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Autore: admin

Il giardino dei ricordi. Laboratorio di narrazione autobiografica e creativa per donne migranti

di Alessandra Gruppioni, insegnante di Scuola primaria, counseler e conduttrice di laboratori di scrittura

L’idea di questo laboratorio nasce camminando.
Ho insegnato per tanti anni in un paese della provincia di Bologna, ad alto tasso di immigrazione fin dagli anni 80.
Quando uscivo da scuola, camminavo per le strade, nei negozi, al mercato.
Camminando incontravo le donne” straniere “, mamme , zie, sorelle , dei miei scolari :avevano abiti colorati, spesso bambini in braccio, coglievo i loro sguardi intensi, ma ne avvertivo l’isolamento.
Le donne migranti non possono condividere le loro storie,i loro pensieri.
Vivono accanto a noi , senza la possibilità di parlarci, di comunicare.
Non conoscere la lingua del Paese in cui vivono e crescono i loro figli è per loro fonte di disagio e solitudine, che si vanno a sommare al senso di sradicamento e di non appartenenza dovuti alla lontananza dalla loro terra.
Difficilmente partecipano ai corsi di italiano per adulti, poiché hanno quasi sempre bambini molto piccoli e quindi non escono la sera.
Camminando pensavo: come fare? Come fare ad aiutare loro ad esprimersi, ad aiutare noi a non perderci l’immensa ricchezza di poter avvicinare altre culture?

Camminando e guardandole negli occhi , rispondendo ai loro sorrisi, ho cercato un modo di insegnare loro la nostra lingua, un modo nuovo che permettesse anche di raccontarsi e di condividere sentimenti ed emozioni.
Ed ho pensato al metodo autobiografico :
la narrazione di sé è stata proposta come possibilità diversa di apprendere la lingua, non attraverso acquisizioni grammaticali, ma esprimendo la propria sensibilità e soggettività, le proprie emozioni, passioni, inclinazioni.
Il Laboratorio di Narrazione Autobiografica ha dato voce a queste donne, fornendo loro la possibilità di raccontare la propria storia, certamente ricca di ricordi, emozioni, esperienze.

Diario

E’ il primo incontro: non si presenta nessuna delle iscritte.
Penso che forse la mia idea non era tanto buona.
Poi , insieme alle organizzatrici del Comune, ricordiamo che quel giorno è la festa del Ramadan, la più importante per la Comunità Islamica.

Al secondo incontro vengono in tante, sono una dozzina, quasi tutte marocchine e tunisine, un paio rumene.
Sono giovani donne , dai 20 ai 30 anni circa, molte hanno con sé i bambini piccoli di 1 o 2 anni.
Alcune parlano un po’ l’italiano, quanto basta per capirsi con i negozianti, in posta, dal medico.
Qualcuna non ha neppure questa conoscenza di base.
Io sorrido , parlo lentamente e spiego che lì, in quello spazio, si parlerà di loro , delle loro storie, che poi scriveremo.
Mi guardano perplesse.Intanto un cellulare squilla, la signora parla nella sua lingua ventosa dentro il telefono, il suo bambino si sveglia e strilla.
Accanto a loro un’altra bimba succhia paciosa al seno della mamma.
Mi accorgo che dovrò accettare un po’ di confusione, qualcuna che viene, qualcuna che va.
Qualche altro bimbo gattona in giro; una, più grandicella e assai birbante, mi cancella con gusto la lavagna.
Le donne ridono.
Si può iniziare.
La lista di piaceri e dispiaceri, utilizzata per una prima conoscenza nel gruppo, viene scritta al termine del primo incontro.
Qualche ragazza è dubbiosa all’idea di scrivere in italiano, poi si lascia andare all’aspetto giocoso e… scaturisce questa delicata poesia collettiva.

PIACERI
“Mi piace:
imparare bene l’italiano per aiutare i miei figli,
studiare,
tornare nel mio Paese
per vedere mia madre,
avere la mia famiglia vicino,
abitare vicino alla scuola dei miei figli;
mi piace il cous-cous,
mi piace
cucinare,
tenere pulita la mia casa,
portare a spasso il mio cane,
fare ginnastica;
mi piacciono il verde della natura,
il bianco, il rosso, il viola, il rosa, il nocciola.

DISPIACERI

Non mi piace:
il nero,
la sporcizia e i vestiti sporchi,
la matematica,
qualcuno bugiardo,
il rumore,
avere problemi,
la guerra.”

La volta successiva,prima di iniziare a scrivere ascoltiamo una canzone marocchina che ha portato Jamila, parla di un bimbo che disegna e colora.
Poi ascoltiamo la musica berbera, proposta da Aicha: è allegra, da festa.
Le donne si alzano e danzano leggere, ridono.
Poi scrivono e disegnano.
C’è bisogno, dicono.
C’è bisogno, dico anch’io.
Infine scriviamo.

COLORI

“Nero come il buio,
come i miei capelli,
il mio fazzoletto.
Verde come l’albero.
Bianco come la colomba,
il vestito del matrimonio,
lo zucchero,
la panna nella torta,
le uova.
Rosso come i fiori,
marrone come la castagna,
il miele scuro,
il tronco degli alberi,
la porta, la cannella.
Bianco come la colomba,
la nuvola,
il formaggio,
i globuli bianchi nel sangue.
Verde come il giardino,
gli occhi della mia nipotina,
le montagne in primavera.
Bianco come il cuore delle mamme,
i fiori bianchi,
le montagne d’inverno.
Nero come un vestito bello
gli occhi del mio bimbo
le belle serate.
Rosso come la bocca dei bimbi piccoli.
Viola come i piccoli fiori che si chiamano viole
Verde come l’erba, l’albero, l’insalata.
Bianco come la neve,
come la colomba,
rosso come la fragola,
marrone come la castagna e il miele scuro.”
Andando avanti nel percorso, condividiamo ricordi d’infanzia.
A tratti, fra le risate, si insinua la nostalgia una Terra lasciata per necessità, la nostalgia per le persone care , rese ancora più distanti dal costo dei biglietti aerei.

DA PICCOLA, IO MI RICORDO…

“Non volevo che i denti cadevano. Mi ricordo la nonna che me li voleva togliere ma io scappavo!

Io mi ricordo quando andavo in campagna a trovare i nonni.
C’erano le mucche con i vitelli: io li toccavo, loro mi leccavano.
Mi piaceva guardare mentre succhiavano il latte.

Da piccola mi piaceva andare ai matrimoni per andare dal parrucchiere e avere vestiti belli.
Mi piaceva guardare la sposa e ballare!

Io mi ricordo quando, con le amiche, facevamo “la sposa”.
La “sposa “ era una bambola e noi cucivamo i vestiti.”

Tutte le donne provenienti da Marocco e Tunisia, ricordano grandi scuole con splendidi giardini fioriti.
Raccontano di insegnanti severi ed esigenti, ma attenti a seguire classi con 35 e anche 40 alunni.
L’alunno più bravo, in ogni classe, riceveva un regalo.
In molte scuole, un giorno all’ anno, c’era la festa della pulizia, durante la quale insegnanti e studenti pulivano insieme la scuola per renderla più bella.

A SCUOLA, IO MI RICORDO…

“La mia scuola era bellissima, le maestre erano molte: erano buone con i bambini bravi, mentre erano severe se non facevamo i compiti.
Mi ricordo quando sono arrivata tardi e il direttore mi ha picchiato sulle mani.
Era una classe femminile, c’erano 36 bambine.

Mi ricordo quando mettevamo i fiori in classe, il giorno della festa della pulizia.
Ho un ricordo triste: in palestra una mia amica è morta, nessuno sapeva che lei era malata al cuore.

A scuola avevo una maestra buona e una nervosa: si arrabbiava subito e urlava.
Mi faceva paura.
Mi piaceva studiare l’arabo: ero la prima della classe e ricevevo in premio dei regali.

Mi ricordo che il maestro era rigido.
Quando entrava noi dovevamo alzarci tutti in piedi e dire:
-Bonjour monsieur!-
Eravamo 36 alunni, mi piaceva quando giocavamo in giardino, l’intervallo durava circa 30 minuti.”
Alla fine di uno degli incontri precedenti le feste di Natale e Capodanno decidiamo di salutarci con una festa fra donne, col contributo di tutte.
Ce lo diciamo un po’ in fretta, già sulla porta, con i bimbi che, infagottatti nei cappottini, premono per uscire.
Arriva il giorno della festa, io porto bibite e
cioccolatini :risucchiata dalla mia vita frenetica non ho potuto preparare nulla.
Vista l’ estemporaneità organizzativa, mi domando se le mie donne si ricordino della festa.
Eccole.
Arrivano alla spicciolata, con gli occhi che ridono e le braccia cariche di delizie, una addirittura con un “trolley” munito di ruote.
La tavola si ricopre di prelibatezze preparate con le loro mani e servite su preziosi piatti da portata
Oumani , dalla valigia, estrae il tè alla menta ed il servizio “buono “ per servirlo: teiera dorata sontuosa e deliziosi bicchierini variopinti e finemente decorati.
Nascondo gli orridi bicchieri di plastica che avevo predisposto ed assaporo con grande piacere sia il cibo che la lezione di stile che ho appena ricevuto.
Poi , via alle danze!
La preparazione dei piatti e
laborati conduce al tema della manualità.
Negli incontri successivi conversiamo , pensando a tutte le azioni pratiche, quotidiane, ma anche creative che possiamo compiere attraverso le nostre mani.
Insieme creiamo una pittura collettiva con le impronte delle nostre mani intinte nei colori.
Infine Gail ci insegna uno stupendo gioco della tradizione Maori: in Nuova Zelanda, gli anziani lo insegnano ai giovani .
E’ un allenamento per imparare ad usare le lance: ci mettiamo accovacciate , a coppie, Gail canta una canzone mentre noi, a ritmo, battiamo le mani e ci lanciamo i bastoni colorati, che teoricamente dovremmo afferrare al volo…
Che ridere! Quanto ci fa bene! 

GRAZIE ALLE MANI

“Perché toccano e sentono
Perché possono dare una carezza
Perché scrivono
Perché preparano il cibo, poi lo portano alla bocca
perché sanno cucire,
perché pregano
e aiutano i bambini
perché sono utili
perché danno tanto amore
perché per i piccoli sono strumenti di conoscenza
perché giocano
perché fanno tante cose e curano le piante
perché si stringono per dare amicizia e aiuto.”

Spero, attraverso il diario, di avere saputo raccontare il clima relazionale accogliente, solidale, affettivo che si è creato nel gruppo.
Le donne sono state molto disponibili a darsi sostegno a vicenda, sia tenendo in braccio il piccolo di chi stava scrivendo, sia traducendo i racconti di chi non riusciva ancora a spiegarsi in italiano.
Mi sono sentita spesso in empatia con loro, poiché vivevo –per un istante- un rovesciamento della situazione in cui esse si trovano quotidianamente: immersa in varie lingue musicali e sconosciute, cercavo di comprenderne i contenuti captando intonazioni, espressioni del volto, gestualità.
Il rispetto reciproco, trasformatosi presto in affetto, ha portato ad una positiva comunicazione :insieme abbiamo riso, cantato, danzato e – qualche volta – pianto.
Attraverso i loro racconti e la condivisione dei vissuti , le partecipanti hanno riflettuto sul proprio passato, sui cambiamenti, sulla propria condizione di donne in bilico tra due culture: quella d’origine e quella in cui vivono, lavorano, interagiscono quotidianamente.
In questo ambito, socializzante ma protetto , esse hanno potuto gettare le basi di un ponte per la loro effettiva inclusione nella realtà sociale in cui ora vivono.
Nel confronto con le loro diverse culture (Marocco, Tunisia, Pakistan, Romania, California, Nuova Zelanda) ho potuto verificare, ancora una volta, come il metodo autobiografico abbia un positivo riflesso in ambito sociale.
La storia personale di ciascuno di noi, se scritta e condivisa, diviene documento prezioso e si inserisce storia della comunità in cui viviamo.

Grazie a tutte le donne hanno condiviso con me questa esperienza, regalandomi momenti di tenerezza, commozione, divertimento e piacere.

Alessandra Gruppioni
GRAZIE al cuore e ai pensieri delle amiche di Associazione d’iDee (www.asociazioneidee.net) e di Adriana L’Altrelli , Assessora alle pari Opportunità del Comune di Calderara di Reno.
 

Stregoni e clown. La “formazione” dell’insegnante

di Guido Armellini, ex insegnante di Scuola Secondaria Superiore, docente di letteratura comparata all’università di Verona

«Chi insegna pedagogia all’Università, i ragazzi non ha bisogno di guardarli. Li sa tutti a mente come noi si sa le tabelline»
(Scuola di Barbiana, Lettera a una professoressa)

«L’insegnante, come è stato riconosciuto almeno a partire dal Menone di Platone, non è in primo luogo qualcuno che sa e che istruisce qualcuno che non sa. Egli è piuttosto una persona che tenta di ricreare il soggetto nella mente del discepolo, e la strategia che guida la sua azione consiste soprattutto nell’ottenere che lo studente riconosca ciò che potenzialmente già sa, il che presuppone la sconfitta delle forze repres¬sive presenti nella mente e che gli impediscono di sapere ciò che sa»,
(Northrop Frye, Il grande codice. La Bibbia e la letteratura.)

Insegnare a insegnare

Il nostro paese è pieno di persone che pensano di poter inse¬gnare a insegnare agli insegnanti: pedagogisti, psichiatri e psi¬cologi, sociologi, ispettori ministeriali, accademici delle più varie discipline. Fino ad oggi questa idea non è suonata strana agli orecchi delle competenti autorità: se c’è da istituire un corso di formazione per insegnanti, si ricorre immancabilmente alle so¬pra citate categorie. Ne nascono anche dei conflitti: non molto tempo fa i quotidiani hanno ospitato un acceso dibattito tra pe¬dagogisti e specialisti disciplinari sul ruolo che ciascuna delle due corporazioni avrebbe dovuto ricoprire nei corsi universitari per la formazione iniziale dei docenti. A nessuno degli interve¬nuti è passata per la niente l’idea molto banale che, se c’è qual¬cuno che sa insegnare, quello è un o una insegnante.
Se uno psicologo, o un medico, va a un corso d’aggiornamento, dall’altra parte del tavolo trova quasi sempre uno psicologo, o un medico considerato particolarmente bravo, che si è specializzato in qualche strategia terapeutica, che ha esperienze interessanti da raccontare, che ha scritto libri a riguardo. Se ci fossero corsi di formazione per ciabattini, sarebbero sicuramente tenuti da ciabattini esperti, non da idraulici, orologiai o elettricisti; e l’eventuale presenza di podologi, massaggiatori riflessologici, scuoiatori di cinghiali e coccodrilli sarebbe considerata un contributo interessante ma collaterale. Solo agli insegnanti – cate¬goria il cui mestiere ha molto di artigianale, di soggettivo, di idiosincratico – tocca invariabilmente andare a lezione da pro¬fessionisti che svolgono un altro lavoro: il senso comune esclude che dalla pratica dell’insegnamento possa scaturire un sapere degno di questo nome. Non a caso, se si pensa a una carriera per il personale docente, immediatamente ci si preoccupa di pre¬miare le attività di gestione, di progettazione, di coordinamento, come se il contatto diretto con i ragazzi e con le ragazze fosse una pedissequa applicazione di modelli e di tecniche prestabiliti e non quell’arte complessa, avventurosa, sorprendente che gli insegnanti seri e appassionati conoscono e amano.

Chi forma chi

E’ fin troppo ovvio che un buon insegnante di matematica, o di storia, deve avere una buona conoscenza della matematica, o della storia. Ma non si capisce perché, subito dopo aver conse¬guito una laurea in queste discipline, occorrerebbe fargli inca¬merare un sovrappiù di formazione specialistica: o l’università è capace di far imparare i capisaldi delle discipline che insegna, e allora un normale corso di laurea è più che sufficiente; oppure non ne è capace, e allora un’aggiunta di due anni dello stesso tipo di formazione non può certo risolvere il problema.
Quanto alla pedagogia, da quando il ruolo dello studioso si è scisso nettamente da quello dell’insegnante (cosa che non avve¬niva ai tempi di Pestalozzi, Freinet, Montessori), i suoi percorsi epistemologici sembrano calcare le orme di quei dotti del Seicento che dettavano legge sul funzionamento dell’universo e sui moti degli astri rifiutandosi recisamente di dargli uno sguardo diretto con il canocchiale di Galileo. La separazione fra chi insegna e chi teorizza sull’insegnamento è uno dei fondamentali motivi dell’inaridimento del sapere pedagogico e dell’avvilimento del mestiere dell’insegnante. In altri paesi europei i docenti univer¬sitari che si occupano di didattica devono passare, per contratto, molta parte del loro tempo nelle classi, a contatto diretto con insegnanti e studenti; penso che questo salutare bagno di realtà li aiuti a elaborare modelli interpretativi e operativi ragionevoli, maneggevoli, sottoponibili al vaglio dell’esperienza: cosa che nel nostro paese avviene assai raramente.

L’università e la didattica

Del resto è noto che in Italia l’attività didattica occupa l’ultimo posto tra gli interessi e le preoccupazioni della larga maggioranza dei professori universitari. Sembra alquanto paradossale che coloro che dovrebbero insegnare ad insegnare provengano proprio da una categoria che si preoccupa così poco del suo stile di insegnamento: in fondo, la più autentica pedagogia del pedagogista non è quella enunciata a parole, ma quella pra¬ticata all’università, nella sua relazione con i suoi studenti. Nei corsi d’aggiornamento si enunciano illuminate teorie secondo le quali i bambini e le bambine non sono scatole vuote e non biso¬gna trattarli come oggetti ma come soggetti; ma ci si guarda bene dall’applicare questa strategia pedagogica anche agli inse¬gnanti destinatari del corso. Non c’è da stupirsi poi se nelle scuole si diffondono quegli atteggiamenti gregari e rivendicativi che si rimproverano giustamente alla corporazione degli insegnanti: se chi mi insegna a fare il mio mestiere non tiene al¬cun conto di ciò che so e che so fare, non mi resta che adagiarmi sulle ricette didattiche preconfezionate che giungono dall’alto (e brontolare rancorosamente quando scopro che non funzionano).

Come il clown o la pornostar

Ciò che motiva la spartizione della formazione dei docenti tra specialisti disciplinari e pedagogisti è l’idea dell’insegnamento come "trasmissione" di saperi codificati: da un lato le discipline da insegnare, dall’altro le tecniche per farle penetrare, a dosi crescenti, nella testa dei discenti. Specialisti e pedagogisti spiegano all’insegnante ciò che deve sapere e saper fare, in modo che lui o lei possano spiegare ai bambini ciò che dovranno sape¬re e saper fare per essere accolti a pieno titolo nella società degli adulti; illustrano anche gli strumenti adatti a "misurare" la quantità di apprendimento entrato nella testa del bambino o della bambina e le strategie adatte a correre ai ripari quando la dose non è sufficiente. Ma la scuola, quando va come deve, non è questo. E’ il luogo (forse l’unico, a parte la famiglia, in questo momento storico) in cui si incontrano generazioni diverse, su uno sfondo per molti aspetti lacerante di crisi di valori e di mo¬delli. Pensare che tutto si risolva in un asettico e unidirezionale passaggio di valori e di saperi è illusorio.
Fattori come la crescente distanza culturale fra le generazio¬ni, la perdita di prestigio sociale della scuola e dell’istruzione, la sfasatura tra cultura scolastica ed extrascolastica richiedono che chi insegna sia prima di tutto capace di motivare all’apprendimento. Da questo punto di vista i principali requisiti di un buon inse¬gnante sono la passione e la curiosità per ciò che insegna e per le persone che ha di fronte, il gusto per l’avventura e per l’imprevisto insiti in ogni relazione umana, il senso della com¬plessità e dello straordinario valore sociale del suo lavoro, la consapevolezza della vastità della propria ignoranza e la propensione a ripensare ogni giorno al significato di ciò che fa in classe con i suoi studenti. Come lo stregone, il clown e la pornostar, un buon insegnante lavora con il corpo, con la voce, con le emozioni. Come l’antropologo, esplora usi e costumi di una tri¬bù sconosciuta, si sforza di gettare ponti fra culture diverse, cer¬ca di costruire contesti comunicativi comuni. Questo genere di cose non si impara esponendosi passivamente all’ascolto degli ultimi sviluppi del sapere specialistico o delle più recenti rasse¬gne di obiettivi, indicatori e descrittori elaborate da qualche su¬percilioso sezionatore dei comportamenti umani.

Ampliare la gamma dei punti di vista

Per quel che mi riguarda, il maggior contributo alla mia formazione di insegnante è venuto da un’esperienza giovanile di educatore in un’associazione volontaria, dagli scambi di esperienze con colleghe e colleghi esperti e appassionati e dall’incontro con narrazioni come quelle di Janus Korczak, Mario Lodi, don Milani: esseri umani diversissimi, accomunati da una forte spinta etica e da un rapporto appassionato e fantasioso con i ragazzi e le ragazze. Per ciascuno di loro l’esperienza educativa non si poneva come una trasmissione unilaterale di valori e saperi, ma come costruzione cooperativa di un mondo possibile in cui i modelli sociali dominanti (a volte feroci, come nel caso di Korczac) potessero essere messi in discussione e sovvertiti: le tecniche, sempre discutibili e reinventabili, venivano di conse¬guenza, e ognuno si costruiva ogni giorno le sue. Si obietterà che i casi citati sono eccezionali, che non si può pretendere che ogni insegnante sia un genio o un eroe, che bisogna portare i grandi numeri a un livello medio di decenza. A me sembra che la tra¬smissione unidirezionale di metodologie didattiche standardiz¬zate, anziché sollevare le situazioni più mediocri, rischi di de¬primerle ulteriormente: il generale deterioramento della qualità delle esperienze scolastiche dagli anni del trionfo delle tassonomie e della programmazione fino ad oggi ne è una riprova. Per quanto scarse siano le doti di un attuale o futuro insegnan¬te, credo che l’unico modo per aiutarlo a migliorare consista nel farlo diventare protagonista della propria formazione, offrendogli la possibilità di ampliare, attraverso esperienze e incontri si¬gnificativi, la gamma dei suoi punti di vista sulla straordinaria complessità del mestiere che svolge o che svolgerà.

Due proposte

Un sociologo che ha svolto accreditate ricerche sulla scuola italiana afferma che «circa tre insegnanti su dieci sono quasi degli eroi, molto competenti e ottimi didatti: suppliscono con l’impegno personale, si aggiornano, ma non sono per niente valorizzati e non hanno alcun riconoscimento (…). Una metà dei restanti due terzi è inadeguata. L’altra metà tira a campare»1. Se le cose stanno così, è chiaro che una formazione in servizio con¬cepita come semplice "aggiornamento" disciplinare, unito alla mera trasmissione di nozioni psicologiche e pedagogiche, ri¬schia di lasciare il tempo che trova. E anche la differenziazione retributiva di cui si parla come di una panacea non mi sembra possedere il potere salvifico che le si attribuisce. Si tratta invece di restituire senso al mestiere dell’insegnante: il che, dal punto di vista della formazione, significa offrire tempo e occasioni per metacomunicare sul proprio lavoro quotidiano, per recuperare il suo valore etico e conoscitivo, per elaborare e far circolare il sapere che ne scaturisce. Se per mettere in moto un processo di questo tipo sia necessario ricorrere all’apporto di interventi esterni al mondo della scuola o sia più utile la valorizzazione delle competenze esistenti tra gli insegnanti, dovrebbero essere gli stessi destinatari della formazione a deciderlo di volta in volta. Una premessa indispensabile è comunque il radicale sfol¬timento dell’inutile lavoro burocratico che attualmente intasa la vita della scuola e l’istituzionalizzazione di tempi "sabbatici" dedicati alla ricerca e allo studio.
Per quanto riguarda invece la formazione iniziale, un ruolo fondamentale andrebbe offerto agli insegnanti capaci di interagi¬re con i loro futuri colleghi in un lavoro che si svolga anche e soprattutto nelle classi, insieme con ragazze e ragazzi in carne ed ossa. Insomma, quel "tirocinio" che nei progetti ufficiali è relegato a una funzione subordinata dovrebbe essere un cardine della formazione, non come "esercitazione pratica" in cui si "applicano" e si verificano a posteriori teorie pedagogiche preconfezionate, ma come esperienza diretta della sconfinata va¬rietà di osservazioni, di strategie, di implicazioni che possono scaturire dall’atto dell’insegnare e dell’imparare. Qualcosa di simile si potrebbe realizzare anche all’interno di significative esperienze educative extrascolastiche, specie in situazioni so¬ciali e psicologiche "a rischio".
Mi pare che queste ipotesi potrebbero funzionare bene ad alcune condizioni: che gli insegnanti-"formatori" (ma la parola ha qualcosa di ripugnante, e bisognerebbe inventarne un’altra) non siano totalmente esonerati dall’insegnamento ma mantengano un contatto costante con le classi e con i ragazzi, attraverso forme di distacco parziale; che l’organizzazione della formazione in servizio degli insegnanti sia radicalmente decentrata e sottratta al ceto buro-pedagogico che l’ha gestita fino ad ora; che i rapporti tra ricerca didattica e sapere accademico, e tra scuola e università, non si svolgano più in termini gerarchici e unidire¬zionali ma di scambio alla pari.

1 Alessandro Cavalli intervistato da F. Erbani su "La Repubblica" del 27.1.1996.

 

La memoria fa parte dell’intelligenza. Incontro con A.N.E.D. di Bologna

di Sandra Neri

Il primo insegnamento che traggo dalla chiacchierata di questa mattina è l’umiltà e la capacità di lasciare entrare l’esperienza, la storia, una vita vissuta attraverso emozioni forti, non sempre rielaborate, ma che sempre hanno dettato le azioni, le scelte, i cambiamenti delle persone.
Sono entrata in questa casa con un mio schema preciso rispetto a questo incontro. La mia bella traccia di domande, i miei obiettivi rispetto ai contenuti che per me erano prioritari.
Ma è bastato poco. Sono state sufficienti poche parole, pochi istanti per capire e sentire che dovevo lasciarmi condurre.
Non sarebbe stato attraverso la risposta alle mie domande che avrei avuto le informazioni che cercavo. Ma attraverso la forza di quel racconto, quella esperienza ancora così presente, quel bisogno di raccontare e fare circolare quella, e tante altre storie.
Ed ecco il secondo insegnamento. Il soggetto educativo di questa storia non è solo e in primo luogo il ragazzo, il gruppo classe. La forza e la passione del racconto sono uno strumento di crescita e di evoluzione per chi lo riceve e per chi lo dona.
Franco Varini è un educatore delle giovani generazioni che, attraverso la sua esperienza di prigioniero delle SS e internato in diversi campi di concentramento e di lavoro durante il secondo conflitto mondiale, trasferisce un sapere che viene da un pezzo molto drammatico della nostra storia vissuto in prima persona.
Dopo la sua liberazione il rientro in Italia trascorre molto tempo nel silenzio e nella difficoltà a raccontare, a condividere l’orrore di quei mesi di prigionia e torture. Fino a quando non sente il bisogno di lasciare un segno, una traccia, un qualcosa di accessibile a tutti, di condivisibile.
È così che nel giro di pochi giorni nasce il suo libro “Un numero un uomo” Ed. EGA. Così comincia il suo peregrinare per le scuole della regione Emilia Romagna. Incontra centinaia di ragazzi delle Scuole secondarie inferiori e superiori. Vuole lanciare un seme, dice. Ed è consapevole che quel seme avrà in ogni persona che incontra tempi e modi diversi di crescere e portare il frutto di una cultura apparentemente così lontana dalla nostra.
Il mio interesse è legato ai ragazzi, all’aspetto educativo e didattico di questa storia. Vorrei che mi raccontasse le loro facce, le loro domande, le loro reazioni. E lo fa. Mi racconta del clima che si crea quando lui comincia il racconto. Dei lavori che i ragazzi gli inviano dopo averlo incontrato. Degli abbracci. Dell’interesse che suscita nei ragazzi disposti a sballare l’orario dell’uscita di scuola pur di non far finire quel momento.
Ma capisco che per arrivare a loro devo passare da lui. Dal protagonista della storia. Di allora e di oggi. Quando gli chiedo: “E tu? Tu cosa provi quando parli con i ragazzi?” il suo viso si illumina e mi risponde con un tono molto deciso “Gioia!”.
Allora cambia il mio focus. E cambia il punto centrale del mio ipotetico scritto. Ciò che risiede nell’educatore, che poi viene trasmesso nella relazione educativa diventa il vero il punto centrale.
La forza con cui Franco accede alle mie emozioni e alla mia curiosità è la stessa forza con cui lui vive quell’incontro. E immagino che avvenga lo stesso meccanismo quando egli si trova a scuola. Quando sia lui che i ragazzi si alimentano di quella energia che solo l’incontro delle esperienze e delle singole storie può far nascere. Tanto i ragazzi attingono da quella vita, tanto lui può attingere dal loro bisogno di avere risposte, informazioni, conoscenza. I primi importano un’esperienza che amplia il proprio bagaglio personale e integra la propria identità di uomini in crescita. Il secondo, attraverso il riconoscimento e il valore attribuitogli da quell’incontro, vive ogni volta dentro il ruolo di educatore e formatore la conferma di una identità che è passata attraverso la storia, sua e nostra.

Ancora una storia. Ancora una persona che fa del racconto della propria esperienza drammatica e miracolosa per esserne uscito, la propria carta di identità, la propria licenza ad occupare un posto importante nell’oggi che egli abita.
Armando Gasiani condivide con Franco Varini l’esperienza del campo di sterminio, l’esperienza dell’oblio nel tentativo di disfarsi di quel pezzo di storia insopportabile, e il bisogno di riappropriarsene per sentirsi parte di quella stessa storia; non solo di quel preciso momento, ma quella che ha portato a quel momento, quella che è venuta dopo quel momento. E quella di oggi. Quella dove, dice Armando, diamo per scontata la libertà.

Anch’egli incontra i ragazzi delle scuole. “Noi lo sappiamo cosa significa perdere la libertà. E proprio per questo ne conosciamo il valore. Oggi voi la libertà la avete in mano. E la avete grazie a noi, a ciò che abbiamo vissuto, alle scelte che abbiamo fatto. Per conoscere e apprezzare cosa tutto ciò significa… bisogna che mi ascoltiate, che capiate…”
Nella nostra lunga e emozionante chiacchierata mi parla dei ragazzi. L’età più bella è quella dai 13 ai 17 anni… ascoltano, fanno domande, sono curiosi. Poi, è come se crescendo, non sentissero più il bisogno di sapere, di conoscere.
E si arrabbia con gli adulti. Loro non sanno ascoltare. Forse sanno già tutto! Ma di sicuro la mia esperienza non la conoscono…
I luoghi degli incontri e dei racconti non sono solo le scuole. Armando accompagna i gruppi al campo di Mauthausen, in Austria, dove egli ha trascorso quattro mesi di prigionia. Dove ha visto e vissuto situazioni che… non potreste mai capire. Anche quando ve le racconto, difficilmente sono credibili. A volte fatico io stesso a credere a ciò che ho visto. Questa, dice, è terra sacra. Un luogo che ha visto la morte e il dolore di centinaia di migliaia di persone. Un luogo che oggi diventa contesto privilegiato di conoscenza, di esperienza, di apprendimento. “Quando entriamo al campo… non perdo un solo ragazzo per la strada. Sento che capiscono, sono interessati a stare in ascolto di quello che lì dentro è accaduto. Mi stanno vicini, chiedono. E stanno in silenzio. In pullman durante il viaggio sono vivaci. Ma dentro sono attenti e interessati.”
Mentre lo ascolto sento che l’apprezzamento per l’interesse e l’ascolto diventa una richiesta di rispetto per ciò che lui porta in sé, per ciò che racconta, che ha vissuto, che ha fatto di lui l’uomo che è oggi.
Armando dice di dovere la sua rinascita a Roberto Benigni che con il film “La vita è bella” lo ha svegliato dall’oblio e gli ha restituito una identità legata anche a quella parte del suo passato così duro da digerire. Gli ha ridato la vita attraverso la possibilità di parlare. E da allora, quando egli racconta si scarica, si libera. Ogni volta che fa di quella condivisione un regalo, si alleggerisce e sente, ne è certo, di dare qualcosa di importante. Perché, dice, i ragazzi ne hanno bisogno. Le loro domande lo fanno emozionare, sente che sono contenti, che anche attraverso quell’istante sono cresciuti. Lui si mette a nudo. È a loro disposizione perché essi possano trarre da lui ciò che occorre loro per fare un altro pezzo di strada. Ed è lì che gli orrori che ha vissuto e che lo hanno portato così vicino alla morte si trasformano meravigliosamente in uno strumento unico per contribuire alla evoluzione dell’umanità. Ogni volta accade questo grandiosa alchimia.
Il desiderio e il bisogno di raccontarsi hanno preso anche la forma scritta: “Finché avrò voce” in collaborazione con Associazione internazionale Terre d’Acqua; “Nessuno mai ci chiese” Ed. Nuova Dimensione.
Parlando di sé gli sfugge “Sono un povero ragazzo…” Armando quando entra in classe è il diciassettenne che è entrato a Mauthausen sessantaquattro anni fa, che va ad incontrare i ragazzi di oggi. E dice loro “Io vi porto la mia esperienza. Ma voi dovete farvi la vostra. E non in poco tempo. Non in fretta. Una lunga esperienza di vita che vi porta a diventare uomini e donne protagonisti della vostra vita. La vostra vita individuale e la vita sociale. Una società e un futuro che richiedono la vostra presenza. Perché la vostra presenza ha un peso nella storia”.

… proprio come Armando e Franco portano la loro presenza di oggi attraverso la loro presenza di allora. Attraverso tutti i passaggi e i percorsi che la vita li ha portati a compiere.
Questo diventa un regalo che essi fanno ai ragazzi che incontrano. Ma un regalo che hanno fatto a loro stessi attraverso il riconoscimento e la rivendicazione di una storia, di una vita che, attraverso l’azione educativa di oggi, sperano e desiderano possa contribuire alla crescita collettiva di domani.

(Franco Varini e Alberto Gasiani lavorano e svolgono la loro preziosa attività all’interno di A.N.E.D, l’Associazione nazionale ex deportati politici nei campi nazisti. I suoi aderenti sono i sopravvissuti allo sterminio nazista e i familiari dei caduti nei Lager. E’ una associazione senza fini di lucro, eretta Ente morale con decreto del presidente della Repubblica italiana il 5 novembre 1968. Per saperne di più: www.deportati.it)
 

La parola e il gesto. Barbiana e il Mugello, una Scuola per l’integrazione

di Luigi Goffredi, Presidente Fondazione Il Forteto Onlus

Le parole e i gesti hanno funzione prevalentemente educativa in ogni dinamica che si sviluppi nella relazione.
Don Lorenzo Milani in questo senso è stato un mirabile precursore nel portare all’attenzione di tutti, prima ancora che nascesse la “società della comunicazione”, la forza della parola e del gesto che l’accompagna. Con grande capacità intellettuale, testimoniale, con spirito provocatorio e sofferenza, lo spiegò alla scuola del suo tempo.
La scuola che, pachidermica, distratta, rituale, obsoleta, non apprezzava i saperi soggettivi e i valori culturali diversi dai propri, anzi escludeva sistematicamente gli allievi non appartenenti alla classe sociale di riferimento, allora ancora definita borghesia. Era una dimensione dove l’allievo bisognoso di appartenere, di rappresentarsi e avere una dignità nel contesto della classe e sociale, veniva invece discriminato.
Operando con la Scuola di Barbiana, Don Milani ha delineato con chiarezza la figura dell’educatore come un modo di essere, di porsi, universale, ancora attuale e forse senza tempo, come una persona disposta a vivere con l’allievo tempo, spazi, agi e disagi, costruendo una relazione in sintonia con i bisogni che quest’ultimo esprime. La sua proposta concreta profilava la figura dell’educatore con caratteristiche e funzioni che andavano anche al di là di quelle istruttive, didattiche e disciplinari. Autorevole e disposto a scontrarsi con chi non vuol crescere. Ai ragazzi di Barbiana e alla società, manifestava senza infingimenti la sua idea, il suo essere educatore, l’importanza di essere se stessi sempre, anche nelle proprie funzioni. Si mostrò un uomo con tutte le proprie contraddizioni, reazioni, arrabbiature, slanci, gratificazioni, contrasti paterni senza paternalismo, proiettato a sollecitare negli allievi dinamiche vitali, comprensibili alla ragione ma anche alle emozioni, ai sentimenti che, in una unità di intelletto e psiche, producono conoscenza e formazione equilibrata della personalità.
L’apprendimento, come ci confermano oggi le ricerche delle scienze umane e le scoperte delle neuroscienze, è infatti un processo di elaborazione sinergica tra dimensione razionale e dimensione emotiva. La scuola invece, spesso, pretende che bambini, ragazzi, abili o diversamente abili, felici o depressi portino in classe solo il cervello e lascino fuori corpo e anima.

Il senso dell’iniziativa nelle scuole

Si tratta di un percorso triennale basato sull’integrazione di idee pedagogiche, competenze professionali, metodologie, didattica e di figure educative, sviluppatosi attraverso laboratori teorico/pratici guidati da educatori esterni alla scuola, volontari e università, in condivisione con gli insegnanti delle classi. I momenti operativi sono di educazione e animazione per far emergere dinamiche relazionali difficili nell’ambito del gruppo classe e per trovare soluzioni innovative nella collaborazione e nel confronto. Il supporto didattico era costituito da attività svolte con la metodologia dell’educazione cooperativa, sviluppando attività creative, drammatizzazione, simulazione, attività video-cinematografiche e momenti di riflessione personale.

Macrobbiettivi del progetto:

1. azione di prevenzione al disagio scolastico
2. azione di contrasto al disagio quando è conclamato
3. fornire gli strumenti per sviluppare capacità di relazione e per costituire gruppi classe integrati e collaborativi.

Obbiettivi di percorso:
a) agevolare le dinamiche del gruppo classe attraverso i laboratori in aula, per la comprensione di sé e delle proprie emozioni, sentimenti e reazioni;
b) formare educatori, insegnanti, volontari e studiosi universitari, a lavorare insieme attraverso le procedure della ricerca – azione;
c) integrare le competenze emergenti dalle diverse professionalità (educatori del non formale, insegnanti curriculari, volontari, universitari);
d) stabilire migliori e proficue relazioni tra scuola e famiglie.

Sono state coinvolte:
– nel primo anno 21 classi (14 classi di terza elementare, 4 classi di 1° media, 3 classi di 1° secondaria), con 530 allievi, 40 insegnanti e dirigenti scolastici, 20 volontari, 20 educatori del non formale, 6 consulenti universitari, genitori;
– nel secondo anno, 16 classi (9 classi di quarta elementare, 4 classi di 2° media, 3 classi di 2° secondaria), con 370 allievi, 26 insegnanti e dirigenti scolastici, 20 volontari, 18 educatori del non formale, 6 consulenti universitari, genitori;
– nel terzo anno, 6 classi (2 classi di quinta elementare, 2 classi di 3° media, 2 classi di 2° secondaria), con 150 allievi, 15 insegnanti e dirigenti scolastici, 10 volontari, 8 educatori del non formale, 6 consulenti universitari, genitori;
– per la verifica del metodo sono state coinvolte 16 classi nel periodo ottobre-dicembre 2008 con 6 laboratori di due ore per ogni classe.
La Fondazione ha portato nel progetto i risultati prodotti dall’esperienza trentennale di comunità vissuta dai soci della cooperativa Il Forteto che hanno condiviso, e tutt’ora condividono, vita, lavoro e un forte impegno di solidarietà attraverso l’accoglienza nei loro nuclei familiari di minori con situazioni di disagio e adulti motivati idealmente o problematici. L’impegno sociale e solidale assunto ha posto le famiglie della comunità davanti a persone con l’urgente bisogno di reintegrare affettivamente e cognitivamente le proprie esperienze per raggiungere l’equilibrio personale, hanno perciò avuto necessità di acquisire competenze educative “speciali”.
Il Chiarimento, una prassi consolidata nelle relazioni interpersonali al Forteto, è un processo che può e deve svilupparsi, soprattutto nei rapporti tra i pari. E’ fondato sulla ricerca della trasparenza di emozioni, reazioni, sentimenti, nella dinamica interpersonale e intrapsichica, che porta ad un approfondimento della conoscenza dei propri meccanismi psicologico/affettivi, mentali, emotivi e alla possibilità di compararli con quelli degli altri nelle occasioni di confronto. Il chiarimento è l’idea sperimentata dal Forteto nelle scuole, un modo di porsi dal quale emerge una consolidata scala di valori improntata alla reciprocità e alla solidarietà. Valori e idee di grande attualità per una società in forte “recessione”, non solo economica ma soprattutto culturale, che ha urgente necessità di superare l’ebbrezza dell’abbandono all’edonismo, all’effimero e all’ambigua, e per molti versi dannosa, filosofia del “benessere”, tutte ideologie che hanno imperato negli ultimi decenni lasciando chi vi ha aderito tra macerie esistenziali, illusioni, fuga dalla realtà e spesso con la strada sbarrata alle aspirazioni di futuro.


I risultati

Sebbene i dati qualitativi e quantitativi della ricerca siano ancora in via di definizione, i risultati del progetto appaiono superiori alle aspettative, soprattutto in relazione ai punti critici rilevati durante i primi due anni di lavoro. Si ritiene di poter affermare questo attraverso l’osservazione, le interviste a tutti i protagonisti del lavoro e le loro dichiarazioni emerse durante i momenti di riflessione.
Molto significativa, ad esempio, è stata una discussione e la manifestazione dei sentimenti dei bambini della 5° elementare di Dicomano (FI) quando hanno riflettuto sul dolore personale dell’esclusione. Lo hanno fatto spontaneamente, in seguito ad alcuni eventi conflittuali scoppiati nella classe. Poche parole scritte su un cartoncino anonimo: “Come si sentirebbero loro se non venissero presi mai?”. Invece che parole tracciate su un cartoncino apparivano parole incise sulla pietra. Aprirono una discussione pacata, molte lacrime, l’ascolto silenzioso, in attesa di poter raccontare, delle parole del compagno che quasi per magia erano importantissime. Il dolore sincero, un po’ di vergogna, tanta liberazione nel condividere quello che li rendeva più uguali. In primo piano c’era la prospettiva di appartenere, di stare bene insieme:

1° bambino E.: “A calcio ero uno degli ultimi e restavo sempre solo. Toccava sempre a me andare a chiedere che mi prendessero, però stavo male”. 2° bambino J.: “Beh io l’ho provato mille volte. Non so se tutti lo hanno realmente provato ma si sta male. Tante volte io vado a chiedere ma mi dicono sempre no. Mi ricercano solo quando devo fare delle bischerate e mi dicono sempre: rifalle rifalle”. 3° bambino: “A me mi escludono tante volte fuori dalla scuola. Sembra che altri bambini non mi vogliano proprio come amico e questo mi fa star male”. 1° bambina: “Quando siamo in palestra e si fa le squadre io vengo sempre scelta per ultima e questo mi fa sentire sempre più male, imbranata”. 2° bambino: ”Sì è vero, infatti io tanto volte per non far vedere che mi scappa da piangere dico sempre: vuoi che ti picchio?”.
La bambina, da cui era nata la discussione, che prima aveva pianto non parlò ma rimase tutto il tempo abbracciata alla sua amica, “assorbendo” avidamente ciò che dicevano gli altri. Queste sono alcune frasi di getto, un flusso di coscienza, racconti, complesse considerazioni e collegamenti dettagliati. Le parole dei bambini erano un fiume in piena ricordavano e disegnavano la storia di quasi cinque anni insieme e le pietre miliari della loro breve ma intensa esistenza. Un incontro che ha rappresentato un momento di sintesi e un giro di boa della loro crescita, del loro conoscersi, l’occasione costruita per vedersi al di là della competizione e dei propri timori.

In ogni classe ci sono stati episodi frutto di una lenta maturazione, dell’avere personalmente compiute alcune scelte aderenti ai propri bisogni più veri, dell’avere acquisito nuovi e comprensibili parametri interpretativi della propria realtà intima e quella degli altri.
Dopo alcuni laboratori nelle classi del primo anno di un istituto professionale, nel corso di una discussione i ragazzi hanno detto: “Ora ho meno paura, mi sentivo goffo, con il naso troppo grande, gli orecchi a sventola, stavo sempre con la paura di venir preso in giro. Fare le attività del laboratorio mi ha fatto capire che potevo parlare davanti agli altri, che posso scherzare, muovermi davanti a loro e nessuno ha mostrato di guardare i miei difetti. Quando abbiamo parlato dopo gli esercizi, dopo le recite, anche dagli altri veniva fuori la timidezza simile alla mia, era come se raccontassero le mie paure”.
Due ragazze, di un altro laboratorio, sono state un paio di settimane arrabbiate con i professori e il preside e non davano confidenza ai compagni, se ne stavano tutto il tempo dispettose in disparte; poi hanno abbandonato questo atteggiamento e una racconta: “Mi era presa la fissazione di andare in classe con la mia compagna delle medie, per una settimana sono andata tutti i giorni dal preside a chiedergli di cambiarmi sezione. Ora mi accorgo che avevo paura a tentare di fare amicizie nuove. Gliel’ho detto anche alla mia ex compagna. E’ stata contenta, ma di più io. Non me ne rendevo conto ma avevo paura di non farcela. A fare i giochi e a parlare davanti a tutti nei laboratori, mi è costato molto, ero incazzata, ma se saltavo un esercizio ero gelosa. E’ andata bene. Ci sto bene qui. La mia compagna mi ha suggerito di ballare davanti a tutti perché sa che mi piace molto. L’ho fatto e ho avuto una montagna di applausi anche dai prof.”.
In molte classi oltre a questi temi si è discusso anche dell’immigrazione e della disabilità con toni problematici, seri, empatici, anche se, le prime volte che venivano affrontati questi temi, gli educatori ascoltavano, invece, un prevalere di battute arroganti, di disprezzo gratuito.
In un’altra classe, 3° professionale, esclusivamente maschile, i primi incontri sono stati difficili, l’atteggiamento della classe era di dura opposizione al progetto a cui avevano partecipato anche gli anni precedenti: criticavano il metodo, le cose proposte, l’insegnante di classe e soprattutto non volevano essere filmati con la cinepresa. La composizione della classe era molto variegata, frutto di successive ricomposizioni all’inizio di ogni anno: ragazzi sedicenni insieme a diciottenni e ventenni, un’alta percentuale di immigrati, una coesistenza di mondi molto diversi per età, maturazione personale, esperienze, cultura. I problemi erano costituiti dalle divisioni in gruppi della classe, la lotta sottile per il potere, tentativi di sopraffazione e qualche discriminazione. Il gruppo di lavoro, insegnante, educatori, volontari e ricercatrice universitaria, affrontarono direttamente le questioni proposte, fortemente pretestuose, con una determinazione proporzionale alla provocazione. Nacque una discussione accesa. Il programma dei laboratori prevedeva lo studio della comunicazione negli aspetti psicologici, informativi, attraverso le immagini, temi e concetti che gli educatori inserirono subito nella discussione che, sebbene effervescente, assunse connotati di rispetto e di serietà. Sembravano due ore intense spese per un nulla di fatto.
Nel laboratorio successivo i ragazzi mantennero un atteggiamento di sfida ma c’era minor tensione. Il terzo laboratorio fu molto deludente, c’erano molti assenti, i più giovani, presenti, erano demotivati e spiegarono che molto probabilmente gli altri non avrebbero più partecipato. Il quarto laboratorio era semideserto, era nevicato e i mezzi di trasporto erano rimasti bloccati: sei i presenti, anche in questo caso i più giovani con i quali si era creato un buon affiatamento. Il laboratorio proseguì, si poté parlare di tutto, delle ragazze, degli spinelli, dell’uso della cinepresa, furono fatte alcune prove di regia, poi il discorso tornò sulla classe.
Dopo un breve battibecco con l’insegnante i ragazzi hanno delineato alcune delle ragioni di disagio e, chiedendo di mantenere il segreto, hanno parlato dei compagni più grandi. Si sentivano sostenuti. Si sono sfogati. Mentre parlavano, studiavano strategie: “Deve cambiare! Così non ci trattano più!”. Non erano piani di vendetta, pretendevano giustizia. Al di là dell’ingiustizia percepita misuravano bene i fatti e chi avevano di fronte, mentre coglievano le insicurezze degli grandi nelle bravate. Volevano la possibilità di confrontarsi da pari, con le proprie risorse. Infatti, agli educatori che proponevano una mediazione “organizzata”, hanno risposto che ora si sentono di potercela fare da soli: “Basta dirgli la verità, basta avere il coraggio di dire quello che si pensa! Che possono fare? Da soli sono degli sfigati.” Il responsabile del progetto, nei giorni successivi parlò alla classe spiegando le aspettative che il gruppo di lavoro nutriva nei loro confronti, sottolineò che il progetto aveva bisogno del loro contributo, fu una discussione importante, tra adulti, durante la quale si chiarirono e condivisero di nuovo gli obbiettivi. I laboratori successivi, a parte due defezioni, funzionarono molto bene, si respirava un clima diverso. E’ stato prodotto un cortometraggio contenente l’intervista dei ragazzi, attraverso il corto la classe ha espresso grande creatività e intelligenza e soprattutto responsabilità e voglia di autonomia. Avevano infatti progettato una sceneggiatura e come girare, appoggiandosi agli educatori solo per la realizzazione finale, per i suggerimenti tecnici della regia, per i tempi, per la fotografia ma mantenendo un forte protagonismo e autonomia che erano riusciti a coinvolgere tutti i ragazzi. Si era rotta una contrapposizione dura, ed era nato un senso di gruppo che aveva dato molto entusiasmo e la forza di confrontarsi.

Pochi esempi, semplici, apparentemente banali ma densi di significati che danno la misura dell’efficacia di un modello diverso che tiene conto della totalità della persona e del bisogno di partecipazione che accomuna bambini, giovani e adulti in ugual misura.

Gli effetti della partecipazione e del chiarimento hanno funzionato altrettanto bene anche agli altri livelli: gruppi di lavoro interprofessionali e rapporto scuola famiglia. Auspichiamo, comunque che questo modello pedagogico e operativo possa ripetersi per formare gli insegnanti, arricchire il modello didattico corrente e che possa fare da barriera di prevenzione ai molteplici disagi che esplodono nelle scuole. 

1 La parola e il gesto nella relazione tra persone sono stati i protagonisti del convegno conclusivo del progetto “Barbiana e il Mugello, una Scuola per l’Integrazione” organizzato dalla Fondazione Il Forteto onlus che si è tenuto venerdì 24 ottobre nell’Auditorium dell’Istituto Comprensivo G. Chini di Scarperia (FI).

Per saperne di più:
www.fondazioneforteto.it

 

Il cinema a scuola: uno strumento che integra diversi ruoli, linguaggi e competenze

Dedichiamo il nostro spazio a un progetto molto vivo, personale e convincente, nelle premesse, nella realizzazione e nelle finalità. Il quale, non potendo contare su modelli di riferimento direttamente assimilabili, si caratterizza come attività didattica e lavoro di integrazione del tutto originale. Non è, infatti, un progetto di semplice conoscenza “passiva” del rapporto tra cinema e disabilità; non è un progetto che preveda, per il bambino disabile, la sola recitazione di ruoli e parti attribuiti e pensati da altri; non è un progetto che vuole sviluppare un discorso sulla disabilità attraverso il mezzo cinematografico. È invece un lavoro molto articolato che, a partire da un approccio critico rispetto alla più diffusa idea di didattica, di didattica dell’immagine e di educazione all’immagine e assumendo un’idea di cinema come linguaggio multidisciplinare che permette un’espressione di competenze necessariamente diverse, richiede un coinvolgimento pieno, cosciente e creativo a tutti i bambini della classe e crea le condizioni per un confronto più paritario e collaborativo tra alunni e docenti.
Nel 2003, Chiara Giorgi ha iniziato a lavorare in una seconda elementare della scuola “Longhena” di Bologna come educatrice di Alberto, un bambino di sette anni certificato con ritardo mentale medio e tratti autistici. Alberto si esprimeva soprattutto con i gesti e il suo linguaggio era limitato; molto spesso ripeteva a memoria frasi tratte dai suoi cartoni animati o film preferiti, ritirandosi in un mondo tutto suo, fatto anche di stereotipie nel movimento. L’anno successivo, Chiara Giorgi cominciò a pensare di fare un film con Alberto, sia per la sua grande capacità di esprimersi con il linguaggio corporeo, che le avevano spesso ricordato i vecchi attori dei film muti e le loro pantomime; sia perché nella scuola c’era un collega che, con la sua classe, metteva già in atto progetti di cinema e video. Dopo essersi confrontata con le maestre, nell’intento di coinvolgere tutta la classe, e dopo aver risolto gli aspetti tecnici legati a un lavoro di produzione cinematografica, il progetto è partito e si è ripetuto nei tre anni successivi, anche quando Alberto è passato alle scuole medie. Rispetto alla scelta del muto, dice Chiara Giorgi: “La scelta di basare i nostri progetti di cinema sui film muti è nata proprio dall’esigenza di dare spazio agli altri linguaggi e alle altre intelligenze. È stato Alberto a ispirare questa modalità, poiché egli si esprime attraverso gesti così enfatici ed espressivi che ricordano i vecchi attori dei film muti come, ad esempio, Jacques Tati, Charlie Chaplin, Buster Keaton, Laurel e Hardy, ecc.”.

L’interdisciplinarietà
Quella impostata da Chiara Giorgi è un’attività a carattere interdisciplinare che coinvolge varie materie: italiano, educazione all’immagine, informatica, matematica, teatro. I film vengono, infatti, realizzati direttamente dai bambini, che si occupano di scrivere la sceneggiatura, girare le riprese con la videocamera digitale, disegnare le scenografie, montare alcune scene con un apposito programma di montaggio, sotto la guida attenta degli adulti. Propedeutica a questa partecipazione attiva dei bambini, sono state la visione e l’analisi di alcuni film che, di volta in volta, aiutassero gli alunni nell’individuazione di un genere di riferimento, nell’approfondimento del tema che si era scelto di raccontare e, in generale, nell’acquisizione della consapevolezza rispetto alle potenzialità narrative dell’immagine cinematografica.
I quattro film realizzati con le classi sono lavori preziosi, a livello di temi, regia e processo di produzione: li elenchiamo velocemente: Il fantasma di Lord Albert (una specie di fiaba gotica ispirata al Fantasma di Canterville di Oscar Wilde), Il Re dell’Occhio (giallo ambientato in un ospedale psichiatrico, che, nella versione cortometraggio, ha vinto il primo premio al concorso della Cineteca di Bologna “Luca De Nigris”), La mosca bianca (un western-futurista che ragiona sulle possibili degenerazioni del potere e sulle potenziali reazioni a esse) e Il Cancello di Pietra (con alcune sequenza girate al cimitero monumentale della Certosa e alle Grotte dell’Onferno). Quest’ultimo film è stato realizzato quando Alberto è passato alla scuola media, avendo ottenuto Chiara Giorgi la continuità educativa.

La grammatica cinematografica
I film dimostrano un lavoro non superficiale sulla grammatica cinematografica, che vive di peculiarità non immediatamente riconducibili a quella del linguaggio parlato e le cui caratteristiche, per quanto rese qui più intelligibili attraverso la scelta di generi e modelli di riferimento piuttosto definiti, non sono facilmente maneggiabili né riproducibili. Testimoniano un lavoro davvero collettivo, nel quale l’intervento dei bambini è richiesto e assecondato in tutti i livelli di realizzazione: dall’invenzione e caratterizzazione dei personaggi, alla stesura della storia e della sceneggiatura, alla costruzione delle immagini, delle scene e delle sequenze, attraverso la partecipazione al montaggio. Inoltre, le modalità e il processo di costruzione partecipati (anche dagli altri insegnanti) di ogni lungometraggio, ha permesso di sviluppare riflessioni tutt’altro che semplici e scontate su temi quali la violenza, il potere, la violenza del potere, l’educazione, i rapporti tra gli alunni, il bullismo, la diversità, ecc. Ponendo i bambini come soggetti attivi della riflessione, della manipolazione della sceneggiatura, dei ruoli, delle immagini e degli effetti che esse possono veicolare; ponendo, quindi, i bambini come soggetti che creano il senso delle cose e che non soltanto ne recepiscono interpretazioni e formulazioni (anche stilistiche) altrui, la realizzazione dei quattro film ha permesso di affrontare quei temi in modo cosciente e aperto a soluzioni nuove.
Effettuando il montaggio delle scene con i bambini è capitato che a essere montate fossero proprio delle scene violente. Ciò è accaduto, ad esempio, con il film Il Re dell’Occhio, nel quale, essendo un giallo, vengono mostrati vari tipi di morte: per sparo, per avvelenamento, per coltellate. C’è una scena, in particolare, in cui una cameriera, internata nel manicomio in cui si svolge il film, sta spolverando (la sua mania è, appunto, spolverare e pulire); la telecamera la riprende in soggettiva secondo lo sguardo dell’assassino e, all’esterno, sul muro è proiettata l’ombra dell’assassino e della vittima ignara; a un certo punto, nell’inquadratura compare un coltello impugnato, appunto, dall’assassino (à la Hitchcock), la povera cameriera si volta di scatto, tenta di difendersi, ma il coltello, implacabile, si abbatte su di lei, che cade per terra, cosparsa di sangue (pomodoro). I bambini hanno voluto montare questa scena e, nel farlo, hanno discusso animatamente fra di loro sul modo in cui avrebbero dovuto tagliare le scene per provocare un effetto più cruento e impressionante negli spettatori.
Questo episodio serve a rivelare la competenza che i bambini possiedono riguardo al linguaggio cinematografico e, in particolare, quanto essa si basi anche sulla visione di film violenti e sulla loro capacità di codificarne i meccanismi, di elaborarli e “rigiocarli” a loro volta con consapevolezza.
Già durante e dopo la realizzazione del primo film, Il fantasma di Lord Albert, Alberto mostrò un interesse e un entusiasmo sempre più grande per questo lavoro; iniziò a guardarsi allo specchio, a mostrare di piacersi, a sorridere davanti alla sua immagine dentro la videocamera, a stare più tempo in classe, seduto insieme ai compagni. La tecnica dell’improvvisazione basata sulla pantomima, utilizzata poi anche per le “pellicole” successive, metteva tutti, anche Alberto e gli alunni più timidi, a loro agio, poiché i bambini erano già abituati a giocare in quel modo tra di loro e quindi dovevano solo abituarsi alla videocamera che presto diventò un accessorio marginale.
Lasciando nuovamente la parola a Chiara Giorgi: “Ogni scena veniva così preparata: lettura da parte dei bambini insieme a noi adulti della scena in questione, scelta del luogo dove girare la scena (ogni volta era diverso), preparazione dei costumi e delle scenografie, trucco, ideazione degli effetti speciali, messa in scena improvvisata (la scena veniva girata più volte per fare diverse inquadrature e a causa degli incidenti di percorso), visione collettiva della scena appena girata. La scelta del muto si è rivelata una scelta appropriata non solo per Alberto e per i suoi compagni, ma anche per eliminare il problema dei rumori di fondo, numerosissimi quando si effettuano le riprese in una scuola e ha favorito la drammatizzazione perché, nel girare le scene, potevamo darci dei consigli sui movimenti del corpo e le espressioni del viso che favorivano, negli attori, un’espressione più eloquente ed efficace. L’aggiunta delle musiche, scelte insieme ai bambini, che, negli spazi chiusi, guidava la messa in scena, aiutava i bambini a calarsi nella parte e a dare un ritmo ai loro movimenti che dovevano essere armonici fra di loro. Nel corso del film, i bambini, stimolati da questa esperienza con la musica, ci proposero due coreografie ideate e attuate da loro insieme ad Alberto, che noi aggiungemmo come sogni fatti dai protagonisti e che realizzammo a colori per distinguerli dalla realtà”.
Alberto riuscì anche a capire l’ordine cronologico delle scene e, a film concluso, ripeteva ogni cartello e anticipava ogni scena esprimendosi verbalmente.
Il lavoro, quindi, ha prodotto cambiamenti sensibili in Alberto, il quale, grazie (anche) a questa attività collettiva, ha potuto praticare abilità che già mostrava di possedere e ha iniziato a partecipare alla sua classe in modo più costante e presente. Molto interessante, da questo punto di vista, il fatto che la stessa attività di produzione filmica si sia negli anni modellata ed evoluta in relazione a questi cambiamenti, riconoscendoli: questo ha determinato, ad esempio, un progressivo arretramento di Alberto dal ruolo di protagonista (evidente ne Il fantasma di Lord Albert) verso ruoli più paritari a quelli dei compagni.

Finzione e realtà
I film di finzione realizzati sono, quindi, allo stesso tempo, materiale che documenta gli sviluppi di questo progetto di integrazione. È molto interessante questa compenetrazione tra finzione e realtà che, nei film di Chiara Giorgi, si sviluppa a più livelli (nella scelta dei temi, ad esempio), ma che emerge con forza e originalità proprio sotto questo aspetto: nel processo di realizzazione del film di finzione si produce un cambiamento reale, concreto in Alberto, e il prodotto di finzione finale funziona come ottimo strumento di documentazione del cambiamento reale prodotto. “Quello che ci interessava documentare era un’esperienza normale di gioco e di apprendimento a cui Alberto partecipava insieme agli altri bambini in modo spontaneo e in continua evoluzione. In più si trattava per tutti, noi educatori e i bambini, di partecipare e di costruire dal niente, anzi da una passione, qualcosa di nuovo. Il fatto di essere tutti sullo stesso piano riguardo alla messa in opera di un progetto simile, ci ha unito e ci ha portato a fidarci dei nostri istinti. Il primo film Il Fantasma di Lord Albert era stato girato anche allo scopo di trasmettere l’immagine dell’invisibilità di Alberto e delle sue difficoltà a trovare un posto per sé nella scuola e con i compagni. Dopo questo film, Alberto ha fatto un grosso cambiamento e ha iniziato a far parte della sua classe in modo più consistente e noi abbiamo documentato questo progresso assegnandogli ruoli sempre più paritari agli altri. I nostri film di finzione si sono evoluti insieme all’evolversi della situazione reale, assumendo, quindi, una funzione di documentazione dei cambiamenti quotidiani di Alberto, dei suoi compagni e dell’evoluzione del nostro lavoro”.
Nella storia della didattica del cinema si sono sempre presi in considerazione i film realizzati da altri, mentre ciò che si dovrebbe promuovere, dalla visione e analisi dei film in classe, dovrebbe essere il guidare i bambini o i ragazzi a realizzare una produzione autonoma di film, in modo da favorire la costruzione della loro identità e la loro partecipazione alla costruzione di una cultura che viene troppo spesso vista come qualcosa di inafferrabile. In più, l’esperienza del fare film anche con i bambini più piccoli favorisce una miglior coesione del gruppo classe, in quanto ogni bambino si sente di poter contribuire secondo le proprie diverse capacità alla realizzazione di un prodotto comune che, in questo senso, risulta democratico. “Ci sono bambini più bravi recitare, mentre altri si sentono più a loro agio nell’utilizzare la videocamera; altri, invece, potranno essere più competenti nel dirigere i compagni-attori o nello costruire le scenografie, o nell’ideare la sceneggiatura. Nel rendere partecipi i bambini a tutte le fasi di lavorazione di un film, le diversità individuali emergono come risorsa, invece che come limite. Un bambino può essere portato a riflettere sull’importanza che in un film hanno tutte le persone che vi sono implicate, anche se non compaiono sotto i riflettori e il loro lavoro si svolge di più dietro le quinte; non per questo essi verranno presi meno in considerazione dei compagni”.
I film realizzati da Chiara Giorgi e dagli alunni delle scuole “Longhena” e “Guinizelli” si possono richiedere anche al Centro Documentazione Handicap di Bologna. Vorrei approfittare per invitare le scuole che hanno sviluppato progetti e realizzato prodotti simili a quello di cui abbiamo dato conto a inviare il materiale (video, certo, ma anche cartaceo che racconti le fasi del lavoro) presso il nostro Centro di Documentazione. Non solo perché venga catalogato e conservato, ma anche per provare a metterlo in “comunicazione”, in circolo, in modo più continuo e strutturato.

Siamo tutti nella stessa barca. Intervento in situazione di conflitto: una proposta di procedura

di Maurizio Stupiggia, psicoterapeuta, direttore della Scuola di specializzazione in psicoterapia biosistemica di Bologna

Il gruppo è causa del nostro malessere e al tempo stesso la possibilità della cura. Questo è l’assunto di base da cui voglio partire per descrivere la metodologia di intervento che adotto costantemente nei contesti scolastici quando devo operare nelle situazioni di crisi.
La sensazione che infatti provo ogni volta che vengo chiamato in una scuola, è quella di giungere ad un cappezzale di qualche moribondo (l’alunno), con tutti i sani (insegnanti ed operatori) che lo stanno a guardare dall’alto, e quando me ne vado ho invece l’immagine di una barca a vela alle prese con un vento troppo forte o con un equipaggio squinternato: se la barca affonda nessuno resta asciutto. Il tentativo iniziale dei partecipanti al gioco del moribondo è infatti quello di sbilanciare pesantemente il peso delle colpe-responsabilità, caricando completamente qualcuno e scaricando contemporaneamente tutti gli altri; questo si fa, di solito, pensando che valga l’equivalenza responsabilità = sofferenza, ma poi ci si accorge che questa è solo un’illusione e che addirittura chi si chiama fuori dalla mischia subisce alla fine dei grossi sensi di impotenza.
Di solito infatti gli insegnanti che avvertono l’esigenza di "fare qualcosa" sono al limite di una condizione di passività ed estraneazione mentale ed emotiva dalla questione problematica che li riguarda. Si tratta appunto di far capire loro che "siamo tutti nella stessa barca"!
Questo è il primo passo. La prima consapevolezza utile è cioè quella di essere tutti insieme partecipi della stessa avventura, pur con compiti differenti, e tutti ugualmente responsabili di ciò che accade.
La responsabilizzazione che esigono queste situazioni non è qualcosa di formale e burocratico, ma una doppia presa in carico di sè rispetto agli eventi: un coinvolgimento esterno, fatto di azioni e di rel-azioni concrete, ed un coinvolgimento interno, dato dall’ascolto dei propri vissuti emozionali, sia positivi che negativi.
Questo è un punto molto importante perchè il suo esito condizionerà tutto l’intervento che ne segue. Due sono le ragioni di ciò:
1) solo se mi assumo la responsabilità degli accadimenti esterni sarò in grado di padroneggiarne la crescente complessità;
2) solo se mi assumo la responsabilità degli accadimenti interni sarò nella condizione di avere un atteggiamento empatico nei confronti degli altri partecipanti al problema.
Il secondo criterio è facile da soddisfare, perchè è sufficiente chiedere all’insegnante "come si sente in questa situazione"; la risposta, se non è data in maniera troppo intellettualizzata, rende immediatamente consapevoli di un generico disagio o addirittura di un malessere emotivo che inizialmente confondono e stizziscono l’insegnante stesso, ma che poi finiscono col farlo sentire più vicino all’alunno problematico.
Per il primo criterio le cose sono invece più difficili: non è facile far accettare ad un insegnante il fatto che il problema non è solo affare personale dell’Altro ma è frutto sempre di una relazione e mette quidi in gioco almeno due persone o due gruppi. La cosa più importante è porre il coinvolgimento dell’educatore sotto una luce positiva e non dentro il territorio della colpa.
Non dire mai: "Se le cose stanno così, da qualche parte c’entri anche tu!", e nemmeno: "Si è sempre in due a litigare"; queste comunicazioni creano un’immediata barriera difensiva da parte dell’altro, e le risposte che si otterranno saranno del tipo: "Cosa credono di venirci ad insegnare?", oppure "E’ facile venir qui a predicare, poi chi rimane siamo noi!".
Sono invece più indicate comunicazioni del tipo: "Abbiamo bisogno dell’aiuto di tutti", oppure "Solo chi vive quotidianamente il problema sa quanto è urgente intervenire e quanto è importante l’apporto di ognuno di noi".


Il conflitto come risorsa

La prima mossa è perciò il coivolgimento dell’operatore nei suoi tre aspetti: cognitivo ("capisco che c’entro anch’io"), comportamentale ("devo darmi da fare") ed emozionale ("siamo tutti a disagio").
Il secondo passo è, a questo punto, un corollario del primo assunto e ci dice che ogni problema individuale è il risultato di una sconfitta relazionale in una generica situazione di conflitto. Ciò implica dover guardare ad ogni comportamento individuale patologico come ad un effetto di precedenti e/o attuali relazioni vissute come schiaccianti e perdenti, ed in cui uno solo dei poli rimane scottato, “incandescente” e quindi visibile. Di nuovo quindi procediamo con un allargamento dell’ottica e dell’area di intervento per poter operare in un contesto-non-solo-individuale, che è secondo me il "terreno" di base da cui si sviluppa il sintomo patologico.
"Scovare il conflitto" può così essere il motto di questo secondo momento della prassi di intervento; ciò non vuol dire "creare" dei contrasti artificiali come elementi di deviazione dell’attenzione per una ristrutturazione strategica del problema (questa potrebbe essere l’ottica “sistemico-strategica” che io ritengo valida solo nei casi semplici), ma tendere più possibile l’orecchio a quelle relazioni significative, sia attuali che del passato, che creano un’eco nel comportamento e che possano essere la cornice di senso del disturbo: trovare la domanda a cui, ciò che ora vediamo, è la risposta.
Anche in un ragazzo che se ne sta in disparte tutto il giorno ed evita la discussione e lo scontro a tutti i costi non è difficile individuare la cornice relazionale della sua "atarassia": chissà quante volte ha partecipato in passato a situazioni in cui veniva zittito, deriso o trattato con noncuranza e chissà quante altre volte nella classe gli sarà parso di vivere le stesse cose!
Di nuovo vediamo come l’idea dell’assunzione di responsabilità sia fondamentale in questo schema di procedura.
Vi è una ragione fondamentale per favorire l’esplicitazione di situazioni di contrasto e di conflitto: è un metodo per ristabilire il legame sociale che spesso viene perduto nell’etichettamento di un comportamento antisociale, sia esso individuale o di un’intera classe. La cosa che più colpisce il tecnico chiamato ad un intervento psicopedagogico è infatti l’evidente solitudine ed isolamento in cui versa il soggetto da "curare": per quante persone abbia al suo cappezzale è da solo nel suo letto. Non è poi diversa la situazione di un’intera classe, che certo non soffre l’isolamento al proprio interno, ma che vive ghettizzata all’interno della scuola.
L’obiezione più rilevante a queste argomentazioni è che, alimentando o esplicitando conflitti e disaccordi, si può peggiorare notevolmente la situazione; nella risposta a questa obiezione sta il fulcro di questa procedura, che in fondo si caratterizza come metodo per la composizione dei conflitti.
Prendere il conflitto unicamente nella sua dimensione di malattia relazionale e sociale è infatti riduttivo, perchè se ne perde la rilevanza energetica e strutturale e non se ne mette in evidenza la caratteristica di tentativo di autoguarigione da parte dell’organismo sociale in esso impegnato.
La sua rilevanza energetica sta nella capacità di mobilitare una grossa quantità di energie che dimostrano lo stato di potenziale salute (al pari di un’alta febbre che solo un individuo forte può sviluppare); questa energia può poi essere convertita in altre forme più vicine alla cooperazione.
L’importanza strutturale sta nel fatto che, finchè c’è un conflitto, c’è anche un legame sociale, e questo è certamente meglio di tutto ciò che è prodotto dall’isolamento e l’indifferenza.
Anche il tentativo di autoguarigione tramite conflitto si inserisce in quest’ottica: esso contrasta l’attuale tendenza sociale all’esasperazione individualistica che arriva ai limiti della competizione narcisistica più sfrenata; il conflitto non è quindi un sintomo da eliminare, ma un’interfaccia che da una parte delimita il territorio dello scontro distruttivo, e dall’altra il terreno della possibilità dell’incontro.

Una situazione concreta : il primo passo

Quando entro in una classe e qualche ragazzo mi comunica con una certa ansia l’esistenza di un litigio o di una discordia cronica, io mostro ovvia preoccupazione di fronte al problema, ma anticipo subito l’idea per cui l’indagine del contrasto può portarci a scoperte interessanti, istruttive e anche piacevoli. Cerco cioè di creare un’atmosfera ludica intorno alla cosa, stimolando tutti a partecipare come se fosse un gioco di società.
Vorrei qui di seguito elencare i passi salienti di una procedura pratica, che io applico nei casi di conflitto o di comportamenti genericamente antisociali: l’esempio concreto che si affiancherà di volta in volta alla descrizione dello schema d’intervento riguarda una classe prima superiore (Istituto professionale) femminile che versava in uno stato di grave malessere a causa dei ripetuti e diffusi contrasti tra molte delle ragazze. Per brevità non si accennerà qui alla complessità del caso, ma solo si prenderà come esempio significativo lo svolgersi del lavoro in un frangente particolare.
Entriamo perciò nell’ambito specifico della procedura di composizione dei conflitti: che cosa fare concretamente, passo dopo passo?
Primo gradino: "trovare l’accordo sul reciproco disaccordo"; fare in modo, cioè, che ambedue le parti siano d’accordo su ciò che costituisce l’oggetto del disaccordo.
E’ la prima cosa da fare per riattivare canali comunicativi altrimenti bloccati ed è inoltre un piccolo stratagemma per cominciare l’apprendimento della cooperazione: i due litiganti si troveranno infatti d’accordo almeno su qualcosa, senza accorgersene, e senza rinnegare nessuno dei loro cavalli di battaglia.
Solitamente, una volta innescato il conflitto i partecipanti si scordano il punto di partenza e si imbarcano in un’escalation che crea sempre più attrito e aumenta la percezione delle reciproche differenze (di carattere, di gusti, di comportamento, ecc.) creando gradualmente un baratro emotivo; i codici interpretativi della realtà divergono sempre più, fino a rendere impossibile qualsiasi gesto riconciliante. "Quando entro in classe e la vedo fare le sue solite moine, mi viene da girarmi dall’altra parte per non vederla, perchè anche un suo colpo di tosse mi dà fastidio": questa frase, detta da una delle ragazze della classe in questione, è tipica del punto di non ritorno a cui un conflitto può arrivare.
Urge quindi non cercare inizialmente la soluzione del conflitto (l’operatore verrebbe inesorabilmente risucchiato nei gorghi delle accuse e delle lamentele), ma solo la legittimità dei contendenti e del contenuto del contendere.
Vi sono sempre alcune difficoltà in questo primo passo; il caso trattato ne mostra una, tipica: lo scoglio rappresentato dall’uso di parole come "presuntuosa", "aria di superiorità", "invadente" e "rompiscatole", che invece di chiarire le cose le complicano, perchè sono parole pre-interpretate e pregne di giudizio morale.
L’intervento immediato che ha fatto evolvere il processo è dato da domande del tipo: "che cosa intendi per ‘presuntuosa’ o ‘invadente’? Puoi spiegarlo concretamente con esempi che tutti possano capire e discutere?".
All’inizio queste richieste da parte dell’operatore stupiscono gli interessati, perchè non sono abituati a ricevere interesse per le loro parole negative, ma solo rimprovero; al tempo stesso sono in difficoltà perchè non pensano che tali parole possano essere scomposte, analizzate e che si possa separare la componente emozionale dalla descrizione puramente fisicalista degli eventi. Anche per le ragazze del caso in questione la "presunzione" o "l’invadenza" erano impressioni basiche ed oggettive: rimasero molto stupite, per esempio, quando la discussione evidenziò il fatto che la causa dell’irritazione di una delle due ragazze era data da alcuni ripetuti gesti e posture della sua compagna, gesti che in sè non contenevano immediatamente l’evidenza delle intenzioni sotto accusa, ma erano passibili di più di una interpretazione.
L’importanza del primo stadio della procedura non è però la messa in evidenza della polisemia interpretativa, ma, al contrario, la fissazione degli elementi conflittuali su cui tutti possono concordare.
Questo fa sì che essi sperimentino un senso momentaneo di parziale accordo che li tranquillizza: "è vero, è proprio questo che ci divide, discutiamo di questo e non di tutte le altre cose che tiri sempre fuori!", disse la ragazza che era accusata di "darsi sempre troppe arie".
E’ un pò come trasformare una zuffa in un duello con regole e testimoni.

 

Secondo passo : cosa c’e’ in ballo ?

Il secondo gradino è: "svelare le proiezioni", scoprire, cioè, quale è il tema, in ballo tra le parti, che è diventato oggetto di proiezione da una parte e di negazione dall’altra.
Il caso a cui accenniamo qui è chiarificatore di questo passaggio: dopo del tempo impiegato ad analizzare le continue accuse di "darsi troppe arie"(e tutta un’altra serie di tematiche che qui per brevità tralasciamo), l’accusatrice, che non sopportava che "l’altra si comportasse come se fosse una top-model", ammise che avrebbe voluto "essere bella, che avrebbe desiderato essere notata da tutti, ma che non osava imbellettarsi o assumere atteggiamenti seduttivi perchè si riteneva brutta e sarebbe stata in tal caso ridicola."
La proiettività di questo atteggiamento è evidente a chiunque: puniva la sua compagna che, pur non essendo bellissima, osava atteggiarsi tale. L’ammissione di queste aspirazioni frustrate cambiò l’atteggiamento anche dell’altra alunna, che si rilassò e abbandonò la facciata di indifferenza e di freddezza che aveva tenuto in precedenza.
A questo punto il tema si estese e diventò patrimonio dell’intera classe: "quanto e perchè è importante essere bella?".
Il calore e l’eccitazione che pervase la classe fu una prova, per le due ragazze, della validità del conflitto e dell’ universalità dei loro temi. A volte è sufficiente giungere a questo livello per sciogliere i nodi della discordia, ma nella maggioranza dei casi non è così; quando un conflitto è forte e persistente c’è un’angoscia latente che spinge i duellanti a non darsi mai per vinti, pena la perdita della pienezza di sè.

Terzo passo : la paura

Siamo così al terzo gradino: "accogliere l’angoscia latente", ascoltare, cioè, il contenuto minaccioso che accompagna la spinta conflittuale.
Dopo che tutta la classe si fu sbizzarrita ed appassionata a dissertare della bellezza (propria, altrui, degli attori, ecc.), cominciò a subentrare dapprima uno stadio di breve impasse, in cui gli argomenti cominciarono a girare su se stessi e poi gradualmente l’atmosfera si incupì, qualcuna ammutolì repentinamente e qualcun’altra iniziò a distrarsi. Stava succedendo qualcosa di interessante, l’attenzione per il discorso sembrava decaduta e anche lo sguardo dell’insegnante presente in aula aveva un’espressione eloquente: "siamo alle solite – pareva dire – qui l’interesse dura un attimo e poi si ripiomba nel marasma". Uno sguardo "didattico" avrebbe certamente confermato la preoccupazione dell’insegnante, ma uno sguardo "clinico" poteva vedere ben altre cose: le ragazze infatti stavano per entrare spontaneamente in un territorio poco conosciuto, da sempre vissuto ma mai esplorato, il territorio delle loro "paure essenziali".
Quale è infatti il rovescio della medaglia di tutta quell’energia spesa al raggiungimento dell’ideale di bellezza se non l’urgenza di scacciare da sè fantasmi inquietanti di dis-identità e di sparizione nell’inesistenza dell’anonimato?
La nostra ipotesi, precedentemente esposta, trovava qui la sua conferma: il livello più profondo di analisi di sè non si tocca nel momento in cui si incontrano la bramosia sessuale e l’ostilità (i capisaldi di certa teoria pulsionale), ma quando si sperimentano il vuoto interiore, la depressione e il fallimento empatico delle relazioni significative; o almeno questo è ciò che è lecito attendersi quando abbiamo a che fare con situazioni che mettono in gioco e a rischio il senso di identità.
E così qualche ragazza cominciò a confidare le sue ansie in merito all’argomento: "certo, io non posso sperare di diventare chissà cosa! Anche se sto a dieta, poi, non riesco a dimagrire più di così. A volte mi piacerebbe essere come mia sorella piccola che gioca tutto il giorno e del resto non capisce niente…". Da quel momento la situazione precipitò come in una reazione a catena e le ragazze cominciarono a parlare delle loro paure; la paura di non essere belle fu solo l’inizio di una serie inaspettata di confessioni, dalle prime delusioni amorose fino ai racconti più angosciosi delle due ragazze precedentemente in conflitto: entrambe, e questo insospettato fenomeno di specchio profondo commosse il resto della classe, confidarono di aver tentato di togliersi la vita e di avere al tempo stesso il costante terrore della morte.
A parte l’elemento catartico, che trasformò l’atmosfera scolastica in un’aura di sacralità, vi è qui la conferma di quanto esposto finora: il conflitto viene rimandato sullo sfondo ed emerge invece il senso di minaccia sottostante che qui è dato, addirittura, dalla paura della morte.
In questo caso vi è anche un elemento in più, un’apparente contraddizione che conferma l’ipotesi mutuata dalla psicologia del Sè: non si capirebbe infatti la compresenza di impulsi suicidi e paura di morire se quest’ultima non potesse essere accostata a quella che Kohut chiama "angoscia di disintegrazione (…)che è diversa da quella che viene chiamata solitamente paura della morte(…) perchè ciò che si teme non è l’annientamento fisico, ma la perdita di umanità, la morte psicologica" (Kohut, 1986, p. 36). Ciò che Kohut intende per "morte psicologica" non è nient’altro che il risultato dei fallimenti empatici che il soggetto ha sperimentato nel corso del suo sviluppo con le figure di accudimento: è la risonanza empatica ( la sintonizzazione di Daniel Stern)infatti che consente e favorisce la formazione del Sè e quindi la stabilità del senso di identità.
Mi rendo conto che il terreno è diventato pesante, forse troppo pesante secondo qualcuno; non sono forse l’adolescenza e il periodo scolare quelle parti della nostra vita in cui si sviluppa il nostro massimo vigore psico-biologico e rappresentano quindi l’espressione massima di vitalità e di pienezza? Concordo sul fatto che questo è ciò che ci auspichiamo, ma trovo pericoloso al tempo stesso negare e rimuovere quelle pesanti ombre che la crescita si porta dietro, e colludere quindi con i tentativi di far tacere una nostra parte molto umana, o come direbbe Nietzsche, troppo umana.

Quarto passo : il vissuto di riparazione

Siamo giunti così al terreno che i partecipanti al conflitto hanno in comune e il cui rinvenimento dà la possibilità di riaprire la comunicazione e a far crescere le relazioni in un ambito di rispecchiamento e cooperazione, ma occorre un altro passo perchè il processo sia completo; l’ultimo gradino: "affrontare un’esperienza riparativa".
Con ciò si intende un processo che mira a colmare quelle lacune del Sè che ne minano la completezza strutturale e funzionale. E’ il momento finale di questa procedura, ma non è mai definitivo, è un infinito work in progress in cui le vecchie angosce possono venire a)esplicitate, b)condivise e c)messe in scena al fine di trovare nuove e più efficaci soluzioni a quei problemi che hanno limitato e distorto il senso di esistenza e identità.
E’ un momento essenzialmente pratico, di azione ludica e creativa dove il principio cardine diventa la sperimentazione.
Nel caso qui trattato la classe ha voluto lavorare con la scrittura, immaginando di mandare una lettera alla propria madre ed immaginando poi anche una ipotetica risposta. Sono emerse idee molto interessanti che hanno messo in luce soprattutto il bisogno di riparare un vuoto di risonanza empatica: "voglio essere capita", "se tu fossi nei miei panni…".
L’esperienza riparativa, come possiamo notare qui, implica una riflessione attiva su come le reazioni condizionate dal passato possono essere superate e trasformate da nuove decisioni e dalla crescita di nuove capacità, e su come possiamo più adeguatamente influenzare l’ambiente in modo tale da non esserne più le sue vittime.

 

Un laboratorio di idee

Nel tragitto per arrivare a Prato allo sportello informativo “Anna Informadonna” mi domandavo in che tipo di struttura sarei approdata e dove fosse collocato.
Devo dire però che la costruzione che mi sono trovata davanti al mio arrivo era ben diversa da come me l’aspettavo: non era di certo quello che intendiamo un “ufficio”, bensì un capannone di vistose dimensioni, uno spazio aperto e in movimento.
Tutto parte come nelle più belle esperienze, attraverso la conoscenza delle persone che ti sanno trasportare, mediante le loro parole, nelle loro realtà: Solidea e Paola. Sono loro ad accogliermi e a condurmi nel vivo del progetto.
Con Solidea, operatrice dello sportello Informadonna, faccio un primo giro di conoscenza della struttura. Immaginatevi, appena entrati, di trovarvi di fronte un punto di ricevimento: lo sportello Informadonna; sulla sinistra invece una cucina, con a fianco una saletta giochi per bambini; mentre sulla destra un ampio spazio destinato a diverse postazioni pc. Tutto ciò solo a una prima occhiata.
“L’Informadonna non è la sola realtà presente in questa struttura – mi spiega Solidea –. Siamo all’interno del Laboratorio del Tempo”.
Per capire bene quindi cos’è e come opera “Anna Informadonna” bisogna avere chiaro che non opera da solo, ma all’interno di un particolare meccanismo.

Il Laboratorio del Tempo
La struttura del Laboratorio del Tempo è una tra i tanti progetti e realtà che vi sono all’interno.
Pensiamo a un luogo dove ambiti di natura diversa cercano l’uno nell’altro il miglioramento, la proficua collaborazione, l’ampliamento e l’interesse reciproco.
“Il Laboratorio del Tempo è un progetto del Comune di Prato nato come spazio nell’ambito di un progetto europeo Equal negli anni tra il 2000 e il 2004, con l’obiettivo di dar vita ad attività volte a valorizzare il tempo libero delle donne – spiega Paola, coordinatrice del Laboratorio –. Al termine di questa prima esperienza le utenti del laboratorio hanno deciso di costituirsi ad associazione per diventare così un interlocutore stabile del Comune e garantire la continuità delle proprie attività. A questa si sono unite, dal 2004 ad oggi, altre associazioni, come la ‘Banca del tempo’, o realtà associative nate dall’integrazione delle comunità straniere, come ad esempio l’associazione delle donne del Camerun e dell’Honduras. Si è creato così un tavolo di programmazione in cui il Comune interloquisce con le associazioni e vengono concordate le attività del laboratorio, attraverso una sinergia tra i servizi promossi direttamente dal Comune, come l’Informadonna, e le attività e i supporti che ci possono offrire le associazioni attive all’interno del laboratorio, che promuovono corsi, attività formative e aggregative”.
Il Laboratorio del Tempo nasce quindi dalla sinergia di più realtà, che operano in ambito sociale e culturale ed è qui che strategicamente è stato collocato lo sportello informativo “Anna Informadonna”.

Lo sportello Informadonna
“Il percorso di Anna Informadonna – racconta Paola – nasce già alla fine degli anni ’90, sulla base di un protocollo d’intesa tra i soggetti istituzionali presenti sul territorio, il Comune, la Provincia, la Prefettura, la Questura, e l’ASL, con il fine di promuovere informazioni e servizi in rete, dando così vita a uno sportello telematico. Naturalmente uno strumento di comunicazione di questo tipo era principalmente utilizzato da chi, operando nel sociale o lavorando in strutture legate alle problematiche della donna, sapeva come utilizzarlo e renderlo proficuo. Ma vi era anche l’intenzione di far muovere passi importanti alle possibili utenti dirette: al tempo internet era uno strumento ancora poco utilizzato e si cercava di fare i primi passi verso il superamento del digital divide; l’utilizzo di uno sportello telematico doveva quindi migliorare il problema del gap tecnologico femminile”.
Poi con la nascita del Laboratorio del Tempo si creò l’opportunità di far incontrare direttamente l’Informadonna e le proprie utenti, costituendo lo sportello fisico e riorganizzando le informazioni in maniera più radicata e strutturata sul territorio pratese. Se prima infatti il sito dava informazioni su quelli che erano gli approcci a livello nazionale (normative, diritti, pari opportunità, diritti delle donne lavoratrici), con la nascita dello sportello si è scelto di territorializzare le informazioni, valorizzando quello che il territorio pratese poteva offrire. Le informazioni sono state così organizzate per aree tematiche e per ogni area sono stati evidenziati i servizi presenti, tutto ciò che nella provincia di Prato potesse essere offerto alla donna per superare le sue difficoltà. “La parte più innovativa è certamente quella legata ai servizi di cura – spiega Paola – per cui abbiamo svolto un importante lavoro di ricerca assieme al consorzio cooperativo Astir per fare una ricognizione di tutti quelli che erano i servizi che potevano essere classificati come servizi di sostegno alle famiglie, in un’ottica di conciliazione dei tempi. Per esempio, nel caso degli anziani, non tanto le case di riposo, quanto piuttosto i servizi di assistenza diurna, le vacanze anziani, l’assistenza domiciliare, quindi tutto quello che poteva aiutare le famiglie e in particolare la donna, che è sempre la figura su cui più gravano questi compiti di cura. L’obiettivo era infatti quello di offrire un supporto alla conduzione dell’assistenza familiare e alleggerire così la donna da questi compiti, permettendole quindi di cercare lavoro, di avere tempo per sé, di non essere l’unico soggetto su cui gravano questo genere di incombenze. Questo monitoraggio è stato fatto su tutti e tre i soggetti che potevano comportare servizi di cura: anziani, disabili, bambini. Con la stessa logica di cercare quello che il territorio offre abbiamo iniziato a lavorare sulle altre sezioni del sito”.

Incontri e sinergie
Per arrivare a capire fino infondo quanto sia capillare e completo l’Informadonna è necessario sapere perché è stato volutamente inserito all’interno del Laboratorio del Tempo.
Il motivo per cui si è deciso di inserire questo sportello nel Laboratorio del Tempo viene incontro all’obiettivo di integrare questo tipo di servizio con gli altri offerti dal Laboratorio, sempre in un’ottica di conciliazione dei tempi e di valorizzazione del tempo libero della donna.
Se ad esempio una donna si reca presso il Laboratorio per effettuare un colloquio di orientamento al lavoro – servizio presente nella struttura tutti i lunedì mattina – potrà al tempo stesso trovare risoluzione al problema dei figli. La possibilità infatti di avere insieme queste realtà nello stesso spazio fisico consente a entrambe di operare nel loro canale e di aiutare su entrambi i fronti la donna, senza la dispersione di tempo ed energie.
Allo stesso modo coloro che si recano a un corso promosso dalle associazioni del Laboratorio possono essere aiutate nella conciliazione dei tempi, affidando i propri bambini a volontari che li accudiranno nella saletta giochi predisposta per loro.
Ma le importanti sinergie create all’interno e con le realtà esterne al Laboratorio consentono anche a molte donne di uscire dall’isolamento attraverso la partecipazione ad attività aggregative e formative. “Il Laboratorio del Tempo – aggiunge Paola – lavora molto con l’associazione La Nara, che gestisce il centro antiviolenza sulle donne e con Aurora che invece si occupa delle donne con tumore al seno. Entrambe le associazioni inseriscono delle donne nelle nostre attività proprio per attivare dei processi di integrazione ed evitare rischi di isolamento”.
E queste sono solo alcune delle grandi risorse del Laboratorio del Tempo: uno spazio in movimento e sempre aperto a nuove idee.

Sapere dove si vuole andare! Un’esperienza alla Scuola dell’Infanzia

di Roberto Parmeggiani, educatore e formatore del Progetto Calamaio

“L’educatore: che mestiere stupendo… anche se faticoso: dico stupendo perché chi lavora in questo campo si trova collocato in uno spazio fuori dal tempo. Per esempio, chi come me lavora nella scuola dell’infanzia (dai 3 ai 6 anni), passa tre anni con i bambini e le loro famiglie per poi salutarli e riprendere il rapporto con altri bambini della stessa età e quindi lasciarli nuovamente a 6 anni. È come essere dentro ad uno spazio dove il tempo si è fermato a quella età. Come educatore hai la possibilità, il valore di vedere come si modifica il contesto sociale, la famiglia, le relazioni: la scuola vive immediatamente l’influenza della società e dei suoi cambiamenti e l’insegnante, se vuole, ha la possibilità di aggiornarsi e di approfondire ciò che accade attorno, provando ad agire per realizzare una buona educazione… Stupendo ma faticoso soprattutto quando tutto attorno a te ti spinge a lasciare!”

Con queste parole inizia l’intervista a Rina, insegnante alla Scuola dell’Infanzia Don Milani del Quartiere Reno di Bologna. Parole provenienti dalla lunga esperienza di Rina e uscite di getto, come un fiume in piena, appena le ho chiesto cosa pensava del mestiere educativo. Parole sincere, cariche di orgoglio ma anche di consapevolezza: quella derivante dalla consapevolezza maturata dopo tanti anni di lavoro e da tante lotte per costruire un sistema di insegnamento che risponda in modo realistico alle necessità della società.

La scuola Don Milani e le insegnanti che lì lavorano, sono un bell’esempio di scuola che tenta (con ottimi risultati, aggiungo io) di realizzare nel quotidiano un’idea di scuola che riesca nel connubio tra funzionalità, partecipazione, creatività e accoglienza dell’imprevisto.
Un scuola che, a partire dalla struttura fisica per arrivare a quella umana, fa dei limiti un trampolino di lancio scegliendo di farsi mettere in discussione dalla realtà che la circonda e dai bambini che accoglie. Una scuola, quindi, che non rimane solo idea ma che diventa realtà.

A sostegno di questo Rina mi dice che “gli obiettivi didattici e educativi vengono definiti a partire dalla realtà che incontriamo: i bambini, le famiglie, il gruppo educativo con cui mi rapporto. Ad ogni modo ritengo che mettere al primo posto i bisogni dei bambini e lo stare bene a scuola predisponga al lavoro di gruppo e stimoli il desiderio della curiosità e della conoscenza. È da qui che nasce l’esigenza di una buona accoglienza, non solo il primo giorno ma ogni mattina, di una osservazione mirata a capire i bisogni del singolo e a renderli agiti per favorire le sue conoscenze, la cura agli atteggiamenti, dei gesti e delle parole dette per diventare un gruppo che sappia convivere e condividere.” Quando Rina parla di gruppo si riferisce alle colleghe e ai bambini, passando l’idea che la scuola non la fanno le maestre e basta, bensì è un percorso comune fatto di scelte e di condivisione, quella vera però. Un impegno quotidiano alla stregua del tagliare la carne o pulire un sedere.
Rispetto al gruppo inoltre, sottolinea un altro aspetto importante, il fatto di “poter cogliere anche ciò che la quotidianità e il coinvolgimento emotivo può farti sfuggire. Più teste infatti riflettono meglio ed ognuno con le proprie specificità arricchisce il gruppo e la sua progettazione.”
Ecco un’altra parola chiave: la progettazione, che insieme alla valutazione, sono due i due perni attorno ai quali si struttura tutta l’attività didattica. La prima è settimanale, in modo da consentire riflessioni e scelte efficaci che rispondano alle istanze che la vita scolastica ti sottopone; la seconda invece viene realizzata a metà anno attraverso una osservazione sul campo e a fine anno attraverso un’analisi dentro al gruppo operatori coinvolti. Inoltre un’altra verifica è quella con i genitori, sia a metà che a fine anno.
A proposito di genitori, le chiedo quali ritiene strumenti validi per costruire un’educazione in cui tutti siano attori. Rina si illumina: “la partecipazione, parola troppo abusata, ma mai usata pienamente. Credo che condividere idee e obiettivi rispetto al significato dell’educare, affrontando il tutto con chiarezza, senza pensare ai giudizi e impegnandosi per trovare anche un solo elemento condiviso, sia il punto da cui partire, consapevoli ognuno del proprio ruolo e della propria responsabilità”. In effetti, il ruolo dei genitori, alle Don Milani è molto importante. Un esempio su tutti: alla festa di fine anno, sono invitati a sperimentare i giochi che i lori figli hanno giocato durante l’anno, avendo la possibilità di condividere e valutare, in questo modo, non solo le idee e gli obiettivi didattici, ma anche le modalità di realizzazione. Bella prova di coraggio di queste maestre che non hanno paura di aprire la scuola… perché in fondo non è di loro proprietà anzi, nel caso specifico, di tutto il quartiere che ne usufruisce.

I limiti come risorsa

Certo che tutto questo è molto interessante e anche molto positivo, poi però ci si scontra con le pratiche quotidiane, le attività, la monotonia, il giorno dopo giorno, la noia, le discussioni…
Insomma, per quanto ci si possa impegnare, sarà necessario fare i conti con i limiti propri di ogni scelta e di ogni persona. È necessario allora che scopriamo un altro tassello di questo puzzle.
I limiti vengono visti, da Rina e dalle sue colleghe, come risorsa e non come impedimento. A partire da quelli fisici/strutturali per arrivare a quelli umani.
La scuola infatti è costituita su tre piani, ci sono grandi scalinate che portano a spazi rialzati con balaustre che danno sul piano inferiore. Non certo quello che potremmo definire edilizia scolastica da manuale, attenta ai bisogni dei bambini. Rina e le sue colleghe, però, hanno scelto di vedere tutto ciò come un’opportunità soprattutto per realizzare quella che viene definita ‘destrutturazione degli spazi’. Hanno colto la possibilità di muoversi, di spostarsi, di modificare l’uso e il modo di stare in uno determinato luogo. Una gradinata diventa allora un teatro mentre una stanza sottoterra diventa un’esperienza, un viaggio fantastico tra lenzuoli bianchi, neri o colorati. Anche il giardino, oltre che spazio di gioco libero e svago, offre la possibilità di realizzare avventure, costruire percorsi tra tessuti o materiale riciclabile.
Insomma limiti che attraverso la fantasia, vengono superati in modo creativo e divertente permettendo al bambino di mettere in gioco le proprie abilità.
Lo stesso poi succede con i limiti delle insegnati e degli operatori, non negati ma accolti e valorizzati secondo due modalità.
La prima, di cui abbiamo già parlato, è il gruppo che diventa vitale in quanto luogo di accoglienza, di confronto e di crescita.
La seconda è la formazione per la quale Rina si auspica “più aderenza ai contesti di cambiamento perché sembra che siamo sempre un passo indietro rispetto a quello che succede a livello sociale. Non per adeguarci ma per attrezzarci”.

Le parole di Rina suonano davvero molto sincere, proprio perché, come dicevo all’inizio, hanno origine dall’esperienza e anche dal grande amore che lei nutre verso la scuola, i bambini e il mestiere educativo.
Le chiedo infine, cosa pensa dell’affermazione: l’educazione è un posto dove ci piove dentro.
“Dentro l’educazione ci piove di tutto perché è un momento di relazione tra bambino e educatore (genitore, insegnante, animatore…) relazione che, in quanto tale, è aperta ai condizionamenti del contesto sociale con tutte le variabili di cambiamento che si porta dietro. Che poi l’educazione debba subire tale condizionamento è un altro discorso… deve sapersi relazionare con il cambiamento e soprattutto deve sapere dove vuole andare”.
 

Momenti che lasciano il segno

di Claudia Cervellati, insegnate di Scuola Primaria, conduttrice di laboratori di scrittura per adulti e bambini

“Per crescere educativamente bisogna creare relazioni, perdere tempo, comunicare con i gesti, con le parole, con gli sguardi, ascoltare gli umori, i sapori, gli odori, le emozioni, usare le mani, il sorriso, il cuore, il tempo.”

(Gianfranco Zavalloni, La pedagogia della lumaca, EMI)

Quando la mamma di un mio scolaro venne a un colloquio con una sporta di quaderni della figlia grande, ne fece una pila sulla cattedra dicendo:-Ecco, questi sono i chili di sapere trasmessi a mia figlia nella scuola elementare!- per un attimo ebbi paura di una recriminazione. Il suo bambino piccolo, affidato anche alle mie cure da un solo anno scolastico che stava per finire, non aveva prodotto tutti quei chili di sapere! In un lampo mi passarono davanti alla mente, come in una serie di immagini in dissolvenza tutto quello che avevamo vissuto in quell’anno e che non era stato pesato nelle pagine: la cura per una sola pagina scritta finalmente senza paura, con la mano che non tremava più, con la passione di un pittore, le ore passate a leggere gratis sdraiati sul prato nel giardino della scuola, tutti quei lunedì mattina a raccontarsi come stavano, ad ascoltare chi era buio per un piccolo o grande affanno e a ridere con chi nel fine settimana l’aveva combinata grossa. Tutte quelle ricreazioni passate a guardarli mentre giocavano, solo per conoscerli. Tutto quel tempo impiegato ad incoraggiarli, ad aiutarli a mettere posto i loro 25 zaini, ad orientarsi nel caos della scuola di 300 bambini, 40 maestri 6 bidelli e dell’orario fatto di mille incastri. Tutto quel tempo impegnato a dare un nome a un sentimento, certa che di alfabetizzazione si trattava e di che alfabetizzazione! La gioia di sentirli leggere, da soli, di vederli tagliare la loro bistecca, di scoprire che la scrittura li stava appassionando. Quanto pesava tutto questo in chili di pagine?
Non fu necessario spiegare nulla a quella mamma : era venuta per dirmi il contrario di ciò che temevo. Lo capii dalle domande seguenti :- Cosa c’è di diverso qui? Perchè mio figlio sorride, anche se ha iniziato la scuola elementare? Perchè noi ora possiamo goderci i fine settimana anche  se lui ha i compiti per casa?-
Già, cosa c’è di diverso? Cosa c’è, dopo 26 anni che mi tiene ancora viva nella giungla di riforme, registri, tagli, documenti, riunioni deliranti?
In modo sottile si è fatta un varco indelebile in me una strada, una scelta, che altro non è se non cercare di lavorare stando alla presenza del mio sentire, dei miei gusti, delle mie inclinazioni, dei miei ideali.
Il grande Munari mi illuminò quando scrisse che semplificare è più difficile:

“Per complicare basta aggiungere,
tutto quello che si vuole:
colori, forme, azioni, decorazioni,
personaggi, ambienti pieni di cose. “

Già, per complicare la scuola basta aggiungere : riunioni, schemi, fotocopie, quaderni, materiali, parole, guide didattiche.

Per semplificare bisogna togliere,
e per togliere bisogna sapere che cosa togliere,
come fa lo scultore quando a colpi di scalpello
toglie dal masso di pietra tutto quel materiale che c’é in più.”

Bella sfida, avventura affascinante, nuova strada per il mio lavoro.
Per togliere devo essere sempre pronta a correre il rischio che si arrivi all’essenziale, che la sostanza, spogliata di tutti i suoi abbellimenti, delle sue magnifiche infiocchettature altisonanti emerga e, in quanto sostanza, possa essere assaporata, guardata e anche giudicata.
E per togliere devo decidere cosa togliere , quindi distinguere ogni giorno ciò che per i bimbi è essenziale e ciò che non lo è. E prendermene la responsabilità.

“Togliere invece che aggiungere
vuol dire riconoscere l’essenza delle cose
e comunicarle nella loro essenzialità.
Questo processo porta fuori dal tempo e dalle mode…. “

Ecco, lavorare così significa anche essere pronta ad essere meno popolare, meno alla moda, più attaccabile. Occorre avere ben chiaro cosa sto facendo per motivare tutto a chi, ogni giorno, mi affida nientemeno che il proprio figlio chiedendomi di educarlo, di insegnargli qualcosa.
Lavorare così significa rinunciare a molte certezze date dalle unità didattiche preconfezionate, ma soprattutto da tutto ciò che fa tendenza, didatticamente parlando. Significa per esempio rinunciare a presentarsi alle famiglie con la infallibile carta d’identità di un Progetto di informatica piuttosto che di Linguaggi Teatrali , ma parlare, fin dalla prima assemblea di classe di ascolto, di contenimento, di emozioni, di clima, di stare bene, di semplificazioni. E spiegare che non mancheranno il tatro , l’informatica e molto altro.
Lavorare così per me significa anche prendermi un serio impegno a livello di contenuti, poiché troppo spesso chi ha fatto scuola in questo modo è stato scambiato, a torto, ma spesso ahimè a ragione, per uno che non crede nella grammatica e nella analisi logica, nelle regole e nei contenuti.
Allora sfatare questi pregiudizi diventa un impegno feriale, per dimostrare che semplificando in modo saggio è possibile imparare i verbi e leggere gratis, avere tempo per colorare e per ascoltarsi, per entrare nei meandri della grammatica e del cuore con la stessa passione.

Ma allora, tornando alla domanda di quella mamma: cosa c’è di diverso?
Forse la relazione, forse un esserci non asettico, ma presente. Forse un far passare attraverso il mio cuore oltre attraverso la mia mente la mia idea di fare scuola.
Proprio in questi giorni di battaglie furibonde contro il maestro unico mi chiedevo: e se ognuno di noi cercasse di diventare un vero maestro unico, non nel senso orario del termine, ma nel senso di uniche persone che incontrano altre uniche persone, in un tempo dilatato, senza frenesia?
Per tentare piano piano di fare questo ho dovuto resistere alla tranquillità che quintali di pagine e chili di schede appiccicate sui quaderni sanno dare.
E credere che anche l’incontro con loro, anche l’incontro tra loro sono momenti di vita e di scuola che lasciano un segno.

 

La cattedrale dei rapporti umani

“Mi dovrai scusare”, gli ho detto. “Il fatto è che non ci riesco proprio a spiegarti com’è fatta una cattedrale. Non ne sono proprio capace”. Il cieco è rimasto seduto immobile e mi ascoltava con la testa abbassata.
Ho detto: “Il fatto è che le cattedrali non è che significhino niente di speciale per me. Niente. Le cattedrali. Sono cose da vedere in tv la sera tardi. Tutto lì”.
È stato a quel punto che il cieco si è schiarito la gola. Poi ha detto: “Ho capito, fratello. Non è un problema. Capita. Non stare a preoccupartene troppo”, così ha detto. “Ehi, sta’ a sentire. Me lo fai un favore? Mi è venuta un’idea. Perché non ti procuri un pezzo di carta pesante? E una penna. Proviamo a fare una cosa. Ne disegniamo una insieme. Prendi una penna e un pezzo di carta pesante. Coraggio, fratello, trovali e portali qua”, ha detto.
E così sono salito di sopra. Ho trovato delle penne a sfera in un cestino sulla scrivania. Sono sceso in cucina e ho trovato una busta di carta del supermercato che aveva ancora delle bucce di cipolla in fondo. L’ho svuotata scuotendola per bene. L’ho portata di là in soggiorno e mi sono seduto per terra vicino alle gambe del cieco. Ho spostato un po’ di roba, ho allisciato la busta e l’ho stesa sul tavolino.
Lui si è tirato giù dal divano e si è messo a sedere accanto a me sul tappeto. Ha passato le dita sulla busta. Ne ha sfiorato su e giù i margini. I bordi, perfino i bordi. Ne ha tastato per bene gli angoli.
“Perfetto”, ha detto. “Perfetto, facciamola”.
Ha trovato la mia mano, quella con la penna. Ha chiuso la sua mano sulla mia.
“Coraggio, fratello, disegna”, ha detto. “Disegna. Vedrai. Io ti vengo dietro. Andrà tutto bene”, ha detto il cieco.
E così ho cominciato. Prima ho disegnato una specie di scatola che pareva una casa. Poteva essere anche la casa in cui abitavo. Poi ci ho messo sopra un tetto. Alle due estremità del tetto, ho disegnato delle guglie. Roba da matti.
“Benone”, ha detto lui. “Magnifico, vai benissimo”, ha detto. “Non avevi mai pensato che una cosa del genere ti potesse succedere, eh, fratello? Be’, la vita è strana, sai. Lo sappiamo tutti. Continua pure. Non smettere”.
Ci ho messo dentro finestre con gli archi. Ho disegnato archi rampanti. Grandi portali. Non riuscivo a smettere. I programmi della televisione erano finiti. Ho posato la penna e ho aperto e chiuso le dita. Il cieco continuava a tastare la carta. La sfiorava con la punta delle dita, passando sopra a tutto quello che avevo disegnato, e annuiva.
“Vai forte”, ha detto infine.
Ho ripreso la penna e lui ha ritrovato la mia mano. Ho continuato ad aggiungere particolari. Non sono certo un artista. Ma ho continuato a disegnare lo stesso.
“Sì, così. Così va bene”, ha aggiunto. “Certo, ce l’hai fatta, fratello. Si capisce bene, adesso. Non credevi di farcela, eh? Ma ce l’hai fatta, ti rendi conto? Adesso sì che vai forte. Tra un attimo qui avremo un vero capolavoro. Come va il braccio?”, ha chiesto. “Ora mettici un po’ di gente. Che cattedrale è senza la gente?”.
“E adesso chiudi gli occhi”, ha aggiunto, rivolto a me. L’ho fatto. Li ho chiusi proprio come mi ha detto lui.
“Li hai chiusi?”, ha chiesto. “Non imbrogliare”.
“Li ho chiusi”, ho risposto io.
“Tienili così”, ha detto. Poi ha aggiunto: “Adesso non fermarti. Continua a disegnare”.
E così abbiamo continuato. Le sue dita guidavano le mie mentre la mano passava su tutta la carta. Era una sensazione che non avevo mai provato prima in vita mia.
Poi lui ha detto: “Mi sa che ci siamo. Mi sa che ce l’hai fatta”.
Ha detto: “Da’ un po’ un’occhiata. Che te ne pare?”.
Ma io ho continuato a tenere gli occhi chiusi. Volevo tenerli chiusi ancora un po’. Mi pareva una cosa che dovevo fare.
“Allora?”, ha chiesto. “La stai guardando?”.
Tenevo gli occhi ancora chiusi. Ero in casa mia. Lo sapevo. Ma avevo come la sensazione di non stare dentro a niente.
“E’ proprio fantastica”, ho detto.
(Brano tratto dal racconto “Cattedrale”, in R. Carver, Cattedrale, Roma, Minimum Fax, 2002, pp. 227-229)

Nello stesso istante in cui ripenso al racconto del quale vi suggerisco la lettura giungo a capire che la parola del titolo ne racchiude in sé l’intero significato. Cattedrale. Nel gergo figurato questa parola è sinonimo di imponenza e lusso, ma anche di complessità. Per costruire una cattedrale, ammette Carver per bocca di Tom, voce narrante del racconto, servono intere generazioni e nonostante l’impegno profuso nell’opera si rischia di non vederne mai la fine.
Per me Cattedrale ha sempre rappresentato la complessità dei rapporti umani. La sintesi delle innumerevoli incomprensioni e degli errori che costellano la vita di ciascuno di noi, ma anche la bellezza – come quella di una cattedrale – allorché un legame sorto tra gli uomini, costruito mattone per mattone, riesca a non impigliarsi negli equivoci, nei futili malintesi, nello stress da velocità, al punto di raggiungere finalmente una solidità imprevista.
In fondo, la nostra stessa esperienza di vita dimostra che nessun progetto ambizioso prelude già al suo risultato. In altre parole chiunque abbia in mente la possenza e lo splendore di una grande cattedrale, sa perfettamente che erigere una costruzione simile non esigerebbe solo la bontà del piano iniziale e la materia prima, occorrerebbero comunque il coraggio, la pazienza e un pervicace impegno che travalichi qualsiasi obiettivo altro.
Il paragone sembra perfino scontato, perciò, con i rapporti umani. Nient’altro infatti implicherebbe l’impegno di una vita, come impone invece la crescita di un legame saldo e fraterno tra due persone; un legame basato su energia e fiducia reciproca, sulla disponibilità ad ascoltare, un legame che per sopravvivere e continuare, in qualche frangente, deve necessariamente anteporsi all’interesse individuale di ciascuno.
Per esempio, appare evidente che nel racconto di Cattedrale il punto di rottura consterebbe nella nascita di un’amicizia inedita o di un rapporto duraturo a scapito dei preconcetti e delle differenze. Tuttavia il significato più recondito, credo, ruota attorno alla scoperta di se stessi attraverso gli altri e attraverso le relazioni.
Nondimeno, oltre al consueto apologo del diverso – qui interpretato con rara maestria dall’autore contrapponendo il non-vedente normodotato di tutti i giorni al cieco in grado di guidarlo fuori dalla pigra indolenza dei sensi – l’episodio narrato fa emergere con la più cristallina semplicità la propria metafora. Quest’ultima, lo abbiamo detto, consiste nella scoperta. Di se stessi. Dei propri limiti. Delle possibilità che ci offre il confronto con gli altri.
Così Tom ottenebrato dal pregiudizio sulla condizione di Robert, l’uomo col bastone bianco venuto a fargli visita dal Connecticut, dovrà in qualche misura lasciarsi guidare nel viaggio proposto dall’altro, il “cieco” appunto. E nel farlo ritroverà nel proprio corpo una energia nuova e inattesa.
Nella fattispecie, ovviamente, l’oggetto della storia resta qualcosa di più della disabilità di Robert. Il racconto si regge infatti su quel che c’è d’insondabile, che scorre sotto le parole e i gesti minimi, la mano nella mano, il foglio e la penna, la condivisione di una medesima fantasia. Fintantoché a divenire pesante come un macigno, nel fondo di queste poche righe, sotto l’apparente semplicità dei dialoghi, non sia l’emergere di un insegnamento che soltanto la disabilità e le condizioni diverse possono riportarci. E cioè che il pregiudizio, molto più della stessa condizione fisica, finisce per deteriorare il mondo di possibilità che avremmo dinanzi ogni giorno. E qui naturalmente alludo a quella cortina che tante volte separa i cosiddetti normodotati dai diversamente abili, convincendo i primi che la diversità costituisca una barriera insormontabile, tale da rendere off limits anche gli scambi più semplici o le tante attività facilmente praticabili alla scoperta reciproca dei limiti gli uni degli altri.
Del resto, per come l’ho sempre vista, comprendere la disabilità è anche questo: ammettere che le belle parole possono certamente servire da sostegno psicologico, ma sempre più spesso esse fungono da simulacri della realtà. Specchietti luccicanti, insomma. Allora tocca a noi, individualmente, intuire in tutta coscienza il mare di opportunità di azione sotteso alle relazioni umane. Scegliere di esplorarlo, esulando dalle soluzioni perbeniste e dai complessi, approdando alla schietta sostanza delle cose. Concretamente. Un po’ come accade nella letteratura di Carver, maestro del pragmatismo americano.

Una pedagogia per tempi di crisi

di Alain Goussot, docente di Pedagogia speciale e formatore

La scuola ha accumulato in questi anni una serie di problemi, ha dimostrato di poter innovare ma anche di cristallizzarsi in risposte stanche e ripetitive. Gli insegnanti non sono dei marziani, sono anche loro dei prodotti di questa società, come molti ne assorbono, ne respingono o approvano il funzionamento. Molti dicono che il livello si è abbassato pericolosamente, che gli alunni escono senza sapere scrivere correttamente, che l’insegnante non trasmette più saperi e conoscenze, che vi sono troppi bambini difficili che frenano gli apprendimenti dei ‘migliori’ , che studiare è mal visto dalla maggioranza , che l’assenza di voti e bocciature abbia provocato questa Caporetto della scuola italiana. Il dialogo tra scuola e famiglie è sempre più difficile , le stesse famiglie sembrano oscillare tra la presenza ossessiva nel ‘proteggere’ i figli contro i bulli o le angherie di qualche insegnante, le famiglie sembrano chiedere insieme più severità e meno severità. Una situazione alquanto confusa.
Ma crediamo che le questioni poste al mondo della scuola sono nei fatti le cose che vivono ogni giorno gli insegnanti e gli alunni nella classi: classi numerose, situazioni sempre più difficili e complesse da gestire per la trasformazione sociale e culturale in atto da diversi anni, presenza significativa di bambine e bambini con problemi legati al disagio sociale, cambiamenti della composizione antropologica della popolazione scolastica con la presenza di alunni provenienti da altri orizzonti culturali, risorse sempre più scarse per realizzare dei progetti educativi individualizzati o fare sperimentazioni vere sul piano pedagogico, precarizzazione accentuata del corpo docente con migliaia di insegnanti con dei contratti instabili , introduzione di forme di lavoro a chiamate, scarse risorse per la formazione e la preparazione pedagogica e psicopedagogia degli insegnanti, impossibilità di realizzare un vero lavoro di rete tra scuola, famiglie e servizi territoriali, discontinuità nei progetti sperimentali avviati nella scuola, taglio serio alla presenza degli insegnanti specializzati o di sostegno, non chiarezza nel come realizzare il curricolo dell’insegnante ma anche dell’alunno, tendenza a proporre una formazione generica abbinata ad un orientamento precoce che porti verso una specializzazione che non tiene conto del processo di sviluppo e di maturazione del bambino nel processo dei suoi apprendimenti, corsi di aggiornamento che sembrano più seguire le mode del momento (vedi i corsi sul bullismo) che non formare i docenti alla riflessione pedagogica, anche i corsi di didattica e di tecniche ricette finiscono per annichilire la capacità inventiva . Tutte queste questioni finiscono per destabilizzare la scuola e soprattutto il mondo degli insegnanti sembra continuamente subire le situazioni imposte dai cambiamenti politici ma anche strutturali; diciamo anche che le questioni che riguardano la scuola dovrebbero essere poste partendo da chi lavora sul campo; ma anche chi lavora sul campo dovrebbe esprimersi sui contenuti pedagogici e didattici, sui modelli educativi e d’insegnamento e non limitarsi ad una protesta sacrosante sulle condizioni economiche del trattamento degli operatori della scuola. In fondo vi è qui una responsabilità nei confronti delle future generazioni, la scuola è uno luogo importante per la formazione d’individui che diventeranno anche cittadini e forse classi dirigenti domani. Ma la scuola non è più l’unico luogo d’istruzione e ha dei concorrenti con una più grande efficace sul piano della formazione delle giovani menti: media, pubblicità, internet, sistema dei consumi propongono dei modelli e degli stili di vita con i quali identificarsi. La scuola ha ancora un ruolo nella società del futuro 21° secolo ? Quale futuro ? Non stiamo andando verso la realizzazione della profezia di Ivan Illich cioè la descolarizzazione della società ? In fondo bambini e adolescenti trovano dei modelli con i quali identificarsi nei media, acquisiscono tramite la televisione ed internet delle forme di sapere e delle conoscenze. Il problema è come e quali saperi e quali conoscenze?

Desecolarizzare la società? La vera emergenza pedagogica

La descolarizzazione della società può trovare un suo punto di forza con l’appoggio delle politiche di privatizzazione in atto che rafforzano le disuguaglianze davanti all’istruzione. Non solo la formazione e la delega delle giovani menti ai media permette di eliminare la figura dell’insegnante o del maestro (unico o meno che sia); i media offrono dei nuovi maestri: uomini di spettacolo, giornalisti tuttologi, politici che assomigliano molto ai sofisti di cui parlava Platone e attori, attricette, veline, gente reale che per quattro soldi esibiscono ,veri o falsi che siano, i loro problemi più privati in pubblico. In questo modo tutti diventano spettatori , viene conservata la forma della logica cattedratica della trasmissione e quindi dell’auditorio, potenziata dalle luci abbaglianti dello spettacolo televisivo, per meglio passivizzare chi guarda. In questa grande operazione di bombardamento pubblicitario non vi è più tempo e spazio per scoprire da sé e costruire da sé con l’aiuto del maestro le conoscenze , non vi è più la possibilità di distinguere i saperi che contano perché permettono di comprendere come funziona il mondo nel quale si vive. In questo modo la descolarizzazione in atto amplifica le disuguaglianze sociali e trasforma la massa dei bambini e adolescenti in futuri sudditi. Rispetto a questo cosa fa la scuola ? Quale consapevolezza pedagogica hanno gli insegnanti e in che misura siano davvero pronti a fare ‘la battaglia dell’intelligenza ‘ , per usare una espressione del filosofo Bernard Stiegler , sul piano pedagogico. Eppure i grandi pedagoghi ed educatori della scuola nuova del novecento, da John Dewey a Don Milani , ci hanno insegnati che l’educazione è formazione del cittadino di domani; di un cittadino consapevole e in grado di prendere posto nella società con senso di responsabilità ma anche con il senso della centralità della libertà come attore che fa delle scelte.

Ma non si può neanche ignorare il quadro sociale e culturale nel quale oggi la scuola si sta contorcendo alla ricerca di un nuovo equilibrio in un mondo in cui la forza pedagogica dei media , del sistema dei consumi e della pubblicità plasma e trasforma in profondità le persone. Gli alunni , come gli insegnanti, non vivono su un altro pianeta, sono il prodotto di questo mondo che fa dell’individualismo , del narcisismo , dell’arricchimento e del consumismo i valori fondanti del riconoscimento. Inoltre condividiamo la tesi del filosofo francese Bernard Stiegler che sottolinea , in un bel libro intitolato “Prendre soin de la jeunesse et des générations”, che sta avvenendo una ‘inversione generazionale’ , ad opera dei media che funzionano come un vero ‘psicopotere’, dove i genitori e i nonni appaiono nella cinematografia , le trasmissioni televisive e la pubblicità, come infantilizzati, come esseri immaturi in balia alle loro emozioni non controllabili, e dove i bambini appaiono come degli esseri responsabili e maturi che prendono le decisioni. Da una parte gli adulti vengono delegittimati come punti di riferimento autorevoli e dall’altra i bambini vengono sovraccaricati di responsabilità che non sono i grado di assumersi e gestire. Stiegler parla e descrive a lungo quello che chiama le ‘tecniche di captazione dell’attenzione’ del nuovo dispositivo mediatico ; tecnica , la chiama anche ‘psicotecnologia ‘, che ha la capacità di provocare una ‘eccitazione emotiva immediata ’ che non esercita nel bambino la facoltà di attenzione e la strutturazione di una memoria ricca. L’attenzione diventa superficiale come il gesto consumistico dell’uso e getta ; non fa funzionare la ‘concentrazione e lo sforzo per apprendere ‘, disattiva il desiderio di apprendere e diseduca a sublimare attraverso l’apprendimento. Per Stiegler si tratta di una grande operazione di destrutturazione dei meccanismi profondi dell’apparato psichico dei bambini e degli adolescenti che diventano dipendenti dall’eccitazione immediata e che non riescono a strutturare nel tempo una capacità profondo di attenzione e una tensione intellettiva in grado di farli diventare ‘maggiorenni’ cioè esseri che si autodeterminano; Don Milani avrebbe detto ‘sovrani ‘.

Ma chi si prende la pena di farne davvero un’analisi, chi si chiee quale impatto formativo e psicologico comporta sulle nuove generazioni Quali lavori di ricerca vera vengono condotti in questo ambito per comprendere come condurre la "battaglia dell’intelligenza" di cui parla Stiegler? Talvolta sembra che il mondo stesso della scuola sia ormai paralizzato e anche parte di questa nuova industria culturale che tende a rendere sempre meno maggiorenne e sovrano l’individuo. L’essere sovrano e maggiorenne fa parte del vecchio progetto illuminista che oggi è radicalmente messo in discussione; la scuola ha quindi una funzione importante perché rimane ancora un luogo dov’è possibile vivere l’esperienza della relazione vera e non virtuale, del confronto vivo dove sentimenti e passioni si costruiscono nell’esperienza di apprendimento. Ma per poter aiutare gli alunni a sviluppare una ‘deep attention ‘ – una attenzione profonda-  occorre non ignorare il mondo delle ‘psicotecnologie ‘ che oggi dominano il mondo della comunicazione virtuale nel quale sono immersi i nostri ragazzi. Quando è nata la stampa vi fu una rivoluzione culturale, il rischio era che una minoranza potesse avere la capacità tecnica di gestire questo strumento escludendo la maggioranza, oggi la situazione è ancora più complessa perché non si tratta solo di tecnica ma di tecnologie complesse e sofisticate che hanno il potere di determinare i cambiamenti mentali . Eppure occorre farvi i conti per rovesciare l’utilizzo attuale di queste tecnologia e farle diventare supporti alla ‘battaglia dell’intelligenza ‘ per fare uscire migliaia di alunni e di persone dalla ‘servitù volontaria ‘ nella quale si trovano perché la loro attenzione è ormai captata e provoca un effetto di ‘minorazione’.

 

Una pedagogia per tempi di crisi

La questione è tuttavia di sapere in quale misura vi sia ancora oggi una connessione tra il carattere educativo della comunità scolastica, l’esperienza nel gruppo classe sia sul piano dell’acquisizione di saperi e conoscenze che su quello affettivo-relazionale. In che misura l’esperienza scolastica e quella vissuta in classe riesca ancora a collegare vissuti esperenziali significativi per la crescita personale , l’acquisizione del sentimento di socialità e l’acquisizione di saperi e conoscenze fondamentali per lo sviluppo della capacità di pensare con la propria testa per comprendere il mondo. Gli insegnanti si trovano a dover rispondere a questioni antiche ma in termini nuovi: come interessare degli alunni che sembrano non interessarsi a nulla, come superare le resistenze di chi dovrebbe imparare ma non vuole imparare, cosa significa valutare l’alunno sul piano degli apprendimenti e del rendimento didattico, come gestire le classi numerose con tanti ‘alunni ed alunne difficili’ , come rispondere all’aggressività e al conflitto, quali metodi utilizzare e chiedersi se esistono metodi risolutivi, chiedersi se sia importante avere una filosofia dell’educazione oppure se bastano le tecniche, su quest’ultimo punto vedere quale rapporto deve esistere tra tecniche ,strumenti, metodi, alunni, docenti e oggetto disciplinare, quali mediazioni e mediatori utilizzare per favorire gli apprendimenti e facilitare l’inclusione di chi presenta delle difficoltà. Questioni antiche della storia dell’educazione ma questioni che si pongono in termini nuovi in un mondo che ha subito delle profonde trasformazioni sia sul piano tecnologico che antropologico e culturale. Vi sono poi tutte le questioni che riguardano la formazione delle competenze pedagogiche e didattiche del personale docente e degli educatori. Spesso si afferma che vi è una scarsa preparazione dell’insegnante , in effetti non basta conoscere la propria disciplina per sapere trasmettere i saperi e le conoscenze che vi sono connessi. Qualcuno afferma , giustamente , che l’insegnante o il formatore deve avere delle competenze psicologiche, cioè essere in possesso degli strumenti di lettura psico-sociale relazionale delle difficoltà che possono incontrare alcuni alunni nonché di lettura delle dinamiche del gruppo classe. Tutte cose giuste ma vi è anche il rischio di trasformare l’insegnante in uno psicologo che passa il suo tempo a fare diagnosi; vi è un rischio di uso improprio della psicologia e quindi di scivolare verso lo psicologismo.

Psicologismo che rappresenta spesso un alibi da parte dell’insegnante e dell’educatore o del formatore per nascondere le proprie difficoltà o incompetenze sul piano pedagogico e didattico. Tentare di spiegare ‘psicologicamente ‘tutti i comportamenti degli alunni rischia di togliere spazio alla comprensione che può avvenire tramite l’attività d’insegnamento, è in questa attività, nel modo di organizzarla con il gruppo che si realizza quella osservazione che funziona come processo di conoscenza dell’altro e di se stesso. Ma per fare questo l’insegnante non deve nascondersi dietro le posture dello psicologismo ma neanche dietro la ‘certezze pragmatica ‘ delle tecniche e degli strumenti. Questi ultimi sono importanti cioè è importante essere detentori di saperi tecnici per insegnare e stimolare il processo di apprendimento ma sono anche un rischio se chiudono l’operatore pedagogico dentro una razionalizzazione rigida della sua azione didattica non creando più lo spazio necessario per sperimentare tramite la relazione l’esplorazione di percorsi inediti e lo sviluppo creativo delle potenzialità dell’alunno. Già ai primi del 900’ il grande pedagogo italiano Giuseppe Lombardo Radice distingueva didatticismo e didattica. Il didatticismo corrisponde ad una modalità rigida , precostituita d’intendere l’insegnamento , un ‘ formalismo metodologico ‘ che non tiene conto dell’imprevisto, dell’incertezza della relazione pedagogica e anche delle potenzialità presenti in questa ‘zona del non prevedibile’ ; la didattica invece tenta di programmare e di usare strumenti e metodologie in modo flessibile tenendo conto delle situazioni e dando spazio alla sperimentazione del processo di apprendimento. La composizione eterogenea delle classi, la presenza di vaste aree di disagio psico-sociale collegato alla crisi che vivono molte famiglie, la pressione dei messaggi pubblicitari della società dei consumi con i suoi modelli culturali e i suoi stili di vita basati sull’autoreferenzialità, la presenza di alunni con ‘bisogni speciali ‘ che presentano disabilità e anche disturbi dell’apprendimento che molti insegnanti non sanno come gestire , la presenza significativa di tanti bambini figli di migranti che hanno profondamente modificati la struttura antropologica culturale delle nostre scuole; la presenza di fenomeni legati all’aggressività o alla depressione tra tanti adolescenti che sembrano come lasciati a se stessi; tutti questi fattori mettono gli insegnanti e gli educatori in grande difficoltà soprattutto quando non sanno trasformare queste criticità in una nuova ‘pedagogia per tempi di crisi ‘, per utilizzare una espressione del pedagogista francese Philippe Meirieu, cioè di una pedagogia in grado di rispondere alle sfide di una società invasa da nuovi linguaggi e anche alla ricerca di nuovi punti di riferimento per navigare ed orientarsi in un’epoca di tempeste sociali ,economiche , politiche e culturali. Condividiamo il punto di vista del pedagogista francese che afferma che l’innovazione pedagogica, anzi l’atto pedagogico , che sia in classe con l’insegnante o nel quartiere con l’educatore, nasce di fronte alla resistenza dell’alunno, dell’educando in un contesto di crisi e di apparente impossibilità di cambiamento. Parlare di una ‘pedagogia per tempi di crisi ‘ vuol dire reinvestire passioni, intelligenze , motivazioni ideali , principi etici , ragione critica e competenze scientifiche nell’esperienza di relazione che coinvolge la figura del maestro e quella dell’educando senza temere il confronto con quest’ultimo. Una delle cose che caratterizza la situazione di tanti insegnanti ed educatori è proprio la paura del confronto, la paura della gestione educativa del conflitto, la paura dell’incerto.

YouTube: video per la diversità?

YouTube è uno dei più popolari siti della rete per un semplice motivo: permette di vedere e pubblicare dei video in modo semplice e gratuito. Fra i siti appartenenti al web 2.0, ovvero quei siti che permettono un’ampia partecipazione degli utenti, riscuote un particolare successo perché gestisce lo strumento per comunicare più amato dalla popolazione mondiale, il filmato. Soprattutto per noi italiani, che abbiamo un rapporto così stretto con la televisione, il poter vedere e trattare immagini sul web non può che essere un motivo di grande attrazione.
A queste considerazioni ne segue anche un’altra, ovvero la grande pubblicità che molti media hanno fatto a YouTube soprattutto parlandone in termini negativi, come il luogo dove bande di giovani “bulli” pubblicavano le loro bravate o venivano documentati fatti di tematica sessuale.
Sulla rete non esiste solamente questa esperienza, ne esistono molte con caratteristiche diverse, ma noi oggi ci occuperemo solo di YouTube raccontando, oltre a come funziona, come può essere usato per parlare di disabilità.

Come funziona
Per poter utilizzare YouTube in modo completo occorre iscriversi al sito (procedura semplice e gratuita), una volta compiuta questa operazione possiamo non solo vedere le centinaia di migliaia di video pubblicati ma anche caricarne di nostri, di segnalare quelli che preferiamo, di realizzare addirittura un nostro canale televisivo privato. Ma andiamo con ordine.
Guardando il sito da registrati notiamo in alto a destra uno spazio per la ricerca: inserendo qui una o più parole chiave possiamo cercare i video che a noi interessano; una volta fatta la prima ricerca, si può raffinare la stessa cliccando sul pulsante a destra (Opzioni avanzate) dove possiamo scegliere la lingua, la durata, la definizione…
Il sito automaticamente propone dei video che “potrebbero” piacere all’utente registrato basandosi sui suoi gusti (che sono dedotti dalle sue ricerche precedenti). Così come consiglia utenti dai gusti simili ai nostri con cui venire in contatto.
Sempre in alto a destra appare il nome con cui siamo registrati, cliccando sul quale possiamo gestire il nostro profilo, vedere i nostri video preferiti e tanto altro ancora.
Ma il pulsante più importante è quello giallo a destra un po’ più in basso (Carica video). Da qui possiamo caricare i video già realizzati in precedenza o in tempo reale ripresi con la webcam del proprio computer; non si possono caricare video di dimensioni maggiori di 1 giga e non più di 10 alla volta, ma per tutte queste informazioni tecniche, sul sito è presente anche un piccolo manuale.

“Broadcast yourself”
Questa rapida descrizione serve a far capire tutte le potenzialità che offre YouTube; possiamo in questo modo creare un vero e proprio canale televisivo personale dove segnaliamo i video che ci piacciono, carichiamo i nostri e mettiamo in relazione con altri utenti la nostra televisione personale. È come se fossimo dei dj (anzi dei vj) che producono le proprie compilation. Potendo ogni persona creare un canale televisivo diverso (inoltre a quelli che preferiamo possiamo anche “abbonarci” gratuitamente) è possibile la loro moltiplicazione all’infinito, portando a un’offerta di video veramente sterminata.
Sui mezzi televisivi normali la disabilità ha sempre avuto uno spazio ristretto e, quando lo ha avuto, molto spesso è stato relegato in rubriche o in luoghi dove i toni spettacolari o, più raramente, i toni patetici prendono il sopravvento. In spazi come YouTube invece è possibile informarsi e fare informazione sulla disabilità in un modo diverso, saltando certe imposizioni esterne e basandosi solo sulle proprie capacità personali e sui propri desideri di conoscenza.
È chiaro che questo sistema incontra alcuni limiti: innanzitutto la platea a cui si rivolge un filmato su YouTube è solo potenzialmente planetaria ma di fatto viene visualizzato da un numero di persone sicuramente minore rispetto a quelle che lo potrebbero vedere su un canale televisivo come la Rai o Mediaset. Poi sulla qualità di ciò che vediamo, sulla sua correttezza, dobbiamo fidarci della persona o del gruppo che lo propone; questa fiducia la si può costruire in rete solo attraverso delle ricerche e dei confronti con altri utenti (oltre che basarsi sulla propria capacità critica).

Una tivù solo sulla disabilità
Proviamo adesso a costruire un canale televisivo solamente con del materiale video riguardante la disabilità, ed escludiamo per questa volta una produzione nostra; mettiamoci nei panni di produttore televisivo che vuole creare un canale tematico ad hoc, senza doverci preoccupare delle spese per il copyright, visto che i video sono presenti in rete e noi li segnaliamo semplicemente creando una compilation che un nostro “telespettatore” può seguire a piacimento.
Cominciamo fin da subito con una ricerca avanzata mettendo come parola chiave “disabilità” e come requisito la lingua italiana.
Il risultato ci dà ben 2.590 video pubblicati su YouTube: solo come numero, anche facendone una selezione accurata guardando la congruità dei filmati e la loro qualità, ce ne sarebbero a sufficienza per fare una programmazione tutta diversa per alcune settimane di visione continua.
Il primo risultato ci racconta in un modo diretto e non enfatico le difficoltà che una donna romana in carrozzina incontra negli spostamenti quotidiani con propri mezzi per la città. I filmati successivi trattano ancora di barriere architettoniche, domotica, diritti dei disabili, sport, fatti di cronaca, politica… Si deve tenere presente che la ricerca iniziale può essere modificata e possono essere usate parole chiave come “disabili”, “handicap”, “diversabilità”… ; queste ricerche generano risultati simili ma sicuramente troveremo anche dei nuovi filmati.
A questo punto decidiamo di organizzare il materiale per tema; costruiamo un canale tematico solo sulle barriere architettoniche e cominciamo a segnalare tra i preferiti all’interno del nostro profilo i video che ci sembrano migliori. Questi video li possiamo organizzare dandogli un rilievo diverso (in cima a una lista o più sotto). Per adesso non è possibile con YouTube creare delle sottocartelle o organizzare meglio i propri video, ma in futuro le cose possono cambiare.
Adesso ripetiamo la ricerca, però selezionando non i video ma i canali (channels, ovvero utenti con un profilo come il nostro). Facendo così arriviamo a conoscere delle raccolte di video già organizzati a cui possiamo iscriverci e che appariranno visibili anche sul nostro canale.
Con un po’ di pazienza potremmo offrire un servizio informativo di un certo livello a cui i nostri “telespettatori” potranno accedere quando vogliono; infatti sul web non vale più la programmazione oraria ma è come se si avesse una videoteca sempre presente (basta essere on line) a cui attingere liberamente e nel momento in cui possiamo farlo.
Per completare il nostro lavoro basta solo una buona promozione del nostro canale, affinché possa essere ritrovato non solo attraverso una ricerca libera; questo risultato può essere ottenuto in modi diversi, ad esempio con la spedizione di un comunicato ai media e ai siti che si occupano del tema, oppure intervenendo nelle mailing list e nei forum specializzati, o creando delle pagine apposite sulle reti sociali come Facebook o Myspace.

Bianco con il giallo: una settimana al Serming di Torino

La disabilità può diventare uno spunto per parlare di difficoltà? E di comunicazione?
La paura del diverso, può essere affrontata in modo disarmato?
C’è un legame tra comunicazione e pace?
Queste domande e le conseguenti riflessioni scaturiscono dall’esperienza che io e Claudio Imprudente abbiamo vissuto, quest’estate, al Sermig di Torino una realtà con la quale siamo entrati in contatto e abbiamo stretto amicizia un paio d’anni fa.
Gli “abitanti” del Sermig sono vari: chi ci vive per un giorno, una settimana, un mese oppure per tutta la vita. I volontari che prestano servizio per le più svariate attività (secondo l’idea che tra pulire un bagno, cucinare o gestire la distribuzione di aiuti internazionali non c’è differenza), le donne e gli uomini di strada, ai quali viene offerta accoglienza e la possibilità di riscattarsi, i giovani che a centinaia passano periodi più o meno lunghi per fare e ascoltare, imparare e insegnare, amare ed essere amati.
In questo contesto, siamo stati invitati per incontrare circa 500 ragazzi, provenienti da tutta Italia, con i quali affrontare il tema della comunicazione e della disabilità.
Nonostante la nostra lunga esperienza di incontri dentro e fuori la scuola, è stato molto emozionante passare una settimana intera in loro compagnia, sia durante gli incontri, sia passeggiando per i corridoi dell’Arsenale della Pace, a mensa come durante le varie attività di servizio. Scambiare due chiacchiere, fare una foto, prendere un gelato… un modo diverso e, come ama dire Claudio, molto interessante di stare insieme e conoscersi.
L’idea di questa serie di incontri è nata dopo la pubblicazione di Omino Macchino e la sfida della tavoletta (Ed. Erickson, 2009), ultimo libro di Claudio, al quale abbiamo collaborato anche io e Luca Giommi.
Partendo dalla comunicazione, tema trattato nel testo, e dal confronto diretto con la disabilità e le difficoltà, siamo arrivati a parlare di pace, tema tanto caro al Sermig.

La disabilità può diventare uno spunto per parlare di difficoltà? E di comunicazione?
A queste domande rispondo forse.
Mi spiego.
Partendo dalla differenza, ormai assodata, tra deficit e handicap, possiamo affermare che le difficoltà non sono insite nel deficit ma sono il frutto del rapporto tra la persona disabile e la realtà.
La disabilità, quindi, non rappresenta la difficoltà, bensì si confronta con essa nel momento in cui entra in relazione con il mondo esterno, sia quello fisico che quello delle relazioni umane. Fatta questa premessa, possiamo allora tranquillamente affermare che la disabilità può diventare uno spunto per parlare di difficoltà e, soprattutto, del modo in cui affrontarle. Infatti è proprio dal confronto con esse che nasce la necessità di individuare strategie utili per poterle superare: tecniche o intuizioni creative che diminuiscano la distanza tra quello che una persona con disabilità potenzialmente potrebbe fare e quello che invece riesce a realizzare effettivamente.
Questo discorso, però, ha senso solo se non prescindiamo dal contesto, il quale rappresenta il primo partner con il quale confrontarsi e con il quale creare alleanze. Se, infatti, è proprio dal rapporto con il contesto che nascono le difficoltà, è sempre nel contesto che possiamo individuare le modalità per superarle.
Lo stesso discorso può essere allargato alla comunicazione, intesa come elemento di relazione e di superamento delle difficoltà. Anche la comunicazione, in molti campi, spesso rappresenta il problema. È indubbio, però, che rappresenta anche l’unico strumento per risolverlo, per superare la distanza tra gli interlocutori. La difficoltà, in questo modo, diventa risorsa.

La paura del diverso, può essere affrontata in modo disarmato?
Una delle frasi celebri del Sermig è: la bontà è disarmante.
Idea molto chiara di uno stile di vita e di relazione, che intende porsi in modo disarmato, non solo di fronte ai conflitti più o meno gravi o più o meno personali, ma in ogni campo della vita: nella propria professione, nelle relazioni personali, a scuola come nello sport.
Disarmati, quindi, ma di fronte a che cosa?
Fondamentalmente di fronte al diverso, a ciò che non conosciamo e che, di conseguenza, produce il sentimento della paura.
Affrontarla in modo disarmato significa imparare a considerare la diversità, non tanto come ostacolo o limite, ma come luogo di incontro e ricchezza da condividere. Assumere una nuova logica che, oltre a costruire ponti per superare fiumi ed eliminare distanze, faccia scendere tutti con i piedi nell’acqua perché è il fiume stesso (cioè, ciò che separa) il luogo dell’incontro, dell’inclusione.
Fare tutto ciò in modo disarmato, significa farlo liberi da pregiudizi e preconcetti, aperti alla conoscenza vera e all’incontro con l’altro che, proprio perché diverso da noi, può aiutarci nel percorso di crescita e di evoluzione.
Negli incontri con i ragazzi, la paura e il pregiudizio nei confronti delle persone con disabilità vengono presi come esempio di tutte le paure derivanti dal confronto con la diversità e, a partire da questa provocazione, si arriva a scoprire che la paura è un atteggiamento innato, che si mette in atto come difesa da ciò che percepiamo come pericoloso, e che scompare nel momento in cui conosciamo chi abbiamo di fronte.
Conoscenza, però, che non si può fermare all’immagine esterna ma la deve rivalutare, proponendola in maniera vincente, sottolineando quelle che sono le abilità, le capacità, i desideri e i sogni e non solo ciò che non va. In questo modo si offre all’altro un’idea positiva con la quale confrontarsi alla pari, senza perbenismo o superiorità, permettendo che avvenga uno scambio e si sperimenti la ricchezza di ciò che è diverso.

C’è un legame tra comunicazione e pace?
Se, come abbiamo detto, la comunicazione è il primo strumento della relazione, ecco che viene facile rispondere sì a questa domanda.
Per raggiungere la pace è necessario comunicare.
Ed è necessario farlo in modo disarmato, limpido, schietto e valorizzando il contesto nel quale si vive. Non esiste pace senza comunicazione, perché non esiste pace senza relazione.

Ecco allora che, partendo dal tema della disabilità, siamo arrivati a parlare di pace.
Facile, perché in fondo la pace può essere definita anche come l’inclusione di tutte le diversità in un mondo fatto di diversità. Un controsenso, vero? Beh, il mondo, purtroppo, ne è pieno… Sta a noi cercare di eliminarne qualcuno.

Postilla (più o meno) infantile
C’è una canzone dello Zecchino d’Oro che mi è sempre piaciuta.
Melodia carina e un testo semplice ma creativo.
Scritta per bambini ma con un messaggio valido anche per gli adulti.
La canzone è Bianco con il giallo e dice:
Prendi una matita, gioca coi colori, non aver paura di metterli vicini,
di mischiarli tutti sotto un solo cielo come dei bambini all’uscita dall’asilo.
Prendi un foglio bianco e disegna il mondo con dei grandi prati e il mare sullo sfondo.
Non importa molto se non è rotondo, quello che è importante è la gente che ci sta.
Gente che sappia dare amore alla gente che amore non ne ha,
senza guardare mai il colore che la sua pelle ha.
Bianco con il giallo trova suo fratello, giallo con il nero ed è un amico vero,
verde con il viola vanno insieme a scuola, l’arancione e il blu che si danno già del tu.
Bianco contro il nero, il mondo resta a zero, azzurro contro il rosso cadono nel fosso,
blu senza marrone, il cuore è già in prigione e non c’è ragione che debba stare là.
I colori e la pace sono un binomio ormai consolidato, a partire dai cerchi olimpici, segno di unione dei cinque continenti, per finire con le bandiere della pace, apparse su tanti balconi qualche anno fa.
Tra le varie interpretazioni, a me piace sottolineare l’idea delle sfumature, come quel terreno di incontro tra i diversi colori, quel luogo dove il giallo e il blu, rimanendo loro stessi, producono il verde, nuovo colore nato dalla mescolanza tra i due.
Sfumature quindi come luogo indefinito, affascinante, stimolante che permette a ognuno di cambiare, pur rimanendo se stesso.
In questo luogo sono di casa tutte quelle realtà che pongono in modo esplicito la diversità come elemento di crescita culturale e sociale, come stimolo alla ricerca di senso e di vera inclusione. Anche le persone con disabilità, quindi, che attraverso l’esercizio dei propri diritti e il compimento dei doveri, si pongono come parte attiva della società, una sfumatura necessaria sulla tavolozza della vita.

Le cooperative sociali: un modello che l’Europa apprezza, ma stenta a diffondere

Oltre 7.000 cooperative sociali a fine 2005, di cui 1.700 nate dal 2001 in poi (il che fa ipotizzare oggi numeri ancor più alti), che impiegano 245.000 lavoratori stipendiati e producono un valore di quasi 6,4 miliardi di euro: i numeri della cooperazione sociale in Italia la rendono una entità economica e sociale di grande rilevanza, che però non trova riscontri paragonabili in alcuno Stato europeo. Molti paesi guardano con interesse a questa esperienza italiana, soprattutto come modalità di integrazione di lavoratori svantaggiati, ma la politica europea tende a riflettere e favorire le forme più diffuse, o quelle più diffuse in paesi più abili nell’attività di lobbying, valorizzando ben poco la cooperazione sociale come modello da condividere nel concreto.

Le caratteristiche di un modello
Secondo la legge 381/1991, “le cooperative sociali hanno lo scopo di perseguire l’interesse generale della comunità alla promozione umana e all’integrazione sociale dei cittadini attraverso la gestione di servizi socio-sanitari ed educativi e lo svolgimento di attività diverse […] finalizzate all’inserimento lavorativo di persone svantaggiate”. Più significativa appare la descrizione data in letteratura della “impresa sociale”, che si distingue tra gli attori dell’economia sociale per la marcata dimensione produttiva (mentre nelle forme associative l’attività economica è funzionale alla vocazione primaria di rappresentanza) e per l’elevata partecipazione degli stakeholders, ossia per una tendenziale gestione democratica (assente nell’impresa classica).
Quanto si ritrova questo modello nelle organizzazioni che gestiscono servizi socio-educativi o promuovono l’inserimento di lavoratori svantaggiati nei Paesi europei, e nelle politiche comunitarie? Può essere utile tenere a mente che le cooperative nascono storicamente a fini di mutualità tra i soci che le costituiscono – ad esempio, le cooperative di consumo o di credito sorte nel XIX secolo. Per le cooperative sociali la mutualità (che è quanto tutela anche la Costituzione Italiana) si estende giuridicamente all’intera comunità, ma per ciò stesso si ridefinisce nella sostanza; ne deriva che esse risultano un’anomalia nel movimento cooperativo tradizionale, avvicinandosi a organismi di diversa origine e orientamento, quali le associazioni benefiche (da questo deriva la contraddizione teorica per cui le cooperative sociali italiane sono di diritto sia “a mutualità prevalente” sia “organizzazioni non lucrative di utilità sociale”).
Se il concetto di cooperativa sociale è una (felice) anomalia, non stupisce che l’Italia ne sia la punta avanzata in Europa. L’unica altra nazione che a oggi presenta una realtà altamente sviluppata di impresa sociale risulta la Spagna, anche per la forte attenzione dello Stato al movimento cooperativo sociale, che a partire dal 1999 ha portato a una normativa di favore molto simile a quella italiana. Per lo stesso motivo, una nuova normativa specifica (limitata però all’inserimento lavorativo), un grande sviluppo si è riscontrato in Polonia dal 2006, con 140 cooperative sociali nate in pochi mesi. All’estremo opposto nella scala della rilevanza delle cooperative sociali stanno i paesi in cui le loro funzioni sono storicamente assegnate allo Stato, o a enti mutualistici in senso stretto: quest’ultimo è il caso della Germania, mentre l’esempio più evidente del primo sono i paesi scandinavi, dove però recenti dinamiche di riduzione del welfare state hanno aumentato l’interesse per il modello dell’impresa sociale. Altrove, il quadro è reso più complicato dal fatto che la forma associativa, a differenza che in Italia, consente il pieno svolgimento di attività di impresa: di conseguenza, è difficile dire se le associations sans but lucratif francesi e belghe, o le Instituições Particulares de Solidariedade Social portoghesi, siano effettivamente diverse dalle cooperative sociali, o se al di là di una questione nominale siano a esse assimilabili (tenuto comunque presente che la loro attività si concentra nell’erogazione di servizi più che nell’inserimento lavorativo).

Le difficoltà del tertium
Come si è visto, sembra esistere una correlazione tra il riconoscimento giuridico di vantaggi costitutivi e fiscali alle cooperative sociali e il loro sviluppo. Quanto tali agevolazioni promuovono uno sviluppo reale del movimento, e quanto soggetti diversi accedono a esso come pura conformazione di comodo? In breve: di tutte le cooperative sociali che nascono, quante sono vere? La questione declina in modo evidente un generale rapporto ambivalente che i “cooperatori sociali doc” vivono con la politica e il legislatore, di cui in Italia si è avuta la prova con il dibattito a cavallo dell’approvazione della legge sulle cooperative sociali, e delle norme attuative, nei primi anni ’90. Da un lato, infatti, chi costituisce imprese per erogare servizi o offrire opportunità lavorative a persone in situazione di svantaggio cercherà di vedere riconosciuto il proprio sforzo (al di là dei casi in cui tale riconoscimento diventa necessario, in contesti di mercato in cui non si potrebbe competere senza agevolazioni); dall’altro, ogni provvedimento di favore si tradurrà in norme generali che non potranno essere tagliate su misura della singola cooperativa esistente, né, una volta fissate, impedire ad altri operatori economici di adeguarsi formalmente a esse, per attingere ai medesimi benefici, senza condividere lo spirito del movimento. Lo stesso problema si pone quando si tratta di ridefinire, come vedremo, le quote minime di lavoratori svantaggiati in una cooperativa di inserimento, o quando occorre allargare la definizione di “lavoratore svantaggiato”. In sintesi, lo sviluppo della cooperazione sociale giustamente promosso dalla politica verrà da alcuni giudicato un suo traviamento – e d’altronde il rischio che la forma giuridica soffochi la sostanza sociale sarà sempre reale.
Una ambivalenza simile, e collegata a queste, attiene non alle norme, ma ai servizi concreti. Come ha notato Gianfranco Marocchi, presidente del consorzio Idee in Rete, l’impresa sociale, a partire dalla crisi dei sistemi di welfare europei negli anni ’70, è stata il cardine delle politiche di de-pubblicizzazione conservatrici (attuate peraltro anche da governi progressisti), ma al tempo stesso si pone come tutela dei ceti emarginati, a volte da queste stesse politiche. Di conseguenza, l’estensione del volume economico di attività delle cooperative sociali (e del loro ruolo di modello) può essere attribuita al ruolo di mero regolatore che si ritaglia l’attore pubblico, o anche all’assorbimento in un mercato pagato dagli utenti di servizi che erano in precedenza forniti gratuitamente, o a tariffa sociale – un processo che cozza con la funzione di rappresentanza degli interessi delle fasce deboli che le stesse cooperative sociali intendono svolgere.
Infine, e più in generale, l’interesse dell’impresa sociale come modello sta nel trovare una propria via tra l’economia (sempre meno sociale) di mercato e gli interventi puramente assistenzialistici; nella prassi concreta, però, questo obiettivo può tradursi in scelte che portano la cooperativa sociale “fuori di sé”. Ad esempio, almeno fino alla riforma del 1999, in Spagna alcune imprese sociali con maggiori prospettive di mercato tendevano a costituirsi come entità for profit, per non apparire all’esterno unità produttive di serie B, mentre le cooperative sociali di inserimento lavorativo erano viste dai loro lavoratori come un’occupazione temporanea in attesa del reinserimento nel mondo del lavoro “normale” – un’auto-percezione che presuppone un mondo ideale in cui le imprese tradizionali assorbono direttamente tutti i lavoratori svantaggiati, eliminando la stessa ragion d’essere della cooperativa sociale. Viceversa, nei Paesi Bassi diverse imprese sociali sono state assorbite verso una pura concorrenza, implicando l’esclusione sistematica dei lavoratori con competenze meno utili sul mercato e quindi l’annullamento, su opposte basi, del valore della cooperazione sociale.

I laboratori protetti e l’Unione Europea
Un caso esemplare della difficoltà della cooperazione sociale italiana nel farsi modello di riferimento, ma anche della complessità del quadro in cui essa si muove, riguarda le nuove norme comunitarie sugli aiuti pubblici ammessi per l’inserimento lavorativo di soggetti svantaggiati, inserite nel Regolamento UE n. 800 del 6 agosto 2008, noto anche come GBER (General Block Exemption Regulation). Il testo del GBER definisce “posto di lavoro protetto” quello in un’impresa nella quale almeno il 50% dei lavoratori è costituito da lavoratori disabili, con una terminologia che richiama espressamente i “laboratori protetti”, di origine più assistenziale che imprenditoriale, diffusi in molti paesi europei. Con una analoga logica di separazione, il GBER include tra i “lavoratori svantaggiati” un’ampia platea di categorie (poco scolarizzati, ultra50enni, membri di minoranze linguistiche, e anche sottorappresentati su base di genere nel proprio settore produttivo), mentre i “lavoratori disabili” sono trattati a parte, seppure con un regime economicamente più elastico; le altre tipologie di lavoratori svantaggiati riconosciute dalla legislazione italiana, come tossicodipendenti, alcolisti, detenuti ammessi a misure alternative, non vengono citate (se non indirettamente, in quanto disoccupati di lungo periodo).
Il mondo della cooperazione sociale italiana (e non solo: sulla stessa linea il commento al Regolamento di CEPES – Confederación Empresarial Española de la Economía Social) non può riconoscersi in questa formulazione, che i bandi nazionali e regionali per contributi allo sviluppo delle imprese sociali devono oggi rispettare. Sergio Della Valle, presidente della cooperativa sociale “L’Agorà” di Pordenone, trova nel GBER la conferma che “in Europa la legislazione che si occupa di inclusione lavorativa di fasce deboli richiama altre esperienze, in particolare quella francese e tedesca”. Per i lavoratori con disabilità, invece, Dalla Valle nota che la cooperazione sociale riesce a dare concretezza al recente utilizzo del termine “inclusione” al posto di “inserimento”: “la costruzione di percorsi in cui la persona svantaggiata può arrivare ad essere protagonista del proprio lavoro, quello che già da tempo è definito come il passaggio dalla relazione di aiuto alla relazione di scambio”. Fabrizio Valencic, team manager di un progetto Italia-Slovenia per lo sviluppo di imprese sociali transnazionali, individua il valore aggiunto della cooperazione sociale rispetto ai laboratori protetti nella sostenibilità: “l’impresa sociale italiana in forma di cooperativa sociale garantisce inserimenti lavorativi ‘reali’ di soggetti svantaggiati, con costi di sostegno (contributi statali) ridicoli e trasformando costi di welfare in risorse fiscali per la comunità”.
D’altro canto, le organizzazioni internazionali che rappresentano i laboratori protetti (ma anche diverse forme di impiego di persone disabili) si dichiarano soddisfatte della nuova normativa. In particolare, Workability Europe così commenta, nel marzo 2008, la quota minima di lavoratori per essere riconosciuti “posto di lavoro protetto” inserita nella terza bozza del GBER (poi approvata): “La soglia del 50% rappresenta adeguatamente la realtà delle imprese protette in Europa oggi. Workability Europe sconsiglierebbe di rivedere questa soglia al ribasso, poiché questo porterebbe il concetto di ‘impresa protetta’ più vicino a quanto è noto come ‘impresa sociale’ – un’entità con struttura, mission e statuto del tutto differenti”. E tuttavia, in altra parte del medesimo commento, si rileva che “è stata usata una terminologia positiva: ai laboratori/aziende protette ci si riferisce come ‘imprese’, il che corrisponde al loro ruolo di mercato oggi”. Diventa quindi difficile giudicare se a contrapporsi, nell’azione di lobbying comunitaria che ha portato alla stesura finale del GBER (come in quelle che verranno), siano due modelli culturalmente in antitesi o due posizioni basate sugli attuali assetti giuridici nazionali, la cui armonizzazione in sede europea, come si è già argomentato, non potrà mai lasciare del tutto appagate le realtà esistenti. Rimane comunque paradossale che, dopo quasi trent’anni di progetti transnazionali in cui la cooperazione sociale italiana è stata conosciuta e apprezzata, l’Unione Europea rimanga legata a opzioni di carattere più assistenziale – e meno in linea con gli obiettivi di Lisbona da essa stessa proposti.

La crisi come opportunità
La riduzione dell’occupazione in corso in questi mesi come effetto della crisi finanziaria, abbinata ai tagli di spesa pubblica e alla riduzione delle commesse private, sembrerebbe una mannaia sotto cui molte belle parole sul modello della cooperazione sociale rischiano di cadere. Eppure, gli operatori interpellati sembrano ottimisti, trovando nell’impasse delle imprese for profit una possibile opportunità di rilancio di altri modelli su scala europea. A detta di Valencic, “fino a oggi ognuno si è tenuto stretto il proprio sistema più o meno assistenziale, più o meno costoso, ma l’attuale situazione economica (per la sua natura non congiunturale) può rappresentare un’opportunità di sviluppo per l’economia sociale, per le sue caratteristiche di attenzione alla persona, alla comunità, al territorio, all’ambiente”. La cooperazione sociale può offrire un modello anche per nuove fasce di emarginazione sociale, purché si faccia trovare pronta al processo, di cui già diversi anni fa Carlo Borzaga riscontrava l’ineluttabilità, di estensione del perimetro dei lavoratori svantaggiati: “la sfida” afferma Della Valle “è di riuscire a esportare un modello di inclusione lavorativa come il nostro, che ha capacità di offrire alle persone progetti che integrano lavoro, formazione, partecipazione consapevole all’impresa, inserimento sociale”.
Per il successo di questa campagna, però, all’azione della classe politica italiana in Europa deve affiancarsi un’autopromozione del mondo della cooperazione sociale, che stenta a decollare a causa delle piccole dimensioni delle imprese e dei loro ristretti margini operativi, che impediscono adeguati investimenti in comunicazione e scambi internazionali. Inoltre, la prassi delle cooperative dovrà tenere fede al modello valoriale che esse propongono, evitando di incorrere nelle distorsioni cui le espone, come abbiamo in parte visto, la loro natura di “terza via” tra impresa tradizionale e servizio a gestione pubblica. “Autogestione, una testa un voto, diversità come risorsa, lavoro di rete e relazioni con il territorio” conclude Della Valle “sono aspetti, valori, che la cooperazione sociale italiana deve poter far arrivare in Europa”.

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