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Il brutto, il bello e il “tipo” – Il Messaggero di Sant’Antonio, maggio 2009

C’è una domanda che mi frulla in testa da tanto tempo: «I disabili sono belli o brutti?». Una volta per trovare un risposta per la trasmissione Screensaver – dedicata ai ragazzi e in onda su Raidue – ho girato tutta Bologna con una telecamera nascosta. Ero curioso di sapere che cosa pensassero i ragazzi che incontravo di questo interrogativo.
A rifletterci bene la domanda, in fondo, non ha poi così tanto senso. Perché, cosa vuol dire, in realtà, bellezza? E che cosa abbiamo in mente quando pensiamo alla bruttezza? Siete davvero sicuri che le idee a riguardo siano ben definite per tutti? Esistono davvero una bellezza «vera» e una «falsa»?
Roberto Ghezzo, che lavora con me al Centro documentazione handicap ed è laureato in filosofia, ha detto più volte che l’uomo tende a considerare bello ciò che si caratterizza per originalità e integrità, mentre tende a ritenere brutto, e a classificare come tale, quello che a lui sembra una copia (imperfetta) dell’originale.
E se il disabile fosse una «copia mal riuscita»? La questione ruoterebbe, allora, attorno al concetto di vero (l’originale) e falso (la copia).
Ma questa categoria non ci aiuta, e alla fin fine non è corretta per valutare la disabilità.
Infatti è difficile, anche sforzandosi, percepire come vero qualcosa che abbiamo mentalmente deciso essere falso, perché i due giudizi sono incompatibili tra loro, e immodificabili.
Proviamo invece a lavorare su un altro orizzonte: possiamo sempre convertire in qualcosa di nostro, educandoci ad accoglierla, la novità insolita che in partenza ci è estranea.
Così succede anche con la disabilità: può essere affrontata su un piano culturale proprio perché non è una questione di verità e falsità, intraducibili l’una nell’altra.
Bisogna impegnarsi su un terreno comune che poi, in fondo, altro non è se non il riconoscere la diversità che caratterizza ogni manifestazione della vita e delle cose esistenti.
E, andando ancora più in là, questo lavoro culturale diventa anche il riconoscere che la diversità è necessaria, affinché le cose siano vive e possano così esistere.
Infatti, il discorso sulla disabilità riguarda ciò che ci sembra estraneo, ma in realtà non lo è.
Riguarda, dunque, un’apparente estraneità e una reale partecipazione di tutti ad alcune condizioni: i limiti, il possesso di abilità diverse, ecc… Riguarda, cioè, argomenti su cui può avvenire uno scambio comunicativo.
La comunicazione, e la cultura più in generale, e quindi la stessa bellezza, non sono il terreno dello scontro tra certezze, ma piuttosto del confronto e dell’intreccio tra diverse possibilità. Senza negarle, dovremmo riconoscere la necessità e l’ir­riducibile presenza delle differenze e delle ambiguità come parte del tutto, come preci­si elementi che costituiscono ogni cosa. Non possiamo scegliere tra luce e ombra, razionalità e irrazionalità, bellezza e bruttezza.
L’ordine non nasce dall’esclusione e dalla selezione. A meno che non se ne voglia coltivare un’idea limitante e riduttiva.
Tornando, allora, alle interviste per Screensaver − di cui ho parlato all’inizio dell’articolo − alla domanda: «Ma io secondo voi sono bello o brutto?», una ragazzina mi ha dato la risposta che mi è piaciuta di più: «Ma, sai, sei un tipo…».
Niente male, no?
E voi cosa ne pensate? I disabili sono belli o brutti? Esiste una bellezza più vera di un’altra?

Argomentate, scrivendo, come sempre, a claudio@accaparlante.it o cercando il mio profilo su Facebook.
 




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