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Autore: admin

Fiducia e costruzione dei legami

“La fiducia è la possibilità di affidarsi all’altro avendo la speranza che l’altro abbia comunque rispetto per te…L’operatore dovrebbe avere la possibilità e l’energia per porsi dentro la relazione di cura in uno stato d’animo interlocutorio”. Intervista a Maria Cristina Pesci, medico e psicoterapeutaFiducia si può tentare una definizione di questo sentimento?

La fiducia è la possibilità di affidarsi all’altro avendo la speranza che l’altro abbia comunque rispetto per te. Il discorso della speranza non è un discorso scontato, nel senso che noi nell’operare quotidiano lo diamo come assunto, ma invece è una cosa che meriterebbe da un lato più attenzione e dall’altro dovrebbe essere verificato.
La fiducia è qualcosa che si costruisce nel tempo e si modifica nel procedere della relazione, è qualche cosa che con accenti diversi riguarda tutti e due i poli della relazione.
C’è anche una reciprocità oltre alla speranza che comunque è unica e speciale per ogni rapporto a due che si crea e quindi in questo senso irripetibile.
Ci troviamo a riflettere su due ambiti, uno intersoggettivo che implica la presenza e l’incontro tra due persone, e l’altro che riguarda la dimensione professionale, la consapevolezza che essendo coinvolto in una professione sei chiamato anche istituzionalmente a rispondere a una serie di bisogni e di mandati legati al ruolo.

E’ possibile ricostruire le “condizioni” che permettono il nascere e il consolidarsi dei legami di fiducia fra le persone?

Non solo è possibile, anche se a volte è molto difficile, ma uno dei cardini su cui costruire l’aiuto all’altro. Noi sappiamo che qualsiasi competenza , che qualsiasi risultato è possibile raggiungere soltanto con una “colorazione” affettiva che produce la spinta e rappresenta la molla al cambiamento.
Il cambiamento inteso come parziale abbandono di vecchie conoscenze certezze, sicurezze e salto nel nuovo, nel non conosciuto, nell’incerto, in sintesi in una condizione di instabilità. In questo senso la fiducia diventa particolarmente efficace.
Insegnare a un bambino con un deficit motorio a mettersi in piedi non è una mera esercitazione tecnica ma è essere con lui in una specie di esercizio senza rete nel quale abbandonare i vecchi schemi motori implica trovare il piacere di una diversa motricità che però è anche paura di cadere, di non essere capace o di non fare troppa fatica. In questo senso la fiducia in questa relazione diventa dalla parte del bambino la speranza che ciò che la terapista propone alla fine sarà più vantaggioso e piacevole. Dalla parte del terapista una speculare speranza che questo percorso sia il meno parzialmente raggiungibile nonostante il deficit.

Come il dare e il ricevere aiuto, che si presenta in modo asimmetrico, può portare all’instaurarsi di una fiducia reciproca? Ci sono aspettative ed attese diverse? Che ruolo giocano?

Ogni relazione di cura è fatta da ruoli e da aspettative diverse che devono in parte rimanere tali in modo che non si confondano completamente i ruoli di chi aiuta e di chi è aiutato. Questa diversità sana ha almeno idealmente un potente collante che dovrebbe essere la consapevolezza del piacere di prendersi cura da un lato, dall’altro nel piacere di sentirsi aiutato e riconosciuto nei propri bisogni. A questa dimensione legata al piacere bisogna affiancare, far convivere, un altro sentimento che ha a che fare con l’aggressività che le situazioni di bisogno evocano sempre.

Lavorare accanto a chi è in difficoltà può evidenziare alcuni rischi estremi: l’essere totalmente “assorbito”, l’essere totalmente separato. Come trovare un equilibrio empatico senza annullarsi in uno di questi due rischi?

L’operatore dovrebbe avere la possibilità e l’energia per porsi dentro la relazione di cura in uno stato d’animo interlocutorio; poter quindi permettersi di interrogarsi rispetto ai bisogni a cui sta rispondendo, non escludendo che parte della propria professione è anche prendersi cura di sé stessi e dei propri bisogni. Non confondere queste due ambiti permette forse la giusta distanza.
Un bambino, ad esempio, che all’interno di una classe crea problemi di disordine e di mancanza di rispetto delle regole può essere valutato e aiutato da diversi punti di vista. L’operatore che si occupa di aiutare questo bambino può costruire delle strategie di aiuto efficaci solamente se riesce a rispondere a due interrogativi; uno riguarda quali significati questa confusione sta “raccontando” in quel contesto e per quel bambino, l’altro riguarda il mio progetto di contenere questo disordine e deve tener conto anche della mia preoccupazione di operatore di rispondere a ciò che l’istituzione si aspetta dal mio ruolo professionale.

La fiducia nasce e cresce nell’incontro. La fiducia regge alla separazione?

La separazione è paradossalmente un tema importantissimo legato al tema della costruzione dei legami e della fiducia; perché molto spesso sia gli operatori che la persona che riceve aiuto vive in sottofondo una specie di contraddizione tra la temporaneità dell’intervento e la presenza di un legame che per certi versi rimane unico e indimenticabile, nel bene e nel male.
La fiducia regge alla separazione quando entrambi i soggetti di quella relazione hanno avuto la possibilità di costruire questo legame e quindi di sentire dentro di sé un cambiamento che solo la partecipazione umana può rendere vero, autentico. Questo nucleo forte e interiorizzato diventerà nella successiva relazione, con un altro operatore, un terreno fertile su cui costruire un nuovo percorso di fiducia.
Separarsi è qualcosa di doloroso e costruttivo là dove la relazione ha permesso di sentire uno scambio tra parti importanti di sé, caricate di un senso affettivo, che non significa solamente emozioni positive accoglienti ma anche la gamma più ampia che il sentire emotivo comprende.

Le facce della diversità nella letteratura infantile

Esplicitiamo il punto di vista da cui vorremmo cominciare per proporre questo numero monografico dedicato al rapporto tra le forme della diversità e la letteratura per bambini e ragazzi; tra le molti possibili chiavi di lettura con cui accostarsi a questo tema vorremmo privilegiare l’idea di una letteratura intesa come luogo di rivisitazione della vita quotidiana. Con quest’ultima la letteratura conserva legami diretti in quanto serbatoio di storie reali e potenziali che la creatività e l’immaginazione a volte riprendono, rivedono o stravolgono sempre comunque individuando nella dimensione quotidiana un punto di riferimento.
Ma che cosa è la quotidianità?
E’ qualcosa che ha a che fare con l’ordinarietà, la ripetizione, la routine. Tutta la nostra vita è intessuta di routines senza le quali diventerebbe impossibile vivere, pena reinventare, come novelli Robinson Crosue, le pratiche che contraddistinguono il passare dei giorni.
Quotidianità è la dimensione in cui siamo immersi, che attraversiamo, dentro cui agiamo e reagiamo. Per questa sua “naturalità ed ovvietà” è la dimensione con cui facciamo più fatica a confrontarci; la comprensione dei meccanismi che la sostengono è sotterranea, spesso non ricercata così come non è scontato il farli venire a galla.
Da molti punti di vista la quotidianità fatica ad affermarsi con valore, con senso e anche con piacere.
Spesso è la rottura che in un qualche modo ci fa riprendere contatto con il quotidiano, promuovendo una forma di consapevolezza maggiore.
Nella quotidianità noi conosciamo infatti anche la rottura dell’ordinario e del consueto: l’ignoto e la paura, la malattia e la morte, la nascita difficile e la convivenza con essa. Le forme di questa rottura si presentano a volte come evento inatteso e scioccante, a volte sotto il segno della cronicità e del non cambiamento e sono spiazzanti e difficili da interpretare.

Quale rapporto tra la quotidianità e la letteratura?
Partendo da queste riflessioni tra le molte valenze possibili, segnaliamo alcuni rimandi per noi particolarmente pertinenti rispetto al collegamento fra quotidianità e letteratura:

La letteratura come catalogo, inventario del mondo che passa attraverso il rinominare le cose, il procedere alla conoscenza attraverso il linguaggio, il dare nome alle cose. E’ un rifarsi continuo a quel primo atto creativo che ricorre così forte in molti miti e testimonianze arcaiche e che rivediamo ogni volta che un bambino impara ad impadronirsi del linguaggio come processo sociale e socializzante, che ha bisogno dell’altro per compiersi.

La letteratura come mediazione verso la vicinanza con la propria e l’altrui esperienza.
Molti di coloro che amano leggere ed ascoltare storie sentono ciò che così efficacemente uno scrittore importante come Proust affermava: “solo attraverso l’arte possiamo uscire da noi, sapere che cosa vede un altro di un universo che non è lo stesso nostro e i cui paesaggi rimarrebbero per noi non meno sconosciuti di quelli che possono esserci sulla luna. Grazie all’arte, anziché vedere un solo mondo, il nostro, lo vediamo moltiplicarsi…”
Quando il punto di vista, il mondo a cui l’altro ci introduce è di segno difficile, portatore di quella faccia della realtà con cui è più faticoso e pauroso tenere aperti i legami (la malattia, la morte, l’incapacità, la dipendenza) la letteratura amplifica la sua capacità di mediazione, di introdurre elementi di collegamento, di apertura, di forme di apprendimento attraverso le vie:
della vicinanza (sì, si può parlare anche di cose difficili, passaggi aspri);
della distanziazione ( attraverso il prendere le distanze per poter elaborare);
della triangolazione (oltre me stesso e la paura c’è il terzo elemento dato dalla storia)

La letteratura come dialogo
La quotidianità è il nostro vivere ma può rischiare di essere la nostra gabbia rimandandoci un’idea di forte separatezza ed incomunicabilità:. “Io dentro al mio quotidiano, tu dentro al tuo”.
Su questo punto la letteratura spiazza, ci fa confrontare direttamente con l’incrocio di destini, il continuo rifarsi di una storia con l’altra.
La letteratura si propone come terreno di meticciato, intreccio di confluenze e stimoli. Nasce da un’ ”impollinazione incrociata” , come si esprime Salan Rusdhie, e si pone come un forte messaggio di non autosufficienza e non autoreferenzialità, uno sprone al dialogo possibile.

La letteratura per bambini e ragazzi
“La letteratura è una prigione di cristallo” (1) scrive Carmen Martin Gaite nel libro La regina delle nevi. E’ qualcosa di separato dalla vita vera, è anche, può anche essere, un territorio riparato e protetto dove provarsi con gli snodi della vita.
E’ questa una delle funzioni più significative che la letteratura assolve nei confronti dei lettori più giovani: aiutare il confronto con le molteplici facce della realtà seguendo la strada della fantasia e dell’immaginazione.
“Un racconto, un romanzo, una narrazione qualsiasi- dal momento in cui conosciamo gli elementi di base, ossia da quando l’adulto ci introduce nel mondo della fiaba- ci permette di identificarci con la (o il) protagonista e con i fatti dei quali è partecipe. Rispetto al cinema o alla televisione la pagina scritta permette una più vasta possibilità di esercitare il fattore identificazione perché la mente non è sopraffatta dal forte plagio rappresentato dalle immagini”(2)
Questa identificazione funziona proprio perché supportata dalla separazione dettata dalla pagina scritta e dal ruolo attivo che l’oggetto libro impone al suo lettore. Interrompendo la lettura decidiamo di costruire spazi di riflessione che, partendo da uno stimolo definito, prendono poi strade proprie.
Perché un libro è senz’altro molto di più che un libro:
“Un libro è scritto da qualcuno, ha un titolo, è un oggetto che circola in più copie; non tutti i libri sono uguali e quindi non vanno usati tutti allo stesso modo; la lettura è una scelta, un modo per stare insieme, un pretesto per stabilire interazioni con gli adulti o con i pari, un’attività individuale ma regolata anche da vincoli sociali; leggere è essere membri di una comunità, è ascoltare parole che provengono da un testo scritto, è usare ciò che un libro dice per fare dell’altro; leggere è una componente saliente della vita quotidiana” (3)
Leggere è incontrare altre storie e altri destini in cui riconoscere somiglianze e differenze
Incontrare una storia che ha tra i protagonisti un bambino o una bambina con un deficit o in una situazione di difficoltà costituisce un opportunità di confronto con chi si presenta con tratti differenti; un confronto mediato che può indurre ad approfondire quanto il racconto propone attraverso il paragone con la propria esperienza di conoscenza diretta di chi quella condizione di deficit o difficoltà vive in prima persona
“I libri possono aiutare a crescere, incoraggiando e parlando di sé. Per questo sono utili libri che parlano di handicappati. I bambini handicappati nei libri possono essere chiamati “ammalati”, e questo è un falso grave perché un bambino handicappato non ha una malattia da cui può guarire: ha un deficit permanente. Ma bisogna dirlo? E come? Quali libri dicono che un bambino è handicappato?(4)
Ci sono libri che aiutano un riconoscimento, che sostengono la fatica del percorso di identità, che trovano le parole ed i modi adeguati. Sono questi libri che pur rivolgendosi a lettori giovani, anche molto giovani, affrontano cose che possono far paura, temi importanti affinando le armi della curiosità, della metafora, della libera fantasia. Sono libri che propongono l’intera tavolozza dei colori vitali pur di fronte alla difficoltà e tristezza che tante situazioni raccontate propongono.

Di questo vorremmo parlare, proponendo due percorsi bibliografici che fanno riferimento al panorama editoriale italiano degli anni ’90.
Il primo affronta il tema della diversità con particolare attenzione a due fasce di lettori i piccoli e i ragazzi verso l’adolescenza. Il secondo presenta una serie di testi in cui lo stesso argomento -diversità- viene affrontato da un angolatura particolare: il rapporto tra generazioni e più precisamente fra nonni e nipoti. Da questo punto di vista i libri diventano occasione per inoltrarsi nel terreno della malattia, della mancanza di autonomia, del prendersi cura.
Accanto alla segnalazione dei testi trovano posto altri contributi:
“C’è cavallo e cavallo” a cura di Lara Dattoli: pezzo sull’utilizzo del libro per bambini in classe come supporto fondamentale per affrontare anche con i più piccoli il tema della diversità;
l’articolo “Educare alla differenza” della pedagogista Franca Mazzoli: attraverso la narrazione di storie si può avvicinarsi agli altri;
il punto di vista di una case editrice, attraverso le parole della direttrice Arianna Papini, impegnata a curare la diffusione di molti testi che introducono alla riflessione sull’essere e sentirsi diversi;
l’intervista ad un autore, Guido Quarzo, molto attento a questi temi;
il contributo di Andrea Canevaro, docente di pedagogia speciale, dal titolo “Riduzione dell’handicap”.

(1) Carmen Martin Gaite La Regina delle nevi Giunti Fi 1999

(2) Travolti da insolita passione di Roberto Denti in: LIBER Libri per bambini e ragazzi n.30 aprile-giugno 1996

(3)I bambini e la lettura. La cultura del libro dall’infanzia all’adolescenza a cura di Vanna Gherardi e Milena Manini 1999 Roma Carrocci Editore

(4)Handicap e lettura di Andrea Canevaro in : LIBER Libri per bambini e ragazzi n. 2, gennaio-marzo 1989 Comune di Campi Bisenzio Regione Toscana pp.26-30

Maria e le altre

L’associazione Piazza Grande ha partecipato al progetto Enter seguendo l’accompagnamento lavorativo di sei donne in condizione di grave svantaggio sociale. L’esperienza della responsabile, Barbara MastellariAll’interno del progetto Enter, come si inserisce la vostra azione e cosa riguarda in modo principale?

L’associazione ha partecipato con altre realtà coinvolte nel progetto alla fase di progettazione e concertazione e sta seguendo l’accompagnamento nell’inserimento lavorativo di sei donne.
Nella prima fase abbiamo approfondito incontri con il gruppo di lavoro denominato6” task force” per l’occupazione e i partner del progetto per l’individuazione di possibili enti/aziende disponibili per l’inserimento lavorativo.
Nella seconda fase ci siamo occupati dell’abbinamento delle borse lavoro delle donne, dell’accompagnamento alla ricerca di una occupazione e del sostegno nell’affrontare altre situazioni non necessariamente legate al mondo dell’occupazione.

In cosa consistono i percorsi individualizzati di reinserimento occupazionale?

Abbiamo diversificato gli interventi a seconda delle situazioni incontrate tra le sei donne del gruppo bersaglio.
Siamo partiti dai diversi bisogni e storie personali di vita, di disagio, si tratta di donne che avevano già avuto esperienze lavorative tramite borse lavoro, o lavoretti saltuari.
Abbiamo lavorato per costruire e stimolare una rete che gravita intorno alle sei donne (formata dai servizi sociali, servizi genitoriali, sportelli del lavoro, privato sociale ecc.)
Il nostro intervento nella fase di accompagnamento all’inserimento lavorativo si è concretizzato nel cercare di capire insieme ai servizi il contesto familiare e abitativo decodificando le richieste di aiuto, nell’interazione con la rete nei momenti di crisi, nell’incentivare e stimolare una rete di sostegno che possa prendersi carico dei bisogni espressi dalle sei donne. A questo si è aggiunto il sostegno e l’affiancamento anche in momenti diversi dall’inserimento lavorativo, l’intervento nel contesto lavorativo con il referente aziendale e con i colleghi, i momenti di verifica con i servizi sociali competenti e quelli di verifica e discussione con i partner del progetto.

Come hanno lavorato i tutor e che tipo di collaborazioni avete costruito?

I tutor hanno affiancato le sei donne con modalità differenti e flessibili a seconda delle situazioni emerse. Si è cercato di lavorare con tutti i partner del progetto per garantire un pieno sostegno alla persona.
I tutor hanno svolto azioni di affiancamento (azione ponte tra la persona e il servizio sociale adulti, i servizi alla famiglia, i servizi per l’orientamento lavorativo), l’intervento nel contesto lavorativo tra il referente aziendale e la persona, gli incontri periodici con il referente del supporto psico-pedagogico e con i servizi di riferimento, il supporto nei momenti di crisi sia nei confronti dell’ambiente lavorativo che nel contesto familiare affettivo.

Che tipo di difficoltà avete incontrato?

Il gruppo bersaglio è portatore di una serie di problemi che a nostro avviso il progetto non aveva ipotizzato, ci siamo accorti nel lavorare che il problema della ricerca di un lavoro, è uno dei tanti. Le sei donne hanno portato all’interno del progetto una serie di problemi complementari non indifferenti: problemi economici, problemi affettivi-familiari, abitativi, lutti, violenze, salute, dipendenza che si sono sovrapposti all’obiettivo dell’inserimento lavorativo rallentandolo. Pertanto la fase dell’accompagnamento non si è indirizzata al solo mondo del lavoro, ma si è cercato di operare in modo più ampio collegandosi con la rete costruita. Inoltre il progetto non aveva previsto le risorse delle borse lavoro che abbiamo dovuto attivare insieme ai partner del progetto.

Avete qualche storia da raccontare in base all’esperienza fatta?

Il caso di Maria è emblematico: una donna di oltre cinquant’anni, poco scolarizzata, invalida civile, separata, con tre figli adulti, tra i quali una disoccupata, anch’essa invalida e per di più senza tetto. Terminato il corso Maria era riuscita, autonomamente, a trovare un lavoro a tempo indeterminato. Nel periodo di prova ha avuto un infortunio in seguito al quale è emersa la sua invalidità che aveva taciuto al datore di lavoro. A questo punto la ditta si è tutelata e non gli ha fatto terminare il periodo di prova. Siamo intervenuti con i sindacati per capire meglio la situazione e per riattivarci alla ricerca di una nuova collocazione. La nostra fase di accompagnamento è indirizzata nel verificare la sua situazione contributiva e nell’iscrizione delle liste di collocamento speciale, nel prendere insieme a lei vari appuntamenti per la ricerca di un lavoro per le verifiche del suo stato di salute attuale e per l’attivazione delle procedure per la richiesta dell’assegno dell’invalidità civile.
Con Maria abbiamo interagito su vari piani in quanto è emerso un problema familiare di una figlia senza tetto con ricovero ospedaliero e psichiatrico.
In questa fase ci siamo attivati per fornirle un supporto insieme al ad una altro ente formativo nel far sì che la donna si riavvicinasse al servizio sociale di riferimento, verso il quale nutriva notevole sfiducia.
Con Maria ci siamo trovati di fronte ad una situazione in cui l’intervento era finalizzato anche nei confronti della figlia.

Una volta che il progetto sarà finito, quali saranno le prospettive di inserimento lavorativo?

Ad oggi abbiamo due donne che lavorano con contratto a tempo indeterminato che hanno trovato una collocazione attivandosi autonomamente. Altre due donne stanno facendo il loro inserimento mediante borse lavoro, una delle due avrà una prosecuzione, l’altra terminerà a metà gennaio, ci stiamo attivando per trovare una azienda nel settore delle pulizie con l’aiuto della task force.
Le altre due situazioni sono molto delicate, bisogna affrontare le situazioni in stretto contatto con i servizi sociali di riferimento perché sono emersi diversi problemi nel corso del progetto che stanno frenando il loro inserimento lavorativo.

La metodologia del percorso formativo

Michele La Rosa, docente di Sociologia all’Università degli Studi di Bologna, ha partecipato alla fase di studio e ricerca del progetto Enter. Sulla base di una serie di interviste effettuate a responsabili dei corsi di formazione professionale dell’area bolognese, ha individuato le linee orientative generali e metodologiche per la costruzione di un percorso formativo. Gli abbiamo rivolto alcune domande sul suo lavoroCome incidono le peculiarità dei soggetti, il fatto cioè che si tratti di persone in grave situazione di disagio, sulla ricerca di un modello formativo?

Le peculiarità dei soggetti incidono sulla ricerca di un modello formativo in quanto è ormai acquisizione generalizzata che i requisiti richiesti ai soggetti per trovare un lavoro (oggi purtroppo scarso e dunque con una “gara” che si fa “più dura”) non sono solo di natura economica o tecnica ma anche ed in specie sociale. In questo senso si comprende come il percorso formativo debba essere incentrato sulla persona.

Dal punto di vista dei formatori, quali strategie possono risultare utili e quale preparazione deve essere richiesta?

La strategia formativa impone, dal punto di vista dei formatori, una preparazione di base orientata a capacità ed esperienze in grado di comprendere oltreché conoscere i fenomeni di emarginazione e debolezza sociale, ma soprattutto implica una docenza di gruppo più che singole
docenze di materie specifiche, anche tecniche.
In una precedente esperienza abbiamo ritenuto opportuno “preparare” il gruppo dei docenti come
gruppo, laddove le singolarità hanno minor peso rispetto alla capacità e disponibilità di condividere un progetto ed un percorso comune.

Oltre agli aspetti teorico pratici quali altri aspetti devono essere presi in considerazione?

Oltre ai saperi teorici e tecnico professionali occorre prendere in
considerazione tutti i requisiti di natura sociale, quale quello di sapersi relazionare, saper esporre un problema e saper intessere un dialogo. A questo si aggiunge il sapersi presentare, ad esempio, sapendo presentare validamente il proprio curriculum.

Quali problemi si incontrano nella strutturazione di percorsi formativi a favore di queste categorie, dovendo seguire le norme europee?

I problemi che si incontrano dovendo seguire le norme europee non sono di poco conto, in quanto la Unione Europea fonda tutta la sua certificazione ed il proprio riconoscimento dei processi formativi su aspetti fondamentalmente formali, sulle competenze tecniche strettamente intese, nonché sul “successo” dell’azione formativa in termini di inserimento nel lavoro secondo le modalità classiche. Ciò ovviamente è poco applicabile nel nostro caso; per questo occorrerebbe far presente alla Unione Europea di modificare, anche se sotto rigidi controlli, le norme ora in vigore.

Esistono indicazioni metodologiche utili per potere progettare percorsi formativi innovativi?

Le indicazioni metodologiche scaturiscono da quanto detto più sopra. Vale a dire la assoluta rilevanza di una strategia formativa fondata sui fattori sociali che sono poi il più delle volte anche la causa del disagio e su un gruppo di formatori che operino congiuntamente con scelte comuni e le cui capacità vadano al di là delle conoscenze specifiche e del saper insegnare.

Formare gli operatori

Roberto Merlo, laureato in Filosofia, esercita l’attività psicoterapeutica.
Nell’ambito del progetto Enter ha fatto parte del Comitato Tecnico Scientifico del Progetto e si occupato della fase di studio e ricerca. Ha quindi curato, oltre alla funzione scientifica, la predisposizione di strumenti di indagine specifici per la parte relativa alla formazione degli operatori. All’interno di questa fase ha svolto
direttamente lezioni agli operatori partecipanti al corsoLa metodologia utilizzata per questa fase dello studio e ricerca del progetto Enter è stata quella di partire da uno studio sull’immagine della formazione che gli enti possiedono per poi, sulla base dei risultati, organizzare una proposta formativa. Come avete scelto il campione degli enti?

Sulla base delle associazioni e cooperative o enti di formazione che si occupano in modo diretto, o per ragioni che riguardano la loro attività, di inserimenti lavorativi o formazione al lavoro.
Accanto a questa lista abbiamo poi considerato il fatto che spesso in modo informale si fa inserimento o avviamento al lavoro da parte ad esempio di parrocchie o gruppi informali. In questo caso abbiamo cercato di individuare alcuni di questi soggetti sulla base di una distribuzione sul territorio.

Di che tipologia di organizzazioni di tratta in termini di localizzazione, dimensioni, ambiti operativi?

A Bologna esiste una estrema eterogeneità: si va da grandi enti di formazione con molti programmi e anni di esperienza al parroco che cerca un luogo di lavoro per una persona tramite amici e conoscenze.

Quali sono i criteri principali utilizzati per evidenziare l’idea della formazione che gli enti possiedono?

Ovviamente criteri sia quantitativi (risorse, tempi ecc… impiegati per questo tipo di attività) che qualitativi (come era concepita dall’organizzazione la funzione formazione, al di là del fine dichiarato, quali erano le funzioni secondarie che le venivano attribuite, ecc…).
Provo a spiegarmi con un esempio. Il bisogno formativo, osservato dal punto di vista di una organizzazione, è dipendente da come quest’ultima pensa la formazione come strumento e funzione.
Se una organizzazione intende ad esempio la formazione come fatto qualificante, non penserà a quella come contenuto riferito agli obiettivi ma come sistema con cui governare le sue relazioni interne. Se invece interpreterà la formazione come sistema per raggiungere gli obiettivi, gli elementi di contenuto saranno prevalenti rispetto alle altre funzioni.

Quali sono i risultati maggiormente significativi ottenuti dalla ricerca relativamente all’idea e al ruolo della formazione?

Al di là della formazione professionale, su cui ci pare ci sia poco da dire, visto che le esperienze condotte in questi anni hanno prodotto sistemi molto efficienti e efficaci, ci sembra che si debba pensare a due processi formativi specifici per questi progetti che dovrebbero avere i seguenti obiettivi, uno rivolto agli operatori, l’altro agli utenti finali cioè alle persone svantaggiate. Supportare durante il processo gli operatori che lo gestiscono con interventi che diano strumenti e metodologie integrative atte a affrontare i problemi che si pongono nel processo; introdurre metodiche di intervento nei confronti dei destinatari finali che li rendano competenti nell’ampliare la loro rete relazionale, accedere a risorse esterne e così via.
L’esperienza condotta attraverso questo progetto ha dato indicazioni utili per la realizzazione del primo obiettivo. Sul secondo ci sembra che si dovrebbe procedere nel seguente modo: da un lato dovrebbero essere messi in rete gli operatori che lavorano all’interno dei tempi di vita dei soggetti a forte tasso di emarginazione (dai delegati sociali di recente formazione agli operatori di strada, dagli animatori di territorio agli operatori che si occupano di inclusione, ecc…); ciò permetterebbe di seguire fuori dai servizi, nella quotidianità, i soggetti, agendo sulla vita concreta di questi ultimi in modo congruente. Dall’altro lato infine si dovrebbero attivare, all’interno degli stessi processi di formazione professionale, momenti di formazione professionale e di accompagnamento all’inserimento, momenti di formazione – intervento in gruppo che siano finalizzati a riattivare le competenze necessarie (nei destinatari) per autonomamente occupare in termini alternativi rispetto alla cronicità e all’ autoemarginazione i tempi di vita.

Una parte del questionario è dedicata al profilo ideale del buon operatore: quali risultati
sono emersi e quali valutazioni è possibile fare?

L’immagine dell’operatore ideale è abbastanza differenziata e articolata il che significa che non esiste una concezione del tipo “delirio di onnipotenza” ma emerge una certa idea di dove gli operatori dovrebbero arrivare per essere “ideali” rispetto all’organizzazione. Mi sembrano particolarmente significative le quattro competenze che hanno ottenuto meno adesioni: la capacità di progettare momenti formativi per gli utenti con cui l’organizzazione lavora, la conoscenza e padronanza dei vincoli posti dal contesto (ente, istituzione, struttura), la capacità di rapportarsi con le strutture amministrative del territorio e, infine, quella di sapere animare i gruppi e le persone.
Rispetto alla figura di operatore che emerge dal questionario, quindi rispetto all’immagine reale, occorre sottolineare alcune delle competenze privilegiate dagli intervistati: il sapere lavorare in équipe, il sapere condurre una relazione di aiuto e la capacità di dialogo con gli utenti, la capacità di reggere l’aggressione dell’utenza e quella di sapere riconoscere quando non spetta all’operatore rispondere ai bisogni sapendo rimandare a chi di competenza. Infine l’essere in grado di organizzare il lavoro, di osservare e di trarre soddisfazioni dal proprio lavoro.

La metodologia utilizzata nella fase di studio e ricerca del progetto Enter, basata sull’analisi sul campo e sulla successiva organizzazione di un percorso formativo, quali vantaggi comporta? Si è sempre dimostrata funzionale? Sono proponibile delle alternative?

Il primo dato che emerge dalla visione di insieme dei tre sistemi di risposte è che le organizzazioni del campione intendono relativamente la formazione come un sistema atto a migliorare la qualità del loro funzionamento.
Ci sembra però di poter dire che questa visione funzionalistica non è precisa e chiara nel suo realizzarsi. Basti citare il fatto che la formazione non è vista come strumento che avvicina l’immagine reale all’immagine ideale.
Vi è un’idea della formazione più come strumento residuale rispetto al suo compito mentre non compare un’ dea strumentale, ad esempio la formazione come strumento di governo organizzativo o altro.
Pensare la formazione come isolabile dai contesti organizzativi e dalle dinamiche che le stesse organizzazioni vivono quotidianamente con i contesti allargati, significa astrarla e renderla ambigua.
Certo ciò comporta difficoltà ulteriori non solo in termini di tempo, ma non vi è alcuna alternativa.

Quali caratteristiche ha avuto il percorso formativo strutturato sulla base dei dati raccolti?

La caratteristica principale è stata quella di costruire un percorso che, partendo dall’analisi del lavoro svolto concretamente dai formandi tra un incontro e un altro, fornisse loro in itinere teorie e metodi per leggere in modo più articolato e complesso le loro risposte e il loro modo di porsi tra i bisogni del progetto e dell’organizzazione e i bisogni dei destinatari finali.
Si è trattato quindi di una formazione in azione in cui il docente funzionava come risorsa di processo e non come colui che impone il processo.

E’ stata fatta una verifica sul risultato del percorso formativo? Cosa ne è emerso?

Si è stata fatta tramite un doppio sistema di valutazione di processo: un questionario e una discussione partecipata.
I risultati sono stati indubbiamente buoni. Dal questionario è emerso un aumento della consapevolezza del proprio ruolo e delle proprie capacità e competenze e un ridimensionamento dell’immagine onnipotente del formatore-accompagnatore tipo.

Riduzione dell’handicap

Immaginiamo la rappresentazione del tempo e della sua qualità con i colori e immaginiamo come possa essere scombinata la vita di una persona, di una famiglia, dalla presenza di un evento inatteso e nei confronti del quale si ritiene di non avere nessuna risorsa, nessuna preparazione, quale può essere la nascita di un bambino o di una bambina con delle esigenze particolari dovute a un deficit.
Questa situazione può rendere la vita, anziché una combinazione di colori, una policromia, perché è fatta di tanti elementi diversi tra loro che si combinano più o meno armoniosamente, una vita che ha solo un colore. Esempio: una vita tutta fatta di dedizione, di oblatività. Questa situazione monocromatica è tanto più evidente quando la situazione di handicap è grave, e gli elementi di quotidianità sono così costantemente bisognosi di una presenza accanto a chi è handicappato, bambino o bambina, da costituire un vincolo e rendere impossibile lo svolgimento di altri compiti talmente marginali da non essere neanche avvertiti come presenze nella vita. Sembra quindi che vi siano delle riduzioni continue delle altre possibilità che vengono allontanate, rese più difficili, sporadiche, acrobatiche, per concentrare tutta la propria vita, la propria esistenza attorno alla vita e all’esistenza di un soggetto. Non è, è evidente, solo l’aspetto materiale di vita quotidiana ma anche l’occupazione della mente. Vi possono essere anche persone, familiari, che svolgono molti compiti professionali ma tutta la loro vita mentale è occupata dalla presenza costante di quel figlio, di quella figlia, se sono genitori, o di quell’individuo, se hanno altri rapporti sia di famiglia, sia di amicizia.
Qualificare il tempo
Questo rende importante capire quanto il tempo vada restituito a una policromia, e rende importante capire quale sia il successo di quelle proposte che occupano, anche materialmente, il tempo delle persone che vivono accanto a una persona handicappata, a un individuo handicappato, uomo o donna, bambino o bambina, ed anche il tempo dell’individuo che ha delle esigenze particolari.
Al di là della comprensione di efficacia, vi sono delle suggestioni potenti che fanno aderire a una proposta, quasi unicamente perché può qualificare il tempo. Ora è quasi evidente che il giudizio relativo a certe proposte può essere anche negativo, ma non raggiunge il nucleo essenziale di quelle stesse proposte. Sembra che vi sia la necessità di qualificare il tempo attraverso una proposta che lo riempia di attività. Se poi vi è anche la speranza che queste attività abbiano un valore abilitativo e terapeutico questo è un valore aggiunto ma non indispensabile.
Abbiamo l’impressione che a volte vi sia una necessità quasi fisiologica di avere qualcosa che impegni il tempo. E allora se questo è un punto di partenza di una riflessione bisogna andare oltre per capire come in presenza di una situazione di handicap sia importante ragionare per restituire al tempo una qualità di policromia: restituire diversi colori.
Certo, non abbiamo con questo la possibilità di essere sicuri che i diversi colori armonizzino tra loro, che siano organizzati in termini unitari e non dividano la vita in termini tali da frantumarla, per cui dobbiamo aggiungere che la policromia va costruita insieme, non può essere dettata dall’esterno ma fatta nascere da un progetto in cui l’individuo che è protagonista sia aiutato certamente, ma faccia delle scelte.
Questo individuo lo vogliamo concretizzare in una figura femminile, e ancora di più in una madre ? ma è un esempio e potremmo sostituirlo benissimo anche con una figura maschile, e forse con un padre. Scegliamo una madre anche per un doveroso riconoscimento che buona parte delle riflessioni sul tempo viene da donne. Personalmente credo di dovere molti meriti a molte donne, ma mi conviene riassumere e attribuire un merito specifico a Matilde Callari Galli che su questa questione del tempo delle donne ha molto riflettuto e aiutato altri a riflettere. Un tempo monocromatico vuol dire, per quella figura che ho scelto come esempio, un tempo tutto dedito alle operazioni quotidiane di assistenza a un figlio, a una figlia, nell’esempio che facciamo è questo.
Già dicevamo della possibilità che questo tempo di dedizione sia qualificato da una proposta, rimane un tempo tutto oblativo, quindi monocromatico, ma almeno organizzato in un percorso, o tale si presenta. Nello stesso modo di proporre, però, vi sono a volte aspetti che vengono sottovalutati, e che riguardano una possibilità che la proposta di un programma intenso, di attività da svolgere quotidianamente, minuto per minuto, sia accompagnata da una spiegazione di quelle che sono le condizioni che quel bambino, quella bambina, vive.
A volte chi è del mestiere, e ha una preparazione tecnica e scientifica, considera quelle spiegazioni molto superficiali se non erronee, e non prende in considerazione l’aspetto che invece noi qui vogliamo esaminare: che in quella proposta vi è anche una valorizzazione del potenziale cognitivo, detto in un gergo che può essere anche fastidioso, della mamma presa nel nostro esempio. Anziché ritenerla una persona senza una preparazione accademica e scientifica, e quindi incapace di comprendere la situazione, quella proposta ha fatto in modo, forse superficialmente, forse erroneamente, ma noi qui vogliamo trascurare questo aspetto, che quella persona fosse apprezzata per la sua possibilità di comprensione anche intellettuale. Entra, in questo aspetto, una considerazione che già può essere sviluppata per la nostra ipotesi di tempo a più colori. Possiamo fare, se siamo capaci, meglio di quella proposta ipotizzata e allusa che fa riferimento a delle spiegazioni o erronee o comunque semplificanti.
I libri per i genitori: libri demagogici
Abbiamo una letteratura che ha alcune scritture, alcuni libri rivolti in particolare ai familiari, ai genitori, alle mamme. Questa letteratura può essere, a grandi linee e schematicamente, divisa in due settori: uno è un settore che chiameremo “demagogico” e l’altro è un settore che chiameremo “dialogico”.
Il settore demagogico ha delle semplificazioni eccessive, ha la caratteristica di essere astorico, descrive una situazione di bisogni particolari come se fosse un dato, e non come elemento di una ricerca che ha avuto una sua storia e quindi delle evoluzioni, delle capacità di essere espresso in termini diversi da quelli in cui vengono espressi oggi. E’ a?storico, è a?problematico, è un genere letterario che si configura come semplificatorio, riduttivo, e considera quindi i suoi lettori e le sue lettrici come delle persone incapaci di sostenere il confronto con un’opera in cui vi siano delle parti da approfondire, perché alla prima lettura sono oscure. Deve quindi svolgersi secondo una chiarezza artificiale.
I libri per i genitori: libri dialogici
Una seconda categoria di libri è dialogica. Considera quindi chi legge come persona che può affrontare anche delle difficoltà, può non capire subito, ha bisogno di approfondire, ha bisogno di collocare le conoscenze che riceve in una problematica non sempre precisa, ha bisogno anche di incontrare i dubbi e di non avere delle posizioni trionfalistiche, sicure di sé. Nella categoria demagogica dubbi non ve ne sono, si fa così, quindi la traduzione è: “tuo figlio, tua figlia, è, ed ha bisogno di..”, tutto è molto semplice, sicuro, chiaro. Vi è una proposta, ed è quella che funzionerà se tu la saprai far funzionare.
Nell’altra letteratura, anche rivolta a chi è genitore, a chi è mamma, vi è una linea di continuità con la letteratura scientifica che non si indirizza a questi lettori. Vi è quindi una possibilità che quel libro permetta l’inizio di una riflessione più ampia non necessariamente solo in termini scientifici ma anche in termini letterari, poetici, storici, analogici; si può scoprire che la situazione di chi vive attorno a chi ha esigenze particolari può essere analoga ad altre situazioni molto diverse, di altre popolazioni, di usi e costumi, ecc. Vi è la possibilità che il tempo cominci a colorarsi e che accanto a una vita monocromatica, tutta dedita all’assistenza vi sia anche una vita intellettuale, che a sua volta si apra in molte possibilità. Forse si riscopre, o si scopre, qualcosa che permette di avere delle risorse non solo di compensazione.
La compensazione è necessaria: chi ha una sofferenza cerca, ed è umanamente molto giusto, di compensarla con qualche gratificazione, con qualche compensazione, può essere nella religiosità, può essere nell’attività sociale e politica. Non solo, però, compensazioni, non solo, quindi, riequilibrio ma anche sviluppo, possibilità di procedere, di regalarsi delle soddisfazioni non per restaurare l’ordine o per pareggiare i conti, ma per andare avanti.
Sottrarre il dolore
La policromia, la colorazione del tempo è molto importante, e diventa anche un elemento di comprensione di cosa può accadere qualora qualcuno in una posizione di generosità, certamente, sottragga all’altro il dolore, la pena, l’afflizione; anziché entrare per collaborare alla costruzione della policromia vi può essere una assunzione dell’afflizione dell’altro in termini che generosamente sono: “ti tolgo l’afflizione”, ma che possono essere letti come: “mi togli l’unica cosa che ho”: il vuoto di colore; anziché la monocromia, vi è una monocromia spenta; si spegne anche l’unico colore che c’era, quella dedizione me la prendo io.
Nel rapporto con chi vive la situazione di handicap vi può essere questa generosa proposta di assunzione totale dell’afflizione: può essere rivolta a chi è direttamente protagonista, a chi ha dei bisogni particolari; può essere rivolta a chi è vicino. La policromia è una proposta che serve a tutti, in particolare a chi vive la situazione di handicap, sia perché è handicappato, è handicappata, sia perchè vive accanto. Sottrarre il dolore, sottrarre l’afflizione è una logica molto presente nelle persone generose, ma è una generosità poco costruttiva che rischia di degenerare in assistenzialismo, e nell’assistenzialismo una presenza costante è quella di accentuare i bisogni o moltiplicarli, per costringere l’altro ad occuparsi sempre della situazione. Quindi l’assunzione dell’afflizione non è efficace, perché ve ne è sempre dell’altra.
Policronia
Questa è con tutta evidenza una descrizione schematica; ciascuno la può articolare a seconda delle diverse realtà che vive. In positivo noi dobbiamo riflettere sulla utilità di svolgere una azione che permetta la costruzione di un policromia; la parola “policromia” può essere però anche sostituita dalla parola “policronia”, i colori possono essere sostituti dal tempo. Più tempi e non solo un tempo: il tempo dell’assistenza ma anche il tempo dell’intelletto, il tempo della riflessione quindi anche la possibilità che nei più tempi, nei diversi tempi, vi sia un’occupazione di ruoli diversi; in un tempo un soggetto è protagonista, in un altro tempo è spettatore. E questo è un elemento importante perché a volte la vita di chi ha dei bisogni particolari è ancorata a un solo ruolo, sempre spettatore, sempre comparsa, oppure sempre protagonista. Il protagonismo di alcune persone handicappate è evidente, così come è anche evidente, anche se meno imponente, si impone meno, il ruolo di comparsa di tante altre persone handicappate.
Occupare un solo ruolo vuol dire vivere una vita vincolata a una sola posizione e quindi, a rappresentarla in un’immagine, fortemente anchilosata, in cui è più facile che si sviluppino delle piaghe da decubito, in senso figurato e a volte anche in senso reale, ma più spesso in senso figurato. Più spesso di quanto si creda. Diventa una vita che appoggia sempre in un solo punto, mentre la policromia, che diventa in questa descrizione policronia, permettendo lo svilupparsi di diversi colori e in diversi tempi, permette anche di cambiare ruolo, e quindi di avere una rappresentazione di sé variata, e di migliorare l’apprendimento. Il cambiamento di ruolo permette di imparare, cioè di trasportare qualche cosa da una posizione all’altra e alimentare le nostre riserve di apprendimenti.

Appartenenza: la lacerazione dell’appartenenza e la ricostruzione della stessa

La riflessione fatta sulla qualità del tempo può essere rifatta, quasi ripercorsa con lo stesso pensiero, però con un’altra chiave di lettura che è quella dell’appartenenza. “Appartenenza” è un termine che ha una particolare attualità dal momento che, nell’epoca in cui la parola “globalizzazione” è diventata sempre più una realtà, vi sono anche delle forti tendenze a creare delle appartenenze localistiche e quindi a rompere l’appartenenza a una società ampia per individuare nella piccola patria il motivo di appartenenza. In alcuni casi questo ha sviluppato dei frazionamenti tragici, che hanno comportato dei conflitti; la ex Jugoslavia non finisce di vivere questa situazione. Anche dove la condizione non è tragica vi sono rivendicazioni localistiche per attribuire all’appartenenza locale un primato e quindi per essere più portati a riconoscerci in chi abita da tempo in un certo contesto e vedere in chi arriva da lontano un usurpatore, un invasore. Il termine “appartenenza” sta prendendo un posto importante nella nostra riflessione. Vorremmo capire quanto è importante sentirsi parte, e anche quanto è importante sentirsi parte del mondo, non solo di una piccola zona.
L’appartenenza ridotta alla piccola zona facilmente sconfina nella xenofobia e nella conquista o nella difesa di privilegi. Appartenenza al mondo, all’umanità. Vi sono momenti in cui si può vivere una lacerazione dell’appartenenza, oppure si può nascere sentendosi come lacerati rispetto all’appartenenza, ed è questo il caso di persone che noi definiamo handicappate, o delle persone che vivono con lacerazione: si rompe un concetto e una realtà sedimentata, nasco handicappato quindi faccio fatica ad appartenere, ad essere parte di un tutto, non vengo riconosciuto parte e ho bisogno di ricostruire o costruire un’appartenenza, con il rischio di costruirla in una categoria.
La ricostruzione dell’appartenenza o la costruzione dell’appartenenza significa procedere a un riconoscimento di elementi che sono comuni. A volte un eccesso di naturalismo banalizza gli elementi comuni. Trovare il valore simbolico nella respirazione e nel battito del cuore può essere un riscoprire qualcosa che è in tutti ed è tutt’altro che banale, e il valore simbolico è l’elemento aggiunto dell’umanità rispetto alle bestie. Si potrebbe pensare che abbiamo molti elementi in comune con le bestie. Ma il respiro fatto di pieni e di vuoti diventa un ritmo che può avere una sua musicalità, essere sviluppato in una musicalità creativa, e questo il mio cane non lo saprà fare; forse lo saprà riconoscere perché lo educherò a riconoscere il mio fischio che è la modulazione di un ritmo. Da respiro a ritmo vi è un’aggiunta di creatività, di costruzione simbolica a cui il mio cane si adegua e a cui contribuisce passivamente perché forse mi ispira, ma non sa aggiungere altri elementi intellettivi.
L’assenza di parola
Non posso pensare che un soggetto gravemente handicappato sia comparabile al cane perché, come il cane, non parla. L’assenza di parola non lo fa appartenere agli animali che non parlano ma gli consente ancora di essere parte degli animali parlanti, perché ha una potenzialità di accesso al linguaggio che rimane inalterata. I parlanti possono essere anche “insegnanti”, ovvero coloro che tra i sordi seguono il linguaggio dei segni. Si può parlare attraverso gli ausilii. La parola non è unicamente quella che si emette vocalmente ma anche quella che si rappresenta.
Non abbiamo nessuna possibilità che il mio cane acceda alla parola se non per addestramento riconoscendo alcune parole; il mio cane sapiente si può esibire in un circo riconoscendo un certo numero di parole, ma è frutto di un addestramento e non è generatore di linguaggio, e non aggiungerà una parola.
Il concetto di appartenenza ha dei risvolti molto pratici e la ricostruzione dell’appartenenza vuol dire ricostruire degli elementi primordiali che permettono di riconoscerci appartenenti al genere umano. Questo può essere un contributo fondamentale che le persone handicappate, che hanno esigenze particolari, possono dare al nostro tempo così bisognoso di “ricapire”, o capire, originalmente, che cosa significa appartenenza. Ma così bisognoso anche di vivere l’appartenenza, nella quotidianità, e non solo di capirla nei momenti alti della nostra riflessione.

Un’ esclusione particolare: esclusione in categorie, esclusione mascherata

Già dicevamo come vi può essere un tentativo di superare la lacerazione dell’appartenenza costruendo una appartenenza in una categoria ed escludendo la possibilità di appartenere a qualcosa fuori da quella categoria. Bisogna intendersi: se io fossi un pensionato e mi sentissi appartenente alla categoria dei pensionati questo avrebbe un significato più che tranquillo e componibile nel fatto che io mi sento anche appartenente a un genere umano più ampio.
E’ diverso se io caricassi l’appartenenza alla categoria dei pensionati di un significato di esclusione dall’appartenenza al resto del genere umano, riconoscendomi unicamente in coloro che hanno una certa età, che hanno avuto un’esperienza lavorativa in un certo settore e vivendo ostilmente ogni altro contatto: è un’esclusione. Alcune appartenenze sono costrette a nascere nel segno dell’esclusione. Vi è la possibilità che questa diventi un’appartenenza mascherata e che in realtà tutta una categoria continui ad essere esclusa.
Categorie perseguitate categorie protette
In questo punto della riflessione è necessario fare anche un riferimento a quella discriminazione positiva che consiste nel considerare una certa categoria, ad esempio, gli invalidi, come protetta rispetto agli altri. E’ quasi banale dirlo: nel mondo molte situazioni di protezione hanno consentito una esclusione altrettanto efficace di altre esclusioni violente. In genere le categorie protette, come le riserve indiane, sono state protette dopo essere state perseguitate e quindi sono i resti protetti.
Questo appunto potrebbe permetterci un approfondimento storico che è anche necessario individuare come pista di riflessione e di lavoro. Qui ci preme però ricordare come la categorizzazione sia una maschera, e quindi come tale sempre ricostruita, non tanto identificabile nelle forme che ha assunto in passato quanto riscopribile nelle forme nuove, non sempre individuabili.
Diventa quindi un segnale, o una chiave di lettura, di situazioni che possono anche presentarsi ed essere ispirate a dei criteri di integrazione e quindi alla possibilità e alla speranza che vi sia un’ampia appartenenza.
Abbiamo una serie di dizioni che possono essere elencate, e ciascuno potrebbe trovare che hanno un’esclusione mascherata oppure una possibilità di attuare l’appartenenza. Si pensi alla dizione “laboratorio protetto” che per molti ha significato un avanzamento nella possibilità di integrazione poi, a un certo punto, è stato avvertito invece come un limite ma che in un progetto potrebbe risultare ancora come un percorso, una parte di percorso verso l’appartenenza. Si pensi alla dizione “terzo settore” ispirata a una necessità e a un desiderio di creare delle possibilità di appartenenza ampia, con il rischio, però, che era presente anche nel laboratorio protetto.
Non vi sono proposte garantite a priori rispetto all’esclusione mascherata, quindi a questo tipo di esclusione dall’appartenenza del tutto particolare che esprimiamo nell’espressione semplificata “esclusione in categoria”.

La definizione di situazione dì handicap

E’ venuto il momento di capire cosa si dice usando l’espressione “situazione di handicap”. Probabilmente in una certa logica sarebbe stato necessario iniziare questa riflessione da questo punto. Quello che ha trattenuto dal seguire un andamento di questo tipo è il non ricadere in una modalità banalizzante. Posta a questo punto della riflessione la definizione “situazione di handicap” dovrebbe essere già più chiara: non si parla unicamente di individuo che ha un deficit ma del contesto in cui abitualmente vive il singolo individuo che ha dei bisogni particolari.
Parlare della situazione di handicap significa prendere in considerazione i diversi soggetti che sono abitualmente collocati in questa situazione, e quindi anche dei familiari. Ancora si può dire che il soggetto deficitario vive la situazione di handicap allo stesso modo di come vivono le situazioni di handicap i suoi familiari e le persone che abitualmente risiedono o vivono con lui o lei. E’ quindi necessario, riducendo l’handicap, affrontare tutta la situazione e non unicamente gli aspetti legati al singolo che ha un deficit. Un processo riabilitativo, ad esempio, può consentire l’applicazione di un trattamento tecnico relativo al soggetto, e deve però anche prendere in considerazione la vita delle altre persone che vivono nel contesto.
Ridurre l’handicap
Questa definizione di “situazione di handicap” permette di rileggere i punti precedenti nella logica di questo intervento, cercando quali sono i modi per ridurre l’handicap. Allora si può riprendere la questione relativa alla qualità del tempo, alla policromia, che sostituisca la monocromia, per capire come questo sia un modo importante per ridurre l’handicap. Si può riprendere il tema dell’appartenenza per capire come questo sia un elemento fondamentale della riduzione dell’handicap ed ancora riprendere l’attenzione alle nuove forme di esclusione nelle appartenenze categoriali per capire come anche questo sia un punto importante nella riduzione dell’handicap. “Riduzione dell’handicap” è accompagnata da una ricerca di comprensione di ciò che è l’elemento dato, cioè il deficit: l’elemento dato non può essere ridotto mentre tutti gli elementi variabili, e sono da scoprire, possono essere ridotti.
Abbiamo già visto come una riduzione dell’handicap che sia operata in termini tali da non consentire la partecipazione a questo sforzo possa rischiare di produrre nuovi handicap.
Migliorare le informazioni
La diminuzione dell’afflizione operata da un agente totalmente esterno può ridurre sì l’afflizione ma provocare risentimento, cioè un nuovo handicap. Ed è questo uno dei punti principali della necessità di collegare ogni intervento tecnico ad una capacità di sviluppare l’attenzione partecipativa, la tensione partecipativa. E’ questa una delle buone ragioni per pensare che una diffusione delle informazioni non possa sostituirsi alla struttura dialogica diffusa sul territorio. Vi possono essere molte buone occasioni perché le tante persone che sono in qualche modo connesse alle situazioni di handicap abbiano un miglioramento delle informazioni. Questo è un compito importante da assumere socialmente.
Questo non toglie la necessità di avere delle buone possibilità di incontro. L’elemento partecipativo non può rimanere legato a dei mezzi freddi, va anche espresso e vissuto attraverso degli incontri umanamente caldi. Su questo bisogna avere una riflessione operativa che comporti un chiarimento sulle professioni che chiamiamo “di aiuto”. Ma prima di abbordare quest’ultimo punto della nostra riflessione conviene ancora esaminare l’aspetto della riduzione dell’handicap legato proprio alla possibilità che vi siano maggiori informazioni diffuse e quindi la possibilità che vi siano delle strutture che chiamiamo Centri di Documentazione, ben organizzati e diffusi in una forma che riteniamo debba essere riferita alla dimensione provinciale.
Studiare il tema del deficit e dell’handicap
Oltre a questo elemento di diffusione dell’informazione è importante sottolineare quanto sia utile, nello specifico della scuola, permettere e favorire la qualità dell’integrazione nel curricolo, vale a dire la possibilità che chi studia studi anche integrando alle aree disciplinari il tema del deficit e dell’handicap e non lo consideri un elemento di benevolenza, un elemento di solidarietà e una sfida cognitiva. Bisogna che chi è a scuola con un compagno, una compagna handicappata abbia la possibilità di conoscere, cioè di studiare, quello che è l’aspetto scientifico, letterario, artistico, relativo alla tematica del deficit ? handicap a partire anche dallo specifico del compagno, della compagna, cercando, è quasi scontato dirlo in questo contesto, di rispettare l’altro e di sviluppare un livello di dignità nei confronti del tema e delle persone che lo vivono con maggiore intensità.

Il quadro delle professioni di aiuto

Abbiamo già fatto riferimento a una necessità di chiarire quelle che sono le professioni definite “di aiuto”. Non sono necessariamente le sole professioni che hanno a che fare con il deficit ma riguardano l’arco di vita di ogni individuo. Nelle professioni di aiuto non vi sono unicamente quei ruoli che entrano in contatto con un individuo quando vengono meno delle reti sociali abituali, o quando insorgono dei problemi specifici. Sono professioni di aiuto quelle, e soprattutto quelle, che entrano in rapporto con un bambino, una bambina, al momento che frequenta un nido, una scuola dell’infanzia, un percorso scolastico, una polisportiva, ecc. Quindi le professioni di aiuto sono quelle che permettono di sviluppare la propria crescita e la propria vita per tutto l’arco della stessa. Vi sono poi delle specificità che riguardano i momenti o le situazioni che esigono delle attenzioni particolari.
Questa definizione delle professioni di aiuto, come si può capire, è sufficientemente ampia da comprendere una quantità di professioni sfumata verso quelle che hanno dei ruoli sociali senza avere un mandato specifico di aiuto. E’ quasi evidente che nella vita sociale la possibilità di vivere in una situazione in cui i negozi sono presenti e hanno degli esercenti di una certa qualità umana permette di vivere meglio. La possibilità di avere dei mezzi di trasporto pubblici decenti permette di vivere meglio. Queste, quindi, sono figure sfumate. Tante altre professioni sono anche queste relative a un certo aiuto a una qualità della vita.
Ridefinire il quadro delle professioni di aiuto
Ma il fuoco, cioè il nucleo centrale delle professioni di aiuto, sono quelle che hanno a che fare con il binomio educazione?salute, per tutto l’arco della vita. E queste professioni hanno in questo momento storico un quadro molto poco chiaro: poco chiaro il ruolo degli educatori professionali in rapporto agli insegnanti, poco chiaro il rapporto tra riabilitatori e volontariato.
E’ quindi necessario ridefinire un quadro delle professioni di aiuto in cui sia possibile individuare i percorsi formativi e i collegamenti, le connessioni, fra una professione e l’altra. Questo oltre ad essere un elemento importante per il tema della riduzione dell’handicap costituisce anche un elemento importante per il controllo e la qualificazione della spesa. Non saremmo molto soddisfatti se ci fosse unicamente il controllo della spesa non accompagnato da una qualificazione della spesa relativamente alle professioni di aiuto. Mancando un quadro è complicato, se non impossibile, avere una definizione della finalità della spesa, e quindi una qualificazione sua progressiva. Investire in un quadro sicuro significa poter poi avere delle progressive riduzioni della spesa o comunque avere vantaggi tali da permettere delle forti economie. E anche questa è una riduzione dell’handicap perché, lo abbiamo potuto constatare vivendo questo problema, l’assenza del controllo della spesa può portare a delle ondate favorevoli seguite poi da riflusso, e rendere il tutto molto precario.
E’ questo il punto importante della riduzione dell’handicap legato allo specifico del quadro delle professioni di aiuto: uscire da una sensazione, che non è solo un sentimento ma è anche un dato, di precarietà, di provvisorietà: quello che mi è offerto oggi è incerto che io me lo ritrovi domani.
Un esempio: il Poli Handicap Adulti
Un esempio: nella realtà in cui opero sono presenti delle strutture specifiche che riguardano gli handicappati adulti. Sono state indicate come Poli Handicap Adulti con una sintesi di vocaboli e di dizione che non è perfettamente adeguata alla comprensione di ciò che fanno. Dovrebbe essere Poli per la riduzione dell’handicap in persone adulte, ma diventa molto lungo e allora la sintesi è Polo Handicap Adulti. E questa è una realtà importante perché permette di avere una struttura leggera composta da non molti operatori capaci di connettere i diversi interventi e di seguire per un arco di tempo molto ampio i soggetti che hanno delle esigenze particolari. Ma la sensazione che molte persone che si rivolgono a questi servizi hanno è di avere a che fare con una struttura ai limiti del provvisorio e sicura fino a un certo punto, con operatori che non sono sempre garantiti del prosieguo del loro lavoro. Vi sono a volte cambiamenti dovuti al fatto che il contratto di un operatore scade, o si è passati a regime con dei cambiamenti di personale, cambiamenti che non sono stati bene illustrati e che quindi vengono capiti come conferma di grande provvisorietà.
Il riferimento al tema del quadro delle professioni di aiuto vuol dire rimboccarsi le maniche, per ridurre questo handicap così grande che è la provvisorietà, la precarietà, per dare invece una possibilità progressiva di certezze. Avere delle certezze è uno degli elementi fondamentali della riduzione dell’handicap. Ed è per questo che il punto conclusivo fa riferimento alla parola “quadro”, come a qualcosa che ha un insieme, che deve costituire un insieme in cui gli elementi dinamici possono e devono sussistere: elementi di crescita, di maggiore precisazione, di cambiamenti continui, ma all’interno di un quadro che dà sicurezza di certezze.
Concludiamo con un nota inevitabile. Il tema “riduzione dell’handicap” è enorme e quindi abbiamo dovuto per forza scegliere alcuni dei punti su cui svolgere una certa riflessione. Lo abbiamo fatto con la convinzione che siano punti nodali, che non siano esaustivi ma permettano di irrigare un ampio territorio e di arrivare ad elementi più nascosti e forse importanti che a prima vista non si scorgono. Questa è stata la scelta per affrontare un tema così vasto, così importante ed anche, sia detto senza retorica, così appassionante.

C’è cavallo e cavallo

Una proposta del Progetto Calamaio per le scuole elementari e dell’infanzia.Il Progetto Calamaio nasce nel 1986 all’interno del CDH di Bologna e propone incontri nelle scuole di ogni ordine e grado sul tema della diversità. La sua specificità è di essere ideato e progettato da persone con deficit fisico con la collaborazione di educatori e animatori.
Una proposta per i bambini e le insegnanti delle scuole elementari e dell’infanzia si snoda sulla fiaba di Jòzef Wilkòn dal titolo “C’è cavallo e cavallo”.
Le attività proposte sono incentrate sul riconoscimento della diversità rispetto a ciò che ognuno di noi sa fare o desidera fare. Si scopre così che oltre ad essere uguali e diversi spesso sappiamo fare cose che ci differenziano l’uno dall’altro, rendendoci unici. L’omologazione, l’essere a tutti i costi uguali, ci snatura, impoverisce e rattrista.
L’incontro diretto con gli animatori con deficit del gruppo permette momenti di confronto e approfondimento su queste e altre tematiche, quali la paura, la difficoltà, la fiducia e l’aiuto.
Il racconto della fiaba verrà supportato graficamente da un cartellone con dodici scene, coperte da altrettante tendine, che rappresentano i momenti salienti della storia. Il percorso si articola in cinque incontri: ad ogni incontro verranno scoperti tre riquadri che si riferiscono ad un tema particolare che caratterizza il Progetto.

Primo incontro: la conoscenza
La prima parte verrà dedicata a giochi di conoscenza tra i bambini e gli animatori: ci presentiamo cantando il nostro nome, costruiamo insieme dei trenini facendo il gioco della signora Locomotiva (le animatrici in carrozzina si trasformano in locomotive e chiedono ai bambini se vogliono unirsi al treno: questo gioco consente ai bambini di relazionarsi direttamente con l’animatore disabile), facciamo i giochi dei bambini, ecc.
La seconda parte verrà dedicata al racconto della fiaba; verranno così scoperte le prime tre scene del cartellone che riguardano l’incontro tra il puledro e l’ippopotamo.

Secondo incontro: la paura
Ci presentiamo con la canzone dei nomi e riassumiamo con delle diapositive la prima parte della fiaba. In seguito continuiamo il racconto scoprendo altri tre riquadri del cartellone, in cui il puledro si spaventa vedendo l’ippopotamo. Dopo un primo momento di confronto sul perchè il puledro fosse spaventato viene proposto ai bambini il “gioco del mostro del lago”; un animatore finge di essere un mostro spaventoso che vive tutto solo in un lago e che vorrebbe avere degli amici ma ogni volta che esce dall’acqua terrorizza tutti quelli che sono sulla riva. Inoltre è anche pauroso tanto che basta battere le mani che lui scappa in acqua. Un giorno finalmente riesce ad acciuffare un malcapitato che trascinato nel lago scopre che il mostro in fondo non fa paura e riesce a fare amicizia con lui. A questo punto tutti i bambini vengono invitati ad entrare nel lago e a conoscere il “mostro”.
In seguito, se rimane tempo, si disegnano le nostre paure che verranno riposte nella casa della paura, costruita precedentemente dalle maestre.

Terzo incontro: la diversità
Riassumiamo la fiaba con l’ausilio delle diapositive e continuiamo il racconto scoprendo altre tre scene del cartellone: Il puledro e l’ippopotamo scoprono di essere entrambi cavalli anche se sono diversi fisicamente e sanno fare cose diverse. Mentre il cavallo corre veloce e salta i fossati d’acqua, l’altro nuota magnificamente. Per sottolineare la diversità dei due animali vengono proposti due percorsi: uno ad ostacoli per il cavallo e l’altro utilizzando la pallestra per gli ippopotami. I bambini insieme agli animatori disabili scoprono che è divertente essere sia puledri che ippopotami.
L’incontro si conclude con un momento di confronto sulla diversità tra gli animali della stessa famiglia . Con l’ausilio di un cartellone si introduce anche il tema delle differenze tra i popoli e le rispettive culture (questa può essere un’eventuale pista di approfondimento).

Quarto incontro: la fiducia
Dopo aver guardato le diapositive si procede con il racconto della fiaba: l’ippopotamo e il puledro decidono di diventare due cavalli uguali e così si fanno una promessa: incontrarsi dopo un anno sapendo fare le stesse cose. L’impegno è grande ma entrambi si fidano l’uno dell’altro. Insieme ai bambini si vive l’esperienza del cavallo di riuscire a nuotare e degli ippopotami di imparare a galoppare (i “cavalli” avranno degli zoccoli di gommapiuma e dovranno riempire un secchio con le palline della piscina, mentre gli “ippopotami” dovranno fare un percorso ad ostacoli dentro a degli ingombranti vestiti di gommapiuma).
La difficoltà viene vissuta direttamente dai bambini che potranno esprimere le loro impressioni durante il momento conclusivo di conversazione.

Quinto incontro: l’identità
L’ultima parte della fiaba viene drammatizzata dagli animatori del Calamaio: il puledro e l’ippopotamo si incontrano dopo un anno. La delusione è tanta: oltre a non essere diventati uguali non sanno rispettivamente più nuotare né galoppare come prima. Decidono così di tornare come erano e di rimanere amici anche se cavalli diversi.
Si disegnano le sagome di alcuni bambini e adulti per poi modificarle in base ai loro desideri: ad esempio essere più alti, correre velocemente con gambe più muscolose, volare con le ali ecc. Il risultato sarà una sagoma che però riflette un mostro che non ci rappresenta più. Così si preferisce la vecchia sagoma. L’accettazione della propria diversità, anche con i suoi limiti, conclude questo incontro.

Un amore a prima vista

Mi sono innamorata immediatamente di “C’è cavallo e cavallo” per la bellezza delle immagini e la forza delle parole. Chi ha avuto modo di sfogliare questo libro delle edizioni Arka avrà notato la grafica che sostiene, spiega e descrive la parte narrativa con grande efficacia. Riempie le parole facendo sorridere.
Quando è arrivato il momento di progettare le attività intorno a questa fiaba, abbiamo costruito un cartellone con testo e immagini proprio per suscitare quello stupore nei bambini che prima avevamo provato noi. E così è stato!
La scelta di questa fiaba per parlare di handicap e diversità non è stata immediata per tutti i componenti del gruppo di lavoro: mancava il tema fondamentale della relazione d’aiuto e anche l’amicizia si trovava solo alla fine, come conclusione di tutte le vicende dei protagonisti. Infatti il cavallo e l’ippopotamo decidono di imparare a fare le stesse cose non per amicizia ma per confermare la propria identità, quella cioè di essere entrambi cavalli. In fondo fanno tutto per loro stessi, non per l’altro. E non si aiutano nemmeno. Pazienza! Vorrà dire che non troveremo i toni mielosi di tante fiabe che sottolineano di continuo l’importanza dell’aiuto, ma le poche parole di Jòzef Wilkòn che ci chiedono di superare l’esigenza di parlare sempre di amicizia quando si tratta il tema della diversità.
Qui si parla di paura, di fiducia, di identità e di difficoltà.
La paura di trovarsi di fronte qualcuno totalmente diverso da noi che si appropria della nostra identità.
La fiducia in una promessa fatta per dimostrare all’altro, ma soprattutto a se stessi, chi si è veramente. Qui si tocca un altro nodo cioè il percorso verso se stessi passa attraverso la categoria del fare. Con un motto potremmo dire: “io sono ciò che faccio!”. I due cavalli vogliono imparare a fare le stesse cose per potersi sentire alla fine entrambi uguali. Il confronto della loro diversità passa attraverso le differenti competenze dei protagonisti: uno nuota mentre l’altro salta i fossati d’acqua ed è per questo che uno è un ippopotamo e l’altro un cavallo. L’aspetto, il colore del pelo, la struttura fisica non sono usati come parametri per valutare l’uguaglianza e la diversità. Solo il saper fare bene una determinata cosa definisce chi siamo.
Jòzef Wilkòn non poteva essere più attuale proponendoci un cavallo (un po’ antipatico a dire il vero) che si pavoneggia dei trofei vinti nelle numerose gare, che corre veloce, fa le piroette (un cavallo-ballerino…esagerato!) e che proprio per questo è un cavallo.
Un cavallo che viene messo in crisi da un saggio ippopotamo che gli dimostra anch’esso di essere un cavallo pur sapendo solo nuotare.
Ma torniamo alla promessa: “un anno per imparare a fare le stesse cose”.
La fiducia è un tema fondamentale perché motiva i protagonisti ad investire un anno del loro tempo in allenamenti faticosissimi e diete forzate. E’ la fiducia verso l’altro che permette di provare strade diverse da quelle consuete, che dà senso a ciò che si sta facendo, che rende possibile il cambiamento.
Il tema dell’identità percorre tutta la fiaba intrecciandosi a quello della diversità. Il bisogno di sentirsi rassicurati rispetto a se stessi permette di scoprire l’altro con le sue caratteristiche e i suoi limiti, in un confronto che approfondisce la conoscenza di sé.
I due cavalli si ritrovano dopo un anno stanchi e infelici perché non riescono più ad esprimersi come prima e tutti i loro sforzi per diventare uguali, imparando ciò che non sapevano fare, sono risultati vani. Si chiedono così se ha avuto senso faticare così tanto.
Spesso chiediamo ai bambini di inventarsi il finale della fiaba; le risposte sono principalmente di due tipi : i due cavalli diventano uguali oppure restano come sono, rimanendo comunque amici. Nel secondo caso, quando scopriamo il finale, il confronto sul valore della diversità nasce spontaneo, più difficile invece nel primo caso in cui i bambini non accettano il fallimento dei tentativi dei due cavalli, cercando un lieto fine dove ci sono solo vincitori. Qui invece la sconfitta è forte: si dice che le difficoltà vanno superate ma non sempre è così. Se la difficoltà è troppo grande, insormontabile è necessario riflettere e fermarsi. Un atteggiamento costruttivo rispetto ai propri limiti è sicuramente positivo. ma l’eccesso nel volerli superare a tutti i costi porta a scontrarsi con ostacoli troppo grandi, a perdere la propria identità inseguendo un ideale irraggiungibile. Proviamo a pensare all’handicap come difficoltà. La difficoltà si crea quando non si utilizzano al meglio le proprie potenzialità in armonia con l’ambiente circostante. La difficoltà nasce da un eccesso di ambizione, da una lettura sbagliata della realtà, da una scarsa conoscenza di sé. L’ambiente la amplifica, la rende tangibile anche se non è solo l’ambiente che crea l’handicap. L’atteggiamento rispetto al deficit condiziona il modo di vivere l’handicap: spesso come operatori ci troviamo a lavorare sull’accettazione dei propri limiti per promuovere un atteggiamento propositivo rispetto alle tante situazioni problematiche che è necessario affrontare. La difficoltà ha quindi una valenza negativa quando è troppo grande mentre nella giusta dimensione è uno stimolo di crescita.
In fondo è ciò che dice questa fiaba: è importante andare verso l’altro cercando di cambiare, mettendosi in dubbio per migliorare. Ma il confronto deve passare attraverso l’accettazione della propria identità con tutto ciò che comporta: solo in questo modo posso valorizzare la diversità, mia e dell’altro, e partire da questo punto per inventare nuove fiabe.

Raccontare semplicemente una storia

Raccontare semplicemente una storia. Intervista a Guido Quarzo,scrittore per ragazziCon quale atteggiamento ci si pone davanti al fatto di voler raccontare una storia di diversità?

Non credo che sia necessario, per raccontare una storia intorno a una situazione di diversità, avere un atteggiamento particolare, diverso da quello che si ha quando si raccontano altre storie. Ogni storia in fondo nasce dalla definizione di un problema: può essere un problema soggettivo, di relazione con gli altri, o un problema più oggettivo come una situazione difficile in cui i personaggi vengono a trovarsi. Nello svolgimento delle storie poi i problemi si intrecciano e si complicano. Nel caso di “Clara Va Al Mare”, alle difficoltà ‘‘soggettive’’ della protagonista, si aggiungono quelle “oggettive” dovute al fatto che viaggia da sola. Ma raccontando questa storia non ho mai pensato che la ‘diversità’ di Clara richiedesse da parte mia un atteggiamento narrativo specifico. Credo anzi che la forza del racconto, se ne ha, stia proprio in questo, che ho cercato di trattare la materia senza nessun accorgimento particolare, con l’idea appunto di raccontare semplicemente una storia.Quali sono i rischi maggiori che si corrono?
Credo che i rischi più grandi che un narratore corre con storie di questo tipo siano di enfatizzare eccessivamente i problemi della diversità o, all’opposto, di minimizzarli, quasi per negare l’assunto iniziale che una diversità comunque esiste. Ho visto per esempio il film “L’Ottavo Giorno”, che parlava dello stesso problema e aveva per protagonista un ragazzo down, e non mi è piaciuto per niente: ho trovato esagerata l’insistenza sul rifiuto da parte della gente “normale” e poi altrettanto esagerata l’esaltazione della diversità come modello di confronto capace di mettere in crisi l’ipocrisia e l’egoismo.

Come e’ nata l’idea di scrivere il libro “Clara va al mare”?
Io sono prima di tutto uno scrittore di narrativa, questo è il mio mestiere e sono quindi sempre alla ricerca di storie interessanti. Molto del materiale narrativo che utilizzo lo vado a pescare naturalmente nel mio personale ‘magazzino mentale’. Ebbene, lì dentro c’erano anche alcune esperienze che, avendo insegnato per molti anni nella scuola elementare, ho avuto occasione di fare con bambini e bambine in qualche modo problematici. Tra questi, anche almeno tre casi di alunni down. L’idea di scrivere “Clara va al mare” è cresciuta un poco alla volta, da un primo abbozzo iniziale che conteneva solo l’episodio dei grandi magazzini e che pensavo di accorpare agli altri racconti del volume “Talpa Lumaca Pesciolino”. Mano a mano che scrivevo però mi tornavano alla mente episodi, espressioni e atteggiamenti, arrabbiature e tutta la grande carica affettiva che quei bambini sapevano comunicare. Direi che da un certo punto in avanti il racconto di Clara è diventato una sorta di sfida con me stesso: vediamo se sei capace, mi dicevo, di raccontare quel groviglio di emozioni e di portare questa ragazzina fino al mare.

Nella storia di Clara si ritrovano quotidianità e fantasia. Come si miscelano? C’è prevalenza dell’una o dell’altra?

Entro certi limiti si potrebbe dire che il personaggio di Clara incarna il mondo dell’immaginazione, delle pulsioni e dei desideri. Gli altri personaggi rappresentano, se vogliamo, il cosiddetto principio di realtà.
Ma non c’è una netta separazione tra i due mondi: il principio di realtà fallisce quasi ogni volta che tenta di ‘interpretare’ il pensiero di Clara e l’immaginario si trova a dover fare i conti con la realtà, nel dialogo fra il cane e Clara che, nonostante le apparenze, è uno dei momenti più realistici del racconto.
La risposta dei lettori: rispetto alle intenzioni, a ciò che si voleva esprimere, che tipo di reazione ha suscitato la lettura di testi come “Talpa, lumaca, pesciolino” e “Clara va al mare”?

Con Talpa Lumaca e Pesciolino ho avuto molte soddisfazioni nel corso di incontri con i lettori, sia adulti sia bambini. Ho l’impressione che sia stata ben colta l’idea che ognuno di questi racconti ha per soggetto la possibilità. La possibilità è qualcosa di diverso dalla speranza: la possibilità sta dentro di noi, è come una falda sotterranea e in qualche modo troverà uno sbocco.
Clara va al mare è un libro ancora troppo nuovo, ma finora i commenti sono stati lusinghieri. Mi piacerebbe che venisse letto come un breve romanzo, per il piacere della lettura soprattutto, senza etichette di genere o intenzioni didascaliche, questo sì. “Clara va al mare” è un fuori collana; come è stata voluta questa collocazione?

E’ stata una decisione di ordine puramente pratico: non si riusciva ad attribuire al racconto una precisa ‘fascia di età’ indicata per la lettura. Da una parte spiaceva all’editore proporlo come libro per ragazzi tout court, d’altro lato considerarlo un libro per soli adulti sarebbe stato un limite ingiustificato. Così se ne è fatto un fuori collana, e devo dire che Luigi Spagnol, il mio editor della Salani, ha avuto ragione: infatti Clara va al mare viene letto con interesse dalla quinta elementare alla scuola media, e anche dagli adulti.Il mio prossimo libro, che uscirà in ottobre per Feltrinelli e sarà intitolato “Il Fantasma del Generale”, avrà gli stessi problemi di “target”.
Fra i temi del racconto ritroveremo ancora quello della diversità, ma essendo una storia che si svolge alla fine del XIX secolo, l’atmosfera sarà molto diversa. Uno dei personaggi è addirittura ricalcato sulla figura di Cesare Lombroso, potete quindi ben immaginare…

Fatatrac, diversi libri diversi

Una mattina del 1979, Mario Mariotti, artista geniale purtroppo recentemente e prematuramente scomparso, si presentò nell’ufficio di Nicoletta Codignola, fondatrice della NIEP (Nuova Italia Educazione Primaria) e attuale amministratore unico della Fatatrac, proponendole quel progetto che in seguito lo avrebbe reso famoso a livello mondiale, i libri degli animali fatti con le mani, il cui primo titolo fu “Animani”. Le sue mani grandi e nodose di scultore avevano preso la forma di animali ed erano state fotografate, in un teatrino fantasioso e variopinto, a tratti inquietante.
Stupito dell’entusiastica accoglienza ricevuta, Mariotti affermò di aver girato varie case editrici incassando un no dietro l’altro poiché questi libri non erano in realtà né per bambini né per adulti, o meglio, si rivolgevano sia ai bambini che agli adulti, rompendo lo schema convenzionale di quello che in seguito sarebbe stato definito freddamente “target di un libro”.
Il simbolo della NIEP era la sagoma, tipo ombre cinesi, di un adulto e di un bambino che leggono insieme un libro. Questo a sottolineare che la prima educazione alla diversità è, o potrebbe essere, per il bambino la condivisione della lettura con l’adulto. Il marchio stesso proponeva allora nell’incontro di un mondo, quello del libro, attraverso due mondi diversi, molto diversi, quello dell’adulto e quello del bambino, una prima cognizione di quanto nella vita sia importante confrontarsi.
Il tutto avveniva nella consapevolezza che l’età educativa, in realtà, dura tutta la vita. Le collane della Nuova Italia Educazione Primaria contenevano questo presupposto e da esso partivano, per le scelte sui contenuti principalmente ma anche sull’impostazione grafica nell’uso di tecniche diverse di illustrazione dal collage alla fotografia, nel linguaggio che giungeva fino all’eliminazione totale del testo e alla lettura solo per immagini, fatto molto preoccupante per certi adulti che non sapevano come “leggerle” ai bambini, o all’utilizzo di formati inusuali (grande album in brossura orizzontale per la collana “Il lavoro ieri e oggi” sui mestieri, rettangolo stretto e lungo verticale per il libro “A un bambino che nasce” completamente illustrato con grafite in bianco e nero (!), per giungere agli scientifici quadrati).
Nel libro “Immagini” l’educazione alla lettura avveniva per mezzo di icone diversificate: il bambino molto piccolo trovava lo stesso oggetto, la sedia ad esempio, in una foto e all’interno di un quadro, oppure la spugna posata da una parte e poi durante il suo utilizzo, nella vasca da bagno, nella pagina successiva; il sole dipinto da un pittore, la palla fotografata e un viso femminile a tratto portavano il piccolo lettore al riconoscimento della forma rotonda proprio nella sua diversità iconografica e simbolica.
L’esperienza della NIEP è confluita poi nella Fatatrac come la vediamo oggi, ma il percorso è stato in qualche maniera ancora diversificato. Da un lato l’interesse nella trattazione di tematiche sociali, anche in modo molto diretto e a volte in collaborazione con Enti Pubblici per la distribuzione gratuita nelle scuole (“La città ad ostacoli” sul problema delle barriere architettoniche, “Diversi amici diversi” testo in più lingue per i bambini della scuola materna, “Il giardino degli undici gatti” che affronta il tema della tossicodipendenza partendo proprio dal disagio nel sentirsi diversi all’interno del gruppo), dall’altro, e soprattutto dai primi anni ’90 in poi, nell’affrontare questi argomenti all’interno delle collane di narrativa, dei libri-gioco, in una sorta di “globalizzazione” del tema della diversità a più livelli.
L’interesse crescente nella normalizzazione di argomenti complessi e nella loro collocazione in libri non tematici parte dalla stessa consapevolezza che guida la distribuzione gratuita nelle scuole di libri “parascolastici”: ciò di cui trattiamo è di fondamentale importanza e, in quanto tale, deve giungere a destinazione anche, e soprattutto, in ambiti non ancora aperti.. Da qui la volontà di distribuire ad esempio i libri di incontro tra cultura italiana e cultura cinese non solo nelle scuole interessate dalla presenza di bambini cinesi ma in tutte le scuole, o parlare di handicap in modo lieve all’interno di racconti di narrativa (e penso ad esempio a “Talpa, Lumaca, Pesciolino” di Guido Quarzo in cui si parla di bambini “poco diversi”, Talpa vede poco, Lumaca è lenta, Pesciolino non parla…) che vengono acquistati da tutti i bambini e non solo dall’insegnante che si occupa di handicap.

Il filo che lega le radici della NIEP alla Fatatrac che oggi pubblica la collana “Tu non sai chi sono io” è ulteriormente sottolineato dal tema dell’incontro. L’interesse non è quello di “parlare su” ma di “dialogare con” una cultura. La collana interculturale, che si arricchisce in questi giorni dei due nuovi titoli sul popolo kurdo, mette a confronto la cultura italiana con le altre presenti sul territorio italiano, in un lavoro di gruppo formato da persone che appartengono alle due culture.
Nello stesso modo, in “Dall’altra parte del libro” di Mario Mariotti (uscito nei primi anni ’80 e precursore riconosciuto di volumi a tematica interculturale per ragazzi), l’incontro tra la cultura araba e quella italiana avviene in mezzo ad un libro che parte da tutti e due i mondi e che si legge sia da sinistra verso destra che da destra verso sinistra mettendo a confronto due storie ognuna con i propri simboli, diversi ma simili, il proprio metodo comunicativo…
Ancora dal tema dell’incontro sboccia l’attenzione crescente alla grafica e all’illustrazione che incontra il testo nei libri Fatatrac per accompagnarlo, con linguaggio altro, nella memoria di chi si trova il libro fra le mani.
L’incontro è tanto più interessante quanto più i mondi dell’autore e dell’illustratore riguardano modi diversi di comunicare, di “leggere” un tema e di proporlo ai ragazzi e ai bambini. L’apparente difficoltà delle immagini Fatatrac, nel senso della mancanza di convenzionalità in un panorama che sempre più è reso omogeneo da immagini in qualche modo rassicuranti, disneyane, note agli adulti, persegue la volontà, tutt’oggi, di educare il bambino alla diversità attraverso l’immagine atipica, artisticamente valida.
In questo senso la collana dei “Nuovi ottagoni” si arricchisce di due letture parallele e fondamentali per una vera educazione alla diversità; da un lato la presenza, all’interno della collana di narrativa, di tematiche “impegnative” (il tema dello sfruttamento dei bambini ne “Il mistero della torre saracena” o quello della clonazione in “A immagine e somiglianza”, quello dell’ecologia ne “Le bestiazze”, in uscita in questi giorni, o quello dell’immigrazione dei ragazzi africani ne “La città sotto la sabbia”), dall’altro l’incontro dei testi con la matita altamente espressiva di giovani illustratori di altissimo livello (Nicoletta Ceccoli, Alessandra Cimatoribus, Sandro Natalini, Carlo Becerica per citarne solo alcuni).
Nei libri-gioco e negli albi illustrati degli ultimi anni il tema della diversità è il presupposto di pubblicazioni di grande comunicatività; basti pensare alla collana “Maschi e femmine”, in cui il gioco della diversità tra i due sessi si fa ironico e sdrammatizzante o il bellissimo “La cosa più importante” in cui ogni animale del bosco viene considerato importante proprio per le sue specificità, o ancora “Volare!” che gioca sulla diversità della merla femmina, bianca, che impara a volare prima degli altri e dunque si trova in qualche modo, per un poco, esclusa dal nucleo familiare in quanto “atipica”.
La Fatatrac affronta temi “diversi” (l’educazione alla legalità per i bambini di 4-5 anni ne “L’alfabeto del cittadino” della collana “Contromafia”), in modo “diverso” (una filastrocca per ogni lettera dell’alfabeto gioca sul doppio significato, civile e mafioso, di parole come rispetto, dono, amico) e, passando attraverso eperienze molteplici e differenziate giunge alla fine del millennio con la consapevolezza di non aver mai deviato dai suoi intenti educativi, continuando a pubblicare “libri senza età” come il bellissimo “Maria Moll Cappero”, illustrato da Nicoletta Ceccoli, inno all’amore universale.
Questo anno 2000 che rappresenta per l’occidente un momento di passaggio di fondamentale importanza, dovremmo ricordare in ogni istante che per la maggior parte degli abitanti della terra è un anno come tutti gli altri e soprattutto non è il 2000!
E per chi avrà ricevuto una vera educazione alla diversità questa notizia, anzichè inquietante, risulterà a dir poco rassicurante…

Arianna Papini
direttore editoriale e artistico della Fatatrac

(Nicoletta Codignola e Arianna Papini, madre e figlia, lavorano insieme presso la casa editrice Fatatrac di Firenze)

Fatatrac – Una bibliografia fra le diversità

Interculturalità
AAVV – Diversi amici diversi – 4-6 anni
Mario Mariotti – Dall’altra parte del libro – dai 4 anni
AAVV – Amici nel mondo – 5-8 anni
AAVV – Vieni a casa mia? I bambini italiani e i bambini cinesi si incontrano – 6-8 anni
AAVV – Com’è il tuo paese? L’Italia e la Cina, due mondi che si incontrano – 9-11 anni
AAVV – Cici Daci Dom. Incontro con i bambini Rom – 6-8 anni
AAVV – La casa del sole e della luna. I Rom, un popolo che viene da lontano – 9-11 anni
AAVV – La strada delle stelle. Viaggio con il popolo arabo – 9-11 anni
AAVV – Le mille e una parola. Dialogo con il mondo arabo – 9-11 anni
AAVV – Ogni bambino ho la sua stella. Incontro con i bambini kurdi – 6-8 anni
AAVV – La primavera viene d’improvviso. I kurdi, popolo di montagna – 9-11 anni
Bruno Tognolini – Sentieri di conchiglie – dai 7 anni
Vanna Cercenà – Il mistero della torre saracena – dai 7 anni
Marina Iraso – La città sotto la sabbia – dai 12 anni
Gnugo De Bar – Strada patria sinta – 9-13 anni
AAVV – Tantipopoli – 11-15 anni
Mariangela Giusti – Una scuola, tante culture – per genitori e insegnanti

Handicap
Guido Quarzo – Talpa, Lumaca, Pesciolino – dai 7 anni
Arianna Papini – Amiche d’ombra – dai 7 anni
AAVV – La città a ostacoli – 9-13 anni

Altri libri citati
AAVV – Immagini – 0-6 anni
Lucia Scuderi – Volare! – 4-7 anni
Antonella Abbatiello – La cosa più importante – 4-7 anni
Mario Mariotti – Animani – dai 4 anni
AAVV – L’alfabeto del cittadino – 5-8 anni
Vittoria Facchini – Collana Maschi e femmine – 5-8 anni
AAVV – Collana Il lavoro ieri e oggi – 5-9 anni
Luciano Morati – Il giardino degli 11 gatti – 6-10 anni
Paola Pallottino – Maria Moll Cappero – dai 7 anni
Ugo Vicic – Le bestiazze – dai 7 anni
Vanna Cercenà – A immagine e somiglianza – dai 12 anni

Yekutiel o del raccontare le differenze

(…)
Prima che Yekutiel arrivasse a scuola, la maestra, intelligente, avvertì gli scolari, spiegando che Yekutiel era un bambino deforme, con un difetto alla schiena, e che dovevano comportarsi bene con lui, senza prenderlo in giro. Dovevano accoglierlo e fare amicizia.
(…)
Trascorsero uno, due, e anche tre o quattro anni; nel corso del quinto anno ? Yekutiel era undicenne ? successe qualcosa. L’insegnante di letteratura assegnò come compito un tema libero. Quando portò a casa i componimenti per correggerli e dare i voti, capitò su quello di Yekutiel, lo lesse e ne fu molto colpito. L’indomani entrò in classe, e disse: «Vorrei dedicare la lezione al tema di Yekutiel. Ve lo leggerò, e in seguito ne discuteremo».
Ecco quello che il professore lesse sul quaderno di Yekutiel:

“Compito”

“Molti anni fa c’era un paese, lontano e isolato, al di là delle Montagne Tenebrose e del Fiume di Fuoco, dietro i Boschi di Ferro. In quel paese vivevano persone di tutti i generi, uomini, donne e bimbetti, nati con una deformazione alla schiena, conla spalla destra più alta della spalla sinistra, e con untestone in cima a un corpicino. Gli abitanti di quel paese erano molto felici, e si rallegravano del loro destino. Quando parlavano di una persona cara per tesserne le lodi, dicevano: “Mia figlia è talmente bella che nessuno può resistere alla sua magia. Ha la schiena più storta e più gobba di qualunque altra bambina che abbia mai visto in vita mia”. I presenti rimanevano impressionati e non credevano alle loro orecchie. Il papà, orgoglioso e felice, tirava fuori di tasca una fotografia e la mostrava agli amici e tutti approvavano con ammirazione: “Effettivamente…fino a oggi non si era mai vista una schiena così curva! Una vera e propria meraviglia…Quando compirà diciotto anni, questa bambina sarà la nostra reginetta di bellezza!”
In quel paese vivevano così, assaporando ogni istante della loro vita gobba. Per i giorni di festa avevano una danza particolare, che esprimeva tutta la gioia per quello che il destino aveva dato loro, finchè un giorno successe una disgrazia.
Nella famiglia del sindaco era nato un bambino tutto dritto, con le spalle allineate, slanciato; la deformazione aumentava di anno in anno, e a dieci anni era alto un metro e sessanta, un vero mostro! Non ci sono parole per descrivere i dispetti subiti da quel bambino, fin da quando era in fasce gli altri bambini avevano avuto paura a giocare con lui e quando venne il momento di andare a scuola, i suoi genitori credettero necessario andare a lezione con lui, per proteggerlo dallo scherno dei compagni. Ma lui, che era coraggioso e pieno di buon senso, disse: “Non c’è bisogno di proteggermi, posso cavarmela da solo”. Effettivamente, ben presto fu amato dai compagni, perché poteva fare per loro quello che a loro era impossibile. Grazie alla sua lata statura era capace di raccogliere per gli amici i frutti sulla cima dei pruni, poteva anche sbirciare al di sopra della cancellata dello stadio e riferire come procedeva la partita e chi stava vincendo, senza che dovessero comprare il biglietto. Fu quindi il primo a vedere da lontano la carrozza reale che stava avvicinandosi alla città e annunciò agli abitanti l’arrivo del rnonarca. Essendo alto, sentiva rumori lontani, e sapeva se il temporale si stava avvicinando, o se la primavera era alle porte, tanto che la popolazione non aveva bisogno di buttare via denaro per l’acquisto di un barometro o per lo stipendio di un meteorologo. Se era nevicato parecchio, lui spazzava via la neve accumulata sui tetti delle case con le mani, mentre andava a passeggio per le strade della città.
Tutti questi lavori importanti li faceva gratis perché cercava a tutti i costi di piacere, e desiderava che non ridessero di lui. Gli abitanti di quel paese finirono col perdonargli la sua infermità.
I suoi genitori, però, pensavano che soffrisse nell’essere diverso da tutti, ed erano molto preoccupati. Viaggiarono di città in città, interrogando e cercando dappertutto per trovare uno specialista che fosse in grado di curare la deformazione del figlio, finché un giorno vennero a sapere che nella capitale c’era un chirurgo impareggiabile, di fama mondiale, che poteva salvare il bambíno. Si raccontavano davvero grandi cose di quel dottore; si diceva che già anni e anni prima si era occupato di un caso simile, ed era riuscito a eliminare perfettamente la deformazione: dopo una lunga e complicata operazione, il dottore era riuscito a ingobbire la schiena dritta del bambino, e a renderla curva quasi quanto quella di un bambino normale.
I genitori comunicarono al figlio questa splendida notizia, e dissero che non avrebbero badato a spese, che avrebbero dato al dottore tutto l’oro del mondo. Con loro grande sorpresa il bambino li informò che non voleva andare da quel dottore, e che desiderava rimanere così come era.
“Ma perché?” chiesero i genitori sbalorditi. “Perché preferisco essere come tutti gli altri miei simili” disse lui. “I tuoi simili?” dissero i genitori, “dove hai mai visto un bambino come te?”. «Sono sicuro” disse il bambino dritto, “di non essere l’unico. Sono sicuro che c’è un posto dove mi assomigliano tutti”. “Stupidaggini” ribatterono i genitori. “Leggiamo giornali di tutto il mondo, e non abbiamo mai sentito di un bambino come te…. tranne quelli che escono dall’ordinario… quelli deformi, naturalmente”.
“Può darsi che i giornali non scrivano niente sul paese della gente come me. Può darsi che quel paese sia piccolo e isolato, o forse non esiste nemmeno un paese vero e proprio, e persone come me esistono solo qua e là, ma apparteniamo tutti a un tipo unico e speciale, e ci è proibito rinunciare ai nostri diritti”.
“I vostri diritti?”. I genitori, stupiti, non capivano: “Che diritti hanno le persone come te?”
“Ne abbiamo” disse il bambino, sorridendo fra sé e sé. “Per esempio, noi siamo più vicini al cielo, perciò sentiamo rumori e vediamo cose che la gente normale non immagina nemmeno. Ed è solo uno degli esempi”.
I genitori si spaventarono talmente che portarono il bambino da uno specialista della mente, sulla cui porta era scritto “Psicologo”, nonché “Dottore”. Questo dottore parlò a quattr’occhi con il bambino, e dopo aver ascoltato quello che il piccino aveva da dire, disse ai genitori: “Lasciatelo tranquillo… Non sta bene, sta benissimo”.
Così andarono le cose, e fino ad oggi è rimasto deforme, andando in giro eretto, annusando il profumo dei fiori di pruno da vicino, direttamente dai rami alti degli alberi; i fiori gli accarezzano le guance, gli fanno il solletico sotto il naso, e lui ride.
E il riso è segno di gioia, ogni tanto”.

Da Benjamin Tammuz, Il re dormiva quattro volte al giorno, edizioni e/o, Roma, 1998, pp.21-31

Diario

25 novembre 1978 ? Dopo quasi un mese di ospedale, dopo
un’infinità di indagini invasive e di analisi, arriva la sera del sabato in cui il tempo sta per scadere. Ho contrazioni ripetute, strane; il primario non c’è, prima di andar via l’ostetrica passa a vedermi ma non registra che l’inusualità dei miei sintomi. Più tardi nella notte le contrazioni continuano, più intense, ma in reparto non c’è nessuno di quelli che mi hanno seguito fin qui.
L’unico monitor in funzione è in sala?parto, fuori dal reparto di patologia ostetrica dove sono stata finora. Per le mie insistenze la caposala accetta di mandarmi lì: in barella, con la cartella clinica appoggiata sulla pancia che continua a contrarsi.
La sala?parto è libera, non ne hanno bisogno e dunque possono usarla per me. Anche se non sto partorendo. Mi legano al letto con le cinghie del monitor, dalle quali potrei facilmente liberarmi se solo sapessi cosa fare, cosa decidere. Per nove ore resto sul lettino della sala?parto, incapace di ribellione. Quando sento passare qualcuno chiamo, con il mio tono troppo educato, e talvolta qualcuno si avvicina: ma quando provo a chiedere cosa succede, cosa prevedono, il massimo di risposta che ottengo è che no, quelle non sono contrazioni da parto, dunque non c’è nessuna particolare ragione di allerta.
Mi mandano via, al mattino, soltanto perché non spetta a quel reparto darmi la colazione.
In barella mi riportano in reparto: con la cartella a cui nessuno ha dato neanche un’occhiata, con il lunghissimo rotolo di carta uscito da un monitor che nessuno ha controllato.
Il primario del mio reparto, nel giro che di domenica fa soltanto nel pomeriggio, guarda finalmente il tracciato e subito si irrigidisce, si indigna: ma a me che chiedo non dice niente, non spiega niente. Riesco solo a cogliere due parole, «sofferenza fetale», che vanno ad aggiungersi all’ansia di tanti giorni senza risposte. Poi mi dicono che partorirò, con il cesareo: non prima di sera. Al risveglio dall’anestesia, in sala di rianimazione, accanto a me c’è solo un’infermiera: dice che tutto è andato bene, troppo genericamente e professionalmente per convincermi, dopo la gravidanza piena d’inciampi che ho avuto. Passano più di dodici ore, prima che al mio compagno sia consentito di venire da me. Di lui mi fido, ascolto le sue rassicurazioni e la descrizione che mi fa del bambino. Più tardi anche mia madre, mia suocera, le mie sorelle mi dicono dei tanti capelli che ha, delle somiglianze che hanno trovato. Del fatto che appena nato non piangeva, ma poi subito l’hanno schiaffeggiato e allora sì. Appena nato c’erano tutti, loro: io no, dormivo e non ho visto niente.

30 novembre 1978 ? La mia amica Gisella si scandalizza, quando scopre che non ho ancora visto il bambino, ricoverato al reparto immaturi da cui non lo lasciano uscire. Sparisce nei corridoi dell’ospedale, torna con una poltrona a rotelle, si fa aiutare da un’infermiera per caricarmici sopra, poi la guida, senza troppe concessioni per le mie ferite, lungo i corridoi. Curve, ascensori, poi finalmente il reparto.
Il vetro mi tiene a distanza, la carrozzella da cui non riesco ad alzarmi mi tiene a distanza. Al di là le culle, una in fila all’altra: divieto d’accesso, e l’infermiera troppo occupata per darmi retta.
E’ancora Gisella che riesce a parlamentare e contrattare: per un tempo brevissimo, l’infermiera prende mio figlio dalla culla e lo avvicina al vetro, perché io lo veda.
E’ magro, grinzoso, affogato in una brutta tutina scolorita troppo grande per lui. Somiglia a mio padre quando si toglieva la dentiera. Poi, però, il bambino apre gli occhi: grandissimi, e assomiglia soltanto a se stesso.
Tornata al mio letto, consegno a Gisella i golfini fatti da me, le tutine che avevo comperato: non c’è altro modo in cui mi sia consentito prendermi cura di lui.

estate 1982 ?Tentiamo una vacanza diversa dagli altri anni, trascorsi al riparo e nel chiuso della casa di campagna dei nonni. In Toscana, un agriturismo speciale, qualcuno molto attento ai problemi delle diversità: perché il rapporto con l’esterno spesso ci fa vergognare, e almeno in vacanza vorremmo sentirci accolti.
Giorni uguali e sufficientemente sereni: fino a ferragosto. Quando, arrivando al mattino nella sala di riunione, troviamo due persone con le stampelle, e una terza sulla sedia a rotelle. Temiamo le reazioni di Matteo, così spaventato dalle diversità altrui: come se specchiarvisi fosse un terrore troppo grande. E infatti la sua prima reazione è di fuga, vuole andare via e forse noi non ci sentiremmo tanto di insistere se non fosse, per gli altri, quelle persone che forse potrebbero restarci male, sentirsi emarginate come tante volte ci sentiamo noi.
Restiamo, e Matteo entra nel cerchio magico di tre persone eccezionali. La sera c’è musica, e il più disagiato dei tre grida a Matteo: «Fammi ballare! Fammi ballare!”. Matteo spinge la sua sedia a rotelle, la fa roteare anche troppo velocemente ma l’altro accetta il rischio. E vince: la paura che Matteo ha di ogni diversità, da oggi, non è più totalmente indomabile.

(*) tratto da AA.VV. Mi riguarda, edizioni e/o 1994

“Al mattino quando arrivo al centro…”

Stefania

Arrivo al CDH intorno alle nove del mattino e questo ormai da ben 12 anni e solitamente a quest’ora trovo poche persone perché molti arrivano più tardi.
Ma nonostante ciò il momento dell’accoglienza qui è sempre stato e continua ad essere molto positivo e piacevole e, sebbene venga qui per lavorare, il centro è un luogo di lavoro molto particolare caratterizzato da un clima informale e familiare.
Non nego però che molte volte il dover aspettare gli altri (avendo orari diversi) mi crea qualche disagio.
Vorrei riuscire a concretizzare di più nell’arco della giornata, questo mi darebbe maggiore soddisfazione. Comunque cerco di non far pesare troppo agli altri le mie pretese. Anzi per mettere a proprio agio le persone che mi circondano l’arma che uso sono sicuramente le coccole. E in questo sono molto esplicita, non uso mezzi termini, le attiro a me, accarezzandole e facendomi accarezzare. Tutto questo forse può sembrare strano in un mondo, soprattutto quello lavorativo dove questo spazio sembra quasi negato.
Oltre all’esperienza del CDH un’altra situazione che vivo come buona accoglienza è quella della Casa “Santa Chiara” dove vivo. Di certo questa situazione non si può propriamente paragonare all’accoglienza che avviene in una normale famiglia, dove la sera per esempio ci sono dei genitori che ti aspettano, a qualsiasi ora, a Casa Santa Chiara devi saper dire con esattezza l’orario del rientro e dell’uscita perché altrimenti potrebbe non esserci nessuno. Comunque il clima anche qui è molto sereno e devo ammettere che sono molto gentili con me.
Le uniche esperienze più critiche per me sul piano dell’accoglienza sono state quelle a livello scolastico. Anzi più che di accoglienza parlerei di non-accoglienza. A sette anni infatti mi iscrivono a scuola e qui subito il primo rifiuto; il direttore didattico non mi voleva inserire in nessuna classe perché secondo lui non avevo la testa per studiare e per fare tutte le cose come gli altri bambini. Alla fine dopo molte insistenze mi dettero una possibilità; un periodo di prova e poi un altro periodo di allontanamento (sebbene la prova non fosse andata poi così male). Alla fine, grazie all’insistenza delle insegnanti e dei bambini della scuola, potei ritornare l’anno successivo nella mia classe insieme ai miei compagni. Quella fu per me una grande vittoria anche se mi lascia tuttora dell’amaro in bocca.

L’accoglienza

E’ il tempo della transizione, segna il passaggio da un contesto conosciuto ad un altro più estraneo, la separazione da una relazione affettiva famigliare ad un altra a cui occorre affidarsi.
Si vivono quindi spesso contrastanti e complesse emozioni: il timore di separarsi, il desiderio di compiacere l’altro, la paura e la curiosità su ciò che accadrà.
Questo momento è il ponte che congiunge ieri e oggi, eco degli avvenimenti passati, delle aspettative future. Come ci si è lasciati ieri può influenzare come ci salutiamo oggi, segna quindi l’inizio del rapporto ma ha in sé già anche la fine, la separazione: ogni relazione di cura si esplica infatti in un tempo e in uno spazio definito e parziale.
Lo spazio all’interno del quale avviene l’accoglienza influenza i vissuti emotivi, le dinamiche relazionali e può accentuare o almeno modificare il rapporto di asimmetria tra operatore ed utente.
E’ ben diverso se l’incontro avviene in un luogo percepito da entrambi come estraneo se non ostile, oppure se avviene all’interno di un setting preciso e quindi professionale in cui l’operatore ha le vesti del “padrone di casa” o se viceversa è l’utente il padrone di casa.
Là dove l’operatore è accolto in casa dell’utente questo spazio non è professionale ma è il luogo privato, intimo dell’altro. Si entra a contatto con gli usi, i costumi, gli odori, le modalità di vita di quella particolare persona, di quella particolare famiglia. Si può quindi meglio conoscere l’altro ma questa forte intimità può generare nella famiglia anche un desiderio di espulsione dell’operatore percepito come estraneo o al contrario un desiderio di inglobamento al suo interno.
In ogni accoglienza c’è un rito, una serie di modi di fare, successive azioni e parole, che hanno la funzione di rendere comprensibile e prevedibile la realtà che sta avvenendo e quindi di facilitare la separazione, l’incontro, la relazione.
Nel rito costruito e condiviso assieme ognuno riscopre la specificità, il ritmo del rapporto, l’affidabilità dell’altro e del nuovo contesto. Esso rappresenta uno degli orizzonti della stabilità rispetto alla mutevolezza degli eventi, è una forma di controllo e di rielaborazione della realtà e del proprio rapporto con essa.
L’accoglienza è un incontro tra persone diverse con ruoli diversi, ma è innanzitutto un incontro tra corpi, tra gesti, odori, modi di vestirsi e di muoversi.
In ogni relazione il corpo è il linguaggio più tipico e immediato, è fonte di perenne comunicazione. Le sensazioni che il corpo provoca nell’altro sono un invito o un ostacolo alla prosecuzione del rapporto; sono un messaggio rispetto a come l’altro ci viene incontro, a come percepisce il proprio corpo o come il suo corpo, soprattutto per i bambini o chi non può accudirsi da sé, è vissuto da chi si prende cura di lui.
Nel lavoro di cura questo elemento corporeo, pur essendo massiccio, è spesso pieno d’invisibilità perché si vivono intense emozioni “di pelle” cioè fisiche, difficilmente verbalizzabili.

Ma quanti sono i disabili nel mondo

Secondo una stima, fra le diverse che sono possibili, oggi, anno 2000, vi sono 335 milioni di persone gravemente o moderatamente disabili nel mondo, dei quali circa 101 milioni (30%) vivono nei paesi più sviluppati e 234 milioni (70%) vivono in quelli meno sviluppati.
Sarebbe ragionevole presumere che la maggior parte delle persone moderatamente o gravemente disabili dipendono dagli altri fisicamente, psicologicamente, socialmente o economicamente. Invece, la maggioranza di queste persone vive al di sotto del livello di povertàLa disabilità è un fenomeno globale di vaste proporzioni. Prima di stimare le sue dimensioni, riportiamo un calcolo del presunto sviluppo della popolazione.
La popolazione sta crescendo rapidamente. Dal 2000 al 2035, crescerà del 40%. La crescita, tuttavia, è disuguale. Nelle regioni più sviluppate, non ci sarà aumento, mentre nelle regioni meno sviluppate si prevede ci sarà un aumento dei 50% circa. La crescita della disabilità è più evidente nei gruppi di persone più anziane.

Stime sulla disabilità

In passato, sono state fatte diverse stime globali sull’incidenza della disabilità. La stima citata più spesso è quella fatta dall’autore nel 1974, pubblicata dall’Organizzazione mondiale della sanità (Oms) nel 1976. Questa stima (10% della popolazione mondiale) era basata su calcoli dei tassi di disabilità derivanti da malattie, traumi, malnutrizione, cause genetiche, ecc., disponibili a quell’epoca. Questi calcoli comprendevano una elevata proporzione di persone con disabilità leggere e reversibili, come quelle causate dalla malnutrizione. Da allora, sono stati effettuati numerosi studi e ricerche. I risultati di queste ricerche svolte in 55 paesi diversi variano considerevolmente, passando dallo 0,2% al 21 % della popolazione.
Ci sono diversi problemi legati a questi studi. L’ampiezza della variazione è dovuta più ai metodi di ricerca che al numero reale di disabili nei vari paesi. Ciò dimostra l’urgenza di standardizzare le definizioni di disabilità e le tecnologie di ricerca.
Per esempio, i dati relativi alla Cina comprendono principalmente persone con disabilità moderate e gravi e sottostimano un ampio gruppo di persone con malattie somatiche croniche non trasmissibili ? come dolori reumatici alla schiena e alle articolazioni.
La metà dei tipi di disabilità visti in Canada sono di carattere leggero e lieve. Se paragonassimo il tasso di disabilità moderata e grave in Canada con quello osservato in Cina, costateremmo che le differenze sono minime.
Il totale della prevalenza della disabilità è del 4,8%. Questo dato relativamente basso è parzialmente dovuto all’attuale composizione di età della popolazione Se dovessimo simulare una situazione dove la popolazione cinese avesse la stessa età che noi troviamo nei paesi industrializzati, la prevalenza totale media in Cina arriverebbe 7,7%.
Paragonando il censimento dei Mali (1976) con gli altri, si notano alcune differenze. La prevalenza della disabílità nei bambini è più bassa, questo può essere spiegato dal fatto che in Mali non si usa fare diagnosi in tenera età. In genere, i genitori credono che il loro bambino sia malato e che presto o tardi guarirà. Questo spiega perché non viene utilizzata l’etichetta di “disabile”. Un’altra ragione possibile di questa bassa prevalenza è una eccessiva mortalità. Nel 1976, il tasso di mortalità sotto i 5 anni si stimava fosse del 32% circa, ed è probabile che un elevato numero di bambini disabili sia morto prima. Nel gruppo di età dai 15 ai 64 anni, i numeri della prevalenza non sono molto diversi da quelli relativi alla disabilità grave o moderata negli altri paesi. Dopo i 65 anni, sopravvivono pochi maliani disabili e i sintomi disabilitanti sono visti come “normali nelle persone anziane”. Di conseguenza, un membro della famiglia anziano non sempre viene inteso come “disabile”, anche se afflitto da gravi limitazioni funzionali e da restrizioni di attività che portano ad una totale dipendenza dagli altri.
Usando le statistiche sulla popolazione delle Nazioni Unite per il 2000, arriveremo ad una stima globale per il tasso di prevalenza della disabilità moderata e grave del 5,5 %. Questo è un totale della prevalenza: 8,5% per i paesi più sviluppati e 4,8% per i paesi meno sviluppati.
Questo ci porta alla stima totale per il 2000 di 335 milioni di persone gravemente o moderatamente disabili nel mondo, dei quali circa 101 milioni (30%) vivono nei paesi più sviluppati e 234 milioni (70%) vivono in quelli meno sviluppati.
Sarebbe ragionevole presumere che la maggior parte delle persone moderatamente o gravemente disabili dipendono dagli altri fisicamente, psicologicamente, socialmente o economicamente. Invece, la maggioranza di queste persone vive al di sotto del livello di povertà.
l dati sopra riportati ovviamente non comprendono la disabilità temporanea o a breve termine causata da malattie curabili o da condizioni reversibili o da disabilìtà terminale associata ad una malattia grave (a meno che questa malattia non sia lenta e degenerativa). Se fosse stata inclusa tale disabilità, la prevalenza delle persone disabili aumenterebbe considerevolmente.
Nei paesi in via di sviluppo, esistono molte persone che hanno una forma di disabilità duratura o una disabilità ricorrente derivante, per esempio da malattie batteriche o parassitiche, da tumori o da infezioni da HIV. Queste persone hanno bisogno di assistenza ma, come si prevede, solo un numero limitato di loro potrà beneficiare di un programma di riabilitazione. Per questo motivo dette persone non sono state incluse nei calcoli sopra riportati.
E’ importate aggiungere che anche le persone con disabilità lievi possono avere bisogno dell’aiuto di un programma di riabilitazione, in particolare di formazione professionale e di lavoro. Infatti, in larga misura tale riabilitazione si rivolge a questo gruppo di persone disabili.

Incidenza della disabilità

Non esistono studi di ricerca su vasta scala riguardanti l’incidenza della disabilità osservata direttamente. Ciò è facile da comprendere. Fra i bambini, per esempio , potrebbe essere difficile identificare una disabilità come la paralisi cerebrale, la sordità, il ritardo mentale prima che il bambino abbia almeno raggiunto l’età di alcuni mesi.
Molti bambini disabili muoiono in giovane età, senza essere stati riconosciuti come disabili dalla loro famiglia, o da una persona competente a livello medico. Anche se viene fatta una diagnosi, la famiglia può non essere stata informata. In alcuni paesi in via di sviluppo, dove il tasso di mortalità infantile è stato molto elevato, i genitori non danno un nome ai bambini fino al compimento del primo anno di età. Tutto questo rende ancora più difficile lo svolgimento di ricerche sull’incidenza e sulla mortalità fra i bambini disabili.
In età avanzata, molte persone affette da una malattia terminale sono limitate nello svolgimento delle loro attività per un periodo più o meno lungo prima della morte. Per alcuni questo periodo di disabilità dura solo alcuni giorni o settimane, per altri è più lungo. Non è facile tirare una riga e decidere chi sarà contato come “nuova persona disabile” e di conseguenza verrà incluso nel calcolo dell’incidenza annuale. Per altre persone, la disabilità aumenta gradualmente e può essere vista come “normale invecchiamento”, e non è facile decidere a quale punto un essere umano entra nel gruppo delle persone gravemente o moderatamente disabili.
Ciò spiega perché le stime dell’incidenza annuale della disabilità sono basate su metodi indiretti. E’ necessaria una ricerca per stabilire dei dati affidabili.

Sesso e disabilità

L’incidenza della disabilità non è la stessa negli uomini e nelle donne. Certe condizioni sanitarie sono più frequenti in uno dei sessi. Per esempio, nei maschi esiste una incidenza leggermente più elevata di ritardo mentale; essi hanno più incidenti, certi disordini genetici, ecc. Le donne hanno disabilità causate dalla maternità, l’osteoporosi, ecc. In molti paesi, dove le donne vivono più a lungo degli uomini, la prevalenza totale di disabilità è spesso più elevata nelle donne. Ma per la maggior parte delle principali cause di disabilità non esiste una differenza significativa nell’incidenza della disabilità. Esempi sono la polio, la cataratta, le infezioni auricolari ed oculari. La sopravvivenza delle ragazze e delle donne, che sono disabili, può essere influenzata dalla trascuratezza. Studi in diversi paesi dell’Asia del sud indicano una grande differenza di sesso nella prevalenza della disabilità.
Le stime attuali, basate sulle cause gravi e moderate di disabilità, sono tratte da una serie di ricerche svolte in tutte le divisioni ed unità dell’OMS.
Esistono quattro cause principali di disabilità:

disturbi congeniti o perinatali (15?20%);
malattie trasmissibili (20% circa);
condizioni somatiche e mentali non trasmissibili (40?45%);
e trauma/lesioni (15% circa). Alcuni traumi sono legati alla violenza, che può in seguito risultare in disabilità fisica e mentale.

Prospettive sulla prevalenza della disabilità

La prevalenza della disabilità in futuro dipenderà da una moltitudine di fattori. Il primo fattore da considerare è la prevenzione della disabilità.
Tramite migliori interventi sanitari nell’ambiente, ecc. è probabile che l’incidenza della disabilità, in particolare, fra i bambini e gli adolescenti, possa essere prevenuta o ritardata. Tali sforzi preventivi avranno luogo a due livelli.
Ci si potrebbe aspettare una diminuzione delle malattie trasmissibili e della malnutrizione nei paesi in via di sviluppo ? simile all’esperienza avuta nei paesi industrializzati.
Una riduzione dell’incidenza del 50%, diciamo, nel corso dei prossimi 20 anni, abbasserebbe il numero attuale di persone disabili (derivanti da queste cause) dagli stimati 73 (63?84) milioni a circa 50 milioni, considerando un aumento del 36% della popolazione nei paesi in via di sviluppo. Così, la prevenzione a questo livello di successo riguarda circa 10?15 milioni di persone in un decennio. La disabiltà come risultato di condizioni congenite o ereditarie e di malattie non trasmissibili, così come le condizioni di salute mentale, rimarranno molto probabilmente a quel livello. La disabilità causata da traumi/lesioni è in aumento. Gli interventi per “curare” la disabilità sono in aumento. Questi comprendono la chirurgia della cataratta, la terapia della lebbra, dell’oncocercosi e di altre malattie oltre alle nuove tecniche per correggere le carenze genetiche.
La conclusione è che la prevenzione della disabilità cambierà lentamente il “ panorama della disabilità “nei paesi in via di sviluppo. I risultati della prevenzione effettiva non porteranno a una diminuzione dei tassi di prevalenza totale, dato che altre cause più determinanti provocheranno un aumento.
Il secondo fattore è legato alle variazioni nella composizione dell’età. E’ probabile che il previsto tasso di sopravvivenza continuerà ad aumentare in maniera abbastanza considerevole nei paesi meno sviluppati.
Moriranno meno persone giovani, e la proporzione di anziani (+65 anni) sarà più che triplicata fra il 2000 ed il 2035. I bambini ed i giovani disabili, che ora registrano un eccessivo tasso di mortalità, vivranno più a lungo e lo stesso avverrà per le persone disabili più anziane. Questo probabilmente aumenterà in maniera abbastanza considerevole la prevalenza della disabilità.

Il terzo fattore riguarda le influenze dell’ambiente

L’ambiente nei paesi in via di sviluppo subirà una serie di cambiamenti in futuro.
Questi cambiamenti comprenderanno una maggiore urbanizzazione, più traffico, uno sviluppo industriale (che provocherà inquinamento e lesioni), un maggiore impiego di sostanze chimiche pericolose e di attrezzature nell’agricoltura, un deterioramento dei sistemi igienici, l’inquinamento dell’aria e dell’acqua. Tutti questi probabilmente contribuiranno ad una maggiore incidenza della disabilità.
D’altra parte, è probabile che qualche altro cambiamento possa diminuire l’insorgere o la gravità della disabilità. Per esempio una migliore educazione e salute, un tasso più basso di gravidanze, migliori metodi di allevamento dei bambini, una minore povertà, migliori condizioni abitative, orari di lavoro ridotti e migliori comunicazioni.
Basandoci su questi tre fattori, possiamo fare una previsione per i prossimi 35 anni. Nei paesi meno sviluppati, dove nel 2000, avremo circa il 4,8% di persone moderatamente o gravemente disabili, circa 35 anni dopo la percentuale sarà del 7,0%.

(*) Articolo tratto dalla rivista Amici dei lebbrosi, n. 9/’99

Comunicare oltre il limite

8 dicembre 1995, solita giornata grigia, piena di impegni noiosi. Unica nota positiva: una BMW metallizzata con autista, da tanto desiderata. Jean Dominique Bauby, l’autore del libro, ha 43 anni, padre di due bambini, è giornalista e redattore capo del mensile ELLE. Quel venerdì aveva deciso di portare Thèofile, un figlio che per svariati motivi aveva ultimamente trascurato, a teatro. Colpito da un ictus Bauby cade in un profondo coma dal quale esce perfettamente lucido, ma con un corpo del tutto inerte: è lo stato che la medicina chiama locked-in syndromeBauby si ritrova in un letto di ospedale con un corpo rigido come lo scafandro di un palombaro, con una sola parte di cui controlla il movimento: un occhio
Questo libro scritto con “le palpebre”, unica parte ormai funzionante di un corpo-scafandro che rende prigionieri, evoca congiuntamente sentimenti contrapposti: pietà per la nostra ineluttabile condizione umana di comuni mortali, rabbia e frustrazione per l’incapacità di accettare la nostra tragica sorte.

Comunicare con un battito di palpebra

Con un battito di palpebra Bauby dice sì, due battiti significano no. L’alfabeto gli viene recitato in ordine di frequenza della lingua francese. Con un battito di ciglia Bauby ferma l’interlocutore su ogni singola lettera funzionale a comporre la parola desiderata, la frase pensata. In questo modo J.D. Bauby detta un libro, Le scaphandre et le papillon (1) che gli permetterà di comunicare con il mondo, perché anche dentro ad un corpo-scafandro, tanto inefficace, vi può essere una farfalla-mente, sentimenti, ricordi, sogni, desideri che vola alta. È questo il messaggio del libro, il suo significato precipuo: la necessità di raccontare/si, di condividere emozioni e sentimenti, quel bisogno di socializzare che attraverso il linguaggio, non necessariamente fatto di parole, deve essere comunque compreso per avere valore esistenziale .
Circa due anni dopo il tragico incidente Bauby muore.
Si libera dello scafandro che lo ha reso prigioniero, ma rimane la traccia del suo essere stato farfalla: il libro, che racconta come egli abbia continuato a volare anche nei due anni nei quali era chiuso nello scafandro, senza smettere di pensare, di soffrire, di gioire, di comunicare….., dunque di vivere.
“Così da dietro l’oblò del suo scafandro, ci invia le cartoline di un mondo che possiamo solo immaginare, dove vola leggera la farfalla del suo spirito”(dal risvolto di copertina) (2). Non ho potuto far a meno di riportare in modo integrale questo pensiero, perché credo racchiuda il dramma dell’autore, in senso più generale il limite umano, ancora una volta descritto o meglio rappresentato, dall’eterno conflitto relazionale d’interdipendenza corpo-mente.

Il corpo e la mente: un vecchio dissidio

Di ciò il mondo classico, con i suoi filosofi e pensatori, ci offre una ampia panoramica: da Omero a Platone , il rapporto corpo-mente si modifica profondamente, ma mantiene pur sempre una relazione di tipo “dialettico”,condizionandosi di continuo, reciprocamente . Con la modernità, più precisamente con Cartesio, la lettura di questo fenomeno si inasprisce: vi è una vera e propria separazione fra mente e corpo ( “cogito ergo sum”).
Vi è un altro aspetto, che ho immediatamente colto durante la lettura del testo, cioè la fragilità dell’uomo, e la sua finitudine, che lo caratterizza per il suo corpo-scafandro che pesa, che limita, che lo condanna a morire.
Possiamo considerare, senza grosse approssimazioni, la malattia come una sorte di morte interiore, sia per quel che riguarda il corpo, sia per la mente.
Si coglie nelle parole di Bauby – mi riferisco al suo spirito di autoconservazione, al suo bisogno impellente e improrogabile di comunicare per sentirsi vivo – il significato esistenziale dell’uomo: il suo bisogno di socializzare. Detterà infatti: “Se volevo provare che il mio potenziale intellettuale era rimasto superiore a quello di una scorzonera dovevo contare solo su me stesso. Così è nata una corrispondenza collettiva (…) che mi permette di essere sempre in comunione con coloro che amo (…) [e tutti] hanno capito che mi si poteva raggiungere nel mio scafandro” (p.80) (3).
“Non si può non comunicare “, ha scritto Paul Watzlawick, e dai racconti di Bauby si intuisce bene la funzione semantica della comunicazione, ovverosia il linguaggio dei segni: battito di palpebra, doppio battito di palpebra, risposta affermativa, risposta negativa e così via.
Quando comunichiamo, mandiamo messaggi , manipoliamo e indirizziamo i nostri segnali. Tutto questo non avviene quando parliamo di comunicazione non verbale.
Sto pensando a quel micro-linguaggio fatto di sorrisi, di corrugamento della fronte, di quella luce improvvisa che illumina il viso e che trasmette il nostro stato d’animo in modo istintivo e inconsapevole.

Un’occasione di cambiamento

Ma la malattia è anche un modo per curarsi, un’occasione per cambiare, per entrare in contatto col mondo interiore che molto spesso disconosciamo, che non consideriamo mai abbastanza, tutti presi dalle nevrosi della vita moderna, per i numerosi impegni che scandiscono il tempo dei nostri giorni.
Quando siamo costretti a ripensarci , a fare i conti con i vincoli in primis del nostro corpo , secondariamente con quelli di ordine sociale, ci attiviamo nell’intento di ristrutturare i nostri comportamenti , i pensieri ; cerchiamo soluzioni diverse che tengano in considerazione la nuova realtà.
Superato un primo momento di dolorosa accettazione , dove per altro i pericoli di lasciarsi morire sono preponderanti , la nostra intelligenza , caratteristica dell’uomo che ci contraddistingue dagli altri animali, ci rimette in gioco in un modo nuovo , più consono al sopraggiunto cambiamento .
Rifacendomi ai racconti di Bauby la problematica dell’handicap si ripercuote oltre che a livello personale, a livello sociale, professionale, quindi economico. La vita da un giorno all’altro può drasticamente cambiare e riservarci “sorprese” a dir poco drammatiche.
Nell’immaginario collettivo, a tutt’oggi, l’handicap viene vissuto come una colpa, viene considerato come una maledizione di Dio, soprattutto quando sopraggiunge inaspettato. Paradossalmente ci troviamo a volte in situazioni assurde, in cui l’handicappato deve consolare gli altri, amici e parenti, inventare un modo nuovo di stare insieme.
Leggendo questo libro non ho potuto fare a meno di pensare alle persone che per svariati motivi non riescono a parlare: i bambini, gli handicappati in generale e di come debba essere difficile per loro vivere in questa società, dove la comunicazione è di vitale importanza.
Dal suo significato originario, comunicare, altro non è che il linguaggio della comunità; non è un caso che le associazioni dei “sordo muti” abbiano ottenuto meno ascolto rispetto ad “altre” corporazioni similari. Finalmente, grazie anche a questo lavoro, mi è più chiaro comprendere alcuni comportamenti, d’acchito incomprensibili; quante volte mi è sembrato di comunicare cose di cui non ho avuto riscontro nei fatti, in parte per l’ovvia preponderanza della comunicazione non verbale.
Si pone a questo punto il problema di controllare la comunicazione, quel messaggio di ritorno che gli esperti chiamano feedback onde evitare distorsioni poco gradite . Ma allora cos’è che ci spinge a resistere, a sopravvivere, come ci ha dimostrato senza ombra di dubbio l’autore? Una risposta risiede nei geni della biologia, quella sorta di dotazione genetica per la quale la funzione adattiva dell’uomo all’ambiente ci porta a scegliere di vivere e di non lasciarci morire, oltre a quel condizionamento sociale che ci spinge a comunicare sempre e comunque .
“Lo scafandro si fa meno opprimente e il pensiero può vagabondare come una farfalla , [..] si può volare nel tempo, partire per la Terra del Fuoco o per la corte del re Mida”(4). Trovo sia difficile commentare questi versi di una bellezza straordinaria, le uniche emozioni che riesco ad esprimere in sintonia con la poesia , sono quelle di compassione e di profonda solitudine. Quando il corpo ” si ferma” il pensiero ne assume la funzione “locomotoria vicariante” e attraverso l’immaginazione si compiono nuovi viaggi. Le nostre aspirazioni, aspettative, le azioni che agiamo nella realtà dal mondo esterno confluiscono ad un mondo interiore segreto, a tratti impenetrabile: è il mondo dell’immaginario , della fantasia .
Altro aspetto non meno importante riguardante la comunicazione verbale, è quello sociale e lo si può riferire alla consuetudine di privilegiare la ratio (ragione) nei confronti delle emozioni. Anche le neuroscienze che notoriamente utilizzano una chiave investigativa di tipo “genetico” piuttosto che ambientale, contrariamente all’approccio sociologico , spiegano l’evoluzione del linguaggio e perché tale modificazione è avvenuta/avviene a discapito delle altre facoltà . L’uomo negli anni ha sviluppato a contatto con l’ambiente l’emisfero sinistro che è il luogo del cervello deputato alla parola, al computo, al ragionamento matematico. Da un punto di vista squisitamente economico le maglie del potere agiscono tramite i produttori di parole, i media. Siamo continuamente bombardati da messaggi televisivi, radiofonici e stampa (ironia della sorte il protagonista del libro era redattore del mensile “ELLE”).
Attraverso l’uso dei media si è potuto fare ciò che prima non era stato possibile, ovvero comunicare in modo uniforme a un pubblico vasto. Si tratta della “comunicazione di massa”, che fonda la sua forza su una società senza valori dove l’omologazione, la massificazione, la moda la fanno da padrone.
Tornando per un attimo al titolo del libro e al significato della metafora, cioè lo scafandro – corpo che pesa, la farfalla – mente libera di volare leggera grazie alle ali dell’immaginazione, vediamo che tutto riconduce “all’idea” che il corpo può morire, ma l’anima no.
Fin dall’antichità, dal “culto” delle religioni politeistiche fino ai giorni nostri, epoca delle religioni monoteistiche, forse anche in ragione della difficoltà di accettare la morte come evento “naturale”, l’uomo ha sempre fantasticato, pensato, avuto fede nell’aldilà: cioè ha creduto che dopo la morte si potesse passare ad altra vita.
Nella mia esperienza non ho mai avuto rapporti diretti con persone in situazione di handicap, ciononostante mi sono sempre chiesta quale sarebbe stato l’atteggiamento corretto in tali situazioni relazionali .

Lo sguardo degli altri

Vorrei essere naturale, gentile ma non pietosa, simpatica senza sembrare aggressiva, vorrei essere in grado di comprendere e non di giudicare. Che presunzione! Dal libro si deduce quanto siano problematici i rapporti con disabili anche quelli più intimi, di parentela. Ce lo mostra il brano di Bauby che descrive la difficoltà mostrata dai visitatori della clinica, in cui egli è ospitato, dinnanzi alla gravità di certi pazienti: “Conosco fin troppo bene il leggero imbarazzo che provochiamo quando attraversiamo rigidi e silenziosi, un gruppo di malati meno sfortunati di noi […]. Di sotto, si ride, ci si diverte, si parla. Mi piacerebbe prendere parte a tutto questo divertimento, ma quando volgo il mio unico occhio verso di loro, ragazzo, nonnina, e barbone girano tutti la testa e provano un bisogno impellente di contemplare il sistema antincendio fissato sul soffitto. I turisti [visitatori] devono avere un gran paura del fuoco.” (5).
Purtroppo questo comportamento è diffuso e involontario, spesso non sappiamo come comportarci; la malattia e maggiormente l’handicap fisico ci spaventano molto, sono uno scheletro che non vorremmo vedere, non s’intonano con la “società dell’immagine”; tutti belli, tutti sani, tutti forti, tutti …, che continuamente ci viene riproposta e che ci induce la paura del contagio.
La malattia, in senso lato, ci mette davanti senza mediazione alcuna, alla profonda instabilità e fragilità del destino umano: ci sentiamo impotenti e questo ci fa stare male.
Nel libro affiora preponderante la problematica del rapporto con i famigliari: “Mio padre spiega le sue difficoltà a reggersi in piedi. Attraversa coraggiosamente il suo 93° anno di età (Jean-Dominique ne ha solo 43, padre di due bambini, sarà costretto a vivere un’esistenza di grande disabile per poi morire all’età di 45 anni) […]. La dolce Florence non parla se prima non ho respirato rumorosamente dentro la cornetta….”(6), per non parlare dei figli che ripetono “E’ il mio papà , è il mio papà! come fosse la formula di un incantesimo” (7).
La società troppo spesso si cela dietro a messaggi di solidarietà che rimangono inesorabilmente non
compiuti, in realtà non fa altro che favorire quel sistema di interessi, egoismi, vere e proprie truffe che il linguaggio economico giustifica in nome di un mercato onnisciente.
Non mi voglio addentrare ulteriormente in una riflessione socio-politica, non è il fine che mi sono proposta in questo lavoro, penso però che sia necessario sviluppare una sensibilità più consona a queste problematiche e prendere posizioni più chiare a riguardo.
Penso ad esempio all’eterno problema delle barriere architettoniche; solo nella nostra facoltà, in una recente ricerca ne abbiamo rilevate diverse. Altra questione non meno importante e che colpisce le persone con handicap sensoriale necessiterebbe di sistemi d’avanguardia, che prevedono insegnamento integrato, cioè linguaggi e metodi più funzionali ai bisogni individuali
Lo scafandro che dall’etimo francese scaphandre e dal greco skàphe “imbarcazione” e anèr, andròs “uomo” rimanda ad un’idea di movimento, pare suggerire che in definitiva l’unica vera possibilità di “viaggiare”, quindi di conoscere, fare esperienza , appartenga alla categoria del pensiero: in altre parole conta di più quello che pensiamo della realtà che ci rappresentiamo, che non la realtà stessa.

Note
1. Tradotto in italiano col titolo Lo scafandro e la farfalla (Ed. Ponte delle Grazie srl, Milano, 1997,pp.126).
2. Bauby J.D. , Lo scafandro e la farfalla , Famigliano (CN) , Milanostampa S.p.a. , 1997 , risvolto di copertina
3. idem , p. 80
4. Bauby J.D. , Lo scafandro e la farfalla , Farigliano (CN) , Milanostampa S.p.a. , 1997 , p. 8
5. Bauby J.D. , Lo scafandro e la farfalla , Farigliano (CN) , Milanostampa S.p.a. , 1997, Pp. 36 – 37
6. idem , Pp. 44 – 45
7. idem , p. 71

(*) laureanda alla Facoltà di Scienze della Formazione dell’Università di Parma