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Meno sostegno più inclusione – Il Messaggero di Sant’Antonio, gennaio 2011

Di questi tempi, quando scarico la posta, vengo giustamente bersagliato da comunicati stampa sulla carenza di insegnanti di sostegno e sulla ritrosia dei docenti a svolgere questo ruolo. Più volte io stesso mi sono espresso sull’argomento.
Oggi, però, mi vorrei soffermare su un aspetto complementare, non ponendomi in un rapporto oppositivo. L’idea era quella di pubblicare le lettere della mamma di una bimba Down in procinto di iscriversi alla scuola dell’infanzia, con la quale ho intrapreso una corrispondenza molto intensa, ma la difficoltà a estrapolare delle parti sacrificandone altre mi impedisce di farlo. La questione ruota attorno all’eccessivo automatismo col quale si avvia l’ingranaggio «inclusione-necessità dell’insegnante di sostegno» in qualsiasi ordine di studi.
 
È indubbio che tra l’esperienza, la conoscenza e la frequentazione assidua, concreta delle cose e delle persone e la presa in carico da parte di un’istituzione (scolastica, sanitaria…) c’è uno scarto incolmabile. Senza voler offendere la professionalità e l’umanità di nessuno, man mano che ci spostiamo dall’ambito genitoriale-famigliare a quello sanitario-istituzionale ci si avvia su un piano inclinato che scivola dal rapporto con una persona al rapporto con un utente, se non con un numero.
Questi meccanismi sono per certi versi naturali, in particolare se pensati in relazione al funzionamento di strutture complesse come la scuola e la sanità. Ma la «necessaria» semplificazione comporta anche la mancanza di un’analisi sottile e davvero ritagliata sulla persona. Ammettiamolo pure: violato il meccanismo una volta, il pericolo è quello del caos, anche nel caso di eventuali eccezioni nei confronti di uno studente con disabilità: il timore, oltre a derivare dal rapporto col diverso, deriva cioè dal rischio (vero o presunto) che, se si apre una breccia, niente poi sarà gestibile, riconoscibile, affidabile. Peraltro le cose sono difficilmente gestibili, o vengono maneggiate con poca professionalità e/o con pochi mezzi e risorse, già in questo contesto di leggi, analisi, teorie.
 
In relazione ad alcune tipologie di deficit, è assurdo che già alla scuola dell’infanzia venga considerata imprescindibile per il bambino una figura di sostegno. In quell’ordine scolastico si lavora su aspetti e funzioni tali che, salvo alcuni casi, davvero non si vede perché aggiungere un insegnante che, anche involontariamente, forse per il semplice fatto di essere lì, determina un disequilibrio e, cosa più grave, un distacco sensibile tra un bambino con disabilità e i suoi compagni. Proprio in un periodo in cui le eventuali differenze «funzionali» non si manifestano in modo così evidente e in cui i compagni di classe normodotati saranno molto più sereni con (e utili a) quello disabile di quanto possa fare qualsiasi figura adulta. Onnipresente o discreta. Infatti, ogni professione d’aiuto se da una parte sostiene, dall’altra rischia di etichettare e trasmettere messaggi di deficit e inadeguatezza: una sintesi tra i due è difficile da realizzare. Occorrerebbe una maggiore attenzione al contesto e una minor attenzione al «testo» (che sarebbe il bimbo disabile): è un lavoro più lungo e complesso della «reazione» assistenziale, medica e di sostegno; ma, ripeto, teniamo sempre presente che è con un’istituzione che si ha a che fare, di necessità più rigida. Sono «discorsi tetraedrici» che andrebbero affrontati «una faccia alla volta», senza per questo perdere la visione d’insieme. Sarebbe molto importante far circolare le idee, senza che nessuno – perché non ce ne sarebbe ragione – si senta offeso o chiamato in causa o sminuito nel suo ruolo. Come sempre, potete utilizzare la mia mail (claudio@accaparlante.it) o il mio profilo di Facebook per condividere esperienze, riflessioni, dubbi, certezze.
 
 




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