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Autore: admin

Giorno 2 – la voce dei protagonisti

Conversazione con i bambini della IV A
della Scuola Primaria “ A. Venturi” di Monteveglio (BO)

Di cosa si è parlato in questo laboratorio?

Angelica: Del pane Msemmen e per conoscerci.

Martha: Serviva a far capire che non tutte le persone sono uguali.

Sofia: Abbiamo imparato a conoscerci di più e abbiamo capito che per fare questo pane abbiamo mille difficoltà e che
Stefania ne ha una in più.

Mihaela: Ci hanno insegnato che tutti abbiamo bisogno di qualcuno ad esempio che chi è in carrozzina ha bisogno di qualcuno che lo spinga.

Irene: Abbiamo imparato gli ingredienti in arabo del Msemmem.

Jacopo: Ognuno sa fare cose diverse, non tutti siamo uguali e che ci vuole sempre l’aiuto degli altri per fare le cose.

Giorgia: Io non sarei riuscita a fare il Msemmen da sola, anche a casa ci ho dovuto pensare per rifarlo.

Michele: Nessuno nel mondo è normale, per chi viene dal Marocco noi forse non siamo normali perché non abbiamo il velo
in testa. Quindi la normalità non esiste.

Martina: Se uno non sa fare una cosa e l’altro sì, questo lo può aiutare e viceversa.

Diana: Per saper fare le cose non serve solo sapere gli ingredienti, ma serve anche ascoltare e le cose fatte bene sono quelle fatte con il cuore.

Giulia: Ho imparato che noi non siamo tutti uguali e che noi siamo dei tipi di pane, ad esempio c’è il Msemmen e il pane che c’è in Italia. Io sarei un pane salato.

Francesca: Questo laboratorio parlava della diversità di tutti ed è meglio non essere tutti uguali perché ognuno sa fare una cosa meglio e può aiutare un altro che non lo sa.

Manuel: La mia “macchia” di inchiostro è stata quella di aver conosciuto queste persone.

David: Se fossimo tutti uguali nessuno
imparerebbe niente. La cosa più bella di questo laboratorio è stato che ci sono state Lorella, Stefania e le signore del Marocco. 

Meno sostegno, dibattito aperto – Il Messaggero di Sant’Antonio, Aprile 2011

L’articolo di gennaio dal titolo "Meno sostegno più inclusione?" (del quale potete leggere il seguito scritto direttamente da Claudia Trombetta, la mamma dalla cui vicenda l’articolo partiva, sul sito http://www.educationduepuntozero.it) ha dato avvio a uno scambio di idee molto interessante – animato, come prevedibile, da molti insegnanti di sostegno, ma non solo – che ci permette di individuare ambiti tematici e criticità solo sfiorati dal mio scritto. Subito un aspetto importante: gli insegnanti che mi hanno risposto sottolineano spesso l’importanza, il «bisogno» della presenza dell’alunno disabile in classe, come risorsa per tutti (e non come generatore di problemi e difficoltà aggiuntive).

Un elemento critico che emerge da più lettere riguarda, invece, la qualità delle condizioni lavorative dell’insegnante, riconoscendo la validità della questione centrale che avevo messo in evidenza. Grazia scrive: «Per l’esperienza maturata negli ultimi dieci anni di carriera mi sono trovata a domandarmi: ai fini dell’inclusione, “serve” la mia presenza? E ancor di più per gli alunni gravi, serve l’insegnante di sostegno in una scuola impreparata ad accoglierli? Nei casi più lievi, invece, serve per “fare la differenza”? Forse e involontariamente ho aperto un capitolo triste e doloroso: nella scuola siamo tutti numeri, l’alunno e il docente, e l’umanità è affidata al cuore di ciascuno. Nobile è la legge 104, ma da rivedere».
 
Altri auspicano uno scambio costante di idee ed esperienze per poter definire meglio parametri quanto più condivisi, in modo da capire chi e per quanto tempo (o in che ordine di studi) possa fare a meno dell’insegnante di sostegno, pur avvertendo che in ultima istanza la decisione deve spettare alla famiglia e che in ogni caso non è possibile una generalizzazione. Altri ancora ritengono non problematico il discorso se riferito alla scuola dell’infanzia, suggerendo però, come fa Ausilia, che «l’insegnante specializzato, essendo competente e operando “in punta di piedi” nel contesto classe, è in grado di rilevare precocemente nel bambino la mancanza di prerequisiti fondamentali all’apprendimento. È poi determinante che l’insegnante di sostegno non sia percepito dagli alunni come “l’insegnante del bambino con problemi”, bensì “l’insegnante di tutti gli alunni”, come gli altri docenti. Ciò dipende dalla professionalità – oltre che dal buonsenso – di tutti i colleghi, che devono sempre ricoprire all’interno della classe ruoli intercambiabili».
 
Da accogliere e meditare anche gli interventi in più deciso disaccordo. Rita, ad esempio, si mostra perplessa: «Se con il termine inclusione intendiamo la partecipazione attiva alla vita scolastica dell’alunno con bisogni speciali, come si può affermare che sia molto meglio senza l’insegnante di sostegno? L’approccio inclusivo presuppone un docente competente che aiuti l’alunno ad acquisire quelle abilità fondamentali per un’interazione corretta con ambienti e compagni. L’età della scuola dell’infanzia è quella in cui si interviene con maggior efficacia nei risultati. Sono una docente di sostegno, non vivo in simbiosi con l’alunno, ma credo nel mio lavoro. Apprezzo l’articolo, ma non generalizziamo».
Molteplici voci, molteplici aspetti, numerosi (e doverosi) piani di lettura. Invito a proseguire questo confronto, data la qualità delle risposte e degli spunti arrivati sino ad ora, a testimonianza che l’azione della signora Trombetta non è una pretesa slegata dalla realtà; piuttosto è un tentativo mosso dall’osservazione, dalla conoscenza di sua figlia, un tentativo che ci invita ad approfondire le questioni e a non considerarle date una volta per tutte. Scrivete a claudio@accaparlante.it o sul mio profilo di Facebook.
 

 

Claudio Imprudente 
 

Un vigile non fa primavera – Superabile, Aprile 2011 – 1

A volte le cronache locali riservano notizie "piccole", ma non prive di ambiguità e di certo utili a svolgere discorsi di portata più generale. Non mi riferisco alla cronaca nera o rosa, ma a notizie di difficile collocazione, che per facilità potremmo dire di costume. Non ci spaventi la parola, se con essa indichiamo un campo che riguarda i rapporti tra le persone e tra esse e le istituzioni, le strutture, i cambiamenti che occorrono in un dato arco di tempo. A metà febbraio u.s. il "Corriere di Rieti" ha pubblicato un articolo con il quale informava che il Comune si sarebbe dotato in tempi brevi di un "vigile in carrozzina". Lì per lì ho pensato che si trattasse effettivamente di un apertura del corpo della polizia alla possibilità che persone disabili contribuiscano in qualche modo da "poliziotti" alle attività proprie dei vigili urbani (disabili in generale, anche perché "in carrozzina", il più delle volte, è una sineddoche, un po’ come il contrassegno per le auto, che è lo stesso per tutti, anche per chi ha una disabilità non motoria). Non potendo però credere a questa prima, precipitosa interpretazione, ho continuato la lettura per scoprire che, in realtà, si trattava di un progetto già presente in altre città, rispondente, certo, ad un problema diffuso (ricordo anche un recente progetto, "Multe Morali", del Centro Documentazione Handicap di Campobasso, anche se meno strutturato ed istituzionale di quello rietino), ma con caratteristiche non innovative.

In sostanza, "l’iniziativa impiegherà sei unità operative (composte da persone con disabilità, N.d.R.), che con il tempo potrebbero diventare di più, il cui compito sarà quello di segnalare alla sala operativa della polizia municipale eventuali infrazioni da parte degli automobilisti, legate alle barriere architettoniche. I vigili in carrozzina (…) avranno il compito di segnalare l’uso improprio del tagliando per i disabili rilasciato per la sosta o l’accesso alla zona a traffico limitato, ma anche l’occupazione dei posti auto riservati ai disabili da parte di chi non ne ha titolo o le soste che bloccano gli scivoli rendendo impossibile il passaggio delle carrozzine. Tutte situazioni che si verificano di frequente e che i vigili impiegati nel progetto – che non avranno comunque potere sanzionatorio – avranno premura di segnalare affinché la municipale intervenga per rimuoverle".
Insomma, una sorta di ronda, ma senza la sfumatura pericolosa che il termine ha assunto in Italia negli ultimi anni. Ed un modo per dare lavoro a persone che presumibilmente fanno difficoltà ad accedere ad una professione. Infatti, se ho ben capito, il Comune cerca risorse non solo per dotare i futuri vigili di carrozzine speciali con il logo del municipio, ma anche per garantire loro un reddito. Come tutto quello che va in direzione di una effettiva realizzazione dei diritti esigibili, la notizia in sé è da accogliere positivamente.

Anche se forse sarebbe più interessante allargare il raggio di influenza di questi "vigili senza portafoglio". Mi spiego meglio. Sarebbe interessante se potessero segnalare anche tutte quelle occasioni in cui rinvengano la presenza di barriere architettoniche laddove la legge preveda che esse non debbano esistere. Questo non solo perché, al di là di quelle infrazioni e violazioni della legge che dipendono dall’insensibilità altrui, come quella di chi posteggia in un parcheggio riservato senza averne il diritto, nelle nostre città sono numerosissimi i casi in cui ci si imbatte in barriere di tipo architettonico-strutturale, ma anche perché un compito di questo genere richiederebbe una formazione preventiva più approfondita e andrebbe nella direzione di creare dei lavoratori disabili con competenze più ampie e specialistiche, come quelle richieste a qualsiasi lavoratore in relazione al suo ambito professionale.

A questo, però, va aggiunta una considerazione, ed è qui che risiede l’ambiguità cui accennavo sopra. Quando si esaspera la pratica sanzionatoria, o si avverte la necessità di potenziarla, beh, significa che le cose non vanno proprio nel verso giusto. Mi viene in mente la questione delle "quote rosa", contro le quali è difficile esprimersi in una nazione come la nostra (che evidentemente ha bisogno di imposizioni per avanzare, smarcarsi da un assetto patriarcale non solo anacronistico e offensivo, ma controproducente sotto tutti i punti di vista, anche economico), ma che allo stesso tempo provocano perplessità all’interno dello stesso "universo femminile" ("è giusto che per legge si preveda la presenza del 50% di donne all’interno di una giunta comunale?").

Quello che voglio dire è che quanto descritto sopra si svolge in un’ottica emergenziale, riparatoria, che non è detto porti ad un cambiamento strutturale, politico e culturale. C’è un divario enorme tra legge e cultura e questo dato non va rimosso, per quanto, va da sé, le leggi di cui una nazione si dota riflettano la cultura della nazione stessa. Ma senza incidere nella dimensione profonda, culturale, identitaria, antropologica, se vogliamo, ogni cambiamento rischia di essere momentaneo, provvisorio, superficiale. Non dimentichiamo che, in particolare per chi opera quotidianamente in questo settore, l’orizzonte deve essere quello; pena, appunto, la volatilità di qualsiasi conquista e l’incertezza di qualsiasi futuro.

Scrivete, come sempre, a claudio@accaparlante.it o cercate il mio profilo su Facebook.

Claudio Imprudente

Giorno 2 – il diario di Monteveglio

 

L’allegro gruppetto del calamaio è tornato a Monteveglio per terminare il percorso, con la simpatica quarta classe che avevamo conosciuto per la prima volta la scorsa settimana.
Appena arrivati da loro, con l’aiuto di Norah e Sadia, abbiamo preparato il Msemmen , il loro pane arabo.
Mentre Norah impastava il pane, i ragazzi ci hanno fatto delle domande personali sulla nostra vita quotidiana e in particolare sui nostri deficit.
Rispetto al primo incontro i ragazzi erano meno imbarazzati  grazie ad una conoscenza più approfondita, erano incuriositi e si sono sentiti liberi di farci delle domande a cui noi serenamente abbiamo risposto.
Vista la loro partecipazione attiva abbiamo pensato con i nostri colleghi Roberto e Emanuela di proporre la “scommessa dell’aiuto” che consiste nel far capire ai bambini che tutti hanno  bisogno di mille persone nella loro vita, ad esempio di qualcuno che faccia il pane, chi fabbrica i vestiti, etc… noi invece abbiamo bisogno di mille persone, come tutti, più una che ci aiuti nelle cose che non riusciamo a fare.
Intanto Norah aveva finito di impastare e a questo punto ha formato tante palline per farle riposare qualche minuto.
Dopodichè ogni pallina l’ha lavorata formando dei cerchi sottilissimi che a sua volta venivano ripiegati come un fazzoletto e poi li ha messi a cuocere in una padella sopra ad una piastra. A fine cottura, due minuti circa, abbiamo assaggiato questo tipo di pane con sopra un po’ di nutella.
Era davvero squisito!!!
I ragazzi hanno notato che noi riuscivamo a mangiare da sole, nonostante i nostri deficit motori, abbiamo dimostrato di avere una certa autonomia.
Noi tutti eravamo molto dispiaciuti perché stavamo finendo il percorso e così ci siamo scambiati reciprocamente le mail, così possiamo tenerci in contatto.
Questo percorso è stato interessante e soprattutto è stata un’esperienza nuova per noi perché abbiamo collaborato con Norah e Sadia dell’Associazione Mosaico pari opportunità. Abbiamo imparato parole nuove in lingua araba, abbiamo imparato a fare un tipo di pane tradizionale del Marocco, abbiamo soprattutto avuto modo di stare in piacevole compagnia e la possibilità di scambiare vissuti e esperienze diverse.
 

 

 

Reinventare il mondo a cavallo: Don Chisciotte tra l’identità spagnola e gli squarci di modernità

È uno dei personaggi immortali della letteratura mondiale, e l’opera che lo ritrae è stata definita dai critici il primo romanzo moderno. Don Chisciotte è una figura la cui comprensione piena ancor oggi sfida i lettori, e una delle ragioni è che il “nobile fantasioso” si trova a cavallo di due dimensioni apparentemente inconciliabili. Da un lato, il personaggio di Miguel de Cervantes raffigura l’essenza della Spagna, o a voler essere precisi della Castiglia, in un’identità tra letteratura e natura (di un popolo) che forse nessuna altra nazione può vantare – chi di voi si sente rappresentato da Renzo Tramaglino? D’altro canto, però, la follia di Don Chisciotte esprime qualcosa di universale, che però sfugge continuamente alla descrizione, in un libro che, come ha scritto Harold Bloom, “è uno specchio che riflette i propri lettori”.

Un eroe spagnolo
Una polemica ricorrente nel dibattito culturale spagnolo è riassumibile nell’opposizione “Spagna eterna” – “Spagna composita”. Uno Stato composto di 17 regioni autonome e fiere della propria diversità, ma anche l’unico Paese europeo in cui, almeno fino a qualche anno fa, si insegnava a scuola ai bambini come le popolazioni preromane della penisola fossero già “spagnoli”. La soluzione più spesso prospettata a questo dilemma è che l’identità spagnola si costruisca nella Reconquista, la fase storica che si estende dall’VIII al XV secolo in cui la penisola iberica è segnata dalla coesistenza, tutt’altro che pacifica, di regni cristiani e musulmani, fino alla cacciata dei mori da Granada nel 1492.
La Spagna, in questa prospettiva, si identifica con una sorte che per otto secoli la vede difendere in armi l’Europa dall’avanzata islamica. Il simbolo dell’essere spagnoli diventa così il cavaliere cristiano, senza paura e animato da una fede sconfinata – un’identità in cui l’ascesi religiosa, che pure troverà le sue vette sempre in Spagna nei secoli a venire, è più che temperata da una grande fiducia nelle capacità dell’uomo. Un’icona della cultura spagnola è del resto il Cid Campeador, un mercenario realmente vissuto nel XI secolo che nella leggenda, mosso dalla fede nel re e in Dio (e molto meno dai denari, rispetto alla ricostruzione storica) diviene l’eroe capace di sopportare ogni umiliazione e di riconquistare alla cristianità Valencia.
Partendo da questo contesto culturale, Cervantes costruisce un cavaliere che può rinverdire i fasti della sua tradizione solo in un mondo da lui stesso immaginato, ma che in esso fa sfoggio degli stessi valori di quella tradizione, dall’abnegazione al senso della giustizia – valori che Don Chisciotte tenta ripetutamente di instillare nel suo scudiero Sancio Panza, attraverso ragionamenti il cui buon senso delinea un netto contrasto, a volte espressamente marcato, rispetto all’illusione in cui vive. Al tempo stesso, la follia di Don Chisciotte è filtrata dai secoli di letteratura cavalleresca che lui stesso ha divorato, e anche per questo il suo movimento non è guidato da uno scopo finale preciso come poteva essere, nella storia, la difesa e la cacciata dei Saraceni, quanto piuttosto dalla necessità di trovare nuove avventure in cui misurare se stesso. Ariosto non è passato invano, anche se in Cervantes il cavaliere non cerca qualcosa che ha perso e desidera ritrovare (come Orlando Angelica, o Ferraù il suo elmo), ma trova nel vasto orizzonte di Castiglia e nei suoi astuti e curiosi abitanti gli elementi cui, sia pure nella trasfigurazione immaginaria, è indissolubilmente legato.
Per questi motivi Don Chisciotte riesce a rappresentare quant’altri (reali o fittizi) mai la storia e l’identità del proprio popolo, filtrandone la tradizione in una rielaborazione a molti livelli che tuttavia si compone fluida nell’ironia bonaria del suo narratore.

La rivincita della grotta
Fosse tutto qui, il Chisciotte sarebbe la riuscitissima espressione di uno spirito nazionale: un risultato certo eccezionale, ma senza l’attitudine a essere un classico e ancor meno a segnare uno spartiacque nella storia del romanzo mondiale. Per capirne l’universalità dobbiamo quindi guardare alla follia di Don Chisciotte, alla sua diversità che solo la fine può eliminare (solo sul letto di morte, e a prezzo di un rinnegamento di identità, riconoscerà: “Poc’anzi fui pazzo, ed ora sono savio, fui don Chisciotte della Mancia, ed ora non sono altro che Alfonso Chisciano il Buono”).
Nelle due parti del libro, separate da dieci anni di distanza, la relazione dei personaggi con Don Chisciotte varia sensibilmente. Nella prima parte si alternano lo stupore di chi ne incrocia casualmente la via e il tentativo di ricondurlo al senno dei suoi amici, il curato e il barbiere (il medico e l’infermiere?), che arrivano a bruciarne i libri di cavalleria per tentare, invano, di eliminare la causa della sua mania.
Nella seconda parte del libro, invece, la follia di Chisciotte è un dato accettato, anche perché nota a tutti coloro che hanno letto il primo volume delle sue vicende (anche in questo surreale sfoggio di meta-letteratura sta la modernità del testo). Di qui le burle che molti ordiscono ai danni del cavaliere, mettendolo volutamente in situazioni in cui il contrasto tra realtà e fissazione illusoria genera la comicità, che trovano il culmine nelle complesse messe in scena allestite dal Duca e dalla Duchessa, che ospitano Don Chisciotte a questo solo scopo. Anche il curato e il barbiere scendono sul piano della follia, e per riportare a casa l’amico fanno sì che il baccelliere Sansone Carrasco lo sfidi a duello, fingendosi “Cavaliere degli Specchi” e facendogli promettere che se perderà rinuncerà alla cavalleria errante (ma solo il secondo duello riuscirà nell’intento). La pazzia di Chisciotte, oggetto di derisione, di fatto domina il mondo, e come tutte le signorie finisce per generare incongruenze con il reale – tutta questa parte del libro è infatti segnata dalla percezione di Don Chisciotte di essere “incantato”, dopo che Sancio gli ha spacciato per Dulcinea una contadina trovata per caso fuori dal Toboso.
Insomma, proprio quando il mondo pare divenuto il palcoscenico per le imprese del cavaliere, lui inizia a notare le sfrangiature dei fondali. Anche per questo l’episodio chiave risulta quello della grotta di Montesinos, quando Don Chisciotte decide di calarsi in un antro in cui nessuno ha mai osato scendere. Al suo ritorno, il suo mirabolante racconto del palazzo incantato e del compito, che gli compete, di liberarlo dalla magia, non può essere contestato da Sancio, e nemmeno da Cervantes, il quale, pur marcando le distanze dall’esposizione del cavaliere (“stupefacenti cose che per la loro assurdità e enormità fanno sì che quest’avventura sia ritenuta apocrifa”), si guarda bene dal rivelare cosa sia realmente avvenuto nella grotta. Ritorna perciò il contrasto apparentemente insanabile che Sancio così esprime: “Come mai può egli darsi che un uomo che sa dire tante e sì buone cose come quelle che ha ora dette il mio padrone, vada poi raccontando di aver veduti quegl’impossibili spropositi della grotta di Montesinos?”
La monomania di Don Chisciotte emerge qui come quello che è sempre stata: il tentativo di dare un ordine al mondo – appunto, un ordine e uno solo, che quando si allinea alla sapienza del mondo appare buon senso, mentre quando se ne distacca risulta pazzia. Quando, nell’incontro con la falsa Dulcinea, si aprono crepe nell’ordine della “cavalleria errante”, la grotta offre l’occasione per instaurare il nuovo ordine dell’“incantamento”, perfettamente coerente nella letteratura cavalleresca con il primo, e che segnerà tutte le avventure seguenti (e le successive canzonature). Ma l’ambientazione dell’episodio non può che richiamare alla mente, seppure con una ambigua inversione, uno dei testi fondativi della civiltà occidentale: il mito della caverna di Platone, e in particolare l’esito secondo cui l’uomo che guarda fuori dalla caverna sarà deriso e minacciato dai compagni quando tenterà di convincerli a uscirne per vedere “lo splendore del vero”, e tuttavia non potrà più limitarsi alla comprensione delle ombre. Il rischio che il cavaliere della Mancia corre più volte di essere pestato a morte da coloro con cui viene a contatto sembrerebbe la versione picaresca di questo eterno contrasto tra chi guarda lontano e chi riesce a guardarsi solo le punte di piedi troppo piantati sulla terra.

Romance e romanticismo
La lettura romantica del Don Chisciotte lo interpretò come un eroe in grado di riscattare la mediocrità del mondo in cui vive, fatto di locandieri avidi e contadine volgari, tramite la propria immaginazione che rimanda ad alti ideali (mentre Sancio, in contrapposizione, rappresentava il simbolo della bassezza). La pazzia, nella mentalità romantica, è del resto il grimaldello con cui superare l’esistente e dunque il sale del vero artista, che attraverso la propria irrazionalità marca la distanza dal mondo borghese in cui è condannato a vivere.
La critica più recente, a partire da Miguel de Unamuno, ha ampiamente rivisto questa lettura schematica del capolavoro di Cervantes, ma qualche elemento ne va forse conservato. In senso più moderno, il fascino di Don Chisciotte sta nella sua capacità, di fronte al senso di insoddisfazione per una vita inerte da piccolo nobile di campagna, di costruire una terza via tra il cambiare il mondo e l’accettarlo così com’è: ricostruire il mondo con la propria fantasia, accettando di giocare fino in fondo il proprio ruolo in quel mondo. In un senso ancor più moderno, d’altronde, il testo di Cervantes segna la rottura del rapporto della letteratura con la realtà e la frantumazione dei punti di vista (così Michel Foucault): se è così, ha ancora senso parlare di “mondo”, e di “saper stare al mondo” come discrimine tra la normalità e la follia? A 400 anni dalla sua stesura, il discorso sulla diversità, la follia e la realtà di Don Chisciotte della Mancia è non solo attualissimo, ma ancora in larga parte da scrivere.

Ingresso Libero

L’inclusione degli studenti universitari con disabilità non può limitarsi solo all’accesso alla formazione universitaria formale; uno studente disabile deve anche vivere l’esperienza universitaria in maniera completa, avendo come riferimento una più ampia inclusione sociale. Ecco allora che è venuto spontaneo pensare di rilevare l’accessibilità dei luoghi informali, quelli cioè frequentati dagli studenti universitari al di fuori delle ore di lezione, quelli che definiscono cioè il vissuto di relazioni in un tessuto urbano.

La cittadella universitaria è stata il nostro punto di partenza. Abbiamo cominciato con il ragionare sulla tipologia dei luoghi da rilevare (sale studio, locali per i pranzi e locali per le uscite serali) e sull’area entro cui svolgere il rilievo; poi siamo passati a costruire una griglia di rilevazione per raccogliere il parere degli studenti universitari. Abbiamo realizzato le interviste intercettando gli studenti per strada, nella zona universitaria; quindi, una volta raccolte le informazioni, si é proceduto con il rilevare i locali, divisi per zona e per tipologia (la logica discriminante era verificare se quelli già frequentati da tutti sono accessibili e in che modo alle persone con disabilità).

Precisiamo che non siamo finanziati in alcun modo dai locali che rileviamo e che, se in alcune schede i dati non sono completi, questo dipende dall’indisponibilità dei gestori a farci portare a termine il lavoro.

In seguito, abbiamo elaborato i dati e proceduto a una costruzione di una base dati, da diffondere principalmente via web.
Attenzione però a liquidare il tutto come una “lodevole” iniziativa per le persone con disabilità; prima di altro il progetto ha potuto verificare la risposta “culturale” che gli esercenti, gli studenti e i comuni cittadini bolognesi o che abitano Bologna hanno dato. Di fatto, Ingresso Libero è anche un importante termometro del livello di attenzione alle esigenze di ogni cittadino, con o senza disabilità.
Intento del progetto, quindi, è principalmente quello di fornire informazioni sull’attività e alle caratteristiche dei luoghi rilevati (siano essi bar, negozi, chiese, musei…); in aggiunta è prevista la raccolta di dati "quantitativi" o, almeno, descrittivi della struttura.
Per questo parliamo di fruibilità, da intendersi in senso più esteso rispetto all’accessibilità vera e propria (ovvero non legata soltanto alle caratteristiche strutturali e architettoniche degli ambienti).

Le prospettive di sviluppo
•    Implementazione del sito che potrebbe fornire ulteriori importanti opportunità di scambio e integrazione soprattutto alle persone con disabilità. Integrare le informazioni pubblicate con segnalazioni fornite da altri studenti o cittadini con disabilità o anche da semplici cittadini universitari e non, che maturino “un occhio” più attento alla fruibilità “per tutti” dei locali, rappresenterebbe un importante segnale per la reale inclusione di tutti i cittadini.
•    Allargare il rilievo ad altre zone della città e ad altri tipi di locali: non è necessario restare legati alle zone o alle abitudini strettamente universitarie poiché gli studenti vivono la città e fruiscono di tutti i servizi rivolti ai cittadini; in questo modo, il lavoro potrebbe essere utile a un target più ampio.
•    Ampliamento del gruppo di lavoro ad altre persone con disabilità (non solo studenti), in questo modo si otterrebbero diversi risultati: allargare la rete di relazioni, offrendo alle persone coinvolte (con disabilità e non) la condivisione di un obiettivo comune; la possibilità di fare un lavoro più ampio e complesso e il senso del farlo insieme; stabilizzare il lavoro dandogli continuità e maggiore visibilità.
•    Dare al lavoro una rilevanza cittadina maggiore, anche attraverso un allargamento del partenariato.

Giorno 1 – la voce dei protagonisti di Monteveglio

La parola ai bambini

Sofia: A me è piaciuto molto perché impariamo delle culture nuove e il Marocco non l’ho mai visto.
Massi: E’ stato bello perché ho imparato un po’ l’arabo.
David: E’ stato bellissimo perché ho conosciuto persone nuove e mi sembra che le lingue un po’ si assomigliano e mi è piaciuto molto.
Mihaela. Mi è piaciuto imparare a pronunciare un po’ le parole arabe.
Gaia: Mi sono divertita per le parole nuove di un altro paese e perché c’erano i nostri compagni che parlavano nelle loro lingue.
Alice: Mi piace perché ci insegneranno a fare un pane che non conosciamo.
Giorgia: Mi è piaciuto perché le due signore hanno scritto nella loro lingue e perché Stefania e Lorella parlavano nel loro modo e noi abbiamo imparato a capirle.
Angelica: Mi è piaciuto perché ho imparato la parola Msemmen.
Manuel: Questo laboratorio mi è piaciuto perché ho visto le parole nuove e anche come si scrivevano.
Martina . Mi è piaciuto perché ho anche imparato delle cose nuove sui miei compagni
Francesca: Mi è piaciuto perché ho sia imparato qualcosa sui miei compagni che delle cose nuove.
Diana: Mi è piaciuto conoscere delle persone nuove e mi è piaciuto quando Stefania faceva la radio e noi dovevamo capirla.

Perché secondo voi questo laboratorio si chiama Calamaio?

Francesca: Perché Roberto ha detto che lascia delle macchie
Giulia: All’inizio mi sono chiesta perché non sono venute solo Sadia e Nora ma non so ancora la risposta.
Morgan: Secondo me perché le due signore non sanno bene l’italiano e avevano bisogno di qualcuno che lo sapesse.
Martha: Secondo me anche loro vogliono imparare come si fa il pane
Francesca:Io ero nel quadrato e ho visto Paola che accoglieva altre persone. Forse ognuno di loro sa una cosa diversa.
Sofia: A me ha stupito che Stefania giocasse a calcetto
Martina: Abbiamo anche imparato a conoscerci.

Giorno 1 – il diario di Monteveglio

Martedì 15 aprile 2011

di Stefania Mimmi

Il simpatico gruppetto del Calamaio rappresentato da Roberto, Emanuela, Stefania e Lorella ha deciso ieri mattina, per cambiare un po’ aria, di recarsi a Monteveglio per iniziare un nuovo progetto in collaborazione con Norah e Sadia che sono delle donne arabe del Semenzaio un progetto della Commissione Mosaico Pari Opportunità d’Insieme, per imparare e insegnare reciprocamente qualcosa di nuovo ad una classe 4° elementare di bambini molto svegli.
Mi sono accorta che erano recettivi dalle prime parole che ho detto, perchè di solito quando io parlo, se il mio interlocutore non è subito attento, non mi capisce facilmente. Di solito, inizialmente, parlo ‘arabo’ per chi non mi conosce quindi ieri mi sentivo nel mio ambiente!!!
L’accoglienza da parte della classe è stata buona, in un primo momento ho notato da parte dei bambini un po’ di insicurezza perché forse non ci conoscevano. Dopo invece, grazie anche al gioco di presentazione che abbiamo fatto, con le carte di identità i ragazzi hanno iniziato a cercare un modo creativo per entrare in relazione con noi.
Dopo una piccola conoscenza siamo entrati nel vivo dell’attività usando una lavagna luminosa dove, con un pennarello, Sadia e Norah hanno scritto le parole in arabo degli ingredienti della ricetta di un tipo di pane arabo, parole quali: “acqua”, “olio”, “farina”, “sale” e “burro” che sono gli elementi essenziali per la ricetta del “MSEMMEN”.
Sull’onda dell’entusiasmo alcuni ragazzi, di diversa nazionalità, hanno detto e scritto come era la parola “pane” nella loro lingua, cioè in rumeno, in cecoslovacco…
Il mio ruolo era quello di far capire la ricetta del pane arabo ai ragazzi tramite un gioco in cui io ero una radio che aveva molte interferenze e la sfida era quella di riuscire a capire tutti gli ingredienti necessari.
Alla fine ci siamo riusciti e la sfida è stata vinta! Premio finale è stata la ricetta completa per poter fare il “msemmen” al prossimo incontro.

Bambini di farina: laboratori di pani e diversità

Il progetto "Bambini di Farina" ha l’obbiettivo di creare opportunità di comunicazione e reciproca conoscenza tra cittadini stranieri e italiani valorizzando le differenze culturali. Il progetto propone un laboratorio del pane condotto da animatrici straniere del Progetto Semenzaio della Commissione Mosaico Pari Opportunità d’Insieme e animatori\animatrici disabili della Coop. Accaparlante in tre scuole del territorio provinciale di bologna.

Forte dell’esperienza ventennale del Progetto Calamaio del Centro Documentazione Handicap, questo modello laboratoriale del “comprendo meglio facendo” favorisce la realizzazione degli obiettivi del progetto attraverso il coinvolgimento della comunità locale e la valorizzazione delle rispettive risorse e diversità. L’esperienza concreta e sensoriale del “fare insieme tanti tipi di pane differenti” crea le condizioni per un incontro personale e diretto con la diversità che garantisce una reale conoscenza “dell’altro” e la costruzione di una nuova relazione integrata e inclusiva.

Valorizzare le differenze culturali come opportunità di momenti di contatto sensoriale con l’altro, inteso "l’altro" sia come persona che come cultura.

Per informazioni
roberto.parmeggiani@accaparlante.it

Cara integrazione ti rispondo…con inclusione e sostegno – Superabile, marzo 2011 – 2

I bambini disabili sono sempre discriminati a scuola? Qual è il vero ruolo degli insegnanti di sostegno nelle classi miste? Botta e risposta tra Claudio Imprudente e un maestro sul problema della scuola

Egregio sig. Claudio Imprudente, le scrivo perché ho avuto il (dis)piacere di leggere il suo articolo sul "Messaggero di Sant’Antonio" di gennaio. (…)Vorrei spiegarle perché, secondo me, la sua è una visione alquanto miope di quella che è davvero la realtà dei fatti. (…) Il campo dell’integrazione scolastica deve necessariamente prevedere interventi mirati, attraverso progetti e politiche quotidiane che coinvolgono tutto il personale operante nella scuola, ma anche gli Enti territoriali e le famiglie (…). Probabilmente la sua è una concezione datata del ruolo, secondo la quale il/la maestro/a di sostegno è una persona, più o meno preparata (…) che è pagata per assistere un solo bambino disabile al quale dovrà trasmettere una serie di acquisizioni di base; con modalità del tutto differenti rispetto a quelle utilizzate per il resto della classe; anzi meglio se lo faccia, concretamente, fuori dalla classe…Credo che questa non sia la sua visione d’insieme, ma, per scongiurare tali luoghi comuni, devo citare la legislazione scolastica che parla non di insegnante di sostegno del bambino, bensì di insegnante di sostegno della classe; della quale detiene la contitolarità con gli altri insegnanti. Insegnare ad apprendere, insegnare a vivere, insegnare a convivere: per raggiungere tali obiettivi la scuola è uno strumento determinante, ma non solo per chi è in difficoltà, in quanto questi sono obiettivi formativi di ogni essere umano e risultano più facilmente raggiungibili in presenza di una situazione di handicap, che rappresenta un’esperienza altamente formativa, che l’insegnante di sostegno si appresta a mediare, affinché la "diversità" non venga vissuta e interpretata come "differenza" ma come unicità!(…) La invito a visitare le mie classi, a seguire una mia giornata lavorativa: potrà capire veramente che per me il bambino con disabilità è, prima di tutto, un bambino, con gli stessi e identici bisogni e diritti di tutti gli altri. Solo dopo viene la sua disabilità! E che il mio non è un grigio rapporto con un semplice "utente" o addirittura con un anonimo "numero"…! Luigi Marchese

Egregio sig. Luigi Marchese,

sono pienamente d’accordo con quanto riporta nella sua lettera e non vedo una contraddizione insanabile tra il contenuto dei suoi pensieri e i miei. Conosco i dati legislativi ed esperienziali che lei mi ricorda; devo precisare, però, che sono il destinatario di tantissime lettere in cui viene messo in risalto il divario tra le prescrizioni normative e la realtà dei fatti, per cui quello che dovrebbe essere il ruolo dell’insegnante di sostegno non trova possibilità di applicazione pratica secondo quanto previsto dalla legge. Con tutto quello che questo gap comporta sia per l’insegnante di sostegno, sia per l’alunno e la classe "sostenuti". Stesso discorso per la collaborazione tra insegnanti, enti, famiglie: se questa fosse effettiva e diffusa, non ci sarebbe niente da dire, ma è certo che la situazione sia davvero questa? Come prima, dalle parole delle persone con cui mi capita di intrattenere rapporti epistolari e dagli incontri che la mia attività di formatore mi permette di avere, mi arrivano informazioni non proprio rassicuranti. Se sulle premesse e sul modo di intendere il ruolo dell’insegnante di sostegno siamo d’accordo, divergiamo su un punto, ovvero sul peso che diamo allo scarto tra realtà e "teoria", "legge". Quanto alla questione del "numero", nell’articolo non si intendeva dire che il rapporto dell’insegnante di sostegno con l’alunno disabile sia in genere distaccato, freddo, ma che esiste una differenza innata tra il rapporto extrascolastico e quello che può applicare l’istituzione al singolo, ancora prima che inizi la relazione tra alunno e docente. Infatti la sig.ra Trombetta non lamentava una relazione malsana tra sua figlia e l’insegnante, ma, ancor prima, la difficoltà a sottoporre all’attenzione istituzionale la sua richiesta. In tutto questo non c’entra niente la professionalità (e il ruolo previsto dalla legge) dell’insegnante di sostegno, né si intendeva sostenere che l’assegnazione di un insegnante di sostegno sia l’applicazione di un’etichetta sul bambino disabile o che porti all’oscuramento delle abilità e alla sottolineatura del deficit. La mia riflessione si esercitava sulla legittimità della richiesta della sig.ra Trombetta, sulle conseguenze che l’accettazione della stessa, e del principio che la sottende, comporterebbe e al miglioramento, in termini di integrazione, che potrebbe garantire.

Il confronto non si arresta: scrivete a claudio@accaparlante.it o sul mio profilo di Facebook.

Claudio Imprudente

Caro sig. Imprudente,

innanzitutto la ringrazio per l’attenzione e il tempo che mi sta dedicando e colgo l’occasione per scusarmi qualora il tono della mia lettera precedente le fosse sembrato un tantino "duro": non era quella la mia volontà; men che meno farlo verso chi, come lei, sulla tematica del rispetto della diversità non solo ha competenze, ma è un esempio di vita…! Se a volte mi spingo un po’ "sopra le righe" è perché sono veramente innamorato della mia professione e ogni giorno mi spendo affinché anche ai miei bambini arrivi forte il riflesso della mia intensa passione. Come lei ben saprà quella degli insegnanti è una categoria , purtroppo, spesso bistrattata e snobbata (di sicuro non da persone come lei) e questo mi addolora molto.
Al tempo stesso, tuttavia, devo ammettere che se ciò accade è anche un po’
colpa nostra, o meglio di tutto un cattivo funzionamento e raccordo tra diversi anelli amministrativi, di difficili coordinamenti tra vari enti ed istituzioni:
insomma concordo a pieno sulle sue perplessità sul divario tra "teoria" e "pratica". Potrei portarle tutta una serie di esempi di "mala gestione" di situazioni che orbitano attorno all’handicap: vedi i GLH (gruppi di lavoro per l’handicap) dove, durante l’anno scolastico, le varie componenti e tutte le figure educative che si occupano del bambino si incontrano e dovrebbero confrontarsi e delineare le strategie educativo-didattiche più idonee rispetto alla sua problematica. Uso il condizionale perché spesso le figure medico- professionali che intervengono (solitamente neuropsichiatri infantili o psicologi) anziché dare indicazioni più precise, con un taglio clinico della problematica e quindi suggerire all’insegnante metodologie da poter utilizzare, si limitano ad ascoltare le nostre relazioni sulle diverse situazioni, registrare gli "umori" della famiglia del bambino e andar via, senza fornirci strumenti concreti e spendibili nella nostra relazione con il fanciullo. O ancora la compilazione dei P.D.F. (profilo dinamico funzionale) un documento ove si registrano le difficoltà legate a ciascun area (sensoriale, psico-motorie, mnestica, linguistica, ecc.) e si indicano le strategie da adottare per il futuro. Tale documento, come sicuramente lei ben saprà, dovrebbe essere redatto (PER LEGGE!) da tutte le "parti in causa": genitori, insegnanti (di sostegno e non), specialista dell’ASL, operatori scolastici che eventualmente intervengono (assistenti educativi, ecc.), eventuali terapisti dell’extra scuola (logopedisti, psicomotricisti, ecc.). Ho usato nuovamente il condizionale, perché la trasposizione reale di tale situazione vede (quasi sistematicamente) solo ed esclusivamente l’insegnante di sostegno "relegato" a tale impegno nonostante, alla fine, tutti le componenti vi appongono la propria firma …! Personalmente non ho problemi e timori "reverenziali" a confrontarmi con documentazioni dove si approfondiscono molte tematiche quasi a livello medico, visto che (e non lo dico per falsa modestia ) ho una formazione, per così dire, abbastanza "robusta" che mi consente di avere conoscenze e di far fronte anche a situazioni che vanno al di là del campo strettamente professionale dell’insegnante di sostegno; ma molti colleghi che non posseggono tali acquisizioni (e non sono obbligati a farlo) si ritrovano in una situazione di difficoltà creata, a monte, dal mancato rispetto di una chiara norma legislativa.
Insomma, caro sig. Imprudente, questo nostro chiarimento ci ha fatto scoprire di convergere su molti punti; anche perché sarei un’ipocrita se dipingessi solo una realtà rosea e felice: questi problemi sono oggettivamente riscontrabili e sotto gli occhi di tutti. Però, come ormai avrà ben capito, mi piace evidenziare anche le "cose che funzionano", soprattutto quelle legate al lavoro dell’insegnante, e ritengo giusto farlo proprio per evitare che a far notizia siano solo le storture e le negatività, mentre non si dia rilievo a chi, ogni giorno fa (bene) il suo dovere.
E’ per questo che, prima di salutarla, le racconterò brevemente una storia personale che va annoverata di sicuro tra le cose belle e positive intrinseche al mondo della scuola.
L’anno (scolastico) scorso ebbi la fortuna di approdare in quella che è ancora oggi la mia attuale scuola (dico fortuna perché è davvero una bella realtà, dove si lavora bene anche grazie alle doti del nostro Dirigente). E’ un circolo didattico molto grande e comprende tre plessi diversi: io itinero su due. Uno di questi sorge in una zona della città considerata socialmente a rischio. La classe in cui avrei dovuto operare era una terza, composta da 19 alunni ognuno dei quali aveva alle spalle una situazione familiare delicatissima. Per loro la scuola era (ed è) il tempo e lo spazio in cui hanno e si riconoscono come identità: fuori di lì, nelle loro case, quei bambini devono far fronte, quotidianamente, a problematiche da adulti…!
Tanto era stato fatto, fin lì, dalle mie colleghe curriculari per creare un’ omogeneità e degli equilibri che spesso venivano minati dagli umori dei bambini per le difficoltà che lasciavano in famiglia prima di entrare a scuola la mattina. In questo contesto era stato segnalato (l’anno precedente) un caso di dislessia e disgrafia: dopo le visite dell’ASL locale e l’accettazione della problematica da parte dei genitori, ad Alex ( il nome del bambino che seguo) è stato concesso il sostegno. Il bambino aveva un attaccamento affettivo molto forte verso la figura materna, la quale, tra l’altro, non aveva "metabolizzato" a pieno la difficoltà del figlio: pur percependo che si trattasse solo di una problematica legata alla letto-scrittura, la viveva come una "macchia" che rendeva il suo bambino (intelligentissimo) "diverso" dagli altri. Prima dell’ inizio della scuola, perciò, convocai più volte i genitori di Alex, con i quali ebbi degli incontri a scopo "distensivo", per far sì che elaborassero (soprattutto la madre) al meglio la situazione del proprio figlio: spiegai loro che la dislessia non è un deficit ma un disordine qualitativo, che è una problematica che investe limitatamente alcune funzionalità, dalla quale si migliora (seppur non si "guarisce") e con la quale si convive tranquillamente, senza che essa vada ad inficiare aree cognitive particolari e soprattutto senza che (se affrontata con la giusta modalità) impedisca e comprometta un buon andamento scolastico e un’affermazione culturale e lavorativa del soggetto dislessico (d’altronde anche Einstein era dislessico…).
Se forse avevo portato a casa un primo risultato, e cioè quello di tranquillizzare i genitori (per lo meno la mamma aveva smesso di piangere quando pronunciava la parola "dislessia"…!), ora c’era da vincere la partita più importante: evitare che Alex soffrisse il peso di questa nuova figura che l’avrebbe dovuto accompagnare.
Lui è, infatti, un bambino molto sensibile, introverso, già cosciente delle sue difficoltà nella letto-scrittura e sofferente nel confronto con i compagni: capire di avere un insegnante di sostegno avrebbe avuto solo come risultato quello di una chiusura ulteriore in se stesso e con la sua problematica, accentuando ai suoi occhi il divario tra lui e i suoi compagni di classe. Se dai primi giorni di scuola, io mi fossi seduto costantemente affianco a lui, non avrei fatto altro che destabilizzarlo ulteriormente.
Per questo, in pieno accordo e sintonia con le colleghe di classe, sono stato presentato ai bambini come un nuovo maestro che era lì per aiutare e stare insieme a tutti gli alunni. Naturalmente, per confermare ai loro occhi tale impostazione, ho attivato una serie di strategie: ad esempio girare continuamente tra i banchi e soffermarmi su chiunque ne avesse bisogno; introdurre insieme alla collega di turno, argomenti di italiano, matematica, storia, ecc, o addirittura spiegare e interrogare solamente io in alcune circostanze; quando decidevo di dover fare dei lavori specifici e individuali per Alex, organizzavo dei piccoli lavori di gruppo o comunque lo portavo fuori dalla classe sempre insieme a qualche altro bambino; ecc.
Insomma, per non dilungarmi troppo, ancora oggi, dopo due anni, nessun bambino ha intuito o ha mai affermato che io sono l’insegnante di sostegno di Alex: tutti si sono legati tanto a me e mi ritengono il "loro maestro".
Alex, da par suo, è migliorato tantissimo, non solo dal punto di vista della letto-scrittura, ma anche sull’aspetto emotivo: si è aperto molto di più con compagni e insegnanti, soffrendo meno il suo disagio interiore.

In tutto questo, la mia gratificazione più grande, oltre naturalmente ai progressi di Alex, è quella di poter espletare a pieno la vera natura e funzione del mio ruolo: essere l’insegnante di sostegno non del singolo bambino ma della classe!

Ringraziandola per il tempo e l’attenzione che vorrà dedicarmi e soprattutto per lo spazio che ha deciso di concedere già alla mia precedente lettera, le dico che, qualora avrà voglia di proseguire in qualche modo questa nostra corrispondenza, sarò lieto di raccontarle altre storie che, sicuramente, fanno bene alla realtà scolastica e danno giusto spessore e valore alla mia categoria.

Cari saluti.
Luigi Marchese

(Pubblicato su www.superabile.it il 18 marzo 2011)

La famiglia con disabilità: l’ABC ci insegna… l’abc – Superabile, Marzo 2011 – 1

Una insegnante, in un’interessante lettera di risposta ad un mio articolo, ha usato queste parole: «Il lavoro dell’insegnante di sostegno è il lavoro  della "solitudine" perché non abbiamo interlocutori sensibili…». Quello della solitudine, delle solitudini, perché ci sono tanti modi e tante ragioni di e per sentirsi soli, è un sentimento largamente diffuso tra chi si trova a vivere, fronteggiare, gestire una condizione di disabilità. Per questo motivo dalle lettere che ricevo emerge sempre un bisogno urgente di confronto, scambio reciproco, condivisione di esperienze: è una necessità facilmente comprensibile e alla quale il ricorso ad esperti del settore (o presunti tali) non sempre fornisce risposte soddisfacenti e credibili. Non faccio alcuna fatica ad annoverarmi tra i rappresentanti di questa "categoria"… ma, al tempo stesso, sono tra i primi ad auspicare (e tentare di stimolare) momenti di confronto, occasioni di dialogo tra chi, prima di riflettere, vive una data situazione. Sono, peraltro, in ottima compagnia, condivido questo percorso con tantissime persone, che forniscono quasi sempre stimoli "non accademici" di una verità, mi si passi il termine, eclatante, evidente, dalla quale non si può distogliere lo sguardo o la riflessione… e sono il primo a non distrarmi.

E’ per questa ragione che vorrei dedicare questo articolo alla "promozione" di un "libretto" (come affettuosamente e con molta modestia è stato definito da chi me lo ha presentato/sottoposto) prodotto dall’Associazione Bambini Cerebrolesi (ABC) Federazione Italiana e basato sull’esperienza delle famiglie dell’associazione e di altre conosciute dalla stessa nei suoi anni di attività. Il libro, che è stato consegnato ai Presidenti delle Commissioni parlamentari e regionali che si occupano di disabilità, tratta in maniera semplice (una semplicità complessa, però, in quanto frutto dell’esperienza) e piana di tutte le tematiche che riguardano la disabilità grave di un figlio "in famiglia" e i relativi rapporti con società, istituzioni e "resto del mondo".

Il testo è stato anche messo in rete a puntate su www.superando.it/content/view/6986/122 e l’edizione cartacea è gratuita e destinata agli uomini e alle donne delle istituzioni (alcuni dei quali e delle quali spesso parlano di disabilità senza aver la più pallida idea dell’argomento che trattano. Questa un’altra delle ragioni che hanno portato alla produzione di questo libro). L’assunto, ormai noto a tanti, quanto disatteso nella realizzazione pratica di politiche socio-assistenziali, è che tra disabilità ed handicap sussiste una differenza dalla quale non si può prescindere soprattutto nella fase di organizzazione e nell’approntamento di interventi concreti. Il secondo assunto è che, dal momento che le persone con disabilità grave vivono essenzialmente in famiglia (dal 70 al 90% dei casi, secondo le fonti), sembra quantomeno opportuno approfondire gli aspetti, le problematiche, le conoscenze che riguardano questo nucleo, questo attore sociale (a prescindere dalle forme che la famiglia può oggi assumere, anche se in Italia il problema… colpevolmente "non si pone"). Come si può leggere nella prefazione, «le interazioni tra disabilità e famiglia sono numerosissime ed investono in pratica tutti gli aspetti della vita familiare: da quello affettivo, a quello economico, dai rapporti tra i vari membri della famiglia a quelli con la società».

Il libro si compone di capitoli brevi, agevoli, che non hanno la velleità di risolvere alcun discorso, ma di fornire delle "regole" basilari, propedeutiche all’approfondimento o, quantomeno, funzionali alla creazione di un punto di partenza condiviso. Tra gli altri, cito «La comunicazione della diagnosi»; « I rapporti della famiglia con l’equipe riabilitativa: la pari dignità»; «I costi economici sopportati dalla famiglia con disabilità: la diminuita capacità di reddito e l’abbandono del lavoro»; «E dopo la scuola ? come trasformare l’integrazione scolastica in  inclusione sociale partecipata ed attiva»; «Vent’anni dopo: la fatica assistenziale, il logoramento fisico».

Mi sembra di cogliere un intento di fondo peraltro molto condivisibile, ovvero la ricerca di una "pari dignità" e di un equilibrio virtuoso e non statico tra i soggetti coinvolti nei vari ambiti e momenti di "gestione" della disabilità del figlio/bambino/ragazzo. Per cui viene dato risalto a quello che un attore può fare per l’altro e a quello che un attore può aspettarsi e "pretendere" dall’altro (si veda a tal proposito il cap. 8, nel quale le potenzialità, i limiti e gli ambiti di competenza di famiglie, associazioni, rappresentanti, mezzi di comunicazione, ecc. vengono spiegati molto bene).

Quindi, la famiglia "con disabilità" come motore non unico e soprattutto come motore "di serie", ma anche come "monitor sociale", riprendendo un’espressione che avevo coniato tempo fa, e delle dinamiche della famiglia stessa: «Trattando delle caratteristiche della famiglia con disabilità non vorremmo averne creato un mito. La famiglia con disabilità, in fin dei conti, è una famiglia come le altre. La nostra esperienza ci permette però di affermare che la disabilità funziona come un evidenziatore che rende più visibili, nel bene e nel male, virtù e vizi della famiglia».  E non solo, per fortuna, aggiungo io.

Da ultimo, un po’ come fanno le band emergenti a fine concerto, con modestia (vera o finta che sia) o imbarazzo, quando, indicando un tavolinetto all’angolo, dicono "se il concerto è piaciuto, ma anche se non è piaciuto, là trovate il nostro disco a 10 euro…", ecco, con lo stesso spirito vi lascio gli estremi per aiutare concretamente alcune famiglie con disabilità: potete effettuare un piccolo versamento a favore dell’Associazione Dopodomani Onlus, c/c postale 56978695, codice IBAN IT81 C076 0110 6000 0005 6978 695 per la realizzazione di "Villa Amico", casa-famiglia per persone con disabilità. Per info: abcliguria@gmail.com. Il testo, come già detto, verrà messo in rete a puntate su www.superando.it e l’edizione cartacea è gratuita e destinata agli uomini e alle donne delle istituzioni. Buona lettura e scrivete come sempre a claudio@accaparlante.it o sul mio profilo di Facebook. (Claudio Imprudente)

Il peso specifico dell’handicap – Il Messaggero di Sant’Antonio, Marzo 2011

Ho scritto più volte che il Vangelo ha un solo modo per continuare a respirare: essere letto, interpretato, penetrato. È qui che risiede la sua forza: nella capacità di resistere al e nel tempo, non «sempre uguale a se stesso». Il Vangelo apre inaspettati stimoli di riflessione capaci, in quanto tali, di «cambiare» in parte lo stesso testo di partenza rivelandone di volta in volta significati altri. Il Vangelo è contemporaneamente «fuori dalle nostre mani» e «nelle nostre mani», cioè nella disponibilità dei nostri ragionamenti… o pennelli. Mi spiego. Ho visitato poche settimane fa, presso la Raccolta Lercaro di Bologna, la mostra «Attraverso le tenebre. Goya, Battaglia, Samorì», riflessione attorno alla realtà del male. In particolare mi hanno colpito le opere di Samorì, una rivisitazione della Via Crucis. Se l’arte del pittore emiliano-romagnolo è abitualmente una sorta di «corpo a corpo» con il sacro, a prescindere dal fatto che egli sia credente o meno, in questo caso il confronto pare diretto, immediato, e il risultato è un potenziamento del «già letto», un suo aggiornamento anche emotivo.
 
Una delle stazioni della Via Crucis racconta il passaggio della croce da Gesù a Simone di Cirene. I Vangeli non si dilungano molto su questa figura, non aggiungono dettagli salienti, né raccontano di un dialogo diretto o di un confronto tra Gesù e Simone. Anzi, quest’ultimo (descritto solo come «proveniente dalla campagna» e «padre di Alessandro e Rufo») non si propone in prima persona, viene «costretto» a portare la croce di Gesù. Ma noi, da credenti «ostinati», riusciamo a leggere nelle righe vuote e troviamo una volontà anche laddove essa non è esplicitata. Perché gli evangelisti fanno riferimento a questo personaggio senza inquadrare meglio la sua presenza? Perché raccontare che Gesù non è riuscito a trasportare fino al Gòlgota la sua croce da solo, trascurando poi ogni dettaglio della persona cui è stato imposto l’aiuto? Svista narrativa degli evangelisti? Scarsa attenzione di chi ha deciso che i Vangeli canonici dovessero essere quelli? Dubitando di queste interpretazioni minimaliste, il cenno a Simone serve a dare alla dimensione umana del divino un senso di condivisione, di partecipazione. Dio è con noi, ma non è una vicinanza «a costo zero», né Dio vuole che sia tale. Non è una concessione; è, piuttosto, un invito al cambiamento e alla crescita.
 
C’è poi un elemento in più: nel momento in cui di Gesù viene posta in risalto l’umanità, ecco che emerge con forza la necessità di condividere, di spartire il peso specifico delle cose. Di quale cosa, nel contesto in questione? Della croce, del destino, dell’handicap. Al di là dell’esattezza fisica del termine, mi è sempre piaciuto pensare che l’handicap (molto più del deficit) abbia un peso specifico e che questo sia variabile, non dato. Perché questo passaggio dal dato all’indefinito possa avvenire, occorre che la gravità sia distribuita. Non è solo un modo per condividere la fatica derivante da una situazione (la situazione di handicap), ma per condividerne il portato, le prospettive di consapevolezza che essa può aprire. Nel momento in cui divido il peso, ecco che aumento la capacità di «rivelare» le cose. Non condivido unicamente la fatica, ma la condizione in cui la fatica mi pone. Distribuire non ha solo l’obiettivo – egoistico o mosso dalla necessità – di alleggerire, quindi di sottrarre, ma anche quello di condividere in termini di crescita, di disvelamento. Si rinuncia a una parte di peso per distribuire la consapevolezza alla quale il peso porta. Si legano, così, azione e riflessione, condivisione e progresso, singolo e comunità. Scrivete a (e condividete con) claudio@accaparlante.it o al mio profilo di Facebook.
 

Il vegetale e i due complici – Il Messaggero di Sant’Antonio, febbraio 2011

L’Università di Bologna mi conferirà una laurea honoris causa per il ruolo educativo da me svolto in questi trent’anni di lavoro. È il riconoscimento accademico di un lavoro di squadra, che trova la sua origine nell’educazione lungimirante dei miei genitori. Occorre fare un salto indietro di cinquant’anni. «A quel tempo» la disabilità era davvero handicappante. Può esserlo ancora oggi, ma negli anni Sessanta l’ostinazione di quel meccanismo era pervasiva, sancita anche a livello legislativo e istituzionale e confermata a quello pedagogico; si rifletteva anche sulla qualità delle relazioni che potevano instaurarsi. Se oggi avere un figlio disabile è considerato come una sfortuna, al tempo poteva essere una vera e propria maledizione. C’è una bella differenza tra sfortuna e maledizione, quest’ultima è come caduta dall’alto e non lascia vie di fuga.
 
La famosa frase del dottore, pronunciata scuotendo la testa dopo avermi visitato, all’età di due anni, «Non c’è nulla da fare, sarà un vegetale», dai miei genitori è stata lì per lì subìta proprio come si subisce una maledizione. Da quel momento hanno dovuto cominciare un percorso solitario e al buio. Dapprima riconoscendo che io ero loro figlio, una bella creazione e, in quanto tale, cominciando a darmi fiducia. Ancor prima, costruendo un rapporto forte di fiducia reciproca tra di loro e il senso di un’intesa forte: «Io ci sono e anche tu ci sei». Fiducia mista a complicità. Questa, ed è un ricordo molto vivido, si traduceva anche nella creazione di ingranaggi dalla meccanica e dalla tempistica perfette e funzionali, ad esempio per l’espletamento delle attività domestiche di tutti i giorni: mio padre mi alzava dal letto, mi portava da mia madre con la quale facevo colazione, la quale mi riportava da mio padre che mi sciacquava la faccia e mi lavava. Fiducia e complicità come un primo mattone solido per costruire il «resto». E per darmi la sensazione certa di non essere di peso, di non «interferire» troppo nella vita dei miei genitori: questo ha aumentato anche la stima che provavo nei miei stessi confronti, perché già da piccolo potevo sentirmi come non del tutto dipendente o, almeno, potevo avvertire la mia dipendenza come non pienamente vincolante per gli altri e, di qui, per me stesso.
 
A quell’età si scoprono i primi spazi di autonomia e libertà, si impara a muoversi nell’ambiente e in rapporto agli altri che lo abitano, è un processo graduale che per una persona con deficit rischia di svilupparsi con molta lentezza, spesso con un ritardo significativo rispetto ai suoi coetanei e in modo incompleto. Ho avuto la fortuna, al contrario, di vivere quel «flusso» di esperienze e di crescita sin da piccolissimo e nonostante i deficit che indubbiamente avevo. Ribadisco che questo è merito della «scommessa» dei miei genitori, dell’investimento, magari rischioso, che hanno fatto sulla costruzione della mia libertà e della mia identità autonoma. E la stima verso me stesso è stata un primo elemento fondamentale per il futuro ruolo di educatore, perché è difficile educare altri alla stima senza provarla nei propri confronti. Ma è proprio su quel «resto» cui accennavo poco sopra, che dovremo tornare, perché riguarda la costruzione di un modello genitoriale, educativo e relazionale che, per ragioni ovvie, risponde appieno alla cultura del «fatto in casa» e che però, in seguito, si è rivelato pienamente trasferibile anche nel mio ambito lavorativo. Provando a riconoscere in che modo i miei genitori hanno agito come educatori, scopro anche i termini in cui io lo sono stato e gli ambiti nei quali ho provato a esercitare questa professione. Ma questa è un’altra storia… Scrivete come sempre a claudio@accaparlante.it o cercate il mio profilo su Facebook.

Pubblicato sul Messaggero di Sant’ Antonio, febbraio 2011

Insegnante di sostegno, diritto o dovere? – Superabile, febbraio 2011 – 1

A gennaio ho pubblicato un articolo su "Il Messaggero di Sant’Antonio", prendendo spunto dal contenuto di un’intensa corrsopondenza con Claudia, mamma di Irene. Là anticipavo che, se fossi riuscito, avrei pubblicato un contributo scritto direttamente da Claudia, saltando la mia "mediazione" giornalistica. Di seguito potete leggere la prima parte del suo articolo, che sarà presto seguita dalla seconda

Sono la mamma di una bimba con Sindrome di Down, Irene.
Irene ha quasi due anni e mezzo, è una bimba gioiosa e furbetta, divertente e riflessiva. Ora cammina in modo deciso alla scoperta del mondo ed inizia a pronunciare le prime parole, spinta da un forte desiderio di farsi capire. A noi piace moltissimo guardarla nelle sue esplorazioni, nei suoi sorrisi, nel suo modo di comunicare, anche nella sua goffaggine nel camminare!
Da settembre 2010 frequenta il nido comunale, in un gruppo di pari età, dove si è inserita con facilità e partecipa felice alla vita "sociale", anche grazie all’intelligenza ed alla disponibilità della sua maestra Patrizia e del resto del personale, capaci di accogliere Irene con attenzione e leggerezza al tempo stesso. In questo contesto aperto ed accogliente, Irene riesce a regalare giorno dopo giorno, sia a noi cha alla maestra, la gioia e la sorpresa di continui apprendimenti.
Tutto sta quindi procedendo al meglio, ma… Una nuova "sfida" si affaccia alla nostra porta: l’imminente iscrizione alla Scuola d’Infanzia. La questione è così semplice e così complessa al tempo stesso: continuo a sorprendermi di quanto una cosa così semplice possa diventare così incredibilmente complicata!
Mi spiego. Da quando ho inziato ad attivarmi per l’iscrizione, mi sono scontrata con l’idea che il diritto all’inclusione scolastica coincide con il diritto all’insegnante di sostegno. Sento fastidioso questo abbinamento automatico: perché le due cose si sono così sovrapposte!? Non è questo che dice la legge sull’integrazione. Non è questo che dicono alcune circolari ministeriali. Non è questo che dicono molti esperti. E non è questo ciò che penso serva alla mia Irene!
La richiesta dell’insegnante di sostegno sembra ormai essere l’esito di un processo acritico ed automatico, una prassi ormai consolidata ma poco "pensata": diritto all’inclusione uguale diagnosi funzionale uguale insegnante di sostegno. La scuola lo dà per scontato. I servizi lo danno per scontato. Le famiglie pure. L’ipotesi di non richiederlo sembra assurda: com’è pensabile rinunciare ad un diritto così importante?
Io invece sento il bisogno di fermare la corsa burocratica e pensarci un attimo: davvero l’insegnante di sostegno sarebbe un’opportunità per mia figlia in questo momento? Penso di no. I motivi sono tanti. Ne cito solo alcuni.
Primo, stiamo parlando della Scuola dell’Infanzia.
Poi ho un’idea radicata: le cosidette "professioni d’aiuto" vanno usate con attenzione e moderazione (e lo dico da psicologa): se da una parte offrono aiuto, dall’altra possono etichettare, trasmettere messaggi di deficit ed inadeguatezza, molto pericolosi in età evolutiva.
Un pò come l’utilissimo antibiotico: sappiamo bene che se ne abusiamo, l’inefficacia non tarderà a comparire. L’idea " più ne usi meglio è" (spesso diffusa negli interventi riabilitativi, terapeutici, di sostegno), può essere molto pericolosa.
Quindi mi chiedo: serve proprio a Irene l’insegnante di sostegno alla Scuola d’Infanzia ove la didattica ha un ruolo ancora limitato? O la sua presenza rischia di etichettarla già come inadeguata, incapace, deficitaria in un momento della sua vita in cui non è poi così vero nè necessario? Perchè devo già sottolineare le sue differenze come se fossero differenze negative, mancanti, problematiche tanto da necessitare una adulto tutto per lei per "normalizzarla" il più possibile? Ne trarrebbe giovamento la sua autostima? E la sua autonomia? L’avere un adulto "tutto per sè" non rischia di "infantilizzarla" più del dovuto e di ostacolare processi di autonomizzazione che potrebbero invece più facilmente svilupparsi se lei potesse essere trattata come tutti gli altri bimbi?
Spesso si sente dire che i bambini con disabilità sono innanzitutto bambini: posso capire che chi non ha avuto la fortuna di crescere per due anni e mezzo con una bimba come Irene possa fare più fatica a cogliere la veridicità di questa affermazione. Come mamma però sento profondamente che è così: innanzittutto una bambina, con bisogni, desideri e modi simili a qualsiasi bambino.
Che ci siano dei limiti, questo è innegabile. Non dobbiamo neanche negare, però, che spesso ipervalutiamo i limiti, perchè ciò che è diverso ci spaventa e ci mette a disagio. Sopravvalutiamo il limite per avere la sensazione che, definendolo, lo possiamo gestire meglio.
Forse allora può essere utile fermarsi un attimo, bloccare le prassi consolidate e gli automatismi interventistici.
Senza attese miracolistiche, con la consapevolezza che l’ inclusione scolastica sarà un obiettivo mai raggiunto completamente e che dobbiamo fare tutti insieme un passo dietro l’altro.
L’inizio, per me, per noi, per quello che può fare la nostra famiglia per contribuire a questo processo, è questo: dare fiducia alla nostra bimba, dare fiducia alle insegnanti che l’accoglieranno, alla scuola, a noi come famiglia. Puntare sulle potenzialità di tutti e sperimentare un percorso scolastico alla scuola materna ove siano presenti le insegnanti curriculari in prima linea, la mia Irene, la nostra famiglia, le associazioni, i professionisti che sapranno aiutarci e sostenerci.
Un modo per iniziare può essere, dunque, questo: sfidare i nostri pregiudizi e le nostre paure e vedere l’ingresso di Irene alla scuola materna come un’opportunità per tutti oltre che come un impegno ed una fatica in più. Iniziare concretamente, con questa scelta di rinunciare ad un diritto, quello all’insegnante di sostegno, che sembra essere diventato un dovere.

Claudia Trombetta

Il mio articolo su "Il Messaggero di Sant’Antonio" potete leggerlo cliccando qui http://www.messaggerosantantonio.it/messaggero/pagina_articolo.asp?R=Vivere insieme&ID=2082.

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Claudio Imprudente

(Pubblicato su www.superabile.it, il 18 febbraio 2011)

Organismi esistenti e organismi viventi – Superabile, Gennaio 2011 – 2

Il 13 dicembre scorso è caduto l’anniversario dell’approvazione, nel 2006 da parte delle Nazioni Unite, della Convenzione sui diritti delle persone con disabilità, ratificata definitivamente dall’Italia nel febbraio 2009. Pochi giorni prima, il 3, si è festeggiata, invece, la Giornata Internazionale dei Diritti delle persone con disabilità, una scadenza in vista della quale si preparano e presentano numerose iniziative, momenti di riflessione e di informazione. Insomma, una ricorrenza che consente di fare cultura con una visibilità tendenzialmente maggiore rispetto alla media annuale… Comunque, ogni "Giornata" si risolve appunto in "una giornata" e, come tale, ha vita breve: pur riconoscendone il valore non solo simbolico, non credo che meriti grande attenzione, al di là di quella che le dedicano anche i mass media più distratti…senza sottovalutare o ignorare ciò che di interessante i vari soggetti più o meno istituzionali organizzano in quella data.

Di ben altra portata è, invece, il peso politico e sociale della Convenzione delle Nazioni Unite. So benissimo che anche il ruolo dell’O.N.U. è da anni oggetto di discussione (necessaria) sui suoi meccanismi decisionali, sul peso attualmente non riconosciuto a nazioni e ad intere aree geografiche del mondo; di un mondo sempre più multipolare e la cui assenza di un centro definito necessita di un forma di governo super partes ad esso adeguata. Senza contare che spesso i documenti e le risoluzioni approvati dalle Nazioni Unite stesse non riescono ad essere vincolanti per chi dovrebbe sottoporsi ed adeguarsi ad essi. So altrettanto bene che riconoscersi attorno a diritti universali è un’operazione semplice solo a livello ideale, perché le basi culturali e di diritto non sono comuni a tutti: ed è un "salto" quantomeno illegittimo ritenere che le nostre siano a priori le più adeguate.

Ma, al di là di questo, l’importanza di un documento come quello approvato quattro anni fa e attorno al quale si era creato un consenso molto ampio è innegabile. Scrivere "nero su bianco" diritti e doveri delle persone disabili, recependo le legislazioni più avanzate in materia e non limitandosi ad una soluzione di basso profilo, è sempre un atto forte che può far crescere la cultura sul tema. Per alcuni, davvero, una base di partenza per sviluppare politiche ancora sconosciute.

A livello mondiale esiste una disomogeneità enorme nelle politiche "per" la disabilità; già a livello europeo è riscontrabile una varietà di approcci significativa. La Convenzione può essere, quindi, di grande aiuto in questo senso: rappresenta un cambio di paradigma, di cultura e di impostazione verso la condizione delle persone con disabilità che forse noi, dal nostro punto d’osservazione privilegiato, non possiamo apprezzare appieno, ma che altrove può assumere un rilievo sostanziale.

Come riportato proprio da www.superabile.it, peraltro, iIl Protocollo aggiuntivo prevede che a presentare segnalazioni e denunce al Comitato dei diritti possano essere anche persone singole o gruppi non nominati dagli Stati firmatari. Una forma di controllo "dal basso", da parte della società civile, assai apprezzata dalle associazioni dei disabili, che sottolineano la possibilità di sottrarre i ricorsi agli eventuali calcoli di tipo politico».

Inoltre (ed è la ragione per cui proponiamo oggi questo contributo e non in occasione dell’anniversario vero e proprio della Convenzione), pur con un anno e mezzo di ritardo dalla data prevista, a metà dicembre 2010 si è riunito per la prima volta l’Osservatorio nazionale sulle condizioni delle persone con disabilità. Si è trattato di un incontro prevedibilmente interlocutorio e preparatorio, ma, ricordiamolo, all’Osservatorio sono attribuiti compiti importanti, quali la promozione dell’attuazione della Convenzione O.NU.; la predisposizione di un programma di azione biennale per la promozione dei diritti e l’integrazione delle persone disabili; la raccolta di dati statistici; la stesura di una relazione sullo stato di attuazione delle politiche sulla disabilità. Quindi? Il documento c’è, gli strumenti ci sono, le leggi ci sono…ma poi, e qui stiamo parlando anche della nostra nazione, le risorse per promuovere politiche degne di questo nome sono sempre le prime ad essere messe in discussione (restando ai casi recenti più eclatanti, al di là degli esiti finali, l’aumento della percentuale di invalidità per la pensione e il taglio indiscriminato di insegnanti di sostegno a fronte di un aumento pesante degli alunni disabili); l’inserimento nel mondo del lavoro è ancora occasionale e non assume mai i connotati di un meccanismo funzionante; l’accessibilità alla cultura e all’arte viene considerata quantomeno un aspetto marginale.

Come ha scritto un utente del sito www.disabili.com commentando l’ultimo Rapporto Istat sulla disabilità in Italia, «fa poco ben sperare nel Rapporto proprio lo scarto tra la consapevolezza teorica della dimensione sociale della disabilità e l’incapacità pratica di lettura del bisogno di soluzioni strutturali e non assistenziali e di strumenti e ausili per l’autonomia, la produttività, il benessere fisico e relazionale di cittadini che non vogliono essere né sentirsi "di peso"». Questo per dire che il dato legale, formale, va sempre misurato con le sue traduzioni concrete; anzi, direi che trova il suo senso solo nel momento in cui viene tradotto e trova la sua effettività, quando cioè porta ad un cambiamento tangibile. E’ alla luce di ciò che è davvero reale che si possono valutare la qualità e l’attualità della Convenzione. Quantomeno, da circa un mese, l’Osservatorio non è più una previsione di legge, ma un organismo esistente. E speriamo "vivente". Scrivete a claudio@accaparlante.it. (Claudio Imprudente)