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Autore: admin

La Quinta Parete: a Carpi il Festival delle abilità differenti, Superabile, Maggio 2012

In questi giorni, come ogni anno, si sta svolgendo a Carpi una manifestazione interessante, a cui consiglio a tutti di partecipare: il Festival Internazionale delle Abilità Differenti. Spettacoli di danza, musica e teatro si susseguiranno in una colorata kermesse che ci parlerà di integrazione, mettendo al centro del palco persone per l’appunto con "abilità differenti", persone ovvero con vari tipi di disabilità. Quando vedo o partecipo a queste manifestazioni mi faccio spesso una domanda, che anche il Centro Documentazione Handicap di Bologna si è posto, proprio a proposito del rapporto con il teatro e l’arte spettacolare in genere: oltre alle quattro pareti della scatola-teatro, quello spazio intercorrente cioè, secondo la nota definizione di Stanivslaskij tra la scena e il pubblico, tra il gioco della finzione e quello della realtà, ce n’è anche una quinta? E ancora, un curioso paradosso, perché a teatro è più facile trovare un disabile sul palco che in platea?
Il Teatro del Novecento è vissuto cercando di bucare e oltrepassare la quarta parete ma la sfida oggi è forse un’altra: parlare di integrazione a partire dal basso, dalla quotidianità. Non solo cioè dal palco ma dalla platea.

Di certo rendere un disabile protagonista di uno spettacolo, rendendolo partecipe di attività artistiche e ludiche è divertente, necessario e importante, considerando anche il fatto che la maggior parte di queste attività hanno finalità terapeutiche ed inclusive. Ciò non toglie, tuttavia, il rischio, seppur in buona fede, di sottolineare un’eccezionalità. Senza falsi buonismi abbiamo così cercato e stiamo cercando di capire le ragioni di questa prassi e di offrire a un pubblico che vuole restare "qualsiasi" gli strumenti per godere appieno anche di questa condizione. Perché, allora, ci siamo detti, non cominciamo a parlare in modo diverso di accessibilità culturale? La vera accessibilità infatti, non passa dalla semplice entrata nel luogo deputato ma dalla possibilità di lasciare alla cittadinanza tutta le tracce di un passaggio che possa effettivamente dirsi consapevole.

Quest’ultimo, la consapevolezza e la responsabilità dei fruitori sulla scelta di entrare in un luogo e non in un altro, è uno step di riflessione in più e ancora non del tutto esplorato. Molti e troppi infatti sono i gruppi di accompagnamento al tempo libero che conducono gli utenti disabili a vedere spettacoli di scarsa qualità, senza interesse né conoscenza alcuna, sui contenuti e le forme di quanto si apprestano a vedere. Si dimentica cioè che accedere all’arte è prima di tutto accedere alla possibilità di fare esperienza di un linguaggio e di portare all’esterno quest’esperienza. Per questi motivi, in collaborazione con due teatri bolognesi il CDH ha avviato un progetto, dal titolo La Quinta Parete, un blog e una piccola redazione, composta da un gruppo integrato di disabili e non, che sta discutendo, scrivendo e creando echi di partecipazione prima e dopo la visione di alcuni spettacoli proposti dai teatri con il supporto di critici teatrali e degli artisti stessi. Dal punto di vista educativo questo ci offre ovviamente due pretesti: quello di vivere un’occasione festiva immersi nella cittadinanza andando a macchiarla con la nostra presenza, e quello di riflettere su temi per un disabile difficili da incontrare in un modo completamente diverso, quello cioè della messa in crisi, dell’emozione e della fantasia propri del teatro. Il blog, a cura di Lucia Cominoli, membro del gruppo Calamaio del CDH e redattrice del trimestrale di teatro e spettacolo Hystrio e della redazione intermittente sulle arti sceniche contemporanee Altre Velocità, è visionabile sul sito dei teatri e della Cooperativa Accaparlante. Vi invito a darci un’occhiata e a lasciare un commento!

Claudio Imprudente

 

Lo zaino a scacchi, Il Messaggero di Sant’Antonio, Maggio 2012

Le rondini sono tornate e questa volta hanno davvero fatto primavera. Lo splendore della natura torna a rivelarsi. Cambiano il paesaggio e il clima, dunque. Ma gli interrogativi delle persone rimangono gli stessi, centrati sulle solite domande alle quali è difficile dare risposte valide, che risultino concrete ed esaurienti.
Alcuni giorni fa mi trovavo in una ridente cittadina del Centro Sud per un convegno e sorseggiavo il mio meritato aperitivo dopo un’intensa giornata di lavoro. La mia mente era leggera, assorta e un po’ stanca.

Ero così distratto che non mi ero nemmeno accorto che un giovane ragazzo con una giacca bianca e uno zaino a scacchi era lì, a due passi da me, e mi fissava dalla sua carrozzina blu.
«Claudio, grazie mille, il tuo intervento è stato bellissimo e tutto il convegno molto interessante. Una bellissima giornata, ma posso farti una domanda? Perché non posso camminare? Di chi è la colpa?».
«Ecco che ritornano» pensai. Quante volte ho sentito queste domande nella mia vita. Quante volte io stesso, da ragazzo, me le sono poste. Anzi, devo ammettere che persino ora, in alcune occasioni, mi capita di rifletterci. Credo che siano due domande fondamentali nel percorso di accettazione dei nostri limiti, della consapevolezza di noi stessi. Domande che tutti si sono fatti, giovani e anziani, disabili e normodotati… «Perché proprio a me?».
 
Mi è subito venuto in mente il brano del Vangelo di Giovanni: «Passando, vide un uomo cieco dalla nascita e i suoi discepoli lo interrogarono: “Rabbì, chi ha peccato, lui o i suoi genitori, perché sia nato cieco?”. Rispose Gesù: “Né lui ha peccato né i suoi genitori, ma è perché in lui siano manifestate le opere di Dio. Bisogna che noi compiamo le opere di colui che mi ha mandato finché è giorno; poi viene la notte, quando nessuno può agire» (Gv 9,1-4).
La mia prima considerazione è sulla domanda, dunque sulla causa, sugli eventuali colpevoli della cecità dell’uomo. A Gesù viene praticamente chiesto se il deficit dell’uomo derivi dalla colpa/peccato di qualcuno. La colpa non è di nessuno, risponde Gesù, spostando l’attenzione sul senso più che sulla causa. Questa è la parte che reputo più interessante. Un gesto creativo ed educativo evidente che evita di dare responsabilità oggettive e si concentra sul contesto più che sulla persona. Questo passaggio è stato decisivo nella mia esperienza.
Dopo anni ho capito che è inutile e dannoso cercare eventuali colpevoli, perché non ce ne sono: ognuno è protagonista della propria esistenza. Questa convinzione è necessaria nella costruzione della propria identità, anche per liberarsi da inutili sensi di colpa. Il concetto è ampio e generale e va applicato non solo nell’esperienza delle persone con disabilità.
 
Su questo dibattito è interessante la lettura del testo di Stefano Toschi La meraviglia, il salmo 118 dal punto di vista dell’handicap (Ed Insieme, 1997) che riflettendo sull’argomento ci offre delle chiavi per dare un senso alla propria situazione di deficit. Tornando a casa dal convegno perfino la radio insisteva sul discorso diffondendo nell’aria le famose note della canzone di Edoardo Bennato È stata tua la colpa. Secondo voi, cari lettori, di chi è la colpa? Scrivete a claudio@accaparlante.it o sulla mia pagina Facebook.
  
 

La soffitta dell’integrazione- Quarta ed ultima parte- Superabile, Maggio 2012

Sta ancora piovendo…Non vuole proprio venire la bella stagione. Chissà, mi chiedo, se ho chiuso bene il lucernario…uffa, mi toccherà andare ancora su in soffitta! Ci vado ed eccolo lì…il cassetto di Irene. È un bel po’ in disordine… Del resto, dopo tutto il tempo che siamo rimasti a frugarci dentro insieme! In quel cassetto abbiamo trovato tante cose, come la storia di una bambina che, grazie alle preziose chiavi di lettura che ci ha fornito la sua mamma, ci ha parlato a lungo di fiducia, relazione e creatività. Una storia, quella di Irene, al gusto di scandalo che è un enorme stimolo per la cultura dell’inclusione e ci permette di spolverare una parola troppo spesso dimenticata in soffitta: responsabilità.

Così racconta, ancora una volta, la mamma di Irene: "Nel nostro ultimo incontro, le maestre mi riconfermano la positività di tutta questa esperienza con noi ed Irene ed – insieme questa volta! – concordiamo di procedere senza insegnante di sostegno anche per il prossimo anno scolastico. Mi sento, di nuovo, in profonda sintonia con loro: è un dubbio con cui noi genitori ci confrontiamo costantemente, per poi superarlo ogni volta che prendiamo una decisione educativa. Queste maestre si sono di nuovo messe in prima linea insieme a noi, si interrogano sul ‘bene’ di mia figlia, si ‘inventano’ di giorno in giorno qualche nuova sollecitazione da proporle perché si sentono direttamente responsabili della sua crescita. Non c’è nessuno a cui delegare, come troppo spesso accade con l’insegnante di sostegno, purtroppo".

Bella storia, miei cari, quella di Irene, dove la responsabilità è il filo conduttore, che piano piano ci ha portati attraverso la scoperta delle abilità, della relazione e infine dell’integrazione. Chi ha vinto la partita sull’autonomia di Irene se non Irene stessa?

Ecco il saluto finale di sua mamma, che ora tiriamo fuori dal cassetto: "Prima di chiudere, una preghiera. Per favore, non liquidate questa significativa e particolare esperienza d’integrazione dicendo: ‘Eh, ma alla materna è più facile’ oppure ‘Irene è una bimba in gamba, con altri bambini proprio non si può’ e ancora "Questa è una famiglia presente’.

Non ditelo, per favore".

Questa storia così affascinante e capace di scandalizzarci quasi quasi la mando ad un concorso, a cui invito tutti a partecipare.

E voi, quanti scandali tenete nascosti in soffitta? Scrivete a claudio@accaparlante.it o sulla mia pagina facebook. (Claudio Imprudente)

La soffitta dell’integrazione- Terza parte- Superabile, Aprile 2012

Ho udito uno strano tonfo al piano superiore. Ancora tu, si sarebbe chiesto Lucio Battisti? Già. E meno male che questa soffitta ha l’ascensore! Era caduto un quaderno con delle immagini: i disegni di Irene. Cosa posso dirvi? Sentiamo cosa mi ha raccontato ancora la sua mamma:
"Sento che le insegnanti sono attente alla mia bimba, ma attente proprio nel modo che desideravo. Discreto, positivo, stimolante. Mi fanno vedere il suo album dei disegni. Io faccio un commento un po’ ironico: ‘Beh, disegni….’. Loro subito mi dicono che molti bambini di tre anni disegnano così. Mi spiazzano ancora: sono decisamente più valorizzanti di me sui disegni di Irene!
Mi piace molto questa loro positività, mi piace l’entusiamo con cui parlano di lei, dandomi un rimando positivo quasi tutti i giorni.
Qualche settimana fa mi raccontano che hanno chiesto a Irene di fare la ‘segretaria’, cioè di portare un foglio in un’altra sezione della scuola molto lontana dalla sua. La scuola è un edificio molto ampio, ci sono sette sezioni diverse, nominate con il nome degli animali. Beh, Irene è andata e tornata da sola!
Ho stentato a crederci. Ha dovuto ricordarsi dov’era la classe con quel nome, programmare il percorso e non farsi distrarre da tutti i giochi che avrebbe incontrato nel percorso: scivoli, casette, il teatrino che lei adora. Qualsiasi manuale l’avrebbe messo in dubbio: i bambini con sindrome di down hanno poca memoria, bassa concentrazione, faticano a programmarsi. E lei ha solo tre anni…
Le maestre ci hanno creduto e lei l’ha fatto!
Fiducia, fiducia, fiducia… Agita però, non solo dichiarata…".

Fiducia, fiducia, fiducia. Parole ripetute. Parole che ho già sentito a casa mia, quando avevo più o meno l’età di Irene. Parole che sono risuonate forti e decise dentro le mie mura. Ed è soprattutto grazie a quelle se ora voglio vedere un mondo totalmente privo di muri. A proposito di mura, chissà se sopra il soffitto c’è ancora qualcosa… Secondo voi cosa potrei trovare?

To be continued…

Scrivete a claudio@accaparlante.it o sulla mia pagina facebook.

Claudio Imprudente

La soffitta dell’integrazione- Seconda parte- Superabile, Aprile 2012

Dunque, dove eravamo rimasti? Ah, già, nella soffitta dell’integrazione, dove la mamma di Irene aveva ritrovato le chiavi di quel vecchio cassetto… Bene, in quel cassetto c’erano altre bellissime pagine che, con leggerezza, ci parlano ancora di relazione:

"Nel mese di novembre chiedo un incontro alle insegnanti.
È stato bellissimo! Ne sono uscita serena e leggera. Vi assicuro che è davvero importante per una mamma di un bimbo con disabilità provare leggerezza! Non è una sensazione che si prova frequentemente perchè la maggior parte delle persone inviano dei messaggi di pesantezza, fatica, deficit, mancanza…soprattutto a scuola e nei servizi! Katia e Patrizia, invece, mi dicono che sono proprio soddisfatte, che coinvolgono Irene in tutte le attività di classe. ‘ È adeguata all’età’- dice Patrizia -‘Fa tutte le cose che fanno gli altri bambini’. Gioisco e sono incredula. ‘Ma come?’, penso dentro di me, ‘ Irene non è affatto normale! Dai, non scherziamo, non è affatto adeguata all’età!’. E mentre pensavo a questo, provavo davvero tanta gioia.

Mi spiego. Sappiamo bene tutti che Irene ha dei limiti legati alla sua sindrome, ma è stato bellissimo sentirmi elencare le sue qualità, i suoi apprendimenti continui, la sua ottima relazione con il contesto. Ho sentito che le maestre volevano comunicarmi questo: ciò che Irene ha è più importante di ciò che non ha e ciò che non ha non rappresenta alcun problema rispetto alla sua buona frequenza scolastica.

Che leggerezza!"

Una bella lezione di pedagogia per tutti, ripartire dalle abilità anzichè dalla disabilità. Ma da questa lettera emerge altro, qualcosa di ancora più importante: Irene è complice delle maestre. Non è ovvero solo grazie a ma insieme a loro che ha potuto costruire una relazione viva, andando ben oltre la semplice azione e mettendo a frutto, in prima persona, le proprie abilità. Brava Irene!
E chissà cosa ci riserva ancora questa soffitta! To be continued…
Scrivete a claudio@accaparlante.it o sulla mia pagina facebook. (Claudio Imprudente)

Una cena a lume di portacandela – Il messaggero di Sant’Antonio, Aprile 2012

Qualche giorno fa, durante una pausa caffè al Centro Documentazione Handicap dove lavoro, mi sono trovato coinvolto in un animato confronto tra due delle mie più esperte col­leghe con disabilità. La domanda che rendeva infuocata la bagarre era semplice, ma stimolante: come si può organizzare una cena a lume di candela con il/la proprio/a amato/a, quando non si è completamente autonomi?
La prima considerazione, in proposito, viene spontanea: la domanda presuppone che un disabile, anche grave, possa avere una normale relazione affettiva e di coppia. E questo, purtroppo, non è scontato. Solo fino a pochi anni fa, infatti, nell’immaginario collettivo le persone con qualche forma di deficit erano considerate bellissimi angioletti, senza una propria identità sessuale, mentre sappiamo che non è affatto così.
Ma la domanda si presta a una seconda sottolineatura. Nell’intimità di coppia tra due persone non autonome va quasi sempre messa in preventivo la presenza di un terzo individuo, lo stesso che ci è indispensabile nell’assistenza quotidiana per i nostri bisogni primari e comunicativi.

Fin qui nulla di nuovo, di per sé. Tuttavia, nella querelle tra le mie colleghe, questa considerazione ha scatenato un ulteriore interrogativo: posto che la terza presenza sia indispensabile alla nostra vita, come «incorporarla» nella relazione? Spesso infatti – è inevitabile – la presenza altrui finisce per condizionare la spontaneità della persona e il suo ruolo autonomo nell’intimità.
La diatriba mi ha subito richiamato alla mente un’e-mail ricevuta alcuni mesi fa da una lettrice con disabilità, che mi parlava delle difficoltà vissute con il suo partner, anch’egli in carrozzina. Così scrive la protagonista: «La nostra non sarebbe stata una vita di coppia, bensì una vita a quattro, con la mia e il suo assistente, al nostro fianco ogni giorno e a tutte le ore. Che relazione ne sarebbe uscita? Come avremmo potuto avere la necessaria intimità per comprenderci?».
La mia prima riflessione al riguardo è che è sbagliato generalizzare. Ogni coppia, sia essa disabile, normodotata o mista, possiede peculiarità proprie, e ciò vale anche nell’approccio all’intimità; allo stesso modo, ogni «terzo» può dimostrare un atteggiamento diverso di fronte all’affettività altrui.

Affrontare queste tematiche, inoltre, a mio parere, porta ad aprirci maggiormente verso nuovi schemi di relazione, senza preventivamente imprigionarci nei cliché consolidati della comune vita di coppia. La terza persona, infatti, non deve essere per forza un ostacolo o un complice, come d’altra parte non si può nemmeno pretendere che sia completamente neutra.
Sono discorsi molto delicati, che si reggono di fatto sui sentimenti, e quindi su fili relazionali molto sottili, in cui, volenti o nolenti, è facile inciampare. È chiaro che, in questi casi, garantire il rispetto di tutti ha come elementi discriminanti la conoscenza e la fiducia reciproche, che debbono essere sincere e condivise.
Importante, però, è non dimenticare che, se la vita di coppia può non essere del tutto autonoma, l’affettività lo rimane in tutti i casi. Autonoma da tutto e tutti, anche da quell’eventuale «portacandele» al seguito ventiquattro ore su ventiquattro.

Ma non mettiamo in secondo piano nemmeno i portacandele: non hanno vita facile, soprattutto quando si trovano in mezzo a emozioni esplosive…
Su questo aspetto vorrei interpellare anche voi lettori. Vi siete mai sentiti dei portacandele? E le vostre rispettive «candele», come hanno reagito?
Scrivete a claudio@accaparlante.it o sul mio profilo di Facebook.

La soffitta dell’integrazione- Prima parte- Superabile, Aprile 2012

Spesso ci siamo ritrovati a parlare di problemi di integrazione scolastica, di insegnanti con poca formazione e di genitori forse troppo distratti. Un mio sogno nel cassetto invece, era finalmente poter scrivere di integrazione reale, di una scuola che funziona. La mamma di Irene ha trovato per me le chiavi di quel cassetto, riposto nella soffitta della mia esperienza. Il suo racconto, che vi somministrerò a piccole dosi, narra di una sfida nella sfida, parla di creatività e fiducia come sfondo integratore. Iniziamo con una pillola di stupore e curiosità:

"Irene frequenta la scuola materna ormai da più di 6 mesi e siamo proprio immensamente felici di questa esperienza. Tanto che mi sembra quasi incredibile che l’anno scorso, più o meno in questo periodo, stavamo combattendo la nostra battaglia culturale per inserire Irene senza sostegno, incontrando infiniti ostacoli. Cos’è successo di così magico? Nessuna magia, solo quattro ingredienti assai gustosi e succulenti: curiosità, leggerezza , reponsabilità e fiducia. Ve ne racconto uno per volta. Curiosità. Il tutto sembra funzionare benone sin dai primi giorni di scuola. Le maestre tra lo stupore e la curiosità, ripetono: ‘Com’è autonoma, ascolta sempre quello che le si dice, mangia bene, da sola e senza sporcarsi . Accoglie qualsiasi proposta le si faccia, tutto bene, davvero tutto bene’. Che bello, per una mamma, vedere queste maestre capaci di lasciarsi incuriosire da questa bimba che si trovano davanti, concedendosi di conoscere Irene per quello che è nella sua complessità, e superando precedenti pregiudizi e preoccupazioni! E nei fatti, non a parole, come troppo spesso accade. Che piacere vedere che le maestre trattano Irene semplicemente come una bimba, evidenziando soprattutto le sue qualità e non risparmiandosi di sgridarla quando serve o chiederle di più quando sentono che è possibile osare! Curiosità vera …"

Quando la scuola funziona: direi che non servono ulteriori commenti.

To be continued…

 

 

Prendi l’arte e mettila da parte! Superabile, Aprile 2012

E se l’arte diventasse disabilità? Oppure se la disabilità diventasse arte? O ancora, se il famoso detto "prendi l’arte e mettila da parte" fosse vero? Sono domande, queste, che mi sono sorte spontanee lo scorso sabato pomeriggio, quando con la critica d’arte Paola Magi e Martina Gerosa, architetto, giornalista e membro dell’associazione Arcipelago sordità, sono intervenuto alla presentazione del libro Il pianista che ascolta con le dita, organizzato dal Centro Documentazione Handicap in collaborazione con il museo Mambo di Bologna. Il testo della Magi, così come l’intervento di Martina, si sono concentrati sui potenziali della comunicazione non verbale, su cui ci hanno fatto un ritratto delle loro esperienze, difficoltà e tentativi di soluzione, trovati o per meglio dire "creati" nel corso del tempo nelle vesti di ricercatrice da un lato e di persona non udente dall’altro, gesti creativi, che ci parlano di arte e di relazione. Un tema affascinante, per molti aspetti, che mi ha riportato indietro nel tempo, a quello che fu il mio primo ausilio creativo che mi sarebbe tanto piaciuto portare all’incontro, cosa che per ragioni biologiche, purtroppo, non ho potuto fare, anche se avrei avuto un grande successo…Sto parlando di mia nonna Dirce! Già dal nome si può intuire il suo ruolo…Vi spiego meglio. Un problema delle persone disabili che, come me, non possono pronunciare le parole è associare le immagini al suono e di conseguenza anche le lettere. Di solito infatti, quando uno scrive normalmente, può ripetere con la voce quello che pensa, facilitando così il processo di scrittura. Per una persona con difficoltà di linguaggio questo non è possibile. A risolvere il problema tuttavia, ci ha pensato proprio mia nonna. Dirce era una gran chiacchierona e fin da quando ero molto piccolo trascorrevamo interi pomeriggi al sole sul balcone di casa, a commentare i passaggi delle persone per la strada sotto di noi, insomma, diciamolo, facendo del gossip! I pettegolezzi della nonna, tuttavia, si sono rivelati presto un insospettabile ausilio, che mi ha insegnato ad associare spontaneamente e con allegria senza l’uso della parola scritta, le persone fisiche ai mestieri, ai ruoli, le caratteristiche e così via…

Qualcosa di simile è accaduta anche a Martina, che, quando le diagnosticarono il proprio deficit uditivo all’età di tre anni, più che da complessi e tecnologici ausili è stata prima di tutto sostenuta dai suoi genitori, che con una buona dose di fantasia hanno creato per lei delle carte da gioco, in cui ad ogni immagine erano associate lettere e parole, da lei riutilizzate sia nel tempo libero che con la sua logopedista. Uno strumento creativo ma prima di tutto un bellissimo gioco, che Martina, ci dice, ricorda ancora con grande affetto. Questo, ancora una volta, ci dimostra che il vero ausilio passa prima di tutto per la relazione e che l’arte ne è lo specchio ideale, perché, come ci ricorda anche Paola Magi, ci porta in un mondo altro, un passaggio continuo e condiviso tra l’ordinario e l’extraordinario dove tutti siamo sullo stesso livello. E voi, siete mai stati delle opere d’arte per qualcuno? Scrivete a claudio@accaparlante.it e, ovviamente, buona Pasqua a tutti!

Se telefonando… Superabile, Marzo 2012

Il signor R. mi ha raccontato in una lettera piena di pathos della sua rabbia e della sua frustrazione nei confronti dei colleghi del sindacato, da anni coscienti della sua disabilità, i quali, in una normale giornata di lavoro, per trasmettergli alcune informazioni hanno ben pensato di tempestarlo di telefonate. R. ovviamente, a causa del suo ben noto deficit, non poteva rispondere, e li ha così tempestivamente esortati a inviargli un sms. Richiesta totalmente ignorata, le telefonate sono continuate finché, R., ormai esasperato, ha deciso di passare il telefono al vicino, il quale non ha potuto che confermare la stessa soluzione. "Va beh che non sente ma almeno parla!" è stata la risposta che ne è seguita dall’altro lato della cornetta. Che dire? Cito direttamente le parole di R.: "Questo aspetto mi ha mostrato in tutta la sua crudezza come il mio impegno sulla disabilità è incredibilmente difficoltoso se si considera che, oltre a lottare per i diritti e la giustizia per le persone con disabilità, ti trovi di fronte a quelli che dovrebbero essere i tuoi compagni di viaggio e invece ti accorgi che con tutta probabilità non comprenderanno mai completamente cosa sia la disabilità!".

È difficile per me esprimere un parere obiettivo, anche perché non conosco personalmente né R. né i suoi colleghi, quello che però di certo emerge è il fatto che ancora, anche in territori considerati sensibili e culturalmente preparati, persiste la necessità di sottolineare la differenza tra lavoratore persona e lavoratore disabile. E voi quante volte vi siete trovati, insieme ai vostri compagni di viaggio, a inciampare in questo rischio? Scrivete a claudio@accaparlante.it o sulla mia pagina Facebook. (Claudio Imprudente)

(26 marzo 2012)

 

 

Affogando con Zigulì, Superabile, Marzo 2012

Qualche settimana fa, entrando in libreria, ho notato un libro dal titolo curioso: Zigulì, sì proprio lo stesso nome delle note caramelle alla frutta. Benché divertente e invitante questo titolo mi ha riportato indietro nel tempo, a una mia vecchia e personale fobia. Nella mia infanzia, chissà perché, ho sempre temuto infatti che le caramelle Zigulì mi andassero di traverso. Così piccole, tonde e zuccherose mi sembravano l’ideale per affogare… Le guardavo con curiosità e terrore, tanto che mi perseguitavano dalla pubblicità fino al tabaccaio sotto casa. Alla fine tuttavia ho acquistato il libro. Ma non per combattere le mie paure…

 

Zigulì. La mia vita dolceamara con un figlio disabile è un romanzo autobiografico di Massimiliano Verga (Mondadori, 2012), docente di Sociologia del Diritto presso l’Università Bicocca di Milano e soprattutto padre di Moreno, un bambino disabile grave, cieco, muto, epilettico e con un forte deficit cognitivo.

Sfogliando il lungo racconto ci si rende subito conto di quanto lo sguardo di Massimiliano nei confronti del figlio sia volutamente crudo e spietato, come lui stesso ha dichiarato nelle sue presentazioni.

Già nelle prime righe, motiva così la scelta del titolo: «Il cervello di Moreno» scrive «è grande come una Zigulì. Quand’ero bambino, mi piacevano molto quelle caramelle. Il cervello di Moreno mi piace un po’ meno. A volte penso che sarebbe bello poterlo mangiare, proprio come una caramella. Ma se potessi farlo, non vorrei sentirne nemmeno il gusto. Lo manderei giù come una pastiglia per il mal di testa. Così sparisce del tutto e non ci penso più». La prima considerazione che faccio è sull’autore. Un padre che scrive del proprio figlio disabile, al di là di quello che fu il caso di Giuseppe Pontiggia con il suo pluripremiato Nati due volte (2000), è in queste circostanze un’occasione rara. Se la bibliografia su questo campo è ampia a scrivere le loro testimonianze di solito restano soprattutto le madri.

Nel libro si nota la mancanza di falsi buonismi e di pietismo, sono delle pagine scritte di getto, con il cuore. Le difficoltà che si incontrano in questi contesti familiari diventano qui dolorosamente evidenti e prive di ipocrisia. In uno sfogo Verga arriva persino ad ipotizzare l’omicidio del piccolo…e purtroppo, questa, è una reazione che può dirsi normale. Un libro da leggere tutto d’un fiato, cercando di non affogare! A cinquant’anni suonati ho così deciso di mangiare la mia prima Zigulì ed ho capito quanto fossero affrettati i miei giudizi: era piccola e dolce come immaginavo. Ma io, come Moreno, sono ancora vivo.

Scrivete a claudio@accaparlante.it o sulla mia pagina facebook. (Claudio Imprudente)

Notte prima della gita, Superabile, Marzo 2012

Finalmente la primavera è alle porte. I ragazzi frequentanti l’ultimo anno di liceo o scuola superiore aggiustano il mirino verso il loro obiettivo finale, oramai così vicino…
State pensando all’esame di stato, vero? Sbagliato!
Io sto parlando della gita scolastica di fine anno, dove spesso per la prima volta ci si innamora, si litiga, ci si conosce meglio e a volte si trasgredisce.

Insomma una tappa fondamentale che spesso segna il confine tra la fine del periodo adolescenziale e la vita adulta.

Mentre gli autisti dei pullman controllano olio e pneumatici, io vengo inondato da mail di genitori e fratelli di ragazzi con disabilità per la quale questa, che dovrebbe essere una meravigliosa esperienza, a volte rischia di diventare un’occasione discriminatoria. Sarebbe scontato far dei riferimenti alla cronica mancanza di fondi che influisce pesantemente nell’organizzazione di attività extra-scolastiche, in questo caso però mi preme di più soffermarmi su dinamiche prettamente educative che se svolte con superficialità rischiano di sfociare in esclusione/emarginazione.

Penso che avere un diversamente abile in gita possa essere un’occasione per creare un clima diverso, ad esempio valorizzando la logica della lentezza che favorisce una relazione più intensa, necessaria al processo di integrazione. Tra le diverse mail che ho ricevuto su questo argomento mi ha colpito molto quella di una sibling, che raccontava l’esperienza discriminatoria vissuta dal fratello disabile in una gita scolastica a Parigi.

Ne riporto solo un breve passo, le sue amare conclusioni:

"…Sono allibita. Nauseata al punto che fatico a trovare qualcosa di sensato da dire. Forse non ci sono commenti da fare. Quante cose si dicono alle famiglie, poca verità la maggior parte delle volte. Pochi di coloro che parlano poi si calano nelle situazioni e le comprendono, molti agiscono senza professionalità e parecchi se ne approfittano. Lavoro nella scuola e vedo continuamente la scarsa professionalità di queste figure che quasi mai vedono nelle persone diversabili innanzitutto persone…".

Mi piacerebbe conoscere le vostre gite, belle o brutte, inclusive o discriminatorie, innamorate o litigiose… Scrivete a claudio@accaparlante.it o sulla mia pagina Facebook. (Claudio Imprudente)

Di chi è la colpa? Superabile, Marzo 2012

Ci siamo sempre chiesti, qui al centro documentazione handicap di Bologna, come affrontare una delle sfide più delicate ed importanti: la costruzione della propria identità. La scorsa settimana partecipavo ad un nuovo laboratorio organizzato dal progetto calamaio, rivolto a dei giovani con disabilità che hanno appena terminato il proprio percorso scolastico. Le attività sono varie, da alcuni esercizi motori fino ai giochi di ruolo, e uno degli obiettivi finali è aumentare la consapevolezza di se stessi, indispensabile per il nostro lavoro nelle scuole. Nell’ultimo incontro con i ragazzi è saltato fuori un tema molto complesso: tutto è nato da un affermazione di una persona con disabilità, il quale ha affermato che diverse volte nel corso della sua vita, sentendosi un peso per la famiglia e inutile per la società, ha pensato al suicidio. Il clima, solitamente allegro e spensierato, è subito divenuto cupo. Chiaramente era una forzatura, una provocazione che ha scosso il gruppo, scatenando un dibattito. Perché proprio a me? Di chi è la colpa? Perché non posso avere una vita come gli altri? Quante volte, tra convegni, percorsi e formazioni ho sentito queste domande nella mia vita… Questi interrogativi sono un passaggio obbligatorio e fondamentale nel processo di costruzione di un’identità adulta, acquisire consapevolezza dei propri limiti e delle proprie risorse rappresenta una sfida che tutti dobbiamo affrontare, indipendentemente dalla disabilità. Argomenti pesanti, di cui è complicato parlare. Allora concludiamo con un sorriso e ascoltiamo cosa aveva da dire Bennato… E voi cosa avete da dire in proposito? Scrivete come sempre a claudio@accaparlante.it o sul mio profilo di Facebook. (Claudio Imprudente)

Non dare il cioccolato ad un handicappato! Superabile, Marzo 2012

Venerdì è uscito nelle sale un nuovo film francese che ha fatto scalpore. Campione d’incassi nei cinema dei nostri cugini transalpini "Quasi amici" è una storia tratta da una vicenda realmente accaduta. Il tema è la disabilità. Non potevo proprio esimermi dal correre a vederlo, così il mio sabato passato è trascorso in un noto cinema bolognese di via indipendenza. Il risultato è stato molto positivo, ho passato due ore davvero divertenti, con spunti molto ironici e incisivi.

Il nucleo del film è il rapporto di confidenza ed amicizia che nasce tra un disabile grave benestante (ex avvocato di successo) ed un ragazzo di colore in cerca del permesso di soggiorno. La storia è una continua uscita dagli schemi educativi e formativi canonici, le differenze socio-culturali tra i due protagonisti sono la forza e la complicità che educano e sensibilizzano il loro contesto. Il film risulta privo di pietismo, sentimentalismo e buonismo, cosa affatto non scontata quando si trattano questi delicati argomenti per un pubblico di massa. Per questo risulta più vero, autentico. Credo anche sia una buona base di partenza, trattando a così ampio raggio il tema della disabilità, per iniziare a parlare di qualcosa che vale più dell’azione: la relazione.

Vorrei concludere con una battuta di Driss (il ragazzo di colore) che sembra banale, ma credo testimoni bene il rapporto di fiducia ed ironia esistente tra i due… a tempo di rap "non dare il cioccolato/ ad un handicappato!". Buona visione! Scrivete i vostri commenti a claudio@accaparlante.it oppure sulla mia pagina Facebook. (Claudio Imprudente)

’Na tazzulella ’e cafè, Il messaggero di Sant’Antonio, Marzo 2012

Come possiamo trasformare il dopo pranzo della domenica – durante il quale il calcio sembra l’unico argomento – in un pomeriggio di riflessione sulla disabilità? E se bastasse cominciare a bere insieme un semplice caffè? Proprio alcuni week-end fa, mentre sonnecchiavo davanti alla tv in un uggioso pomeriggio emiliano, la semplice visione di un set di tazzine colorate, in netto contrasto con il grigio del cielo, ha acceso la mia fantasia. Erano delle semplici tazze colorate di ceramica, che tuttavia avevano una forma un po’ insolita: erano infatti storte e sbilenche – probabilmente per inseguire i nuovi cliché del design moderno – proprio come succede ai bicchieri di carta quando hanno assolto il loro compito, e si buttano via. Ovviamente non posso dirvi la marca, ma di certo capiterà anche a voi di berci qualcosa. Quello che mi ha colpito di queste tazzine è stata, a dire il vero, la loro inutilità, tanto per cominciare, perché erano così imperfette e così scomode che non ho potuto non rivedermi in quei piccoli oggetti apparentemente inutili. A pensarci bene, però, come la maggioranza delle persone, ho fatto un errore di superficialità: mi sono concentrato sulla forma delle tazzine, sulla loro immagine, e non sul loro potenziale contenuto, proprio come molti fanno al primo impatto di fronte a disabilità evidenti. La mia domenica, dunque, è proseguita osservando queste tazzine: più le guardavo, e più mi identificavo in loro. Senza dubbio, le mie prime impressioni erano state affrettate.

Le tazzine, infatti, erano ergonomiche. Possiamo dire, addirittura, che non ci si accorgeva della loro comodità finché uno non le prendeva in mano. Parlando fuor di metafora, le mie prime impressioni erano state simili a quanto accade, spesso, alle persone che incontrano la disabilità. Finché non la si tocca con mano, con un atto di relazione, la disabilità resta, agli occhi dei più, una realtà scomoda, informe e, per certi versi, inutile. Però, come ci dimostrano queste tazzine, l’imperfezione, se è trasformata in modo creativo, può diventare non solo più utile del previsto, ma anche interessante e originale.

Molte volte, a scuola, durante le animazioni del «Progetto Calamaio», i ragazzi pongono queste domande: la disabilità è bella o è brutta? È comoda o è scomoda? Guardo di nuovo queste tazzine e mi viene spontanea la risposta: la disabilità non è né una realtà bella né una realtà scomoda, è semplicemente una realtà propria e originale, con il suo valore intrinseco. Le tazzine sono, a loro modo, attraenti perché, come ogni singolo individuo, mantengono le qualità e le peculiarità che gli sono proprie. Bisogna evitare di fare il mio stesso errore: giudicare prima di toccare. Alla fine ho gustato il mio caffè, con due cucchiaini di zucchero, in una di quelle tazzine. Era imperfetta, di colore rosso acceso… e devo dire che il caffè era davvero delizioso! E voi, che tazzine usate? Scrivete a: claudio@accaparlante.it o sul mio profilo di Facebook.

Viva la rai! Superabile, Febbraio 2012

A Sanremo la performance di Simona Atzori, che porta la sua disabilità sul palcoscenico più seguito della televisione italiana. Come più di 40 anni prima aveva fatto Pierangelo Bertoli. Anni che non sono passati invano
collage di foto di Simona Atzori

La sbornia di cinque giorni, da festival nazional-popolare della canzone, devo ancora smaltirla.

Tutto previsto, dalle incursioni di Celentano alle varie farfalline: serate passate senza scossoni, come in ogni febbraio a Sanremo che si rispetti. Forse qualcosa di nuovo in realtà l’ho visto… Nell’apertura della quarta serata sul palco dell’Ariston è comparsa una sinuosa quanto particolare ballerina, accompagnata da una coreografia di forte impatto. Simona Atzori, questo il nome dell’artista, è entrata nelle case di sedici milioni di italiani in prima serata, con questa performance.

Sicuramente non affronterò le tematiche tecnico-coreografiche del balletto (non è proprio il mio campo…) ma vorrei evidenziare un fatto culturale interessante. La disabilità di Simona mi ha riportato alla mente un’Italia, e una Rai, ancora in bianco e nero. Nel 1971, sulla stessa rete, il cantautore Pierangelo Bertoli metteva in crisi i coreografi della tv di stato, vedere per credere… Ammirevole lo sforzo di quelle belle ragazze atto a coprire quella scomoda carrozzina!

Facile dire che questi quarant’anni non sono passati invano. Evidente il processo di cambiamento nell’esposizione mediatica della disabilità. Dall’imbarazzo collettivo per la disabilità di Bertoli fino all’evidente gioco di immagini che finiva per evidenziare l’handicap della Atzori, un passo in avanti che reputo positivo e di buon auspicio. Voi cosa ne pensate? Scrivete a claudio@accaparlante.it o contattatemi nella pagina facebook. (Claudio Imprudente)