche i commenti di altri passeggeri di quel treno, che non confermano affatto la versione dello scrittore fiorentino, ma anzi, raccontano di un finale diverso. Leggiamo su un altro articolo di Repubblica.it, “Secondo quanto scrive un testimone, l’atteggiamento degli altri passeggeri non è stato affatto indifferente”. ‘Sono uno dei passeggeri che si trovava accanto al ragazzo nel famigerato viaggio – si legge in uno dei commenti –. Mi permetto di rettificare l’articolo […]. È vero, la ragazza e i due agenti della Polfer saliti alla stazione di Foggia si sono rivolti al giovane romeno con toni francamente evitabili, ma parlare dell’indifferenza dell’intero vagone è assolutamente scorretto – conclude –. Su richiesta della ragazza è infatti intervenuto un altro controllore e il suo comportamento è stato ineccepibile. Ha evitato che il ragazzo disabile pagasse la tratta precedente (a suo rischio) e si è impegnato personalmente a comprargli il biglietto con la modalità self service senza ulteriori sovratasse’”. Nel medesimo articolo il quotidiano on line dà conto della versione delle FS: “Il viaggiatore non è mai stato fatto scendere dal treno, il biglietto gli è stato acquistato a Foggia dal personale di bordo. Il Gruppo FS è da sempre attento e sensibile ai diritti dei diversamente abili”. La capotreno in servizio sull’Eurostar 9354 Bari-Roma di domenica 27 dicembre, durante le operazioni di controllo dei biglietti ha riscontrato che un viaggiatore privo del braccio sinistro ma in grado di parlare in modo corretto, era senza biglietto. L’ha quindi informato delle regole di ammissione sul convoglio. “Considerata la particolare condizione del passeggero – si legge sul comunicato ufficiale delle FS –, risulterebbe che la Capotreno si sia ulteriormente attivata per consentire al cliente di proseguire il viaggio sullo stesso treno e senza alcuna sanzione. Per questo è scesa durante la sosta a Foggia provvedendo a recarsi in biglietteria e acquistando il biglietto per conto del passeggero”.
Questa versione coincide con le precisazioni e le rettifiche già espresse dai lettori di Repubblica.it, ma non viene inserita nel corpo del primo articolo, quello di denuncia del fatto, e così i commenti continuano a essere raccolti senza posa, contribuendo a creare il convincimento che sia avvenuta una grave e inaccettabile discriminazione.
Ne traggo ora alcune riflessioni, che offro al vostro pensiero perché magari tutti insieme possiamo trarre qualche piccolo insegnamento dalla vicenda.
Secondo me la verità è à meta strada. Ovvero: la persona disabile è salita sul treno senza conoscere le procedure che consentono di essere registrati (carta Blu delle Ferrovie per i viaggiatori disabili) e quindi assistiti secondo regole note da tempo. Il personale delle Ferrovie sicuramente non brilla per preparazione nel trattare con viaggiatori in difficoltà e l’atteggiamento peggiora quando si ha a che fare con cittadini stranieri. Ma alla fine il buon senso e le regole prevalgono, e infatti il viaggiatore non ha pagato sovrapprezzo, e ha potuto completare il suo percorso, sia pure dopo una disavventura non piacevole.
Seconda considerazione: la disabilità fa notizia solo quando è clamorosa, altrimenti niente. In questo caso ha fatto presa il racconto ricco di particolari emotivi, compresa una discutibile descrizione delle condizioni fisiche del viaggiatore disabile: “Sì, senza braccia, con due moncherini fatti di tre dita che spuntano dalle spalle – scrive Vogelmann –. È salito sul treno con le sue forze. Posa la borsa a tracolla per terra con enorme sforzo del collo e la spinge con i piedi sotto al sedile. Crolla sulla poltrona. Dietro agli spessi occhiali da miope tutta la sua sofferenza fisica e psichica per un gesto così semplice per gli altri: salire sul treno”.  E più avanti: “Articolando le parole con grande difficoltà, riesce a mormorare una frase sconnessa: ‘No biglietto, no fatto in tempo, handicap, handicap’. Con la bocca (il collo si piega innaturalmente, le vene si gonfiano, il volto gli diventa paonazzo) tira fuori dal taschino un mazzetto di soldi”. E infine: “Il ragazzo farfugliando le dice di non avere altri soldi, di non poter pagare nessun sovrapprezzo, e con la voce incrinata dal pianto per l’umiliazione ripete ‘Handicap, handicap’. Insomma una descrizione alquanto indelicata ma strappacuore. Giusto quello che serve per guadagnarsi l’home page del quotidiano on line e il link in centinaia di profili di Facebook e note di commento sdegnato, da parte di lettori in buona fede ma del tutto privi, secondo me, di un minimo spirito critico, oserei dire di un minimo spirito giornalistico.
Da quando sono giornalista, gennaio 1984, ho sempre pensato che le notizie vanno verificate con cura. A maggior ragione se si tratta di fatti che suscitano emozioni forti e condivisione, pathos. In questo caso sin dall’inizio ho nutrito qualche dubbio. Prima di tutto perché ho viaggiato molto in treno, e non ho mai incontrato episodi di così evidente inciviltà. Casomai, e qui sta il punto, ho sempre potuto constatare una certa difficoltà a garantire al meglio i servizi promessi. L’assistenza è efficiente solo sulle tratte principali, le stazioni non servite sono la maggioranza, chi vuole viaggiare in treno e vive in provincia non può proprio farlo, ancora adesso, in moltissime regioni italiane. L’incarrozzamento delle sedie a rotelle spesso è garantito da mezzi obsoleti o non funzionanti. Ora bisogna prenotare con due giorni di anticipo, il che oggettivamente discrimina rispetto agli altri viaggiatori. Voglio dire: i disservizi esistono ma sono altri, e rientrano in un giudizio complessivo scadente sulla qualità e sulla omogeneità del trattamento da parte delle Ferrovie. Un problema dunque che riguarda tutti, non solo le persone con disabilità.
Altra riflessione: si sta consolidando sul web la tendenza allo sfogo collettivo, una “class action” dei sentimenti repressi. Tutti concordano nel protestare, nel denunciare, nell’indignarsi. Chi esprime dubbi viene isolato e bollato come “buonista”. Difficile in questa situazione svolgere quotidianamente un corretto servizio di informazione sui diritti delle persone con disabilità, diritti che si traducono in norme, in regolamenti, in procedure verificabili, in accordi con le associazioni, in corsi di formazione, in buone prassi, in testi da consultare, insomma in strumenti maturi di democrazia partecipata.
Quel viaggiatore senza mani e senza braccia è ora scomparso nel nulla, e nessuno lo ha davvero aiutato a essere consapevole della sua cittadinanza. Ma tutti sono convinti di aver solidarizzato con lui, e si mettono il cuore in pace. Fino alla prossima indignazione.

La bellezza: un modo di vivere

Chi come noi era giovane negli anni ’80, ricorderà senza dubbio Un sacco bello, il primo film di Carlo Verdone.
Primo di una lunga serie, nel quale l’attore e regista romano, mette in campo tutte le sue abilità proponendo una carrellata di personaggi assolutamente spassosi.

Protagonisti davvero particolari, fuori dagli schemi… Ma che sono esattamente quello che ci si può aspettare da un film con questo titolo: un sacco belli!
Un irriducibile ragazzo prossimo alla trentina, privo oramai d’amici che parte per un “tour del sesso” in Polonia; un ingenuo e goffo ragazzo trasteverino che deve raggiungere la madre in vacanza a Ladispoli; infine Ruggero, che vive in una comunità di ragazzi dopo aver avuto una visione mistica, una sorta di hippie che professa l’amore libero e il distacco dal mondo moderno. Insieme a questi, altre comparse come il prete Alfio, il cugino Anselmo e un vecchio professore autoritario.
Una varia umanità davvero strana, parodia divertente che svela comportamenti e atteggiamenti alquanto comuni, quelli che ognuno di noi mette in atto senza rendersene conto, finché, appunto, qualcuno non ce li mostra, proponendoli da un altro lato.
Un sacco bello sarà anche il titolo di questa nuova rubrica di “HP-Accaparlante”, che, come al solito, intende sovvertire il pensiero comune e, nello specifico, un certo modo di pensare che tende a omologare le idee e le immagini evitando un confronto reale a fronte di affermazioni buoniste e semplicistiche.
Una rubrica nella quale raccontare di esperienze, idee, storie dalle quali possa emergere il rapporto tra diversità e bellezza, ovviamente con un occhio speciale al declinare la diversità come disabilità.
Un sacco bello, qualcosa che esce, quindi, dallo schema, che ci mette in discussione, che ci obbliga a confrontarci con ciò che siamo, che ci svela e ci mostra un altro lato di noi… Un lato diversamente bello.
Sensazioni, le stesse, che ci vengono anche dal mettere in relazione disabilità ed estetica, un rapporto che ci obbliga a uscire dallo schema, a cambiare il punto di vista, a trovare un altro lato, diversamente bello.
Tale rapporto è stato sviscerato in diversi modi e da molti punti di vista.
Sia nell’ambito accademico che in quello associativo, riflessioni a partire da concetti astratti e altre che partono dall’esperienza, idee e progetti per fare spettacolo altri per ragionare insieme.
Anche noi abbiamo trattato il tema in un articolo scritto precedentemente, nel quale abbiamo posto questa provocatoria domanda: “Ma i disabili sono belli o brutti?”.
Molti lettori si sono sentiti chiamati in causa e hanno inviato risposte di varia natura, chi sottolineando l’aspetto paradossale del quesito, chi affrontandola in modo serio e analitico con risposte che rasentavano la filosofia, chi non comprendendo il senso ironico esprimendo, quindi, la propria indignazione e la propria incomprensione rispetto alla domanda.
Tanto interesse è molto interessante e significativo, perché ci svela che è un tema poco discusso e relegato nell’angolo dello scontato. In tanti si sono chiesti: perché farsi una domanda di questo tipo? Che senso ha? In fondo le persone con disabilità sono come tutte le altre, belle o brutte a seconda dei gusti.
Questa è una risposta molto vera e ci permette di superare il primo livello di discussione, quello della bellezza intesa in senso ordinario, semplicemente legata all’aspetto esteriore.
Se però prendiamo in considerazione l’estetica in quanto scienza filosofica del bello, non ci basta parlare di gusti ma dobbiamo chiederci che rapporto ha e come viene gestita la bellezza quando si abbina alla diversità e, più in specifico, con la diversità.
Per fare ciò, abbiamo fatto la cosa, a nostro avviso, più semplice. Siamo entrati nel contenitore di notizie più grande al mondo e abbiamo digitato “disabilità e bellezza”.
Non pensavamo ma abbiamo trovate davvero tante notizie, diverse tra loro per luogo, tipo e partecipanti. Tra le tante idee, progetti ed esperienze raccolte, ne riportiamo una che ci ha molto colpito:
concorso di bellezza per donne disabili e i loro amici animali: un concorso con passerella e giuria, che prevedeva la partecipazione di donne disabili accompagnate dal loro amico a quattro zampe, il cane che vive con loro.
Fermi tutti?
Va bene che la rubrica si ispira a un film che racconta storie davvero strane, ma questa esperienza ci pare proprio unica.
Perché una persona con disabilità dovrebbe sfilare insieme a un cane?
Forse perché fa una buona azione?
Oppure è il contrario, cioè è il cane che fa una buona azione verso la persona con disabilità?
Forse lo scopo del concorso di bellezza è proprio questo, indovinare chi tra i due fa la buona azione?
E perché non si è mai vista Naomie Campbell sfilare con un cane?
Uhm, non è che il vero significato della sfilata è che la persona disabile, di solito, è sola come un cane?
Ironizzare su questa notizia ci è venuto facile.
Insomma, tra i tanti modi per mettere in mostra la bellezza delle donne, era necessario proprio organizzare una sfilata di questo tipo?
Come succede spesso, però, da una riflessione scaturisce un’idea o, come in questo caso, è immediato mettere a confronto la solitudine con la bellezza e svelare un altro lato del discorso.
Ci piace pensare e affermare che ciò che è bello è per sua natura condiviso.
Altrimenti perché curiamo il nostro aspetto o ci vestiamo in un certo modo? Perché ci occupiamo dell’ambiente in cui viviamo e delle relazioni con gli altri? Cosa ci spinge a rendere bella la nostra vita se non il desiderio e la necessità di condividerla con gli altri?
Ciò che è bello è per sua natura condiviso, proprio perché la bellezza, in qualsiasi forma si esprima, chiama in causa la nostra attenzione e il nostro interesse, ci colpisce e affascina.
Possiamo affermare, quindi, che bellezza e solitudine non possono andare di pari passo, se c’è una non c’è l’altra e, quindi, che ciò che è solo (non ciò che è unico!) non può essere bello.
Se prendiamo per buono questo, scopriamo che la bellezza non è legata solo all’aspetto fisico ma è una qualità che ci riguarda a 360°, a partire dall’aspetto estetico fino ad arrivare alla nostra casa e alle nostre relazioni.
Aggiungiamo quindi un altro tassello: la persona con disabilità non risulta bella o brutta se viene fatta rientrare, o meno, negli stereotipi della bellezza delle persone normodotate, ma diventa bella o brutta se riesce a costruirsi, o meno, una realtà di vita nella quale le relazioni e la condivisione della quotidianità siano alla base.
Ecco allora lo scopo di questa rubrica: il raccontare la bellezza come un modo di vivere più che come un modo di apparire, che ci permetta quindi di avere una visione ad ampio raggio del tema.
Il desiderio è che questo spazio possa ospitare esperienze, idee, progetti e tutto ciò che tenta di proporre un altro punto di vista sul rapporto tra bellezza e disabilità, che ci permetta, quindi, di estendere il nostro orizzonte e che ci aiuti a conoscere altri lati della bellezza.
Sarà un’avventura interessante, che ci piacerebbe percorrere insieme a voi e alle vostre esperienze, per raccontare la realtà dal punto di vista di chi la vive in prima persona, di chi, giorno dopo giorno, tenta di costruirsi un proprio modello di bellezza, più o meno legato alle mode del momento.
Se avete una storia da raccontare, scrivete scrivete!

claudio@accaparlante.it

Le presenze ingombranti rovinano il panorama

Nel 2009 sono usciti nelle sale italiane due film che, con intenti molto diversi, affrontano il tema della disabilità e della diversità o, almeno, lo inseriscono all’interno di una narrazione della quale queste sono un elemento portante, “invadente”.
Il primo è Ricky – Una storia d’amore e libertà di François Ozon, regista eclettico (e a mio avviso sempre “incompleto”) presentato all’ultimo Festival del cinema di Berlino; il secondo è Los abrazos rotos (Gli abbracci spezzati) di Pedro Almodovar, film in cui riferimenti autobiografici più o meno palesi consentono al regista di svolgere una riflessione allo stesso tempo morale, emozionale e filmica (ha partecipato al Festival di Cannes 2009).
Ricky  racconta la storia di Katie, divisa tra il lavoro in fabbrica e la figlia, senza marito o compagno, che, innamoratasi del collega Paco, darà con lui alla luce il piccolo Ricky. Le recensioni e i trailer che hanno anticipato l’uscita del film hanno, ovviamente, impedito di vivere appieno la “sorpresa” che stravolge la trama, ovvero la nascita sulla schiena del neonato di due ali dapprima raccapriccianti e che, via via, si fanno sempre più grandi tanto da consentirgli di volare. Pure, la costruzione di questa sorpresa, l’evoluzione narrativa che ad essa porta, risulta a livello formale e non solo l’aspetto più riuscito di questa pellicola. Ozon infatti non rinuncia a immettere, in una regia che fin lì (e in seguito) risulta piuttosto piatta e di taglio realista, da cronaca sociale, stilemi horrorifici che descrivono bene l’evoluzione “angelica” della trama e del piccolo: elementi analogici e premonitori (il pollo a cena, la stanza del nascituro con le pareti azzurre e le nuvole…), le ferite presenti sulla sua schiena che paiono causate dalla disattenzione paterna o, peggio, dalle percosse che Paco avrebbe inflitto al bimbo. I protagonisti sembrano incapaci di leggere questa situazione inattesa, di rapportarvisi, se non alimentando sospetti e incomprensioni reciproci che porteranno a una momentanea divisione tra Katie e Paco.
Lentamente, ma in modo disturbante, le cose si mostrano per quello che sono: ali che, per svilupparsi, lacerano inevitabilmente la pelle di Ricky e la stabilità che la coppia era riuscita a creare.
Svelato il mistero, però, il film torna sui binari iniziali e, alla perdita di forza delle immagini (non a caso) si affianca la debolezza o la prevedibilità del ragionamento sull’elemento di diversità rappresentato da Ricky. Tutto si presenta secondo uno schema piuttosto classico, per cui, se all’inizio Katie cerca di nascondere il segreto del figlio nel timore, fondato, che gli altri possano non comprendere la sua diversità e quindi fargli del male, ma negando al tempo stesso autonomia e libertà al piccolo, finalmente capisce che il modo migliore per esaltare e liberare questa diversità è lasciarla esprimere: perdere il piccolo Ricky perché lui possa manifestarsi pienamente a se stesso e agli altri e perché il suo amore materno possa rivelarsi nella forma più perfetta. “Storia d’amore e libertà”, appunto…
Una favola moderna, con protagonista un “angelo” proletario, realistica (alla Loach-Dardenne per certi versi), surreale e fantastica insieme. Ironica, anche (quanto volontariamente non saprei dire): impossibile non abbozzare un sorriso quando Ricky, legato a un filo per non farlo fuggire, viene mostrato a famelici giornalisti (paganti… e chiamati dai genitori) e sembra un aquilone in carne, ossa e piume. Forse l’ironia della scena vuole mostrare l’assurdità di certe pratiche “gossipare”… Ozon sembra non riuscire a gestire fino in fondo le implicazioni forti che la trama presupponeva e, non facendolo, realizza un lavoro a tratti stucchevole e patetico. Proprio per questo meno intenso e più debole.
Almodovar, invece, sempre fedele alle sue geometrie e geografie dello spazio, dell’immagine e dell’anima, realizza un film intenso e credibile. Nel quale la disabilità, l’infermità e il dolore scorrono dal primo all’ultimo fotogramma in modo, più che evidente, sottilmente invadente, ma senza sacrificare altri elementi della narrazione. In questo (solo in questo) ricorda La ragazza del lago di Molaioli (2006), film pervaso di disabilità, tanto che praticamente nessun recensore all’epoca notò questo “dettaglio”, evidenziando piuttosto gli aspetti e i meccanismi investigativi e da thriller del film, peraltro trattati con maestria del regista italiano (si veda anche “HP-Accaparlante” n. 1, 2008).
Dal racconto del rapporto tra lo scrittore Arthur Miller e il figlio Down (potenziale sceneggiatura di Mateo Blanco-Harry Caine di un futuro film… nel film… nel film) al cancro del padre del personaggio interpretato da Penelope Cruz, Lena; dalla morte di suo marito, il ricco Martel, al coma da abuso involontario di droghe di Diego, figlio inconsapevole di Blanco-Caine e della produttrice Judit, alla cecità di Blanco-Caine stesso, regista prima di perdere la vista (e anche successivamente), che non può non essere associata al periodo di cecità vissuto da Almodovar recentemente. Tutto concorre a creare un’atmosfera di instabilità in cui cadono i confini tra volontà e involontarietà, errore, colpa e innocenza, gioia e dolore, sanità e malattia, forza e fragilità… A rafforzare questa sensazione anche l’eterogeneità dei generi che Almodovar mixa sapientemente, muovendosi tra melodramma, comico, thriller, commedia, Donne sull’orlo di una crisi di nervi (citato e ricostruito; tanti altri i riferimenti più o meno palesi, tra i quali Viaggio in Italia di Rossellini). Così come i continui flashback e l’intreccio narrativo molto articolato, quasi una mise en abîme.
Una riflessione molto matura sulla vita (la quale, per dispiegarsi, deve ricorrere anche a qualche forzatura ed eccesso, tutti perdonabili); un atto d’amore verso “il mistero del cinema come macchina produttrice di piacere e dolore e alla realtà di chi lo fabbrica, nessuna maestranza esclusa…; una riflessione sul cinema e sulla responsabilità di chi lo fa, sul potere e il (non) limite dell’occhio, della visione (le mani che guardano lo schermo). Non è la prima volta, peraltro, che Almodovar si confronta con la disabilità, l’infermità e con i cambiamenti, anche dolorosi, legati a queste condizioni. Ricorderete Parla con lei, il rapporto che si sviluppa tra Benigno e Alicia e quello, più difficoltoso e distante, tra Marco e Lydia, il confronto con la morte che non è ancora tale e con la vita che lo è solo potenzialmente o in base a un atto di fede (fiducia, amore…).
Ricky  e Gli abbracci spezzati sono film diversi tra loro: Ozon vi inserisce un elemento di diversità forte, iper-evidente, paradigmatico e simbolico, ma questo gli sfugge più di quanto Ricky riesca a fuggire dal pregiudizio altrui e dalla sua condizione di cattività. Lasciando, però, anche lo spettatore a distanza da quell’elemento o producendo, al massimo, un’empatia momentanea e innocua. Almodovar, invece, fa fluire questa diversità-instabilità ricordandoci la sua ineliminabile presenza, senza costruirla o imporla d’autorità. Ne fa un oggetto meno monolitico, più umano…

Gli abbracci spezzati (Los abrazos rotos)
Durata: 129’
Regia: Pedro Almodovar
Soggetto: Pedro Almodovar
Sceneggiatura: Pedro Almodovar
Montaggio: José Salcedo
Fotografia: Rodrigo Prieto
Musiche: Alberto Iglesias
Produzione: El Deseo S.A., Universal International Pictures
Nazionalità: Spagna
Anno: 2009

Ricky – Una storia d’amore e libertà
Durata: 90’
Regia: François Ozon
Sceneggiatura: François Ozon, Emmanuèle Bernheim
Liberamente tratto da: Moth di Rose Tremain
Produzione: Teodora Film, Eurowide Film Production, FOZ, BUF, France 2 Cinema
Nazionalità: Francia
Anno: 2009

“Sì, viaggiare… evitando le curve più dure…”

Un dollaro, mille chilometri è il titolo del libro di Dominique La Pierre, resoconto dell’avventura che il famoso scrittore, nell’estate del 1948, a soli 17 anni, intraprese lasciando Parigi con soli 30 dollari, a bordo di una nave che lo fece sbarcare negli Stati Uniti, dove iniziò un viaggio di 30.000 miglia lungo tutto il continente Americano.
Qui fece i lavori più diversi e stravaganti, all’insegna dell’avventura, del divertimento e con la consapevolezza che avrebbe dovuto affrontare le situazioni più disparate e difficili che il viaggio gli avrebbe riservato.
“Una bici, mille speranze” è invece l’avventura di Mauro Talini, nato a Viareggio il 24 luglio 1973, che il 29 novembre scorso è partito in bicicletta da un paesino di Sasso Marconi (BO) per arrivare all’aeroporto di Bologna dove è decollato per La Paz (Bolivia). Qui ha iniziato la sua pedalata in solitaria, di circa 9.000 km, che realizzerà in Sud America, attraversando la Bolivia, il Brasile e l’Argentina e passando nei Centri di Accoglienza delle “Missionarie dell’Immacolata Padre Kolbe”.
Dal 2003 ad oggi ha realizzato diversi tour in Italia e in Europa (l’ultimo di 5.665 km nel 2007 attraverso Svizzera, Germania, Danimarca, Svezia, Finlandia, Norvegia con meta principale Capo Nord e conclusione a Tromso).
Fin qui sicuramente un’avventura che tutti potremmo dire coraggiosa e anche un po’ pericolosa, considerando che ha da poco attraversato le strade boliviane del traffico della droga e altri territori non del tutto raccomandabili, ma, al di là di questo, nulla di più. Tanti in passato e tanti altri in futuro si cimenteranno in competizioni e peripezie di questo tipo. Sicuramente non è il primo e non sarà l’ultimo. Se non per il fatto che Mauro Talini è una persona diabetica insulino-dipendente, che deve iniettarsi il farmaco per la glicemia 12 volte al giorno e quello per l’insulina 5 volte e che non può non farlo.
Allora ecco che tutto cambia, o per lo meno si complica… O si arricchisce.
“Nel 1984 mi è stato diagnosticato il diabete insulinodipendente – spiega Mauro in una delle tante interviste rilasciate – e nei primi anni di patologia ho cercato, per quanto possibile, di ignorare la malattia: non l’accettavo, la rifiutavo, la vedevo come un limite, come un elemento estraneo a me. Difficilmente nei primi dieci anni effettuavo uno stick durante la giornata. Poi sia per esperienza, sia per maturità capisci che se non l’accetti per quello che in realtà è, non vivi bene sotto nessun punto di vista e quando riesci a fartene una ragione, tutto ti è più chiaro, non lo vedi più come un limite, ma anzi come uno stimolo in più per migliorarti e dare il meglio di te, infatti adesso con l’impegno constante e l’autocontrollo giornaliero riesco a mantenere i valori nella norma e a condurre una vita regolare”.
Spiega Mauro che questo percorso, voluto e desiderato da lui, lo vedrà protagonista di una duplice sfida: lo scopo dell’impresa sportiva infatti vuole avere il significato simbolico di dare speranza di vita sana e fisicamente efficiente a tutti i giovani diabetici dimostrando come con l’applicazione, l’allenamento, la costanza e l’impegno nessun obiettivo è precluso ai diabetici, e il diabete non deve diventare una scusante per rinchiudersi in se stessi; il secondo obiettivo invece è quello di raccogliere fondi a sostegno del progetto “La Città della Speranza” di Riacho Grande in Brasile.
“Spero di aver dato e di dare una piccola speranza in più nel superare i propri limiti sia a chi è diabetico e sia a chi non lo è; il segreto è nell’accettarsi come siamo e nella volontà di voler cambiare; sono dell’idea che qualsiasi sogno vogliamo realizzare o qualunque cosa desideriamo fare nella vita, dobbiamo iniziarla il prima possibile!”.
È partendo dall’accettazione di una situazione e senza voler togliere o negare la fatica, la sofferenza, lo smarrimento che tale situazione porta, che si vuole cercare le possibilità per superarla o per viverla in modo diverso. Questo è anche quello che gli animatori del Progetto Calamaio vogliono, è ciò che il nostro progetto vuole trasmettere, e ciò partendo proprio da chi non potrebbe esporsi così tanto, o da chi non dovrebbe, in base agli insegnamenti della nostra cultura iperprotettiva.
Mauro ha voluto “trasformare la sfiga in sfida”, come esprime chiaramente il motto di Claudio Imprudente, presidente della nostra associazione Centro Documentazione Handicap: passare dal limite come confine che non mi permette di andare oltre, a limite come ostacolo-risorsa da saltare, da superare in una corsa avvincente, dalla condizione di vittima di una malattia a fautore di una rinascita, dal rischio di vittimismo alla possibilità di dinamismo e protagonismo, da persona con deficit e che non può fare, a individuo attivo che invece parte proprio da quella condizione di mancanza per dimostrare che può fare, per promuovere una nuova cultura dell’integrazione, ma preferisco dire della Possibilità, della Opportunità. E non solo, come dice lo stesso Mauro, legata solo ed esclusivamente ai diabetici (a chi ha un deficit, potremmo dire noi), ma per tutti. Questo sottintende ma significa anche fare un passo ulteriore così caro al nostro Progetto e cioè non considerare più l’esistenza di due mondi, disabili e non, malati e non, chi può e chi non può, ma un unico grande gruppo dove “tutti possono e non possono”, un nuovo spirito di fiducia, senza fare demagogia e quindi senza negare le difficoltà o gli effettivi impedimenti oltre i quali non si riesce ad andare, ma anzi cercare di arrivare a quei confini per poter dire: “Ho fatto tutto ciò che potevo. Ce l’ho davvero messa tutta”. In questo modo si vince sempre. Mauro aveva due possibilità: negare la sua malattia o metter su con essa una squadra. È già questa la prima e più importante vittoria di Mauro: essere riuscito a fare team con il collega più insopportabile.
E proprio lui in una delle sue ultime interviste dice queste testuali parole: “Il diabete non è un limite, anzi lo considero una scuola di vita. E così per questa avventura io non parto da solo: parto con la mia Bici e il Diabete. Ho loro come compagni di viaggio. Il diabete non è un mio nemico, bensì un mio compagno che non mi lascia mai. L’audacia racchiude in sé genio e magia ed è capace di fare emergere forze che anche noi stessi non sappiamo di avere”.
Il genio e la magia di cui parla Mauro potremmo paragonarli, farne un parallelo con ciò che noi del Progetto Calamaio identifichiamo con la Creatività, quello che ci permette di “tirare fuori” qualcosa da ognuno di noi in modo del tutto imprevedibile, che come dice Mauro, non pensavamo di avere. E il verbo “creare” deriva dal latino che condivide con “crescere” la radice kar: i due verbi vanno a braccetto, si cresce creando e si crea qualcosa di nuovo mentre si cresce; si cambia, ci si rinnova, si diventa ogni giorno nuove creature.
Da piccola a volte succedeva che mentre giocavo mi si rompeva un giocattolo e con la creatività cervellotica che mi è sempre appartenuta cercavo subito soluzioni pratiche per ripararlo e renderlo immediatamente riutilizzabile: una corda, un po’ di nastro adesivo, una graffetta, un filo di spago, un tronchetto di legno. Quando ci riuscivo lo facevo vedere con soddisfazione a mia madre e lei, ancor più compiaciuta di me nel veder che la sua bambina le studiava tutte per risolvere il problema, non mancava una volta che non mi dicesse: “Vedi: il bisogno aguzza l’ingegno!”.
Bisogno di sentirsi vivi, sentirsi ascoltati, considerati, sentirsi di appartenere a qualcosa e/o a qualcuno. Bisogno di ricevere fiducia e di darne, bisogno di non essere uno dei tanti, ma di essere uno, unico. Bisogno di essere riconosciuto e visto. Bisogno di essere utile: bisogno di dare e non solo di ricevere.
Non solo il bisogno pratico di riparare un oggetto. O quello fisiologico di bere e mangiare.D’altronde anche il famoso attore hollywoodiano John Malkovich in una sua recente dichiarazione ha detto: “In un mondo in cui tutto dipende dalla tecnologia essere bohémien offre maggior respiro… E per uscire dalla crisi si deve puntare sulla creatività”.
Allora puntiamo su un numero vincente, noi stessi, e saliamo sul palco per il debutto. “Comunque vada sarà un successo”.

È stata una cosa bellissima vederla: “OMA”, Orchestra Multietnica Aretina

Ho cominciato a cantare prima di parlare. Mia madre mi disse che il primo giorno di scuola addirittura invece di piangere, io ero sul grembo delle ragazze più grandi in autobus che cantavo.
Emad Shuman (cantante libanese) 

L’idea originaria dell’Orchestra Multietnica nasce da un esperimento fatto in Valdarno a Montevarchi, legato al Festival oriente-occidente.
Abbiamo programmato un laboratorio sulla musica e la cultura araba ed ebraica con Enrico Fink e Jammal Ouassini che sarebbero diventati i direttori dell’orchestra.
Il laboratorio aveva uno scopo semplicemente didattico all’inizio, e vi avevano partecipato una ventina di musicisti, in quel caso tutti italiani. Durante l’attivazione di quel laboratorio è nata poi l’idea di provare a fare un’attività più permanente, di tipo formativo nella prima fase iniziale, ma che poi potesse dar vita a una produzione come è a tutti gli effetti quella dell’Orchestra Multietnica. Abbiamo coinvolto allora una trentina di persone, fra italiani e stranieri che hanno partecipato a questo secondo laboratorio molto intensivo.
Abbiamo maturato meglio l’idea, l’abbiamo proposta al comune di Arezzo, e c’è stato subito un’adesione entusiasta da parte del Comune che ha sostenuto questo progetto.
Lo spirito dell’orchestra è quello di essere un luogo di incontro. È un po’ come una filarmonica, una banda, con lo spirito di coinvolgere ragazzi stranieri e di dedicarsi alla musica delle tradizioni del paese di provenienza dei ragazzi. Insieme a questo c’è l’idea di vivere un’esperienza anche formativa.
L’obiettivo finale è mettere insieme un’orchestra musicale mista, che esegua un repertorio che inizialmente parte dalle musiche tradizionali del mondo per poi conoscere anche la teoria, la tradizione che sta dietro l’esecuzione musicale, le caratteristiche tecniche delle musiche popolari.
Non potendo contare su potenti mezzi economici e mediatici e non potendoci ovviamente accontentare dei dieci, quindici ragazzi che sono venuti al primo incontro, abbiamo iniziato a fare un lavoro nel territorio. Portando volantini stampati in italiano, arabo, indi, in lingue che non sapevo nemmeno cosa fossero, perché ci siamo fatti aiutare per tradurre questo annuncio cercasi musicisti per formare un’orchestra multietnica”. Li abbiamo portati nel call-center, nei luoghi frequentati e vissuti dagli stranieri, al centro per l’integrazione, nei posti dove pensavamo di poter incontrare persone interessate al nostro progetto.
Questo progetto è nato come un progetto formativo, culturale. Ho voluto coinvolgere per questa fase due docenti che, oltre che esperti e bravi, rappresentassero anche bene questo concetto della condivisione, della convivenza e quindi ho chiamato Enrico Fink e Jammal Ouassini, un ebreo e un arabo, per dare ancora più valore, anche politico se vogliamo, a questo progetto.
Un arabo e un ebreo che insieme creano i presupposti per la nascita dell’Orchestra Multietnica dove poi dentro ci sono palestinesi, indiani, bengalesi, messicani, albanesi, insomma un po’ tutte le etnie che presenti nella nostra città.
La scelta dei docenti quindi aveva anche questo significato culturale e politico. Jammal è esperto nella musica di matrice araba e mediterranea, Enrico per quello che riguarda la musica ebraica e dell’Est-Europa.
Abbiamo scoperto delle cose interessantissime. Per cui di un brano che pensavamo essere di origine turca, poi si scopriva che per gli ebrei dell’Est-Europa era un brano di origine ebraica. Addirittura anche i bengalesi conoscevano lo stesso brano con la stessa melodia pensando che fosse musica loro.
Il primo concerto dell’Orchestra Multietnica è stato avventuroso, come tutto il percorso che è servito per prepararlo. Nell’estate 2007 abbiamo preparato i brani del primo repertorio. Eravamo tutti pronti per fare il concerto all’anfiteatro, nel Salotto Bello della città. Ovviamente era una giornata in cui è piovuto tutto il giorno e quindi abbiamo mantenuto questa tensione che serviva. Poi lo spettacolo è stato spostato al chiuso, al Teatro Bicchieraia. Quello è stato il battesimo pubblico dell’Orchestra Multietnica. La sala era più che piena ed è stata una cosa bellissima, davvero. Un concerto che ha sorpreso noi stessi per primi, perché appunto avevamo raggiunto una qualità musicale che non ci aspettavamo. Abbiamo avuto dei momenti in cui abbiamo pensato di non riuscire a fare quel concerto, perché magari ci ritrovavamo a una prova solo in cinque, oppure la volta dopo c’erano quelli che non c’erano la volta prima. Poi invece l’esecuzione del concerto ci ha dato un grande slancio per continuare questa attività; che come progetto si chiudeva in quel momento del primo concerto, ma che poi con il coinvolgimento di tutti, l’amministrazione, i direttori dell’orchestra, abbiamo deciso di portare avanti. Abbiamo continuato a fare le prove, abbiamo ampliato il repertorio perché avevamo ottenuto da un progetto di tipo culturale, sociale e formativo, un prodotto musicale professionale.
Siamo arrivati a un momento che è una nuova tappa del percorso dell’Orchestra, che è la realizzazione del CD Animameticca e anche di un DVD, grazie al finanziamento del Cesvot.
Anche questo ha comportato un lavoro duro. Quando si mette insieme un gruppo di venti musicisti non professionisti, per quanto bravi tecnicamente, potete immaginare quello che è stato il lavoro di costruzione di questo repertorio e la registrazione di questo repertorio fatta live, mettendo insieme tutta l’orchestra a suonare, tutte registrazioni molto dirette, vere, molto reali, come se fossimo a un concerto. Quello che è uscito spero sia una documentazione di una tappa del percorso dell’Orchestra ma penso anche di una cinquantina di minuti di musica bella da ascoltare.
Questo disco contiene anche un ricordo, una dedica a Vasil, un fisarmonicista rumeno che ha collaborato con l’orchestra per sei/sette mesi e poi purtroppo è scomparso prematuramente. È stata una collaborazione che ci ha dato molto dal punto di vista musicale; Vasil non parlava molto italiano, anzi quasi per niente, però era in grado di suonare qualsiasi cosa, dopo otto battute che sentiva, lui aveva già capito l’armonia e suonava. Era un musicista eccezionale.
Il futuro dell’Orchestra Multietnica chi lo sa… Noi crediamo molto in questo progetto, io ci credo, Enrico ci crede, l’amministrazione ci crede e quindi ci crediamo. Tutti continueremo a investirci le nostre energie, la nostra passione. Come dicevo l’Orchestra Multietnica è un laboratorio aperto e permanente e costantemente aperto a nuovi inserimenti, chiunque può venire alle prove dell’Orchestra nella sala messa a disposizione dal Comune.
(Testo elaborato sul racconto di Massimo Ferri, ideatore del progetto)

Per chi desidera saperne di più e soprattutto ascoltare la trascinante musica suonata dall’OMA può consultare il sito www.orchestramultietnica.net.

Lettere al direttore

Buongiorno sig. Claudio, mi chiamo Marina e sono la mamma di una stupenda creatura di nome Lorenzo. Lorenzo oggi ha nove anni ed è bordeline ovvero con un QI di 78 e gli è stato diagnosticato un disturbo lieve di apprendimento.
Non sto a descriverle tutto il nostro difficoltoso  cammino soprattutto con l’inizio della scuola elementare. Lorenzo è dislessico disortografico, disculico, insomma con delle difficoltà e da parte della scuola non c’è stato dato nessun aiuto. Lorenzo doveva arrangiarsi, ma come poteva da solo? Per fortuna abbiamo avuto vicino una logopedista stupenda che ci ha sempre aiutati. A metà anno, prima la decisione di cambiare scuola con notevole miglioramento da parte del bambino, poi la decisione dell’insegnante di sostegno per dare la possibilità a Lorenzo di essere come gli altri. Lorenzo ha avuto l’insegnante di sostegno soprattutto per mia volontà, li avevo contro tutti. Anche gli specialisti mi dicevano Lorenzo non è handicap e devi certificarlo come tale se avere delle difficoltà vuol dire avere handicap. Va bene dicevo io. Lorenzo desiderava avere vicino un insegnante che gli desse gli strumenti necessari per imparare e alla domanda “Ti piacerebbe avere un insegnante tutta per te?”,  la risposta è stata affermativa. Lorenzo sta finendo la terza elementare con l’insegnante di sostegno vicino, i progressi sono notevoli e Lorenzo è sereno che è la cosa principale. Da poco sono socia AID e durante una riunione mi dicevano che sono contrari alla certificazione per l’insegnante di sostegno, perché i bambini con difficoltà di apprendimento non sono handicap. Però il proprio figlio prende l’assegno di frequenza ovvero di invalidità. Allora io mi chiedo invalidi sì handicap no. Le chiedo ma la parola handicap perché fa ancora così paura? Mio figlio ha difficoltà e se ne rende perfettamente conto con tutti i problemi che ne derivano, ma ha vicino delle insegnanti disponibili a capire le difficoltà e a far capire agli altri bambini che aver difficoltà non vuol dire essere diversi. Lorenzo pian piano prende sempre più sicurezza e cerca sempre di dare il massimo. Mi sarebbe piaciuto avere un suo parere, ci tengo davvero tanto, mi scuso se mi sono dilungata un po’ troppo. Grazie della sua attenzione. Una mamma

Cara Marina,
intanto grazie per la bella lettera.
Alla quale non è facile rispondere. Credo che il punto, come mi pare lei abbia fatto, sia capire quale sia il bene per Lorenzo e come preparare al meglio il terreno per il suo futuro.
Mi spiego meglio: se il bene di Lorenzo è avere un insegnante di sostegno per la quale occorre una certificazione, benvenga la certificazione, sapendo però che poi questa resta come un “bollino” attaccato a Lorenzo. E poi, magari in un futuro anche prossimo, si dovrà affrontare quel che avere questo bollino comporterà per Lorenzo stesso e per le persone che ha attorno. Io non conosco bene la situazione, e credo che tu abbia una capacità di discernere maggiore di chiunque altro rispetto alle effettive priorità per lui.
Sì, in un certo senso l’handicap e la disabilità ancora fanno paura, nel senso che non è scontata una risposta “positiva” di fronte al “bollino” di Lorenzo. Né ora, né in seguito…
Mi scusi se le dico cose forse scontate, ma in un certo senso il conflitto è tra il bene attuale di Lorenzo (che a quanto capisco è legato anche alla presenza di un insegnante di sostegno ed è una cosa concreta con la quale confrontarsi) e il suo bene futuro (che è un territorio dai contorni indefinibili, soprattutto riguardo alla risposta della società al suo “bollino”).
Le chiedo solo una cosa, di rispondere a questa mia lettera.
La ringrazio ancora.

Caro sig. Claudio,
mi ha fatto molto piacere ricevere la sua risposta. Leggendola mi si sono accese numerose lampadine e di cose da dire e su cui discutere ce ne sarebbero davvero tante. Ma mi premeva dirle, anche se sembrerà scontato, che indipendentemente dall’insegnante di sostegno, basta andare controcorrente per avere un bollino, purtroppo questo l’ho messo in conto e ne sono ben consapevole. Del resto questo è il mondo dei perfetti e quando qualcuno ha delle difficoltà, è inutile negarlo, si cerca di metterlo da parte. Lorenzo è un bambino sensibile, questo lo ha già capito, e delle volte la derisione da parte degli altri bambini lo ha ferito. Io dico sempre a Lorenzo che nessuno è perfetto, c’è chi riesce meglio in una cosa e chi in un’altra, tutti meritano rispetto, l’importante è impegnarsi al massimo per quello che si può. Lo so che il cammino che ci aspetta è ancora arduo e non nego che un po’ mi spaventa, soprattutto per quello che dovrà ancora affrontare Lori. Lorenzo ancora non sa di essere un bambino speciale, non avrà un QI di 110, ma possiede un’intelligenza del cuore che pochi hanno e sa di non essere solo e di avere al suo fianco due genitori che non sopportano le ingiustizie e che si batteranno insieme, sempre, per quello che è giusto per la sua serenità, quella che tutti i bambini meritano di avere. Ora la saluto sperando di non averla annoiata e chissà magari un giorno sentirà ancora parlare di me, sono molto battagliera: sa, l’amore che un genitore prova per il proprio figlio è immenso. Tanti saluti Marina.

Caro Claudio,
mi chiamo Donatella e sono una ragazza di 26 anni, disabile motoria.
Ti scrivo spinta dalla lettura della tua rubrica SuperAbile del 17 ottobre. Sono d’accordo con te; anche se forse, nei confronti della Chiesa, sono un po’ più dura. Sarà dovuto al fatto che ormai me ne sono allontanata da tempo, proprio per questo suo modo di porsi nei nostri confronti.

Strano (o forse no) questo, da parte mia, cresciuta con 13 anni di scuola cattolica. Una scuola poi, che mi ha sempre stimolato non lasciandomi chiusa nello stereotipo “poverina, ha dei problemi, non chiediamole troppo”. Ma l’atteggiamento dominante della Chiesa, con quel suo quasi “venerarci” perché attraverso le nostre sofferenze siamo più vicino a Cristo o con quel suo quasi “invidiarci” perché noi abbiamo una “croce” da portare e loro no, mi innervosisce molto. Magari mi sbaglio, ma io ho sempre provato questo.
Che poi, ritengo di essere fortunata; non penso di avere una croce così pesante, ci sono padri di famiglia che perdono il lavoro, bambini che muoiono di fame. Come faccio a non reputarmi fortunata, davanti a queste realtà? Ma sono anche fortunata perché attraverso questa mia disabilità ho fatto esperienze e conosciuto persone fantastiche, che altrimenti non avrei conosciuto; e soprattutto, non sarei stata io, sarei stata un’altra Donatella, e siccome sono felice di ciò che sono, sono contenta.
Sì, forse la Chiesa ha contribuito a disegnare su di noi certi stereotipi; come quando la gente rimane stupita e mi tratta come una super donna perché mi sono laureata in Economia. Ma perché? Quanti laureati di Economia ci sono all’anno? Io sono come tutti quei laureati, sono come tutti e come tutti ho i miei problemi che richiedono un certo aiuto; ma anche una ragazza madre può avere bisogno di aiuto, o l’amico accanto a noi che ha un dubbio che lo cruccia. Non ho niente di speciale rispetto a tutti gli altri.
So che la Chiesa è composta da tanti credenti e ci sono anche quelli che sanno capirci, ma alcune affermazioni fatte ad alto livello, e non solo, mi hanno allontanato. Anche se porto sempre, nel cuore, le parole di Gesù.
Ho scritto seguendo il cuore, spero si capisca; quando si è tanto coinvolti da ciò che si scrive, a volte si dimentica un po’ di sano distacco.
Grazie per aver proposto questo tema nella tua rubrica.
Un saluto.
Donatella Nenci

Qualche tempo fa scrissi un articolo sul rapporto tra Chiesa e disabilità. Pur riconoscendo che la Chiesa ha fatto la storia dell’assistenza rivolta alle persone disabili, contribuendo, in questo modo, a riconoscere loro un diritto fondamentale, che ne precede, direi logicamente, altri, ovvero il diritto all’esistenza; e pur sottolineando che i primi istituti che accoglievano persone con disabilità erano pressoché tutti cattolici, facevo notare un certo ritardo delle istituzioni cattoliche (e anche di parte dei credenti) ad aprirsi a una visione più completa e meno riduttiva della persona disabile.
Riassumendo, la Chiesa ha fatto difficoltà a immaginare la persona disabile come partecipe di diritti e soprattutto di doveri, come artefice della sua esistenza unica, come soggetto attivo. Ovvero, come credente pieno (si tendeva e si tende, ad esempio, a pensare che i Sacramenti non siano strettamente necessari alle persone disabili, perché Dio comunque li avrebbe salvati, senza che ad essi venisse chiesto di porre quei segni di salvezza all’interno della comunità umana).
Le cose, negli ultimi anni, sono cambiate, a mio avviso nella giusta direzione. Compito di ogni credente è anche quello di lavorare per rafforzare questo orientamento.
Sono consapevole della complessità di questo argomento, e lo spazio di una rubrica è strutturalmente insufficiente a sviluppare a pieno un discorso così delicato. Mi farebbe molto piacere che diventasse uno stimolo alla discussione, al confronto, alla condivisione delle rispettive esperienze. Donatella ci ha parlato della sua, la lettera mi è da subito sembrata molto interessante. Grazie Donatella, abbia coraggio, prima o poi la Chiesa passerà dal Sabato Santo alla Domenica di resurrezione…

Una risata vi seppellirà: la comicità politicamente scorretta di Laurence Clark

Laurence ha speso anni a studiare per un dottorato di ricerca che ora ritiene abbastanza inutile dato che è passato alla commedia brillante: così si presenta Laurence Clark, che lavora come consulente in materia di disabilità ma soprattutto è uno dei comici più divertenti della scena britannica.
La sua paralisi cerebrale è il prisma da cui interpreta la realtà, sfidando i luoghi comuni sulla disabilità – basta pensare al titolo del suo ultimo spettacolo, Spastic Fantastic, che parte proprio dalla riappropriazione della parola spastico da parte di coloro a cui è rivolta come offesa. Anche la moglie di Laurence, Adele, è disabile, ed è su questa condizione di famiglia all-disabled che lo abbiamo interrogato – anche se, naturalmente, bandendo ogni compunta seriosità! 

Sia tu che tua moglie siete persone con disabilità. Avete mai vissuto problemi particolari, esterni o interni, per il vostro progetto di mettere su famiglia?
Mettere su famiglia non è proprio un progetto. Abbiamo incontrato molti atteggiamenti negativi da parte di professionisti medici, certo – di alcuni esempi parlo nell’articolo del 2005 “Niente spazio per la sedia”.  

Come pensi che la società britannica veda una persona con disabilità che sceglie di avere figli? È oggi una scelta normale, o rimangono ancora perlessità o veri e propri stigmi?
Ci sono molte percezioni negative sui genitori disabili, particolarmente intorno alla nostra abilità percepita di adempiere ai nostri ruoli come genitori. Ho trovato che le persone che hanno difficoltà a concepire un figlio possono tendere a pensare che sia ingiusto che noi possiamo avere figli e loro no. Inoltre, i “giovani badanti” [persone sotto i 18 anni che devono prendersi cura di parenti o amici disabili o malati, N.d.A ricevono un sacco di attenzione mediatica al giorno d’oggi, e c’è una percezione che le persone disabili abbiano figli allo scopo di avere qualcuno intorno che le assista.  

Vostro figlio vive il fatto di avere genitori con disabilità in modo diverso da come vivrebbe in una famiglia con singolarità meno manifeste?
Tutte le famiglie sono diverse in modi differenti. Sicuramente esporre i bambini alla diversità può soltanto essere una cosa buona, perché cresceranno più accoglienti. Perciò non penso che avere genitori disabili influisca su mio figlio in alcun modo.  

La tua comicità affronta i cliché sulla disabilità, e in particolare il “politicamente corretto” a questo proposito. Come reagisce il pubblico al tuo stile?
Tutti i buoni comici sfidano lo status quo, perciò perché dovrei essere diverso? Affrontare cliché e stereotipi a me sembra essere il modo logico per fare comicità da comico disabile. Il pubblico tipicamente reagisce a questo ridendo!

 Nella tua carriera ci sono esplicite polemiche con Cherie Blair [che, a quanto si dice, lo ha infelicemente definito sit-down comedian] e il comico Jim Davidson. Pensi siano stati eventi fortuiti, o cè in effetti un entourage di classe dirigente con cui ci si deve ancora scontrare?
Non cè cosa come la cattiva pubblicità! 

Fino a che punto pensi che le politiche pubbliche da un lato, e gli atteggiamenti sociali dallaltro, incidano sulla condizione delle persone con disabilità? E come i comici possono avere un ruolo in questo processo – se credi che ne debbano avere uno?
La politica e gli atteggiamenti sociali hanno un enorme impatto sulle possibilità di vita delle persone disabili, perché le società si basano in genere sui bisogni e le opinioni delle persone non disabili. Ciò significa che le politiche sociali hanno bisogno di tenere conto dei bisogni addizionali delle persone disabili allo scopo di assicurare che esse ottengano le stesse opportunità di chiunque altro. I comici hanno sempre giocato un ruolo nel mettere in luce e sfidare situazioni ingiuste, per cui non vedo perché questo non dovrebbe essere vero anche per i problemi delle persone disabili. 

Niente spazio per “La Sedia”
di Laurence Clark
(traduzione di Massimiliano Rubbi)
Quasi un anno fa, io e mia moglie Adele camminavamo lungo la navata al nostro matrimonio al suono di “Baby I Love You” dei Ramones. Al tempo non potevo sognare quanto profetica quella canzone sarebbe stata!
Io e Adele abbiamo la stessa menomazione – paralisi cerebrale. Penso che entrambi fossimo stati condizionati dal presupposto onnipervasivo della società che la disabilità e la riproduzione umana non si combinano. Così quando decidemmo di cominciare a provare ad avere un bambino, entrambi automaticamente presupponemmo che avremmo avuto bisogno di qualche genere di trattamento di fertilità. In realtà prenotammo perfino un appuntamento alla clinica, che successivamente dovemmo annullare una volta scoperto che Adele era già incinta.
Suppongo che a questo punto dovrei far notare che, al contrario di quanto rivendico nel mio pezzo comico solista, questo bambino in realtà è stato programmato. Vedete, normalmente racconto questa storia sull’andare in luna di miele e scoprire all’aeroporto che avevamo dimenticato le pillole contraccettive di Adele. Al momento il farmacista dell’aeroporto rifiutò di servirci, citando il fatto che non era un “farmacista per la disabilità”(qualunque cosa sia uno di essi!). Mentre ciò avvenne davvero, non contribuì al nostro concepimento perché alla fine trovammo un altro farmacista disposto a servirci.
Proprio come probabilmente ogni altro uomo al mondo, ero insicuro sulla mia abilità di concepire perché non avevo mai davvero provato a farlo prima. In realtà, era qualcosa che fino a quel momento avevo attivamente evitato. La mia paura particolare scaturiva dalla biologia del biennio delle superiori, dove mi avevano insegnato che i testicoli sono situati fuori dal corpo al fine di mantenerli freschi, e così aiutare la produzione di sperma. Ora, come utilizzatore di carrozzina, passo molta parte del giorno seduto. Secondo la mia logica, questo doveva alzare la temperatura dei miei testicoli di qualche grado e potenzialmente danneggiava la mia abilità di concepire. Comunque, con il beneficio del senno di poi, questo era piuttosto chiaramente un carico di coglionate!
Ma se ero sorpreso da quanto rapidamente avevamo concepito un bambino, il resto del mondo sembrava ugualmente sbalordito che ci fossimo proprio riusciti. A volte quando diciamo alle persone che siamo in dolce attesa, si possono vedere le rotelle girare nella loro testa mentre pensano: “Come diavolo ci sono riusciti allora?”. È come se stessero intrecciando mentalmente i nostri corpi in qualche genere di bizzarra posizione del Kamasutra!
Dopo poco tempo, una giovane donna dietro la cassa a Boots [catena di farmacie inglese, ndt] disse a Adele senza pensarci: “Non sapevo che persone come voi potessero avere bambini!”. Per compensare, il negozio diede a Adele il suo acquisto di vitamine gratis, benché in qualche modo questo sembrasse un misero risarcimento per la ferita ai suoi sentimenti.
Allo stesso modo, la maggioranza del personale infermieristico al nostro ospedale locale sembra lottare con l’idea di due genitori disabili. Alla sua ultima visita a Adele è stata data una spaziosa stanza laterale invece di andare in corsia, al fine di darmi più spazio come utilizzatore di carrozzina quando andavo in visita. Un’infermiera era particolarmente irritata da questo“ragionevole adattamento”. Mentre ero lì, lei disse a Adele che lei veramente avrebbe dovuto essere nella corsia principale, ma non c’era spazio per “La Sedia”(intendendo me!). Spero solo che la successiva discussione accesa le farà pensare con più attenzione a come si riferisce alle persone – in particolare in loro presenza!
Dopo lunghe discussioni sui nomi dei bambini, alla fine siamo venuti a un compromesso essendo d’accordo che Adele potesse scegliere il nome della femmina e io avrei scelto quello del maschio. Da allora abbiamo scoperto che avremo un bambino, il che significa che realizzerò il mio desiderio di chiamarlo come la persona che più ammiro al mondo – l’attore e grande versatile eccentrico britannico Tom Baker! Adoro dire ai nostri amici come chi sarà chiamato Tom, perché fa sprofondare di vergogna mia moglie!
Benché raramente esposto, un altro pensiero che attraversa la mente delle persone quando diciamo loro la nostra buona notizia è: “Tom erediterà la nostra menomazione?”. I dottori dell’ospedale ci hanno chiesto diverse volte se la paralisi cerebrale sia ereditaria. Ci hanno chiamati “irresponsabili” per il rifiuto di fare i test dell’amniocentesi per scoprire potenziali menomazioni, nonostante il fatto che tali test non siano accurati e aumentino le possibilità di aborto spontaneo. Non riescono a concepire perché la prospettiva di portare un’altra vita disabile nel mondo non sia un problema per noi.
Suppongo che simili atteggiamenti non siano sorprendenti quando, oggigiorno, fa fatica a passare un giorno senza una notizia sul suicidio assistito per alleviare la nostra“sofferenza”, o su dottori che provano a staccare la spina ad ancora un altro neonato disabile. Credo che simili storie dimostrino in modo inquietante quanto poco le nostre vite siano valutate dalla società di oggi. Ecco perché sono stato orgoglioso di offrire una voce al programma della BBC Newsnightsulla disuguaglianza nell’attuale legge sull’aborto per i neonati con menomazioni, che include le opinioni delle persone disabili così come quelle dei professionisti medici.
Vedete, mi piacerebbe che nostro figlio Tom crescesse in un mondo dove le vite delle persone disabili sono valutate alla pari. Tristemente penso che siamo molto lontani dal raggiungere un sogno simile.

Per informazioni:
www.laurenceclark.co.uk

Un lavoro che vale doppio

Prima, serve/i. Poi, colf, termine inventato dal sen. Giovanni Bersani come acronimo di collaboratrici/ori familiari. Oggi, badanti. Quasi tutte donne, perché il lavoro di cura è pressoché sempre sulle spalle delle donne, in tutte le società e le culture. Le badanti sono coloro che badano. Come il mandriano bada il bestiame… perché nelle versioni di latino e greco del liceo “badare” si trova per lo più riferito a questo. Delle persone ci si prende cura, non si “badano”.
Questo verbo non prevede una reciprocità dell’azione, ma nemmeno una vera e propria attività, perché badare una persona letteralmente significa vegliarla, prestarle attenzione. “Bada!” è un ammonimento che significa “Stai attento!”, ma ancora una volta non c’è reciprocità. Invece la badante non dovrebbe semplicemente stare attenta a una persona, tanto meno se questa, come nel mio caso, non è un anziano, bensì un adulto con handicap bisognoso di cure ben più ampie del cambio pannolone – preparazione brodino – pastiglina serale – messa a letto.
Da quando è mancata mia mamma, di “badanti” ne sono passati/e in casa mia una quantità indefinita. Ma, sempre, il filo conduttore è stata la reciprocità e lo scambio. Non solo prestazione d’opera – salario, come in un qualsiasi altro rapporto di lavoro subordinato. Sono stati due bisogni a cercarsi e a unirsi. Il mio, di assistenza continua. Il loro… di una casa, di uno stipendio, di una nuova opportunità di vita, spesso lontano da casa, di un lavoro, cui in Italia si lega inscindibilmente la permanenza sul territorio per gli stranieri. Purtroppo molti di loro avevano delle carenze. Per lo meno, delle incompatibilità con i miei bisogni. Tante delle loro caratteristiche o esperienze mi hanno fatto pensare. Ho conosciuto Paesi e culture così lontane e diverse da non averle neppure sentite nominare prima. Ho incontrato fedi diverse e mi sono stupito di quante analogie avevano col mio credo. Mi sono sentito dire da un giovane africano che qua in Italia rinneghiamo la fede che abbiamo insegnato loro ad avere, quasi come se volessimo significare che a loro abbiamo trasmesso i residui delle nostre credenze che per noi non sono più tali. Così come in Africa arrivano i nostri abiti dismessi, i farmaci avanzati e spesso scaduti, gli occhiali fuori moda, così abbiamo dato loro una religione di cui noi stessi non abbiamo più rispetto. Ora sono loro a insegnare a noi la fede, la speranza, la carità. Ho imparato che, se fuggi dal tuo Paese perché perseguitato, per avere asilo politico altrove devi rinnegare la tua identità. Ho capito che se non possiedi i documenti e il permesso di soggiorno, non sei nemmeno considerato una persona. Ho appreso la necessità che chi mi assiste parli la mia stessa lingua o, almeno, la capisca. La comunicazione è fondamentale nello scambio assistenziale. Se io non posso far comprendere i miei bisogni, a causa delle difficoltà linguistiche, la cura di me non potrà essere adeguata. L’aspetto che più mi ha fatto riflettere di questa considerazione è il fatto che io sono un convinto assertore delle infinite possibilità delle forme alternative di comunicazione, specie di tutte quelle non verbali. Tuttavia, ho compreso che comunicare un pensiero, una riflessione, uno stato d’animo o, in generale, qualcosa di totalmente teorico è differente dal comunicare una necessità fisica. Non solo: anche nella comunicazione per così dire alternativa, è comunque necessario che chi riceve la comunicazione comprenda la lingua di chi la emette. Non importa come vengono comunicati i bisogni, ma è necessario che vengano compresi. Poi, magari, la persona anziana non ha particolari esigenze da comunicare, spesso è demente o si accontenta di avere qualcuno che ascolti i racconti di epoche passate e di anni lontani, senza che necessariamente vi sia interazione.
Ma io ho bisogno di qualcosa in più di un cambio e una minestrina, in caso contrario il mio deficit fisico si trasformerebbe in un deficit di relazioni umane paritarie, in una mancanza di qualcosa che va oltre una difficoltà materiale e si trasforma in un vuoto morale.
Questo trovarsi di due bisogni complementari deve poter comprendere la scelta, da parte di entrambi. Spesso, la burocrazia, insieme alla necessità, fanno passare in secondo piano la scelta. Quando una professione prevede la relazione umana in maniera così predominante come avviene per il lavoro di cura, anche il lavoratore deve poter scegliere il suo datore di lavoro. Non a caso, il contratto di lavoro domestico ha due caratteristiche significative. La prima, che è tendenzialmente a tempo indeterminato. Questo è un buon segno del non voler porre limiti di tempo fin da subito a un lavoro legato così strettamente ai bisogni di un’altra persona, che non ha una “data di scadenza” come oggi, purtroppo, quasi tutte le professioni hanno.
La seconda, che per il licenziamento del lavoratore non occorre la “giusta causa”. Insomma, non è necessario che il lavoratore domestico abbia tutte le caratteristiche più negative che di solito inducono il datore di lavoro al licenziamento. Semplicemente, due persone, prima ancora che due bisogni, si devono trovare. Nessuno dei due può imporre all’altro di piacergli, sebbene si possano imporre regolamenti lavorativi, ritmi, abitudini, convivenza. Anche il periodo di prova è sufficientemente lungo per far sì che le incompatibilità risaltino. Inoltre, ho notato che spesso mi sono trovato meglio con persone di culture tanto lontane dalla mia che con altre provenienti dal quartiere accanto. Ho imparato che l’essere amici con qualcuno non comporta il fatto che lo scambio di amorosi sensi che sussiste fra le due anime implichi un eguale scambio di cure e assistenza materiale. Ho capito che persone piacevolissime, in grado di offrirmi impareggiabili momenti di elevazione spirituale, non sono adatte a offrirmi similari momenti di basso aiuto sostanziale. Per contro, assistenti abilissimi non hanno saputo regalarmi più di uno stiracchiato saluto, subito seguito da un’accurata igiene personale che mai ha previsto la benché minima conversazione. Quest’ultimo aspetto mi ha indotto a pensare che forse il rapporto di lavoro che intercorre fra due persone esclude di per sé la sincerità del rapporto umano. In fondo, lo scambio è del tutto materiale. Ma può valere anche per il lavoro di cura?
Da filosofo, questa esperienza mi ha fatto pensare al concetto di cura di sé in Foucault. Il precetto di prendersi cura di se stessi era, per i Greci, uno dei principi basilari della vita sociale e personale. Per noi, oggi, il concetto si è, in sostanza, sdoppiato. Il prendersi cura di sé inteso come il porre attenzione al proprio corpo, al proprio aspetto, è considerato in contrapposizione al concetto più apollineo, per usare un termine nietzschiano, del coltivare adeguatamente la propria interiorità. Il precetto delfico “conosci te stesso” è stato posto in primo piano dalla nostra tradizione filosofica, come se fosse in netto contrasto con la possibilità, contemplata, invece, dagli antichi, di conciliare le due cose, anzi, di considerarle strettamente connesse. Si pensi al concetto greco di kalokagathia, che fa corrispondere la bellezza esteriore alla bontà d’animo. Mi è venuto spontaneo, pertanto, chiedermi se non avevano forse ragione i Greci. In fondo, se io non mi prendo cura del mio corpo, che ha dei deficit, e se non sopperisco a tali mancanze con aiuti esterni, come potrei prendermi cura della mia anima? Allora, forse, il lavoro di cura ha qualche responsabilità in più del menage igiene – somministrazione pasti e farmaci – messa a letto. Forse, dobbiamo prendere coscienza che siamo “nani sulle spalle di giganti”, come diceva Bernardo di Chartres riferendosi agli antichi, e arrenderci al fatto che la cura di sé passa a uguale velocità dal corpo e dallo spirito. Il corpo non è solo la prigione dell’anima, come sosteneva Platone, ma anche ciò che permette all’anima di stare ben piantata su questa terra. Dunque, chi cura il mio corpo è colui che mi permette di avere cura della mia anima, di dedicarmi al mio otium filosofico senza preoccupazioni materiali. Insomma, bisogna che il mio “badante” abbia un aumento…

Un Oscar da Oscar, Superabile, Luglio 2012

La stagione sportiva estiva prosegue con una bella novità che ci arriva fresca fresca dalle Olimpiadi di Londra 2012. Siamo finalmente arrivati ad un passo dall’unione tra le Olimpiadi e le Paralimpiadi. A far da trait d’union un protagonista d’eccezione, le cui gesta sono ormai sulla bocca, per non dire sulle gambe, di tutti! Sto parlando del grande Oscar Pistorius, il giovane atleta sudafricano con protesi bilaterale, di recente vincitore della medaglia d’argento per i quattrocento metri a Benin eppure escluso dai giochi olimpici di Pechino 2008. Londra 2012 segna oggi per lui il momento del riscatto, rendendolo partecipe di entrambe le competizioni e facendone un atleta a tutto campo. Ovviamente ci è voluto poco a far sì che Pistorius si trasformasse agli occhi del grande pubblico in un piccolo eroe, il simbolo di una crescita e di una vittoria raggiunte superando lunghi ostacoli e difficoltà, non solo fisiche. La sua vicenda è il segnale di un cambiamento importante. In genere, lo sappiamo, prima ci sono le Olimpiadi con tutta la loro cornice di atleti, spettatori, giornalisti e sponsor, una macchina mediatica cioè che ne fa da eco e supporto.

Subito dopo seguono letteralmente "a ruota" le Paralimpiadi, dove gli atleti ci sono ma sono disabili e quindi, di norma, per i giornalisti e gli sponsor automaticamente meno interessanti. Inserire Pistorius in entrambe le manifestazioni perché semplicemente un bravo atleta, al di là della suo deficit e dei supposti vantaggi offerti dalle protesi (poi rivelatisi fasulli), ha significato per tutti cominciare ad allargare lo sguardo mediatico e di conseguenza popolare e culturale sulla disabilità.
Complimenti quindi ad Oscar e alla sua dedizione, ma anche ai suoi allenatori e a chi, in tutti questi anni ha creduto in lui e ha saputo farne un campione di abilità. Che dire, speriamo che sia solo l’inizio e di aggiudicarci molti ori! E voi, siete già pronti con il telecomando in mano?
Scrivete a claudio@accaparlante.it o sulla mia pagina facebook.

Claudio Imprudente

L’estate di Giacomo, Superabile, Luglio 2012

Ogni estate che si rispetti ci porta una serata sotto le stelle, per stare insieme con il naso all’insù ad aspettare, con l’arrivo della notte, l’inizio di un bel film all’aperto. Ma, quest’anno, mi chiedo, che film posso consigliarvi? Comincerei con l’invitarvi a scovare una pellicola indipendente dal titolo "L’estate di Giacomo ", l’unico film italiano premiato al prestigioso festival di Locarno 2011, grande successo in Francia e in questi giorni finalmente in arrivo nelle sale italiane, ingiustamente a lungo tempo ignorato.

Il film, spiega il giovane regista Alessandro Comodin, nasce come documentario sulla vita di Giacomo, diciottenne del nord est affetto da sordità dalla nascita, che, raggiunta la maturità, sceglie di sottoporsi a un’operazione chirurgica per recuperare l’udito. Su questo delicato passaggio tra il silenzio del mondo interiore e percettivo del ragazzo all’incontro con il rumore magnifico e violento del mondo esterno, si concentra la storia del film. Sullo sfondo, ce lo dice il titolo, un’estate da toni caldi e rarefatti, nelle pianure del paesaggio friulano in prossimità del mare. Una storia vera, quella di Giacomo, un viaggio verso l’età adulta attraverso la scoperta e il processo di apprendimento dei suoni, un film poetico e profondo, dai colori pastello, che intreccia con il tema della disabilità amicizia, sole e amore.

Come cantava Simon And Garfunkel, anche il suono del silenzio può diventare musica e quando questo viene a contatto con la vita esplode in mille frammenti di note, immagini e pellicola, proprio come ci insegna questo bravo regista. Piacevole, da vedere sotto le stelle! Buona visione e scrivete a claudio@accaparlante.it o sulla mia pagina facebook. (Claudio Imprudente)