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Il peso specifico dell’handicap – Il Messaggero di Sant’Antonio, Marzo 2011

Ho scritto più volte che il Vangelo ha un solo modo per continuare a respirare: essere letto, interpretato, penetrato. È qui che risiede la sua forza: nella capacità di resistere al e nel tempo, non «sempre uguale a se stesso». Il Vangelo apre inaspettati stimoli di riflessione capaci, in quanto tali, di «cambiare» in parte lo stesso testo di partenza rivelandone di volta in volta significati altri. Il Vangelo è contemporaneamente «fuori dalle nostre mani» e «nelle nostre mani», cioè nella disponibilità dei nostri ragionamenti… o pennelli. Mi spiego. Ho visitato poche settimane fa, presso la Raccolta Lercaro di Bologna, la mostra «Attraverso le tenebre. Goya, Battaglia, Samorì», riflessione attorno alla realtà del male. In particolare mi hanno colpito le opere di Samorì, una rivisitazione della Via Crucis. Se l’arte del pittore emiliano-romagnolo è abitualmente una sorta di «corpo a corpo» con il sacro, a prescindere dal fatto che egli sia credente o meno, in questo caso il confronto pare diretto, immediato, e il risultato è un potenziamento del «già letto», un suo aggiornamento anche emotivo.
 
Una delle stazioni della Via Crucis racconta il passaggio della croce da Gesù a Simone di Cirene. I Vangeli non si dilungano molto su questa figura, non aggiungono dettagli salienti, né raccontano di un dialogo diretto o di un confronto tra Gesù e Simone. Anzi, quest’ultimo (descritto solo come «proveniente dalla campagna» e «padre di Alessandro e Rufo») non si propone in prima persona, viene «costretto» a portare la croce di Gesù. Ma noi, da credenti «ostinati», riusciamo a leggere nelle righe vuote e troviamo una volontà anche laddove essa non è esplicitata. Perché gli evangelisti fanno riferimento a questo personaggio senza inquadrare meglio la sua presenza? Perché raccontare che Gesù non è riuscito a trasportare fino al Gòlgota la sua croce da solo, trascurando poi ogni dettaglio della persona cui è stato imposto l’aiuto? Svista narrativa degli evangelisti? Scarsa attenzione di chi ha deciso che i Vangeli canonici dovessero essere quelli? Dubitando di queste interpretazioni minimaliste, il cenno a Simone serve a dare alla dimensione umana del divino un senso di condivisione, di partecipazione. Dio è con noi, ma non è una vicinanza «a costo zero», né Dio vuole che sia tale. Non è una concessione; è, piuttosto, un invito al cambiamento e alla crescita.
 
C’è poi un elemento in più: nel momento in cui di Gesù viene posta in risalto l’umanità, ecco che emerge con forza la necessità di condividere, di spartire il peso specifico delle cose. Di quale cosa, nel contesto in questione? Della croce, del destino, dell’handicap. Al di là dell’esattezza fisica del termine, mi è sempre piaciuto pensare che l’handicap (molto più del deficit) abbia un peso specifico e che questo sia variabile, non dato. Perché questo passaggio dal dato all’indefinito possa avvenire, occorre che la gravità sia distribuita. Non è solo un modo per condividere la fatica derivante da una situazione (la situazione di handicap), ma per condividerne il portato, le prospettive di consapevolezza che essa può aprire. Nel momento in cui divido il peso, ecco che aumento la capacità di «rivelare» le cose. Non condivido unicamente la fatica, ma la condizione in cui la fatica mi pone. Distribuire non ha solo l’obiettivo – egoistico o mosso dalla necessità – di alleggerire, quindi di sottrarre, ma anche quello di condividere in termini di crescita, di disvelamento. Si rinuncia a una parte di peso per distribuire la consapevolezza alla quale il peso porta. Si legano, così, azione e riflessione, condivisione e progresso, singolo e comunità. Scrivete a (e condividete con) claudio@accaparlante.it o al mio profilo di Facebook.
 




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