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Eutanasia. Giudicare? No, grazie – Superabile, maggio 2011 – 1

A volte si verificano concentrazioni di fatti che, pur essendo casuali (le concentrazioni, non i fatti), a noi sembrano evidenziare legami, destini comuni e ci spingono a cercare associazioni di vario tipo tra gli eventi stessi. Insomma, dovremmo poter prendere atto soltanto dell’involontarietà di questi "appuntamenti di accidenti", e invece siamo invogliati a costruire dei discorsi a partire da frammenti di senso (o di fatti).

Prima le polemiche innescate dagli interventi a "Vieni via con me" di Mina Welby e di Beppino Englaro; pochi giorni dopo la morte di Mario Monicelli, suicida a 95 anni d’età, per quanto gravemente malato, anzi forse anche per quello (peraltro, proprio in questi giorni è in discussione in Parlamento l’ultimo disegno di legge proposto dalla maggioranza in tema di testamento biologico, idratazione e alimentazione, ecc). Ecco il precipitare degli eventi di cui parlavamo sopra. Casi slegati, ma simili e che hanno dato a due fazioni opposte l’ennesima occasione per scontrarsi attraverso critiche aspre, frutto di ragionamenti almeno in parte strumentali.

Innanzitutto a Fazio e Saviano vorrei riconoscere il merito di aver compreso l’importanza di un tema come quello dell’eutanasia, che chiama in causa molteplici aspetti di noi come individui singoli e di noi come individui che appartengono ad una società. Anzi, lo vedremo, è proprio ragionando sul rapporto tra queste due istanze (singolo e collettività) che a mio avviso si può rilanciare il dibattito. Se si chiama in causa il divino, o qualcosa che da noi in qualche modo prescinde, mi sembra impossibile ritrovarsi su un terreno comune. Che, sia detto di sfuggita, è ciò che tuttora rende impraticabile la definizione e l’approvazione di una legge che tuteli i diritti e i doveri di chi si trova di fronte ad una scelta o, comunque, dentro una situazione come quella vissuta dalle famiglie Welby, Englaro e da tutte le altre persone di cui i quotidiani italiani ci hanno messo o rimesso al corrente. Dando vita, così, ad una guerra di "casi umani" a mio avviso un po’ penosa e irrispettosa degli stessi.

L’argomento attiene all’idea di libertà, di laicità, di autodeterminazione, di autonomia del singolo, del rapporto tra se stessi e gli altri. Quindi presuppone e rimanda ad un’idea di legge, di Stato, di convivenza tra cittadini, di rapporto tra legislazione e scienza, di organizzazione di servizi sanitari. E altro ancora. Notate, ad esempio, che le critiche seguite alla serata di "Vieni via con me" non riguardavano solo il contenuto, il cuore degli argomenti, ma si è subito allargata ai meccanismi, ai tempi, agli spazi e alle regole ai quali la tv dovrebbe attenersi (già oggi o, in futuro, a seguito di eventuali modifiche dei regolamenti). In questo caso, avanzando la richiesta, molto poco convincente, opportuna e praticabile, a mio avviso, che se in un programma si è espresso A, allora la volta successiva, se non immediatamente a latere, debba potersi esprimere anche B.

Sono a favore del testamento biologico, quel documento che potrebbe garantire il rispetto della propria volontà in materia di trattamento medico anche nel caso in cui non si sia più in grado di comunicarla agli altri. Sono a favore del riconoscimento di un limite oltre il quale una cura si configura come irragionevole accanimento terapeutico e del diritto del singolo a determinare lui quel livello, sostenuto dai consigli consapevoli di un medico e secondo procedure che si possono pensare, valutando anche modelli esteri già operanti. Perché nemmeno su questi due ambiti (e strumenti), che tra tanti mi sembrano appartenere ad un territorio meno conflittuale, si riesce a predisporre in breve tempo una legge che contribuisca a fare almeno un po’ di chiarezza?

Sono personalmente contrario all’eutanasia, almeno nella misura in cui io non "sfrutterei" questa forma di "libertà". Ma posso dirmi teoricamente a favore della stessa. Se questa è frutto di una scelta la cui determinazione non può che derivare, dipendere anche dalla qualità, dalla quantità, dalla forza, dalla debolezza dei rapporti tra gli individui, si giunge ad un punto in cui è davvero pericoloso, e a suo modo violento, esprimere un giudizio di valore su vicende che riguardano altre persone. La morte di una persona è una scelta di vita, anche perché essa chiama in causa la vita degli altri, e questo rapporto non può essere solo di dipendenza negativa («non mi "ammazzo" o non mi "faccio ammazzare", perché gli altri sono ancora vivi»), ma anche di (in)dipendenza positiva. Come se poi tutto l’onere della decisione dovesse ricadere o ricada effettivamente su chi soffre il dolore fisico o l’inutilità di un trattamento e non anche su chi "assiste" il diretto interessato (nel senso del prendersi cura ed essere testimone partecipe di quell’evento). Come se la realtà non fosse più complicata, sottile, sfuggente e le scelte non fossero costruzioni me risultati collettivi, pur restando la vita, in ultima istanza, nella disponibilità dell’individuo e il "diritto alla vita" pertinente alle singole persone (con le dovute differenze per chi, legittimamente, ritenga la propria vita un bene "indisponibile").

Non riconoscere tutte queste implicazioni significa semplificare la questione (è questo il rischio, nonostante il numero e la coralità degli interventi a mezzo stampa possa dare l’illusione di un confronto aperto e profondo tra posizioni diverse) e semplificarla non aiuta ad approssimare una soluzione. Per evitare questo rischio ritengo che l’unica possibilità sia quella di partire da se stessi e riconoscere la fondatezza piena delle proprie idee e, allo stesso tempo, essere in grado di "allontanarci da noi", porci ad una distanza tale da consentirci il rispetto delle scelte altrui.

Vito Mancuso, in "Che cosa vuol dire morire" (Einaudi, 2010) scrive "Ogni essere umano adulto responsabile ha il diritto di dire l’ultima parola sulla sua vita". Assumiamolo come punto di partenza per arrivare ad una soluzione che non obblighi "qualcuno a", non delinei o, peggio, imponga percorsi rigidi e automatici, ma che piuttosto metta i singoli e coloro che con essi sono in rapporto nella "condizione di". E’ la natura delle cose a richiederlo.

Scrivete come sempre a claudio@accaparlante.it o sul mio profilo di Facebook.

Claudio Imprudente
 




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