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Chiesa e disabilità – Il Messaggero di Sant’Antonio, luglio/agosto 2009

È di gennaio la notizia che il Marocco ha ratificato la Convenzione internazionale sull’eliminazione di ogni forma di discriminazione nei confronti della donna (Cedef) e, quel che più qui ci interessa, la Convenzione internazionale sulla protezione delle persone disabili.
Leggendo la notizia mi è tornato in mente l’intervento del rappresentante del Marocco al convegno internazionale di Nashville (Tennessee) di dicembre 2008, del quale vi ho già parlato in un precedente articolo.

Come là accennavo, mi aveva colpito quanto il relatore marocchino aveva riferito in merito allo «statuto» delle persone disabili nella loro nazione; emergeva, infatti, un paradosso, forse solo apparente: a quanto pare, in Marocco le persone con disabilità vengono considerate come doni da preservare, per cui… da nascondere.
Ma non è della condizione delle persone disabili in Marocco che vorrei parlarvi. Quell’episodio mi ha evocato un quesito più generale, in qualità di persona che su questi temi lavora e anche in qualità di credente: quanto incide la religione sulla capacità di sviluppare un rapporto pieno e maturo con la disabilità? Tende a facilitare questo processo o a ostacolarlo? Con le dovute differenze, infatti, come in Marocco, anche in Italia c’è da secoli una stretta interazione tra religione, storia e politica. Un intreccio che negli anni si è modificato, ma che comunque resta come dato caratterizzante e problematico.
Ma procediamo con ordine.
La Chiesa ha fatto la storia dell’assistenza rivolta alle persone disabili, contribuendo, in questo modo, a riconoscere loro un diritto fondamentale, che ne precede, direi logicamente, altri, ovvero il diritto all’esistenza. Può sembrare strano, ma se guardiamo attentamente al nostro passato, ci accorgiamo che questa dimensione di umanità era prima negata, con tutto quello che ne conseguiva.
Per cui, rispetto ad altre istituzioni, la Chiesa ha certamente sviluppato con anticipo una visione più lungimirante. I primi istituti che accoglievano persone con disabilità erano pressoché tutti cattolici.
Se da un lato questo ha avuto una ricaduta estremamente positiva, dall’altro ha contribuito all’affermazione di stereotipi rivelatisi poi resistenti nel tempo, quale l’identificazione tra disabilità e malattia, sofferenza, debolezza e assistenza. E, ancora, l’idea che un normodotato e una persona disabile «rispondano» a progetti divini diversi, per cui la seconda avrebbe una via d’accesso preferenziale alla redenzione (notate, qui, una certa somiglianza con il discorso del relatore del Marocco?). Si tendeva, ad esempio, a pensare che i Sacramenti non fossero strettamente necessari alle persone disabili, perché Dio comunque li avrebbe salvati.
Riassumendo, la Chiesa ha avuto difficoltà a immaginare la persona disabile come partecipe di diritti e soprattutto di doveri, come artefice della sua esistenza unica, come soggetto attivo. Ovvero, come credente pieno. Le cose, negli ultimi anni, sono cambiate, a mio avviso nella giusta direzione. Compito di ogni credente è anche quello di lavorare per rafforzare questo orientamento.
Sono consapevole della complessità di questo argomento, e lo spazio di una rubrica è insufficiente. Mi farebbe molto piacere che diventasse uno stimolo alla discussione, al confronto, alla condivisione.
Per concludere, vorrei segnalarvi che al Centro Documentazione Handicap, che presiedo, insieme ad altro materiale sull’argomento, si può anche trovare un recente lavoro di Elisabetta Spaggiari che affronta il tema in modo molto approfondito e convincente. Potete richiederlo.

Attendo le vostre risposte: come sempre scrivete a claudio@accaparlante.it o al mio profilo su Facebook.
 

 




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