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Autore: admin

Separazioni violente

Il momento della separazione dal proprio ambiente familiare e dall’inserimento in un luogo estraneo raccontato da Mario Barbon nel capitolo” Rimini” (tratto dal suo libro Non ho rincorso le farfalle) viene accostato ad alcuni brani tratti da J. Amery, Intellettuali ad Auschwitz.
Sono due voci che pur nella loro diversità testimoniamo la sofferenza e il dramma di chi è separato per forza e con forza da ciò che ama e che quindi è familiare, per trovarsi gettato in un mondo in cui il sentimento di estraneità sottende ogni attimo e gesto della vita quotidiana.
Mario Barbon

“Il mio nuovo istituto si trovava a Rimini e secondo l’assistente sociale di Treviso si sarebbe trattato di un piccolo paradiso, ma come si sa le assistenti sociali sono sempre portate a fare bei castelli. Io non ero tanto contento di riprendere il mio peregrinare. Avevo avuto la fortuna di fare l’esperienza di Firenze, che ricordavo con un po’ di nostalgia; comunque, ormai che il cambiamento era deciso, speravo di trovare nel nuovo istituto almeno un po’ della comprensione che avevo trovato a Firenze.
Il ricovero al “Sol et Salus” avvenne ai primi di febbraio. E’ inutile dire che in me era sopraggiunta l’angoscia che da parecchio tempo non provavo, eppure c’era una certa una certa disponibilità, almeno apparente a partire…sotto sotto però non l’avrei mai desiderato. Appena pa’ mi prese in braccio per portarmi a prendere il treno scoppiai a piangere, tiravo calci a destra e a sinistra, e pensavo: ma perché volete sempre aver ragione voi?”

“Ma forse in quel momento nessuno pretendeva di aver ragione. Il viaggio fa abbastanza tranquillo; la giornata era tiepida e quando arrivai a Rimini c’era il sole. Dentro di me, però, desideravo che quel viaggio non finisse mai. Usciti dalla stazione prendemmo l’autobus che, guarda caso, si ferma a duecento metri dall’istituto. Questo si trova proprio in riva al mare; come aspetto, visto dall’esterno non era male, ma bisognava vedere se anche l’interno vi corrispondeva. Quando entrai sentii in me l’angoscia. Sbrigate le solite formalità, una signorina ci accompagnò al reparto, che era staccato dalla struttura principale. Percorso un lungo corridoio, ci trovammo in una specie di labirinto di stanze.”

Jean Amery

“Seguendo i sentieri dei contrabbandieri attraversavamo la Eifel notturna e invernale, in direzione di un paese, il Belgio, i cui doganieri e gendarmi non ci avrebbero consentito di passare il confine legalmente: eravamo privi di passaporto e visto, privi di un’identità civile giuridicamente valida, eravamo profughi. Fu un lungo cammino nella notte.”

“Felicemente giunti ad Anversa e confermato il nostro arrivo con un cablogramma ai parenti rimasti a casa, cambiammo il denaro in nostro possesso, complessivamente quindici marchi e cinquanta pfenning, se ben ricordo. Questo era il patrimonio con il quale dovevamo iniziare, come si dice, una nuova vita. La vecchia ci aveva abbandonati. Per sempre? Per sempre. Ma l’ho capito solo adesso, dopo quasi ventisette anni.”

“Qui purtroppo ho visto uno spettacolo, se così si può chiamare, che non dimenticherò mai. C’erano bambini, seduti a dei tavoli piccoli, che avrebbero dovuto mangiare, ma da soli non ci riuscivano e si sporcavano tutti, sporcando anche il pavimento, sicché era uno spettacolo proprio brutto. E c’era una signorina, alta, scura di capelli, con un naso che assomigliava a un becco d’aquila: questa sarebbe stata la Piter, che come vedeva quei bambinetti sporchi non esitava a batterli senza riguardo. Quando vidi tutto questo mi misi a piangere, mentre la signorina cercava di calmarmi. “Portami a casa, voglio venire a casa!” cominciai a gridare alla mamma, finché la signorina, sempre la stessa,a un certo punto mi diede un bicchier d’acqua, ed io la bevvi perché avevo sete, solo che in quel bicchiere c’era una dose di sonnifero. Poco dopo infatti mi è venuto sonno e allora ho capito lo scherzo che mi aveva fatto. La mamma ebbe appena il tempo di salutarmi che io mi addormentai”.

“Quando mi svegliai mi sembrò di essere a casa, ma ben presto mi ricordai dove mi trovavo. La camera era piccola, a due letti, e c’era un altro ragazzo, forse caduto anche lui nella trappola della signorina. Da parte mia non ci fu neppure il tentativo di avviare un dialogo, avevo ben altri pensieri. Pensavo a casa mia cercando di immaginare che cosa stessero facendo in quel momento le mie sorelle; e papà e mamma, dove potevano essere? Non c’era in me nostalgia di casa, era subentrata una certa indifferenza e anzi mi sembrava più che normale di trovarmi in quel posto dove non conoscevo nessuno al di fuori di una signorina che sembrava piuttosto antipatica”

“Nei primi giorni mi lasciarono in pace, tanto per darmi il modo di ambientarmi, e così mi mettevano in un angolo del soggiorno da dove potevo guardare tutti quelli che passavano. Vidi anche la signorina Piter, che molto gentilmente mi chiese come andava. Ricordo che rimasi colpito dalle grida che venivano dalla sala di fisioterapia e mi chiedevo a che cosa erano dovute. Purtroppo di lì a qualche giorno avrei dovuto “cantare” anch’io.”

“Con qualche banconota e qualche moneta straniera affrontavamo l’esilio: che desolazione! Chi non lo sapeva, apprese nella sua vita quotidiana di profugo che l’esilio trova la migliore definizione proprio nella parola Elend (desolazione) che etimologicamente ha in sé il concetto di messa al bando.”

“Che cos’era , cos’è la nostalgia di casa provata da coloro che dal Terzo Reich erano stati cacciati allo stesso tempo a causa delle loro opinioni e del loro albero genealogico? Impiego malvolentieri in questo contesto un termine oggi non più di moda, ma forse non ne esiste uno più adatto: la mia, la nostra nostalgia di casa era una forma di autoestraniazione. Il passato era di colpo sepolto, e non si sapeva più chi si era.”

“Volti, gesti, abiti, case, parole ( anche quando più e meno le capivo) erano realtà sensoriali, ma non segni decifrabili. Quel mondo per me era privo di ordine. Il sorriso del poliziotto che controllava i nostri documenti era benevolo, indifferente o sarcastico? La sua voce profonda tradiva astio o esprimeva? Non lo sapevo.
Barcollavo attraverso questo mondo i cui segni erano per me indecifrabili quanto i caratteri etruschi.”
“Ben presto entrai nella stanza cosiddetta di fisioterapia o per meglio dire “stanza di tortura”. La mia fisioterapista era la signorina Piter, che secondo le sue parole mi avrebbe rimesso in piedi. Sta di fatto che la mia volontà di migliorare, se prima era mediocre, discese a zero. Nei primi tempi la ginnastica era di rilassamento e fin qui tutto sarebbe andato bene, ma un giorno la signorina Piter, senza alzare la voce, come era solita fare con chi secondo lei non sopportava abbastanza, mi disse: “Oggi ti metterò le docce”. In un primo momento la mia fantasia si era divertita a immaginare queste docce come quelle di un bagno, ma più tardi capii che si trattava di qualcosa di rigido e di doloroso. Le docce sono una forma di cartone rigido che segue generalmente la sagoma della gamba: adesso la signorina Piter doveva drizzare le mie gambe e perciò mi metteva le docce. Si dà il caso però che generalmente chi è colpito da paralisi spastica abbia i tendini e le corde delle gambe e delle braccia che si ritirano e si irrigidiscono. Potete quindi immaginare che cosa succede quando si tenta di raddrizzare questi arti. Comunque la signorina Piter tentò di tranquillizzarmi dicendo: “Guarda Mario, oggi le tieni 15 minuti, domai mezz’ora, fino a quando dovrai portarle tutta la notte”. Non avevo dato troppo peso a quelle parole anche perché dovevo ancora “provare”, però adesso posso dire da che cosa erano provocate le grida che avevo sentito fin dal primo giorno.
Cominciai così a capire che cosa voleva dire portare quegli arnesi. E come se non bastasse la tortura fisica, c’era anche quella morale, poiché quando questa benedetta signorina si metteva sulle mie ginocchia, provocando ovviamente dei dolori, io non dovevo gridare, né stringere i denti per non gridare, ma semplicemente dovevo far finta di essere al cinema o alla spiaggia. E se qualche volta mi scappava un “aio” la signorina Piter mi sgridava dicendo: “Ma no che non ti fa male, è solo una tua impressione!”. A queste parole la mia mente si divertiva a immaginare forme di tortura arcaiche come il tiro con i cavalli e la signorina Piter legata ad un albero…
Avrei voluto farle sentire lo stesso dolore che mi provocava prendendomi la gamba e tirandola fin quasi a spezzarla. Direte che la mia testa era soltanto “confusa” a causa de dolore, però possono dire con sincerità che in tutto il periodo trascorso in quell’istituto ho

“Il potere del torturatore sotto il quale geme il torturato, non è invece altro che l’assoluto trionfo del sopravvivente sull’individuo che, escluso dal mondo, è spinto verso la sofferenza e la morte.
Stupore per l’esistenza dell’altro che nella tortura si impone senza limiti e stupore per ciò che si può diventare: carne e morte. Il torturato non cesserà mai più di meravigliarsi che tutto ciò che, a seconda delle inclinazioni, si può definire la propria anima, il proprio spirito, la propria coscienza o la propria identità, risulta annientato quando nelle articolazioni delle spalle tutto si schianta e frantuma. Che la vita sia fragile, questa ovvia verità l’ha sempre saputa, e anche che sia possibile metterle fine “con un semplice ago”, come ha scritto Shakespeare. Ma solo attraverso la tortura ha appreso come sia possibile rendere un essere umano unicamente carne, e trasformarlo così, mentre è ancora in vita, in una preda della morte.
Chi ha subito la tortura non può più sentire suo il mondo. L’onta dell’annientamento non può essere cancellata. La fiducia nel mondo crollata in parte con la prima percossa, ma definitivamente con la tortura, non può essere riconquistata. Nel torturato si accumula lo sgomento di avere vissuto i propri simili come avversi: da questa posizione nessuno riesce a scrutare verso un mondo in cui regni il principio della speranza. Chi è stato martoriato è consegnato inerme all’angoscia. Sarà essa in futuro a comandare su di lui.

sempre desiderato di torturare, seppure con la fantasia, qualcuno, e non ero l’unico che nutrisse di questi pensieri. Fantasie del genere erano all’ordine del giorno per tutti i miei compagni, che si divertivano ad immaginare quale avrebbe potuto essere il supplizio migliore per questa o per quella persona. La nostra consolazione, se tale si può definire era il cinema: ricordo che aspettavamo con tale ansietà quel giorno che tutto il resto era relativo”.

L’angoscia: e in aggiunta tutto ciò che abitualmente chiamiamo i risentimenti.
Anch’essi restano e hanno scarse possibilità di concentrarsi in una spumeggiante e purificante sete di vendetta”.

Imparare a nascere

La separazione è una delle prime esperienze della vita umana, in quanto legata al necessario distacco dal corpo della madre; ed è, soprattutto, un’esperienza necessaria per sviluppare il senso di spazio e tempo, le facoltà linguistiche e la capacità di relazionarsi con gli altri.LA SEPARAZIONE

Il lavoro delle separazioni, inteso come processo che percorre in fondo tutta la vita di ciascun individuo, prende avvio con la nascita ed è preparato da una serie di competenze che riguardano il bambino, chiamate proprio “competenze a nascere”. Movimenti, riflessi, modalità attive che permettono una nascita a cui il bambino concorre con una propria attiva partecipazione, e che quindi possono essere utilizzati come emblema di un processo, quello del separarsi, a cui sono chiamati due soggetti, seppure con parti diverse: il bambino e l’adulto, in questo caso la madre.
Per autori di scuole di pensiero anche molto differenti (genetici, piagetiani, psicoanalisti, e altri), la cosa più importante fin dall’inizio della vita è il progressivo porsi del bambino come Soggetto, separato dalla matrice che lo ha generato, nel mondo che lo circonda.

LA DIMENSIONE “OCEANICA” DELLA GRAVIDANZA

La gravidanza è forse uno degli stati che più facilmente ci fanno comprendere il termine fusionalità, massima perdita di sé nell’altro “come in un oceano”, il che inoltre esprime bene come questa dimensione sia limitata nel tempo e debba essere tale, non prolungarsi, per permettere la vita.
Con la nascita c’è la rottura forte e dolorosa di questo legame, rottura che permette al bambino e alla madre una esperienza del tutto nuova, attiva e volontaria, in cui la volontà, appunto, può essere espressa dalla madre e poi anche il bambino “vuole”, “può”, “s’impone”.
Diversamente, nei nove mesi di gestazione, il bambino prende e riceve e la madre dà e subisce: questa azione del dare e prendere ha una circolarità che esclude ogni atto di volontà, ma anche ogni sensazione di bisogno, di carenza perché l’unità feto-placentare soddisfa ogni necessità prima ancora che se ne avverta il bisogno.
Il bambino e la madre ricercheranno inconsapevolmente le sensazioni di prima della nascita, quelle precedenti al distacco, attraverso il contatto dei corpi e il contenimento.
Attraverso la pelle, le braccia, il seno, la voce, si ristabilisce una sensazione di fusionalità, ma in una dimensione diversa, esterna. L’alternanza di vicinanza/distanza, presenza/assenza, piacere/dolore porterà la costruzione progressiva di due entità fisiche distinte.

SPAZIO, TEMPO E LINGUAGGIO

Contrariamente al periodo della gravidanza, in cui il tempo era un continuum e lo spazio un unico spazio, ora la diade madre-bambino si separa per brevi periodi, sempre più prolungati via via che la crescita procede. Nasce così lo spazio proprio, interno ed esterno,e anche il tempo, nell’attesa di un riavvicinamento: un tempo collegato al bisogno e la cui durata è in rapporto alla velocità con cui il bisogno viene soddisfatto.
Dal piacere dell’unione alla fatica della separazione, dalla presenza e dall’assenza, si strutturano spazio e tempo, e non solo l’identità personale che implica la separazione-differenziazione di sé dall’altro.
Il graduale allontanamento della figura di attaccamento stimolerà l’attività di esplorazione del mondo e permetterà lo sviluppo dell’istinto a conoscere.
L’assenza sentita come mancanza porta alla formazione dei simboli e delle rappresentazioni, quindi del pensiero e del linguaggio. Così, piano piano, la madre può essere chiamata e cercata, evocata e pensata: l’assenza della madre è tollerata per periodi sempre più lunghi, perché continua a esistere nel pensiero e fa parte ormai del mondo interno del bambino.
Ogni esperienza nuova di trasformazione, e la relativa difficoltà, ripropone alla coppia madre- bambino la necessità di rivedere il distacco e mediare la paura della perdita.

L’AGGRESSIVITÁ

Questo tema permette di introdurre anche un altro importante argomento: l’aggressività. La madre esercita sempre più una mediazione tra il bambino e il mondo, e la sua modulata aggressività fa da barriera a quella del mondo che il bambino deve imparare ad affrontare. L’aggressività materna, oltre ad avere un senso nella costruzione dei confini tra sé e il mondo, aiuta il bambino a superare le difficoltà insite nella lotta per la vita.
Dalla nascita in poi la madre è il primo “altro” con cui incontrarsi e scontrarsi per la conquista di un posto nel mondo.
Una madre non del tutto oblativa (non esiste una madre che si dona senza alcuna riserva in assoluto) è il presupposto necessario per la ricerca di altri rapporti, di sostituti, dentro e fuori la cerchia familiare: verso il padre, i fratelli, gli altri adulti, i coetanei.
Questa è anche una dialettica dolorosa, che porterà nel tempo il bambino a costruire rapporti paritari e liberi, meno limitanti e avvolgenti delle braccia materne: “ci si libera più facilmente della coercizione che della seduzione” (Gallo Barbisio).
Un legame seduttivo, che porta a sé, che non riconosce l’altro, può provocare la mortificazione dell’individualità, ed imprigiona il bambino perché nega la differenza e i bisogni diversificati, perché nega la dipendenza dell’uno dell’altro, sancendone le disuguaglianze necessarie: di età, di sesso, di ruoli, di bisogni, di capacità, di autonomie ecc.
Queste vicende di non-separazione confermano l’impossibilità di vivere quella capacità raffinata ed evoluta che è rappresentata dall’essere-con un altro, senza confondersi e senza respingerlo. Potremo dire: “Se non c’è aggressione, non c’è nemmeno unione”, se non c’è distanziamento non c’è senso di legame e di attaccamento.
La separazione è quindi un grande processo creativo che permette al bambino (e anche all’adulto) di sperimentare un gioco alterno di dipendenza e indipendenza, in cui la ricchezza di sperimentare il “fare da solo” pianta le sue radici sulla sostanziale sicurezza interna di non essere abbandonato, di poter essere nuovamente accolto, quando vorrà nuovamente essere con l’altro (il genitore, la famiglia, l’amico, il compagno), cioè in definitiva che il proprio atto aggressivo di allontanarsi (anche in senso metaforico) non è stato percepito da sé e dall’altro come distruttivo (cioè con valenza che annienta la differenziazione).

Le separazioni

Stare accanto a chi vive una condizione di bisogno per un pezzo di strada: questo è il compito di chi svolge una funzione di aiuto nell’ambito di una relazione educativa.
L’accompagnare contiene quindi il seme della separazione. Come dice il poeta nel Congedo del viaggiatore cerimonioso “Amici, credo che sia /meglio per me cominciare/ a tirar giù la valigia.” perchè sviluppare percorsi il più possibile autonomi e consapevoli è una delle tensioni che attraversano l’agire educativo. Tensione che testimonia anche la doppia valenza che la separazione riveste all’interno delle relazione di aiuto. Da una parte, infatti, è essere consapevoli che ad un certo punto il proprio ruolo è proprio quello di andare dietro le quinte lasciando ad altri (persone e contesti) il compito di svolgere nuove funzioni, di dispiegare, se è possibile, diverse potenzialità. Dall’altra la separazione è anche momento di bilanci rispetto a ciò che si è dato, a ciò che si è ricevuto. Si vive, in questo caso, un vuoto, si sperimenta il senso del limite del proprio agire.
La faccia bifronte della separazione ci aiuta nel confronto, non semplice, con quanto di noi ha vissuto in quella relazione, dentro quello stare insieme quotidiano così tipico del lavoro educativo: il positivo, il negativo, le risorse, i limiti.

Lo specchio spugnoso

Intervistiamo Giovanni Gatta, insegnante di lettere da 20 anni alle scuola medie del Pilastro, uno dei quartieri più ‘caldi’ di Bologna sulla sua esperienza educativa, i cambiamenti avvenuti nella scuola e le emergenze dei nostri giorni. “Moltissimi iniziano un percorso scolastico post-obbligo, ma pochi lo concludono”.

D. Cosa significava lavorare al Pilastro 20 anni fa, e cosa significa oggi?
R. Vent’anni fa, venire ad insegnare al Pilastro era considerato (soprattutto da chi non l’aveva neppure visto) una sventura…
Eppure allora, ancora in pieno boom demografico e grazie all’obbligo burocratico che vincolava i bambini alle scuole del territorio, il Pilastro offriva lavoro a molti nelle scuole strapiene che utilizzavano tutti gli spazi disponibili.
E che lavoro! Era una bottega di apprendistato, una palestra di esercitazioni, un laboratorio di sperimentazioni.
C’era il ‘tempo pieno’, cresciuto con Gianni Rodari, c’erano gli obiettivi educativi ripensati alla luce della scuola di Barbiana: queste le direttrici di un percorso che faceva continuamente i conti con la realtà quotidiana, che ‘doveva’ aggiornarsi perché l’ambiente intorno (genitori, cittadini,…) era molto attento e interessato alla scuola, ritenendola un momento formativo insostituibile per i bambini e quindi pretendendo che funzionasse al meglio sia come struttura sia come mezzi.
C’era qualcosa ancora che ‘obbligava’ la scuola a ricercare continuamente le modalità più adeguate e funzionali agli obiettivi che la legge affida all’istruzione obbligatoria (quindi un diritto/dovere) e cioè la realtà dei ragazzi, rispetto alla quale formulare le ipotesi di lavoro; ed erano realtà multiformi (le differenze sono o no una risorsa?) che richiedevano risposte ‘personalizzate’ (ora si chiama insegnamento individualizzato!).
Credo che molti di noi insegnanti abbiano avuto l’opportunità di allenare la propria didattica, non so quanti l’abbiano colta e poi sfruttata altrove…
Col tempo, la ‘cultura pilastrina’ (ma è una semplificazione mistificante che generalizza manifestazioni minoritarie, ancorché eclatanti) fatta di disagi e inquietudini un po’ ribalde e aggressive e di curiosità umana profonda, è venuta sfumando in una omogeneizzazione culturale diffusa, come nel resto della città e forse dell’Italia tutta (e del mondo dei mass-media), un po’ cialtrona e arrivista, senza valori se non il danaro e il potere, l’apparire.
Adesso sì che insegnare al Pilastro potrebbe essere triste, ma esattamente come altrove, se non restasse il fatto che comunque si lavora con bambini, cioè creature vive, anzi piene di vita.

D. Parliamo del disagio: esplosivo? Sommerso? La scuola ha tentato di affrontarlo?
R. La scuola funziona all’incirca come uno specchio spugnoso che assorbe e riflette le realtà che la circonda, gli umani , i disagi, le inquietudini, i desideri…
Spesso non sa che farsene, perché non sa ‘leggere’ i messaggi e/o non sa interpretarli, non riesce a interagire: non si tratta, infatti, di assumerli acriticamente, quanto piuttosto di metterli a confronto con le mete educative e provare a creare canali comunicativi…
In molti casi è la stessa struttura della scuola (gli orari a incastri rigidi, i vincoli burocratici, la divisione di ruoli e competenze, le gerarchie…) così anchilosata e insieme così fragile, a non potersi adeguare alla realtà, rifugiandosi in progetti educativi di carta che non trasformano le parole in comportamenti quotidiani.
Ci sono anche casi (molti?) in cui è l’alibi del "non si può! come si fa? non è compito nostro!" a rivelare l’accidia degli operatori scolastici: di fronte a bambini che denunciano forme eclatanti di disagio, ovviamente, non si può non reagire, sia in modo repressivo per riportare l’ordine in classe, sia in modo positivo coinvolgendo famiglia e servizi sociali (anche loro spesso oberati da tanti problemi da non riuscire a quadrare il cerchio). Spesso ci si arrabatta, con tanta buona volontà, nel proprio orticello, con tanta fatica sprecata per carenza di sinergie. Ma quando il disagio è più contenuto, quasi sommesso (e magari più diffuso) è proprio allora che la rigida struttura-scuola dovrebbe avere la possibilità, la volontà, la capacità di riscrivere, non già le mete educative, ma le modalità per perseguirle. Tante volte la mancata (o parziale) esecuzione dei lavori, un atteggiamento rancoroso verso gli altri, una costante tendenza a sciupare o distruggere i propri prodotti, sono tutti segnali di inquietudini e disagi che hanno origine forse fuori dalla scuola: se si entra nella tana del topo bisogna accettare di uscirne da tutt’altra parte, così non serve ‘martellare’ sul comportamento scolastico (che comunque va sottolineato per dimostrare l’interessamento) mentre può essere più utile avere altre conoscenze dei momenti extrascolastici e favorire situazioni ‘lavorative’ meno strutturate (ad esempio certe forme di animazione condotte con leggerezza e fluidità): certe prese di coscienza conseguite sotto la tutela dell’insegnante rassicurano le insicurezze e le inquietudini, innescando processi virtuosi, magari senza ricadute scolastiche immediate (con un po’ di frustrazione per gli insegnanti) ma utili alla maturazione.

D. Come è andata con gli studenti disabili? E con quelli stranieri? Un’opportunità di rinnovamento o un’occasione persa?
R. L’occasione offerta dalla legge che apriva la scuola ai disabili, invitando (stimolando) gli insegnanti a rivedere la propria didattica, ripensandola collettivamente per adeguarla alla nuova complessa realtà, è andata dispersa sia per successivi interventi ministeriali che impoverivano e imbrigliavano le risorse, praticamente vanificandole, sia per scarsa assunzione di responsabilità degli insegnanti, dei consigli di classe, dei collegi che spesso e volentieri relegavano il ‘problema’ all’insegnante di sostegno, pur di tirare un sospiro…
Forse peggio vanno le cose, mediamente, con le nuove realtà multilinguistiche e multietniche.
Belle parole escono da qualche ufficio del Ministero, ingrigendosi e imbalsamandosi sempre più dal centro alla periferia: quando si arriva nelle scuole con le persone vere l’ingranaggio non funziona. Qualche slancio volontaristico dentro e qualche intervento di supporto fuori dall’edificio non bastano certo a sviluppare l”intercultura’: l’incontro, l’ascolto, lo scambio delle diversità non dovrebbero partire dal compagno di banco e dal collega di un’altra disciplina senza il bisogno dei precetti scaturiti da un’urgenza sociale. Senza radici profonde l’educazione alla mondialità va ad aggiungersi alla collezione di scatole vuote (o semivuote, o semipiene) della scuola italiana, moda dopo moda, con le ‘educazioni’ che proliferano e il cognitivo, l’affettivo, l’educativo a fare il gioco delle tue carte… Talvolta ci si sente giocati dalla realtà, cioè dalla furbizia di chi tende a lavorare meno, protetto e stimolato da un apparato che si preoccupa della tutela dei minori intesa più come sorveglianza che come sviluppo educativo.
E’ l’incongruenza di un apparato massiccio che partorisce topolini: le risorse degli insegnanti saranno forse malpagate, ma certamente sono mal utilizzate: sono l’unico patrimonio certo e presente nella scuola (per quanto carente, amareggiato e demotivato) e la parabola dei talenti è come se non fosse mai stata raccontata!

D. E il problema dell’abbandono scolastico come si inserisce in questo contesto?
R. Questi discorsi, in gran parte centrati sulla scuola dell’obbligo, vanno completati con qualche considerazione ulteriore: i disagi e i problemi di svantaggio raramente al Pilastro e a Bologna provocano l’abbandono scolastico: il diritto/dovere viene espletato quasi completamente.
Ma dopo? Moltissimi iniziano un percorso scolastico post-obbligo, ma pochi lo concludono: il disagio e lo svantaggio si ripresentano aggravati da una difficoltà a sostenere un aumento di sforzo e di impegno, in uno sfondo povero di figure e di strutture d’appoggio, perciò più rischioso di evoluzioni dolorose per sé e per gli altri.

D. Quali vie di uscita da queste situazioni allora?
R. Se torniamo alla scuola come ‘specchio spugnoso’, allora sarà bene spostare ogni tanto il punto di vista per cogliere, con angoli di incidenza differenti, segnali marginali, talvolta in ombra, talvolta sfocati: la ‘comunità educante’, invocata a suo tempo come l’insieme delle varie presenze adulte che si (pre)occupano della crescita dei minori, sembra dare segni di voler tornare a confrontarsi: molte famiglie si ritrovano in difficoltà nel rapporto coi figli, molte istituzioni pubbliche e/o private si scoprono doppioni inutili a fronte di vuoti angoscianti, oppure interferiscono danneggiandosi (e danneggiando), la scuola si ritrova caricata di compiti forse estranei alle proprie competenze e ai propri fini… anche da ciò nasce e si diffonde disagio.
Ma quando prevale la ricerca del senso profondo dei vari impegni, e cioè il bene dei piccoli che devono diventare grandi ‘attrezzati’ al meglio per la vita, allora si vedono lampi e bagliori illuminati.
Con pazienza e tenacia si sono ‘sbrogliati’ tanti nodi burocratici e si è cominciato a mettere accordo sia negli obiettivi sia nelle modalità delle varie componenti della ‘comunità educante’.
Il dialogo non tanto su "Come va mio figlio" quanto piuttosto su "Come dobbiamo comportarci" può diventare "Cosa significa un atteggiamento, un insegnamento, un’attività, un’iniziativa". Ciascuno interroga prima se stesso, e questo costa fatica, per poi confrontarsi, disponibile a mettersi in discussione, lentamente, faticosamente, qualcosa può cominciare a modificarsi… i minori trovano finalmente intorno a sé adulti meno schizofrenici, più rassicuranti e credibili, che sanno ascoltare, provano a vicenda: una bella lezione di ‘orientamento’!

Invece a Napoli…

Nella città partenopea un interessante esempio di come si possa fronteggiare il problema del disagio scolastico in una zona tradizionalmente difficile. La ricetta? Raccordare tutte le iniziative per non disperderle, collegarsi al territorio e formare e motivare gli insegnanti. Intervista al provveditore Gennaro Fenizia.

Il P.D.S.E., cioè il "Peso del disagio socioeducativo", è un numerino che, sintetizzando diversi indici (sviluppo socioeconomico, alunni per classe, ripetenze, ecc.), serve a "fotografare" la situazione di disagio scolastico in una data provincia. Nell’a.s. 92-93, a fronte di una media nazionale intorno allo 0.30, Napoli registrava indici vicini all’1.00. Non c’era certo da essere ottimisti, eppure… Eppure negli ultimi 3 anni la scuola napoletana sembra aver avviato una sorta di "primavera", ritrovato fiducia ed entusiasmo nel proprio operare, per molti aspetti "in controtendenza" rispetto ai sentimenti di rassegnazione e di abbandono che si registrano più diffusamente nel resto del Paese. Abbiamo intervistato il provveditore Gennaro Fenizia per saperne di più.

D. Provveditore, innanzitutto "i numeri" della realtà in cui operate.
R. Napoli da sola rappresenta il 10% dell’intero fenomeno scolastico del Paese. Alcuni dati complessivi: io sono responsabile di una provincia italiana che abbraccia 92 comuni, da me dipendono 1.870 scuole, con 600.000 alunni, 55.000 docenti di ruolo (e altri 120.000 nelle graduatorie di incarichi e supplenze) e 1.000 capi di istituto; ogni anno firmo mandati per 6.000 miliardi. Negli ultimi anni a Napoli abbiamo cercato di ribaltare di 180° il modo di fare scuola, abbiamo impostato la nostra attività per cercare di capire che cosa sta succedendo nelle nuove generazioni e come far fronte alle loro necessità, abbiamo cercato di dare degli strumenti ai nostri insegnanti ed in gran parte ci siamo riusciti. Non lo dico per propagandare Napoli, ma per fare capire che se siamo ottimisti noi per i risultati ottenuti in questa realtà così complessa e difficile, sicuramente questi risultati si possono ottenere dappertutto.

D. Qual’è "il trucco", quali le linee guida e le coordinate di marcia ?
R. Primo: trasformare una realtà spesso disarticolata in una "scuola dei progetti". Se ben guardiamo, in ogni città troviamo tremila attività che vengono fatte; quello che manca è il raccordo. A Napoli abbiamo voluto fare "il progetto" della scuola: era troppo uno spreco quello di non conoscere quello che l’altro faceva, o addirittura di sovrapporci ad altre iniziative solo perché mancava un raccordo.
Secondo e terzo: collegarsi al territorio e formare e motivare gli insegnanti. Abbiamo capito che la scuola napoletana non poteva più essere una scuola scollegata dal territorio e dalle altre istituzioni e che per offrire una qualità diversa dell’istruzione ai ragazzi dovevamo sì fornire la scuola di strumenti diversi, ma soprattutto far capire che la crescita della qualità della scuola dipende dalla capacità di dare nuovo entusiasmo a coloro che nella scuola lavorano ogni giorno. Non potendo dare un aumento di stipendio ai nostri docenti, abbiamo tentato di dare loro una formazione diversa, ma in maniera scientifica ed in modo che la scuola fosse realmente riconosciuta come "punto di aggregazione" da tutte le altre istituzioni. Negli ultimi anni nulla di tutto quello che riguarda formazione, aggiornamento, ricerca di sbocchi occupazionali, occasioni formative e lavorative da dare ai giovani, viene fatto senza coinvolgere tutti gli enti possibili, interessati ed "interessabili": Enti locali, Università, Cnr, associazioni imprenditoriali, volontariato… E non ci siamo accontentati solo delle istituzioni presenti sul nostro territorio, ma abbiamo progetti operativi anche con i rettorati (i corrispondenti dei nostri provveditorati) di Grenoble, Nizza, Londra e Beverly.

D. Entriamo nel merito: da dove avete "ricominciato"?
R. Per prima cosa, due anni fa, abbiamo chiesto a tutti gli insegnanti: secondo voi qual’è l’attività principale che dobbiamo fare? Da tutti ci era venuta la richiesta di fare dei corsi di aggiornamento, ma "fatti seri". Allora l’anno scorso, utilizzando anche tutti gli accordi di collaborazione con le realtà istituzionali di cui parlavo prima, abbiamo realizzato 554 corsi d’aggiornamento dando a 55.000 docenti almeno un’opportunità di aggiornamento. Ed è stata un’operazione formativa non solo massiccia, ma che ha seguito criteri progettuali ben definiti: abbiamo scelto di formarci complessivamente tutti e su temi importanti. Abbiamo deciso che ogni aggiornamento deve essere trasversale, sia alle materie di titolarità che all’ordine di scuola. Non esiste a Napoli il corso per chi insegna italiano e quello per chi insegna matematica; esistono dei momenti di incontro e di approfondimento per capire se si può modificare la strategia educativa in maniera da dare ad ogni ragazzo opportunità maggiori. Queste iniziative poi non hanno mai visto la pertecipazione di insegnanti di un solo ordine di scuola, sia per avere un ulteriore messaggio formativo aggiuntivo di scambio di esperienze, sia soprattutto perché se è vero che il percorso educativo è il progetto della vita dei giovani, non è pensabile che un giovane possa accettare che passando dalla quinta elementare alla prima media o dalla terza alle superiori, debba cambiare completamente il mondo in cui si trova a vivere, e se ha trovato una strategia idonea a recuperare il proprio disagio ha il diritto di trovarla ancora quando prosegue il proprio corso di studi. Altrimenti ha dei momenti di sbandamento, altrimenti non ha più fiducia nelle istituzioni e noi invece dobbiamo dare l’immagine, ogni volta, che di noi ci si può fidare, perché possiamo anche sbagliare, ma solo dopo aver fatto il massimo per dare delle risposte a questi ragazzi.

D. Dunque corsi non curricolari e per tutti; su quali tematiche?
R. Su tematiche importanti per tutti – ed in maniera particolare nella nostra realtà – come l’educazione alla legalità, non intesa come semplice rispetto delle norme, ma come azione della quotidianità, come rispetto di se stessi e degli altri. La scelta di non drogarsi, di non bere, di non fumare, non deve essere fatta soltanto per la paura di essere presi o di morire, ma perché il rispetto di se stesso significa interpretare la corretta accezione del termine di solidarietà: se non rispetto me stesso vuol dire che non ho percepito che il mio compito è di mettermi al servizio degli altri. Questa è la legalità che ci interessa: la quotidianità che non tradisce dei punti di riferimento forti.
Sul tema della "diversità", intesa come potenzialità e non come avversità, si sono formati 4.000 docenti, con l’intervento di molti esperti. Noi siamo preoccupati della diversità che proviene dal disagio, dall’incapacità di integrarsi con gli altri e stiamo tentando di far capire a tutti che avere nella scuola qualcuno che non sia esattamente come gli altri, è una fortuna, è un bagaglio culturale e di esperienza che non si può sottovalutare e disperdere. Un altro corso che ha visto una fortissima partecipazione è stato quello sui linguaggi non verbali, su come imparare a crescere con il linguaggio del corpo. Anche qui abbiamo fatto una rivoluzione: l’attività motoria come scelta esasperata dell’attività agonistica, del campione, non ci riguarda più; dobbiamo mettere a disposizione il linguaggio del corpo non solo per gli insegnanti di educazione fisica, ma per tutti gli insegnanti di base.
Comunque, lo ripeto, per noi la grande risorsa è il territorio: il progetto di formazione deve coinvolgere tutte le istituzioni presenti sul territorio. Non è possibile che le medie decidano di formarsi sulla droga e le elementari dello stesso quartiere su un’altra cosa. E’ il territorio, il quartiere, la gente che ci deve far capire realmente cosa vuole fare e che strutture ci sono a disposizione.

D. E il territorio "risponde"?
R. Sì. Siamo riusciti, senza risorse, ad avere il coinvolgimento di tutti. Le faccio solo un esempio: la squadra di serie A di pallavolo, la squadra di serie B di basket, il Napoli calcio hanno deciso di non presentare più il loro anno agonistico con una conferenza stampa in un albergo, ma si sono presentate nelle scuole più disperate della nostra provincia e tutti gli atleti hanno detto ai ragazzi: "Abbiamo bisogno di voi, vogliamo essere il vostro punto di riferimento non soltanto come idolo sportivo. Vi vogliamo dire che lo sport si regge su questi principi: fedeltà all’impegno preso, capacità di sacrificio, costanza. Noi abbiamo bisogno voi, staremo con voi, se necessario verremo a giocare con voi e vi daremo gli strumenti che vi possono servire". Ed infatti la squadra di pallavolo sta montando in tutte le scuole la rete e manda i suoi giocatori ad allenare i ragazzi. In tutti i quartieri più degradati, per strada, abbiamo montato i canestri per il basket (sembra l’America, invece è Napoli!): ovunque c’era uno spazio, per strada, abbiamo dato ai ragazzi l’occasione di giocare. Stiamo facendo a scuola delle lezioni sul tifo ed io personalmente ho incontri con i capi delle tifoserie: vorremmo trasformare il San Paolo nell’unico stadio dove fare il tifo non significhi offendere l’avversario. I giocatori dicono nelle scuole e ai giornali che si sentono incoraggiati se applaudiamo, se li incitiamo e che le offese agli altri non li aiutano. Faccio solo questo esempio perché mi pare significativo: sembrava impossibile fino a due anni fa che la scuola potesse essere un punto di riferimento non soltanto per le istituzioni pubbliche, ma anche per quel mondo dove girano miliardi e che questo decidesse di dare una mano alla scuola.

D. Lei parla sempre di Progetto e in termini organizzativi è ormai chiaro cosa intende; ed in termini educativi?
R. Parlo spesso di Progetto perché a Napoli noi abbiamo trasmesso questo messaggio forte: l’anno scolastico non è un anno didattico, non ci riguarda sapere se alla fine tutti saranno promossi o se qualcuno verrà bocciato, è un anno del "Progetto della vita" di 600.000 ragazzi e allora è un progetto che deve vedere il coinvolgimento di tutti, perché se i genitori possono anche mostrarsi disinteressati del percorso didattico del proprio figlio, nessuno abdica al potere di intervenire quando si progetta la vita dei propri figli.
Noi vogliamo che il fenomeno dell’abbandono della scuola, il fenomeno dell’abbandono del percorso educativo, possa essere ridimensionato ridando una caratteristica di "piacevolezza", rendendo la scuola interessante, dicendo ai ragazzi: "Non abbiamo un progetto che vi vogliamo imporre, vogliamo costruire insieme quello che per voi non è più una perdita di tempo. Vi vogliamo catturare, siamo tutti pronti a rimetterci in discussione, a rivedere i nostri schemi; proviamo realmente a costruire una scuola dove ognuno di voi possa essere protagonista". Quando noi diciamo che abbiamo finalmente realizzato una scuola aperta al territorio e alle forze sociali, intendiamo questo: noi progettiamo con loro e per loro, e questo significa avere la consapevolezza che ogni giorno si trasmettono valori che non hanno paura di nessun tipo di inflazione, valori che resteranno sempre punti di riferimento. Non ci riguarda la logica del profitto, noi vogliamo trasmettere a questi giovani che la certezza innegabile è quella della loro utilità per il futuro. Se realmente la scuola sposa la logica del servizio e non del profitto saremo in grado di dare un messaggio ottimistico a questi ragazzi: ognuno di loro servire sempre, la propria vita serve per dare qualcosa ad un altro. Questo messaggio, specialmente nelle zone più degradate che appartengono alla mia realtà, è un messaggio che coglie nel segno.

D. Scuola dei valori, delle coscienze, della solidarietà, del servizio e non del mercato…, sembra quasi ‘démodé’…
R. Noi non vogliamo arrivare alla meta soltanto con quelli che vanno a mille all’ora perdendoci per strada quelli che vanno piano. Lo dico da Provveditore e mi rendo conto della responsabilità di quello che dico: vogliamo perderci i ragazzi che sono i migliori, dobbiamo dedicare le nostre energie a chi ha bisogno di aiuto. O chi va a mille all’ora è capace di aspettare gli altri o chi arriva alla meta da solo non ci interessa: si vince insieme, altrimenti perdiamo tutti. Non possiamo fare una scuola d’elite, dobbiamo fare una scuola dove tutti abbiano avuto la pari opportunità di costruire le proprie coscienze; è questo quello che ci riguarda. Io riesco a fare il Provveditore agli studi se ho la certezza che ogni giorno quelle che erano le nostre potenzialità le abbiamo sfruttate tutte al massimo per dare una risposta a questi ragazzi. Questo non vuol dire che non lavoriamo in maniera moderna e scientifica e tecnicamente non abbiamo niente da invidiare a nessuno: siamo l’unico provveditorato in Italia che ha un ufficio completamente automatizzato di relazioni con il pubblico, siamo l’unico ente statale in grado di avere sotto controllo in tempo reale l’intera provincia di Napoli attraverso l’automazione di tutti i circoli didattici. Quando si è fatta la simulazione del rischio Vesuvio, la Prefettura non era in grado di avvisare tutta la provincia e si è dovuta rivolgere a noi che istantaneamente e simultaneamente abbiamo inviato il messaggio ad ogni Comune e frazione tramite le direzioni didattiche. Tutte queste sono cose che abbiamo fatto, ma se fosse solo questo, non abbinato alla qualità della scuola, non avremmo raggiunto grandi risultati. Non mi interessa avere soltanto delle altissime tecnologie a disposizione, questo non spetta alla scuola. Alla scuola spetta il dovere di mettere a disposizione della società delle persone che innanzitutto vanno riconosciute come cittadini oggi. Non è vero che la scuola prepara i cittadini del domani: si è cittadini e si ha diritto ad essere tutelati dal momento del concepimento. Noi dobbiamo avere la certezza di aver dato a questi ragazzi gli strumenti per adottare delle decisioni sane quando verranno chiamati ai posti in cui si dovrà decidere. Quando noi parliamo di scuola noi non stiamo parlando di addestramento, noi parliamo di formazione di coscienze. La scuola non deve soltanto preoccuparsi di garantire il completamento del percorso educativo, ma di dare gli strumenti migliori per costruire le proprie coscienze; non è retorica, è l’unica realtà che noi dobbiamo tenere presente. Non è il pericolo di non riuscire a diventare un uomo ‘di mercato’ quello che deve attanagliare le nuove generazioni; il vero pericolo è quello di sottovalutare le risorse immateriali più belle che abbiamo: l’intelligenza, la passione, la fantasia. E vorrei aggiungere un’altra considerazione: non stiamo parlando di una cosa facile e rapida, occorre pazienza e costanza. Non è possibile pretendere che il risultato si abbia immediatamente; solo l’addestramento a come si usa un computer o come si guida la macchina richiede pochi mesi, ma noi stiamo tentando di far cambiare alle persone il modo di essere, il modo di agire ed interagire con le altre persone. Noi vogliamo che loro possano capire che l’egoismo non paga, che la solidarietà non è fare le grandi imprese per uscire sui giornali. Se solidarietà è far star bene gli altri, l’importante è fare il proprio dovere, perché se ognuno di noi fa il proprio dovere l’altro sta meglio; questa è la politica della solidarietà. Tutto questo deve essere metabolizzato con molta lentezza, per fortuna, perché se io parlassi e tutta la gente cambiasse, dopo di me potrebbe venire un altro più abile di me a parlare e convincere, e quello cambierebbe tutto un’altra volta. Noi dobbiamo avere la certezza che abbiamo messo dei paletti, che i nostri nipoti, chi verrà dopo di noi, potrà dire: alla fine degli anni novanta la scuola ha cominciato a cambiare; i politici, il ministero, l’apparato pubblico ha capito che doveva cambiare… Oggi noi dobbiamo iniziare a mettere paletti che non saranno più tolti, ma non dobbiamo immediatamente pretendere il risultato, altrimenti, se poi i risultati tardano, ci convinciamo che la strategia è sbagliata… Io lo dico ai miei ragazzi: non si cambia percorso al primo ostacolo, e soprattutto non si cambia meta quando questa è difficile da raggiungere, non si rincorre la meta che è più comoda.

D. Oggi si parla molto di valutazione della qualità scolastica, ma forse più nel senso di misurazione degli apprendimenti. Lei non mi sembra molto in linea…
R. Quando vogliamo fare il controllo della qualità della scuola non dobbiamo andare a guardare solo quanta gente si matura o quanta prende la laurea. La qualità della scuola è la qualità del messaggio educativo che noi possiamo dare, del rispetto di sé e degli altri. Tutto il resto non mi riguarda, perché la scuola non può abdicare a questo compito che spetta solo alla scuola; perché mentre altri possono fare addestramento, nessuno è in grado di sostituirsi ai docenti. Non è possibile abdicare a questo compito e dobbiamo tirarci dietro le famiglie, ma se anche la famiglia si tira fuori noi abbiamo lo stesso il dovere di assolverlo.

D. Cosa si può fare per gli ‘ultimi’, per chi lascia o si sente lasciato dalla scuola?
R. Il problema della dispersione, dell’abbandono è un problema che noi abbiamo affrontato ‘a tappeto’. Io ho utilizzato una norma (la legge 257 dell’agosto 94 ) che vale per tutt’Italia – e non capisco perché i miei colleghi delle altre province non l’applichino- che consente ad ogni provveditore di fare dei progetti per combattere la dispersione. Ogni provveditore può togliere dai compiti istituzionali un certo numero di docenti e dire loro: costruisci per chi è in difficoltà una ‘rete’ sul territorio, parla con le famiglie, con gli enti locali, con le strutture sanitarie, col tribunale dei minori; fammi un progetto che possa rendere questa scuola più interessante. Quando io sono arrivato a Napoli, nel 1994, ho trovato solo 12 docenti, preposti a ciò, per tutta la provincia. Ho detto a tutte le scuole: mi assumo io la responsabilità, fate progetti e io vi consentirò l’utilizzo di personale. Io non adotto atti illegittimi, ma giocandomi al massimo la discrezionalità che ho, nel giro di pochi mesi quei 12 li ho fatti diventare 424 e anche successivamente non mi sono accontentato, perché ho visto che i risultati del loro lavoro erano buoni: in cinque mesi questi 500 docenti hanno riportato sui banchi 1.800 ragazzi, e non solo. Parlando ogni giorno a 8.200 ragazzi ‘a rischio’, sono riusciti a trasmettere loro un messaggio di fiducia; volevano abbandonare la scuola, hanno superato tutti l’anno. Abbiamo parlato ogni giorno con quasi 4.000 famiglie e 400 famiglie hanno avuto colloqui con associazioni di volontariato cui erano state indirizzate. L’anno dopo (1995) erano 600 le persone – una forza incredibile – distribuite sul territorio per migliorare la qualità della scuola. Abbiamo dichiarato guerra a camorra e criminalità organizzata senza limitazione di colpi e non abbiamo paura di combatterla questa battaglia. Oggi, anno scolastico 96-97, Napoli ha un Osservatorio provinciale contro la dispersione di cui fanno parte magistrati ordinari dei minori, responsabili dell’Unicef, tutti gli Enti locali, persone del volontariato; ha sul territorio 724 operatori e 26 referenti di area in modo che ogni distretto scolastico abbia un suo referente per questi progetti. Progetti che non solo recuperano l’abbandono, ma cercano di prevenirlo, rendendo la scuola accogliente, facendo in modo che il ragazzo non abbia il desiderio di scappare appena suona la campanella. Il cinema, il teatro, la musica – di cui ora parla anche il ministro – insieme ad altre iniziative, servono proprio per dare un senso di appartenenza diversa alla propria scuola, è questo l’obiettivo. Se non amo il posto dove vado, se non lo trovo utile per me e per la mia crescita non lo difenderò mai, e allora lo vandalizzo se addirittura temo di essere interrogato o di fare il compito in classe.

D. Napoli sembra un po’ un’isola, molto più spesso sulla scuola si riscontrano sentimenti di impotenza e frustrazione…
R. Noi vogliamo cambiare realmente il modo di fare scuola secondo i principi che vi ho raccontato, vogliamo che quelli che possiamo trasmettere alle nuove generazioni siano i valori migliori. I ragazzi non ci diranno grazie se avranno preso sessanta alla maturità, ci diranno grazie se saremo stati in grado di far capire loro che in ogni caso devono conservare questo grande valore: il rispetto della propria vita e il rispetto della vita degli altri. Non diamo l’immagine di una scuola allo sbando, di una scuola che è perdente per definizione. Se lavoreremo insieme i risultati si otterranno.

Sostenere ed orientare

Sono più i maschi ad interrompere gli studi, a livello di scuola media superiore, per motivi connessi non a situazioni di povertà ma per il desiderio di immediato guadagno. Questo al nord, al sud Italia i motivi di abbandono rimangono legati a difficoltà economiche e di disagio sociale e avvengono più nella scuola dell’obbligo. Intervista a Vittorio Capecchi.

Intervistiamo sul fenomeno del disagio scolastico e dell’abbandono Vittorio Capecchi, docente di sociologia all’università di Bologna, che ha curato l’ultimo "Rapporto su scuola, università, formazione professionale e mercato del lavoro" dell’Osservatorio del mercato del lavoro della regione Emilia Romagna.

D. Quali sono i dati più recenti riguardo l’abbandono scolastico?

R. I dati più recenti sull’abbandono scolastico si possono ricavare dalle rilevazione fatte dal Censis, e si riferiscono all’anno scolastico 1992-93. Questi dati ci dicono che su 100 studenti solo 64 riescono a terminare la scuola dell’obbligo. I dati non sono però disaggregati tra maschi e femmine, distinzione che ne permetterebbe una lettura molto diversa.
In Emilia Romagna dove abbiamo questo tipo di disaggregazione, risulta che il 73 % delle femmine riesce a terminare la scuola dell’obbligo contro il 60 % dei maschi; è un differenza molto significativa. Altre differenze riguardano il divario tra nord e sud Italia, con questa caratteristica: nel sud l’abbandono è un fenomeno che riguarda la scuola dell’obbligo, mentre al nord esiste questo problema nelle scuole medie superiori.

D. Quali sono le principali cause che fanno si che uno studente si "perda" durante il percorso scolastico? E’ possibile parlare di diverse cause di abbandono a seconda dell’ordine scolastico?

R. Al sud l’abbandono, dicevo, riguarda la scuola elementare, la media inferiore; le cause sono da ricercarsi nei contesti familiari, di povertà, di emarginazione, per problemi legati ad all’uso del dialetto al posto dell’italiano…Al nord, l’abbandono prima del diploma ha invece un motivo ben preciso; in queste regioni il mercato del lavoro richiede con urgenza degli operai specializzati, soprattutto i maschi, che lasciano così la scuola per andare a lavorare. In questo modo si capisce anche la differenza di comportamento tra maschi e femmine; in passato accadeva l’opposto, erano le femmine che lasciavano la scuola perché venivano "utilizzate" in famiglia.

D. Facendo un discorso di andamento temporale, quali sono le oscillazioni che il fenomeno dell’abbandono scolastico ha avuto negli ultimi anni?

R. L’Italia ha senza dubbio recuperato rispetto agli anni precedenti, ma questi dati rimangono comunque allarmanti. Facendo un paragone con gli altri paesi industrializzati, in Italia la popolazione con il diploma in età compresa tra i 25 e i 64 anni, rappresenta solo il 22% del totale, contro il 36% della Francia, il 49% dell’Inghilterra, il 53% degli Stati Uniti, il 60% della Germania.

D. Come reagiscono la scuola, il corpo docente di fronte a questo problema? Quanto dipende l’abbandono scolastico dall’altro abbandono, quello educativo, dovuto cioè agli insegnanti?

R. La dispersione scolastica può essere risolta grazie ad un grosso impegno degli insegnanti; poi ci sono una serie di dispositivi offerti dalla comunità europea, che non sempre vengono utilizzati. Strumenti che diano una seconda chance, tramite l’orientamento e i corsi di sostegno, esistono e sono finanziati, ma a volte sembra che la scuola italiana non ne approfitti.

D. Quali saranno gli scenari futuri riguardo il disagio scolastico, quali nuovi o vecchi problemi si riproporranno?

R. Oggi viene enfatizzata la scuola come un bene diffuso, si dà molta importanza alla diffusione dell’istruzione; esistono alcune nazioni, come il Giappone, dove l’istruzione superiore di massa è stata realizzata; se si vuole raggiungere questo obiettivo anche in Italia occorre attuare tutta una serie di strategie.
La legge di riforma della scuola proposta dal ministro della Pubblica Istruzione Luigi Berlinguer prevede appunto una serie di incentivi agli studenti "in difficoltà" attraverso la formazione professionale e l’orientamento.

Quando la migrazione è volontaria

L’effetto «distanza» sull’identità e sul cambiamento
Ci soffermeremo su questo aspetto che pur facendo parte del pensiero di molti ricercatori non è mai stato posto in primo piano.
La «distanza» entra in gioco soprattutto laddove la migrazione è volontaria ed è sostenuta da una speranza positiva e da una motivazione di ricerca di qualcosa di molto importante dal punto di vista personale. Migrazione volontaria in tal senso può essere quella di cooperanti in progetti di sviluppo nei Paesi del Terzo Mondo e anche la migrazione turistica «impegnata»; quella legata ad una specifica professionalità e quella solo motivata dal desiderio di cercare esperienze nuove, di conoscere genti e paesi, di mettere alla prova se stessi, di lanciare una sfida interiore alla società d’appartenenza.
Il meccanismo delle aspettative crescenti indotte nel Terzo Mondo dai doni, dalla vista del tenore di vita dei turisti di massa, dalla diffusione televisiva e/o cinematografica, può avere il medesimo effetto induttore di migrazione per un movente personale positivo sulla gente di queste aree culturali; così come il Terzo Mondo ha un effetto di fascinazione sulla gente dell’occidente (il «mal d’Africa», le pratiche di spiritualità asiatiche, le grandi civiltà amerinde, ecc.).
Vi è un nomadismo, un nomadismo culturale, in tutti noi; un cercare «l’altrove» che fa lasciare la casa e la gente conosciuta per una nuova casa e genti sconosciute.
R. Piazza (1990) suggerisce il concetto di «distanza» non come lontananza ma come dilatazione nello spazio. Ed è in questa dilatazione che la mente aumenta i suoi poteri, si espande libera da antichi legami, recettiva, esaltata dalla nuova conoscenza, riflessiva nell’enorme solitudine, fluttuante nei panorami relazionali inabituali eppure possibili.
«Lo spazio-distanza appartiene solo a tè, la sfida è riuscita. Ma dentro a questa distanza vi sono forti attacchi all’identità che viene messa a dura prova durante l’espansione mentale e la sua accresciuta recettività. La distanza può creare smarrimento; un pullulare di alterila a lungo represse in codici forzatamente comuni esplode trasgressivo, eccentrico, stravagante, disordinante» (Piazza R., 1990).
Non consideriamo qui la persona che già parte con insicurezze interiori, quel contingente di persone definite dalla letteratura francese «les alienées voyageurs et migrateurs» (Amiel R., 1973). Consideriamo invece la grande quantità di persone candidata volontaria alla partenza per lavorare in un progetto di cooperazione nei Paesi in via di sviluppo, campo nel quale una di noi (Terranova Cecchini R., Castiglioni M., 1987) ha una lunga esperienza: nonostante una selezione ben fatta molti sono gli insuccessi larvati e manifesti dovuti ad una specie d’incapacità a mantenere la compattezza e l’efficienza dell’Io, ad una perdita di limiti nei quali mantenere integra l’identità. Assistiamo così ad irrigidimenti quasi razzisti, al rifiuto di un dialogo alla pari con l’altra cultura ed al rientro precoce oppure al tentativo di un’installazione nella nuova cultura con matrimoni e figli; infine, in qualche caso, all’esplodere di comportamenti e di pensieri patologici.
Infatti la distanza, con tutta la sua realtà di solitudine, può essere fattore di crescita e di cambiamento perfettamente trasculturale solo se l’identità riferita al luogo d’origine è fortemente strutturata e valorizzata; pressoché inattaccabile. E solo se il programma personale non è costruito sull’evasione verso l’esotico e «l’altrove» ma sull’incontro con altri che ci si senta di rispettare «al di sopra di tutto» come sottolinea Bruckner: «Si l’arrachement a la sécurité domestique n’était pas une douloureuse et patiente ascèse, il ne serait pas migration, et on pourrait voyager dans toutes les cultures sans problèmes comme le sang circule dans les veines» (Se lo strapparsi alla sicurezza domestica non fosse una dolorosa e paziente ascesi, non vi sarebbe migrazione e si potrebbe viaggiare in tutte le culture senza problemi come il sangue circola nelle vene) (1983).
La situazione «distanza» così come enunciata da R. Piazza (1990) ha effetti anche al semplice livello del turismo finalizzato alla conoscenza. A Firenze, per esempio, i servizi di salute mentale hanno registrato un afflusso di turisti stranieri in stato di confusione mentale con angoscia e blocco psicomotorio dopo la visione delle numerose, magnifiche opere della città, stato che per analogia con una pagina di Stendhal descrittiva dello stesso stato d’animo, hanno definito appunto come «sindrome di Stendhal».
La distanza cercata, voluta, sentita come una dilatazione temporo-spaziale da molti giovani e meno giovani migranti verso gli ashram buddisti, zen, induisti, verso i maestri, i Guru, i Lama è spesso stata determinante di un cambiamento senza drammi ma spessissimo ha distrutto identità e determinato il cambiamento nelle brume di un mattino banale, gelido e senza fine.
Dobbiamo segnalare, per esperienza professionale, che i cambiamenti dovuti a migrazione di persone non occidentali ovvero un incontro Sud-Sud e non Nord-Sud sembrano attuarsi senza gravi problemi d’identità, come se gli uomini del Sud fossero muniti di una base tradizionale della loro terra così solida da poter affrontare la «dolorosa e paziente ascesi» del lavoro transculturale autentico.
Tuttavia anche se la situazione «distanza» si attua al meglio della motivazione migratoria, ciò non è sufficiente a garantirne il successo perché, oltre i citati aspetti di reattività personale, sempre presenti, imprescindibili, vi sono le condizioni d’impatto nella nuova cultura che hanno infinite varianti. Una variante bene delineata è senza dubbio quella della cultura occidentale a vocazione anti-razziale, espulsiva dell’alterità.
É opportuno introdurre il concetto, purtroppo ben diverso da quello di distanza come dilatazione dello spazio del vissuto individuale, definito da G. Favaro (Favaro G., Tognetti Bordo-gna M., 1988) come distanza culturale, marginalità sociale. Questa distanza è assolutamente tragica per l’immigrato, poiché rende impossibile ogni tentativo non si dice di acquisizioni transculturali, ma neppure di quelle più superficiali d’integrazione, identificazione mimetica, acculturativa, così efficaci per la sopravvivenza in ambiente ostile. La distanza sociale, prosegue G. Favaro (Favaro G., Tognetti Bordogna M., 1988), è composta da distanze verticali rispetto alle gerarchie, ruoli, status della società ospitante e da distanze orizzontali: quelle appunto determinate dalla cultura in termini di storia, tradizioni, visioni del mondo filosofiche e/o religiose, ecc.
Precisa R. Amiel (1985) che si può parlare anche di una mobilità orizzontale allorché lo status sociale sia mantenuto e di una migrazione verticale regressiva allorché non vi sia conservazione del proprio ruolo. Il primo caso è più frequente tra gli occidentali per i quali noi vorremmo anche parlare di una migrazione verticale progressiva, essendo facile il caso di un professionista occidentale al quale viene offerto, in un Paese straniero, uno status di maggior prestigio. Il secondo caso è il destino quasi generale dell’immigrazione di colore.
Al migrare, in svariatissime forme e situazioni, sottende tuttavia sempre la insopprimibile tendenza al nomadismo primario al quale abbiamo accennato; questo andare a conoscere «l’altrove» da cui nasce il vissuto di «distanza».
Se questo luogo «altro» non ti accoglie, la distanza si renderà minacciosa, non più avventura umana, slancio verso il mondo, bensì zona di dominio delle leggi economiche e del pensiero etnocentrico, espulsivo e palestra della sopraffazione dell’uomo sull’uomo.
Cristallizzazione
Un ultimo aspetto riguarda un meccanismo che noi abbiamo spesso osservato e che a causa della nostra professionalità, può essere stato a noi più visibile.
Chiamiamo cristallizzazione il formarsi, nella mente dell’immigrato e dello straniero in generale, di un mitico ricordo del proprio Paese.
Ciò accade ovviamente a quanti hanno bene o male realizzato una certa integrazione nella società ospitante ed hanno un progetto di lunga permanenza o anche di definitivo trapianto nel nuovo Paese. Ma c’è chi ritorna per finire i suoi giorni nella propria terra anche dopo una vita passata all’estero. Abbiamo già accennato, per gli italiani del Sud ad esempio, come sia frequente la decisione del ritorno dopo una lunga vita di lavoro, ormai da persone anziane ed in pensione.
Perché il «male del paese», il senso di benessere insito nel vivere nel proprio contesto culturale, difficilmente può essere rimpiazzato da altri vantaggi quali migliori qualità di vita, migliori opportunità, eco. Ma essi, ritornando, non troveranno più il clima culturale mitizzato e cristallizzato nei lunghi anni passati in terra straniera.
La cristallizzazione è dunque legata all’Io culturale che si crea un luogo di referenza sicuro ed inalienabile. Ciò è motivo di grande forza per il soggetto. Il divago, il limite tra identità forte e cristallizzazione è carico d’ambiguità. Infatti molti autori insistono sul ricordo delle origini che hanno plasmato la personalità nell’infanzia quale elemento emergente nel momento della crisi da sradicamento. Jeddi e Harzalian valorizzano, nella separazione dalla madre patria «l’espace de sépa-ration dont le sens structurant est au départ toujours induit extérieurement par un organisateur culturel lors des processus de maturation et il sera toujours prét a étre remémoré a chaque phase de transition» (Lo spazio di separazione di cui il significato strutturante è all’inizio sempre indotto esteriormente da un organizzatore culturale durante i processi di maturazione (nell’infanzia) e sarà sempre pronto ad essere rammemorato in ciascuna fase di transizione) (Jeddi E., 1983).
Anche Bruckner sottolinea un positivo/negativo nel fattore tradizionale se «le point inerte des attaches nationales est aussi le point d’appui qui donne a l’expatriation son ressort dynamique» (II punto inerte dell’attaccamento alla propria nazione è anche il punto d’appoggio che da all’espatrio il suo sbocco dinamico). E prosegue sottolineando come senza la lingua madre, «senza questo radicamento, senza questo pozzo di memoria, questi legami familiari, questo quartiere dove sono cresciuto, non ci sarebbe nulla per eccitare la mia curiosità, spingermi in una o nell’altra direzione» (Bruckner P, 1983). Il punto-soglia si supera qualora vi sia un lavoro di mitizzazione. Mitizzazione che cristallizza appunto la cultura d’origine contro l’evidenza incontestabile dell’evoluzione di tutti i Paesi e delle loro culture.
Un emigrato siciliano negli Stati Uniti cristallizza la sua cultura regionale siciliana in forme che nell’attualità non sono più apertamente presenti: i club che si formarono tra immigrati hanno questa funzione mitizzante il Paese d’origine. Una spaghettata, un piatto di risotto allo zafferano, una polenta, cibi così graditi in un club d’italiani in Canada o in Usa, sono sostituiti oggi, nel Sud come nel Nord, da fast-food e patatine fritte.
I simboli agenti nella cristallizzazione mitica e nostalgica sono forniti di grande energia. I moduli neuronali dove scorre la memoria della propria cultura vengono attivati e le funzioni noetiche e timopsichiche cerebrali vivacizzate, stimolate.
Proprio come dice M. Eliade (1976), la cultura è come il passo indietro del torero che così facendo aumenta la sua forza per immergere la lama nella nuca del toro, ovvero per procedere verso le conquiste piccole e grandi che siano. É per questo che l’astronauta in volo richiede ad Houston una tipica canzone country della sua regione…
La cristallizzazione è sempre più possibile nella misura nella quale i paesi in via di sviluppo vengono sempre più modernizzati con rapidità. Essa inoltre è un fattore da prendere in considerazione nel lavoro sull’emigrazione di seconda generazione e motivo delle tensioni possibili tra genitori e figli questi ultimi nati nei paesi d’immigrazione. Troppo spesso la trasmissione culturale della famiglia proviene da inconsapevoli cristallizzazioni che rendono al giovane ancora più stridente la differenza tra lui e la società nella quale è nato e vive.
Tutti noi, operatori dei servizi socio-sanitari, ricordiamo di certo analoghi fenomeni apparsi nei figli dei nostri immigrati dal Sud al Nord.
Infine l’evento cristallizzazione della memoria culturale gioca un ruolo non indifferente nel momento del rientro dell’emigrante al proprio Paese. Ma non è questo il tema che interessa il nostro attuale lavoro e neppure sono situazioni per ora esistenti in Italia. Certamente non passerà molto tempo prima dell’affacciarsi di tali problematiche anche da noi e l’esperienza d’altri Paesi occidentali ci sarà d’aiuto per avere già un quadro di riferimento sul quale inserire l’analisi contestualizzata nel nostro territorio, della «migrazione di seconda generazione», fenomeno tuttavia già in qualche misura presente in Italia.
Sottolineiamo solamente che dinnanzi all’utente straniero a permanenza medio-lunga in Italia, uno dei fattori patoplastici può essere questo troppo strutturato riferimento alle origini culturali personali.
(*) Tratto da Migrare, FAE, 1992

Educare e cooperare

Da una parte l’opera, il lavoro sociale svolto dall’educatore, dall’altra l’intervento educativo, formativo dei cooperatori che lavorano in varie parti del mondo, nei paesi poveri. Tra queste due condizioni abbiamo cercato di intrecciare un discorso che riguarda le motivazioni delle persone coinvolte, la relazione di aiuto che si instaura a livelli diversi, la necessità di superare vecchi stereotipi culturali.
La relazione di aiuto che si instaura tra un operatore sociale e l’altro (un disabile, o un qualsiasi individuo in una situazione di svantaggio) cosa ha un comune con la relazione di aiuto che lega un cooperatore con la controparte? Sono la medesima cosa? O possono essere solo paragonate? Perché una persona decide di partire e perché lavora nel sociale?
Abbiamo cercato di rispondere a queste domande con due interventi che affrontano da una diversa prospettiva le medesime questioni. Nel primo articolo un educatore racconta la propria esperienza di cooperazione nel Nicaragua che lo porta a fare i conti con le proprie motivazioni che lo hanno indotto a partire e sul senso

della relazione che ha instaurato con gli abitanti del luogo; una relazione di aiuto che si trasforma in un’esperienza di conoscenza che lo porta, come spesso accade quando si incontra la diversità radicale, ad un cambiamento profondo e non comunicabile a chi non lo ha vissuto.
Chi da e chi riceve in una relazione di aiuto? E che cosa si riceve e che cosa si da? Con queste domande potrebbe essere riassunto il secondo contributo scritto da un’educatrice che ha lavorato all’interno di un progetto di formazione all’università di Phnom Pen in Cambogia. L’idea di relazione di aiuto tra cooperatore e controparte molte volte si basa su un modello culturale che vede una parte che da e una che semplicemente riceve, a discapito di quest’ultima che viene svilita; di qui la proposta di superare queste relazioni a senso unico per valorizzare la ricchezza che anche l’altro ha.
E questo vale solo per la cooperazione internazionale?

Il mio e il tuo aiuto

Nel mondo della cooperazione internazionale si è operato secondo una concezione di relazione di aiuto a senso unico, dove il ricco Occidente ha deciso come aiutare i paesi in via di sviluppo. Bisogna mettere in condizione i paesi poveri di esprimere le proprie necessità secondo i loro universi culturali di riferimento. In campo educativo esiste l'”appoggio istituzionale”.

La cooperazione internazionale presuppone una relazione d’aiuto tra paesi ricchi, che ritengono di avere qualcosa da dare, e paesi poveri, che si ritiene abbiano bisogno di interventi e finanziamenti.
Il mondo della cooperazione internazionale è composto da un notevole apparato di ONG, organismi delle Nazioni Unite, uffici ministeriali, esperti e volontari che spesso fondano la progettazione e la realizzazione dei loro interventi su un modello occidentale di relazione di aiuto; ma questo modello non è stato utile per risolvere il problema del sottosviluppo di gran parte del mondo.
Bisogna dunque ripensare la relazione di aiuto, sia nei ruoli che nelle finalità, basandosi sul rispetto delle identità culturali differenti da quella occidentale, che faccia acquisire un peso maggiore ai paesi destinatari degli aiuti. La cooperazione internazionale fino ad oggi ha operato per soddisfare bisogni ritenuti tali dal mondo occidentale, tramite interventi prevalentemente di carattere economico. Mettere in condizione i paesi del Terzo Mondo di esprimere le proprie necessità secondo i loro universi culturali di riferimento, può contribuire a modificare la relazione di aiuto esistente: un passaggio da una concezione a senso unico tra chi dà e chi riceve, verso uno scambio paritario finalizzato ad un reciproco arricchimento.
La progettazione degli interventi di cooperazione basata su questa concezione di relazione d’aiuto, che persegua obiettivi concordati con i partner locali, può concretizzarsi in nuove modalità di realizzazione dei progetti. Un esempio di tali modalità in questo senso, già operante in alcune esperienze di cooperazione, è rappresentata dall’appoggio istituzionale, che mira al rafforzamento delle istituzioni locali esistenti, senza la creazione de strutture occidentali parallele. Un modello che deve ancora diffondersi, ma che ha già dato risultati interessanti.

Rifondare la relazione di aiuto

Un punto di partenza possibile consiste nel mettere in discussione la cultura che sta alla base della relazione di aiuto come viene attualmente intesa.
Storicamente la relazione di aiuto è alla base di molti rapporti umani: gli antropologi che andavano a studiare i popoli "primitivi", i missionari che hanno diffuso il Cristianesimo nel mondo, i conquistatori coloniali sono accomunabili dal fatto che oltre alle proprie finalità (studio, evangelizzazione o occupazione), credevano sinceramente di andare a portare un aiuto a popolazioni che vivevano in condizioni ritenute insufficienti. Una ideologia di superiorità presente negli occidentali, trova conferma nella letteratura coloniale e missionaria dell’epoca, nelle descrizioni delle civiltà non occidentali. Esse venivano dipinte come primitive o barbare e le strutture sociali venivano a volte paragonate a quelle animali.
Molte invasioni si sono quindi basate sulla convinzione di andare a portare un aiuto a popoli bisognosi. Chi invadeva era sicuro di avere una fede, un bagaglio di conoscenze (scientifiche, filosofiche, matematiche) o uno stile di vita superiore a quello dei paesi da occupare: si agiva quindi pensando di instaurare un rapporto di aiuto verso chi era in condizioni inferiori. Questa dunque la relazione di aiuto presente nella storia: chi si credeva superiore era legittimato a portare aiuto alle popolazioni ritenute inferiori, tramite ogni mezzo.
Il concetto di reciprocità dello scambio era già presente: secondo la cultura araba era indispensabile dare e ricevere e i colonizzatori del Sud-America prendevano l’oro ma pensavano di portare alle tribù locali una civiltà superiore. Alcuni testi dell’epoca giustificavano i saccheggi affermando che era ben poca cosa avere oro e pietre preziose, in cambio della civiltà e della fede che avrebbero portato la salvezza eterna: lo scambio veniva considerato addirittura come più favorevole per i popoli invasi.
In tutte le civiltà ed in tutte le religioni è considerato importante il rapporto di aiuto, che viene, ovviamente, concepito in forme differenti. Tra le regole fondamentali del Cristianesimo, dell’Islamismo e della religione ebraica vi è l’aiuto ai poveri, un’obbligo molto importante, che tuttavia si svolge a senso unico.
Per le culture orientali il rapporto di aiuto non è autentico se non è basato sullo scambio reciproco, mentre questo aspetto non è fondamentale per l’Occidente. Per una rifondazione della relazione d’aiuto si può prendere spunto da questa concezione di reciprocità, che porterebbe ad un cambiamento dei rapporti come sono concepiti oggi.
Occorre rimettere in discussione il significato dei termini "relazione" e "aiuto", e ridefinire chi sono i soggetti che "donano" e quelli che "ricevono". L’ipotesi proposta è la diffusione del concetto di relazione reciproca, nella convinzione del superamento della relazione a senso unico, responsabile di tanti problemi sociali ed economici.
La visione eurocentrica ha posto i paesi occidentali al centro dell’umanità, così essi si sono visti come gli unici capaci di trasmettere una cultura superiore alle altre. Ciò ha portato alla creazione di rapporti non equilibrati e alle attuali relazioni di dipendenza e dominio. Anche per contrastare questa tendenza è importante rivalutare il concetto di scambio reciproco diffuso nelle culture orientali.

La concezione culturale del donatore

Se si ritiene necessaria una relazione d’aiuto che vincola i soggetti ad uno scambio reciproco, va definito ora "cosa" un soggetto può dare all’altro. In Occidente fino ad ora ci si è domandato cosa si guadagna e cosa si perde (una forma di guadagno è presente anche nelle relazioni impostate sulla gratuità). Quello che si perde deve venir infatti compensato da qualcos’altro e, inoltre, non si può dare di più di quanto serve a se stessi. Ma nella cultura occidentale si sono creati bisogni talmente elevati che ciò che rimane da dare agli altri è molto poco.
Per ciò che riguarda l’individuazione di chi si trova in stato di bisogno, cioè di chi si trova "oggettivamente" in condizione di inferiorità, questa viene attualmente valutata secondo la concezione culturale del donatore, che non sempre coincide con quella di chi riceve. Si entra nella dimensione culturale del problema, anche se spesso tale individuazione viene delegata dalla società agli esperti e ai competenti in materia.
E’ la concezione culturale del donatore che determina i destinatari e il tipo di aiuto da dare, ma ancora oggi è forte la convinzione che le valutazioni fatte secondo il metro occidentale siano valide per tutta l’umanità.
Per una rifondazione della relazione di aiuto l’individuazione dello stato di bisogno non deve essere fatta da chi offre aiuto ma da chi lo riceve, sulla base del proprio modello culturale.
Per costruire un ospedale in un paese del Terzo Mondo è necessaria la conoscenza almeno della medicina locale e della concezione tradizionale della cura e, in ambito scolastico l’esportazione del modello occidentale non è appropriata a molte culture differenti, basate su altri modelli di trasmissione del sapere.
Un altro concetto va precisato, in quanto interpretato in modo differente dalle diverse culture e che si può esprimere con una serie di interrogativi: quanto hanno fatto finora i paesi del Terzo Mondo? L’aiuto che si intende fornire è meritato oppure no?
Vi è infatti la tendenza ad aiutare popolazioni che hanno modi di vita simili ai propri; gli occidentali hanno aiutato prevalentemente chi parla la loro lingua e dimostra di volerne seguire lo stile di vita ed i paesi comunisti hanno fatto lo stesso.

Le reazioni dei destinatari

Per quanto riguarda la reazione dei destinatari all’aiuto si possono riscontrare tre dinamiche principali: la reazione all’aiuto come strumentalizzazione, l’aiuto come minaccia all’autostima e l’aiuto che porta alla creazione di un obbligo.
La prima è chiara: l’aiuto viene dato per progetti che gli occidentali hanno l’interesse a voler realizzare. Oppure spesso vengono donate "briciole" di benessere materiale di cui ci vogliamo liberare, i destinatari lo sanno e accettano.
Per quanto riguarda l’autostima va ricordato che chi riceve dichiara pubblicamente di non essere autosufficiente, ammettendo la superiorità del donatore. In casi estremi ricevere aiuto può provocare anche il risentimento dei destinatari, proprio perché rende coscienti delle misere condizioni in cui si trovano. L’accettazione di aiuto umilia e crea la percezione che il beneficiato ha capacità inferiori. L’impossibilità di rifiutare aiuto può provocare crisi di identità e minacciare l’autostima delle popolazioni del Terzo Mondo, nonostante tutta la buona volontà dei cooperanti.
Si può affermare che ricevere aiuto mette il ricevente in situazione di riconoscenza verso il donatore, e ciò è sentito nei paesi di culture differenti più intensamente di quanto non lo sia in Occidente. Vengono toccati la dignità e l’orgoglio della persona che ha ricevuto l’aiuto.
Se una cooperazione basata su una relazione di aiuto unilaterale provoca dipendenza, disistima e perdita di identità, si propone una progettazione degli interventi che si fondi su una relazione di aiuto reciproca.
La formazione di cooperanti e volontari su questo nuovo modo di concepire la relazione d’aiuto potrebbe portare a risultati migliori nella conduzione degli interventi e nell’utilizzo dei finanziamenti. Se ciò accadesse la cooperazione non sarebbe più quella di oggi: sulla base di una rifondazione della relazione di aiuto si avrebbe anche un rinnovamento delle modalità dio lavoro della cooperazione internazionale.
Secondo A. Chieregatti, docente di Psicologia all’università di Bologna, vi sono alcuni aspetti delle relazioni d’aiuto presenti nei rapporti interpersonali, come la spontaneità, il rispetto reciproco, la non ricerca del tornaconto, che possono essere utili spunti per un nuovo modello di aiuto da trasferire nel mondo delle relazioni internazionali.
La rivalutazione dell’alterità (l’altro inteso come il diverso, che porta arricchimento) può migliorare le relazioni tra appartenenti a culture differenti, riscoprendo la complessa rete di interdipendenze nella quale siamo inseriti.
Se, come conferma Latouche (1), nel mondo occidentale vi è l’egemonia dell’economia sugli altri settori, la relazione di aiuto che si realizza in questo contesto non può che essere una relazione economica, dove i paesi ricchi domineranno sempre su quelli poveri.
Ma la cooperazione ha la possibilità di passare da "insieme di strumenti per aiutare che ha bisogno" a strumento di collaborazione e di scambio.
Con l’apporto di altri universi culturali, si pensi alla concezione di relazione di aiuto nei paesi asiatici o africani, si può ipotizzare un modello di cooperazione decentrata, basata su iniziative di reciprocità.
In questo contesto vanno collocate le modalità di lavoro che mirano a coinvolgimento delle popolazioni nei progetti di sviluppo, tramite il sostegno ai poteri locali.
Nella cooperazione in campo educativo esiste già una pratica che si muove in tal senso, definita strategia di appoggio istituzionale.

L’appoggio istituzionale

Nella definizione di S. Gandolfi (2) "l’appoggio istituzionale mira a rafforzare le istituzioni locali e nazionali e a migliorare l’efficacia delle loro capacità di intervento. La sua motivazione principale è rendere progressivamente indipendenti gli attori nazionali, in modo che possano, con sforzi e risorse autonomi, gestire i propri programmi di sviluppo. La filosofia dell’appoggio istituzionale è quella di sostenere ciò che già esiste, di rispettare la cultura locale, il sistema di organizzazione e di gestione interna, di stimolare l’interazione fra settore privato e settore pubblico e di consolidare lo statuto delle istituzioni interessate".
Poiché l’appoggio istituzionale non rappresenta un’altra forma di esportazione di modelli occidentali, esso si adatta con flessibilità alla realtà istituzionale esistente, stimola l’impegno delle persone, le coordina, dà loro responsabilità, e crea una relazione contrattuale nella quale ogni partner può dare un contributo commisurato alle sue possibilità. Una tale strategia presuppone un cambiamento radicale di prospettiva perché cerca di tener conto di regole, procedure, metodi, specificità culturali propri di ciascuna comunità.
Alla base dei progetti vi è una negoziazione che prevede diritti e doveri da parte di ciascuno, fondata sul rispetto delle differenze culturali. Quando i fattori culturali non sono stati tenuti in considerazione si è avuto il fallimento dei progetti, sia perché trapiantati in un ambiente naturale e culturale inadatto sia perché hanno proposto agli attori sociali uno sviluppo inteso come crescita, progresso unidimensionale, e come tale inadatto alle società tradizionali.
L’appoggio internazionale è dunque una strategia particolarmente indicata per la progettazione e la conduzione degli interventi nelle istituzioni formative, un quanto sostiene il diritto dei popoli alla differenza e si basa sulla convinzione che per vivere ogni popolo ha bisogno di radici culturali. Se le società non occidentali vivono una situazione di alienazione culturale, le istituzioni di insegnamento sono impossibilitate a svolgere la loro funzione.
La cooperazione allo sviluppo non deve, quindi, introdurre sistemi educativi estranei alle culture o sostituirsi alle istituzioni politiche locali, ma deve instaurare una collaborazione paritetica con i paesi del Terzo Mondo, affinché essi trovino nella loro cultura le strade per la risoluzione dei problemi.

1) S. Latouche, L’occidentalizzazione del mondo, Bollati Boringhieri, Torino, 1995
2) Stefania Gandolfi, Le radici dimenticate-Appoggio istituzionale al sistema universitario in Africa, EMI, Bologna, 1995

Telematica sociale e pacifista

Alessandro Marescotti, assieme a Carlo Gubitosa ed Enrico Mercandalli è l’autore di "Telematica per la pace", edizioni Apogeo, MI, 1996, un testo che introduce all’uso della telematica concepita come risorsa indispensabile per l’affermazione della democrazia e della pace; un modo anche per conoscere le reti telematiche al di là delle mode. Lo abbiamo intervistato per sfatare alcuni luoghi comuni e per conoscere le potenzialità sociali delle nuove tecnologie.

Cosa intendi per telematica per la pace?

La telematica si è diffusa in Italia in un periodo (quello successivo alla Guerra del Golfo) in cui il più forte e diffuso movimento di base in Italia era quello pacifista; era molto sentito il bisogno di scambiare informazioni in modo tempestivo e socializzante. E’ nata perciò l’esigenza di una telematica che fosse utile non solo ai tecnici o alle aziende ma alla gente, agli ideali di pace e solidarietà. Oggi la "telematica per la pace" è una dimensione che abbraccia le questioni planetarie, dello sfruttamento del Sud del mondo e tocca tutti gli aspetti di un’etica di volontariato e di solidarietà. La telematica costituisce uno strumento di "rete" e di dibattito per i soggetti di questo arcipelago della solidarietà e della pace.

Quale può essere l’uso della telematica al di là della moda attuale, oltre Internet?

La "comunicazione molti-a-molti (tramite le computer conference, le mailing list, i newsgroup) è a mio parere lo strumento più rivoluzionario che la telematica pone nelle nostre mani. Invece l’attuale moda di Internet privilegia il Web (comunicazione uno-a-molti) e trasforma la telematica in una sorta di grande biblioteca in cui cercare le informazioni. La differenza non è da poco: così si addomestica la telematica. Anzichè utilizzarla come assemblea di dibattito e movimento la si rende innocua trasformandola in un salotto per letture. Ci sono comunque interessanti tentativi di creare all’interno di Internet e del Web – degli ambienti cooperativi e di comunicazione "molti-a-molti". E questa è la strada a mio parere da battere maggiormente in futuro.

Nel tuo libro, sottolinei il "business" di cui Internet è portatore. Ritieni che l’ipotesi di unificare sotto un’inica rete i servizi di telematica di tipo "no profit", alternativi ad Internet e rimasti marginali, perché non sopportati dai grossi interessi economici, politici,… possa facilitare la loro diffusione e garantire un allargamento dell’accessibilità?

Sì, è bene che la l’"altra telematica" (quella ecopacifista, solidale, del volontariato) non si disperda in mille rivoli e non fallisca la grande occasione di creare un circuito comune, un villaggio globale per promuovere iniziative coordinate. Questo non vuole dire che debba esistere una sola rete no profit: l’importante è coordinare i flussi informativi e la telematica è nata per questo.

Come sono diffuse e come utilizzano le reti telematiche le persone che vivono nei paesi in via di sviluppo e in quelli sottosviluppati?

In molte zone dell’Africa Internet è un sogno, nel senso che non arriva.
Ci arriva invece la "telematica povera", quella dei BBS (Bullettin Board System). In molte parti del mondo le fibre ottiche o i flussi satellitari non arriveranno nei prossimi anni e chissà quando e se arriveranno: arriveranno invece le connessioni telematiche a basso costo, quelle appunto dei BBS (basta un personal computer, un telefono e un modem per realizzare un nodo per lo smistamento della posta elettronica). Questo dato lo evidenziamo con forza in "Telematica per la pace" ed è ulteriormente sviluppato in un recente libro di Carlo Gubitosa ("Oltre Internet"). Pertanto oggi – se puntiamo sulle prestazioni prodigiose della multimedialità – rischiamo di creare una "Internet troppo veloce" a cui il Sud del mondo non potrà accedere. Perchè escludere i più lenti imponendo tecnologie e standard troppo veloci, funzionali prevalentemente agli interessi commerciali di chi vuole immettere sul mercato computer sempre più potenti e costosi?

Cosa può, rappresentare per le persone che vivono in situazione di svantaggio, l’uso della telematica?

La sintesi vocale consente di dare accesso alla rete ai non vedenti, per chi ha problemi di udito la comunicazione scritta è ovviamente un vantaggio, chi ha problemi di mobilità sa di poter rimanere in contatto con tante altre persone tramite "computer conference". Io ho cominciato a fare telematica quando è nato mio figlio e ho deciso di non spostarmi da Taranto per dedicarmi a lui. Ho fatto una rinuncia "fisica" ma virtualmente ho mantenuto i contatti con tante persone sparse in altre città, come se viaggiassi. La mia non era una disabilità, era una scelta. Ma per chi è disabile… è intuibile il vantaggio di rimanere in contatto con gli altri tramite la rete, di non perdere la propria socialità, di allargare gli orizzonti.

Secondo te come si parla di video-dipendenza, si può parlare di Internet dipendenza con effetti negativi ancora maggiori rispetto alla prima?

Sì, a mio parere c’è un forte rischio di dipendenza; non so se dà una peggiore dipendenza la TV o la telematica. Per alcuni ragazzi dalla personalità fragile Internet può dare un senso di onnipotenza che la TV non offre ed essere ancora più pericolosa.
Il termine "alienazione" si addice: si evade dalla realtà per entrare in una realtà "altra" in cui proiettiamo quei desideri che la vita frustra.

Quali a tuo parere potrebbero essere alcune misure da adottare per scongiurare il "pericolo" sempre più emergente di una dipendenza psicologica da Internet, con conseguenze di impoverimento qualitativo e sopratutto relazionale della vita dell’individuo?

E’ bene associare alla telematica una sua finalizzazione sociale e umana che faccia rientrare nella vita i flussi informativi: dalla vita al cyberspazio e… ritorno.

Secondo la tua opinione Internet può diventare il "Grande Fratello" e in caso di risposta affermativa, come ci si può difendere da questo pericolo, senza annullare i benefici della telematica?

Il rischio per Internet non sta in una sorta di malefica struttura della tecnologia (anzi Internet non è strutturalmente centralizzata, tende ad essere "libertaria" ed anarchica); il rischio non sta nella tecnologia ma nei tentativi in atto di commercializzare e controllare economicamente la rete creando situazioni di monopolio di fatto; L’altro rischio è che i governi impongano leggi-bavaglio a questa grande fonte di libertà della comunicazione.

Negli anni 60 e 70 alcune correnti di pensiero legate alla estrema sinistra demonizzavano lo strumento televisivo in quanto oggettivo portatore di sub-cultura; non pensa nel suo libro, che la telematica in generale e in particolare Internet possa far correre il medesimo rischio?

Quando ho cominciato a scrivere questo libro con Enrico Marcandali e Carlo Gubitosa (lo abbiamo scritto "in rete" pur abitando a centinaia di chilometri di distanza) ci siamo trovati d’accordo subito su alcuni punti: la TV è centralizzata, è un mezzo di comunicazione uno-a-molti e richiede forti investimenti. La telematica rappresenta un ribaltamento di questa logica se privilegiamo le strutture che consentono la comunicazione molti-a-molti e quelle a basso costo. Le forme di sub-cultura che permeano la TV permeano anche la telematica, che rischia di diventare un megabar virtuale dove ci si parla addosso a ruota libera, un chiacchierificio mondiale (e per questo alcuni sono diffidenti rispetto alla comunicazione molti-a-molti e vedono il rischio di uno scadimento di tono, fino all’insulto collettivo e al caos della comunicazione). Ma questi sono i rischi delle democrazie e dei sistemi aperti. Spetta a noi cogliere le potenzialità e non lasciarcele sfuggire: perchè da qui al Duemila gli utenti telematici saranno diventati cento milioni. E dobbiamo lavorare perchè i gap fra "avvantaggiati" e "svantaggiati" non aumenti, come purtroppo sta avvenendo.

Insegnanti in classe

La perdita di prestigio dell’insegnante rispetto al passato in una società che cambia in fretta. Le contraddizioni nella valutazione di un allievo e gli eterni dilemmi posti dai programmi ministeriali. La prospettiva di una ermeneutica educativa. Ipotesi di lettura del disagio nella scuola media superiore.

Affrontare un’indagine sulla causa, o sulle cause, del disagio in cui vive oggi la scuola secondaria si presenta assai problematico per la molteplicità delle tematiche connesse e per la molteplicità delle ipotesi suggerite dal dibattito. Chi si avventura su questo difficile terreno è costretto a procedere a tastoni per mancanza di punti di riferimento sicuri.
La scuola superiore da qualche decennio ha subito, parallelamente al processo di industrializzazione e massificazione della società, una profonda trasformazione. In questo periodo infatti si è verificato "un doppio e simultaneo processo di massificazione della scuola e di industrializzazione della cultura che negli anni sessanta ha connotato l’irruzione delle masse nella secondaria con l’irruzione nella medesima della cultura di massa." (Gabriele) e ciò ha mutato struttura e funzioni della scuola secondaria. Uno dei fenomeni più vistosi di questa trasformazione riguarda i processi di acculturazione che ora non avvengono più attraverso la famiglia e la scuola bensì attraverso i mezzi della comunicazione di massa. Così la cultura giovanile si realizza e definisce ora nell’esperienza acquisita con la pratica e nella pratica al di fuori del controllo delle istituzioni a cui è demandato il compito specifico di inculcarla e sanzionarla ufficialmente.
Il mondo degli allievi di qualche decennio or sono è irriconoscibile per un insegnante che lavora nella scuola di oggi: valori, percezione del reale, atteggiamenti, relazioni, ecc. hanno assunto altri significati, altre motivazioni.
Se in particolare consideriamo il valore dei ruoli che definiscono le relazioni fra studente e insegnante, costatiamo che si è verificata una grande metamorfosi. L’insegnante non è più rivestito di quell’aura di rispettabilità e di autorità in quanto portatore di un’indiscussa tradizione culturale. E l’allievo da parte sua non accoglie e imita più acriticamente quel modello culturale condiviso allora dalla comunità di appartenenza. "L’educazione culturale tradizionale prima della scuola di massa si basava in gran parte sul modello per acculturazione per familiarità tipico dei clan culturalmente omogenei. I valori erano comuni, i contenuti, i metodi, le finalità della conoscenza erano sostanzialmente indiscusse. Non era necessario che l’insegnante esplicitasse i propri e altrui codici, né prendesse una distanza critica dalla propria e comune cultura. La via maestra dell’apprendimento era l’imitazione del maestro. Un’imitazione poteva sembrare tanto più spontanea e naturale quanto più coeso e compatto era il meccanismo di produzione, diffusione e consumo della cultura e quanto più omogeneo era l’estrazione culturale dell’élite degli scolarizzati." (Armellini)
Saper leggere e scrivere, ascoltare e parlare non rappresenta più il contenuto simbolico della civiltà umanistica nella quale saper leggere e ascoltare rappresentava la capacità di acquisire i modelli di stile e di valutazione ereditati dalla tradizione umanistica; e saper scrivere e parlare significava rivificare quei modelli alla luce delle nuove esigenze storiche.
Nella nostra civiltà invece queste stesse competenze hanno un altro valore: leggere e ascoltare sono nella cultura di massa abilità aprospettica e avalutativa di selezionare e di decodificare i segni dell’universo magmatico delle informazioni offerte dai mass media; e scrivere e parlare significano ora capacità di interazione in quell’universo.
Pareto diceva che ogni uomo si trova piazzato in una situazione per svolgervi il compito e questo compito è ricordato agli altri da un cartellino. Il cartellino dell’insegnante della scuola secondaria un tempo era quello del mediatore presso le nuove generazioni della perenne, o della presunta tale, tradizione culturale, tradizione che si riteneva necessaria per i giovani di una élite borghese che si sarebbe poi dovuta inserire nella società degli adulti appartenenti allo stesso ceto sociale.
La comunità continua a piazzare il cartellino all’insegnante, ad affidargli lo stesso compito ma non crede più all’autorità del suo compito e al valore della sua funzione.
Quel cartellino, nell’immaginario collettivo, è divenuto una pura convenzione svuotata di rilevanza sociale. Quella tradizione ha perso la funzione di addestrare i giovani a inserirsi e a integrarsi in una comunità di privilegiati. E questo lo percepisce l’insegnante, che vive con profondo malessere la perdita di identità. Lo percepisce lo studente che vive il rapporto con l’insegnante come un una dura necessità imposta dalla collettività ma di cui non avverte la finalità. Lo percepisce la stessa comunità che fa dell’insegnante oggetto spesso di ironia, e se si eccettua la retorica di prammatica sull’importanza del lavoro scolastico, il professore è divenuto un parassita.
Una riprova dello scadimento dei contenuti culturali della scuola presso l’attuale società civile si riscontra nel suo costante invito al mondo politico e agli insegnanti a ridefinire, a rinnovare i programmi ministeriali e i percorsi didattici in, sintonia, si dice, con i nuovi bisogni della società di oggi.
E’ possibile nelle attuali condizioni storiche ridare autorevolezza alla tradizione culturale, oppure tutti i contenuti di questa sono retaggio di un passato irrevocabilmente tramontato?

Gli equivoci di una terminologia

"Esistono tre coppie di concetti in cui un membro della coppia viene generalmente usato al posto dell’altro, così che il nostro modo di pensare ne risulta impoverito. E divenuta cosa di tutti i giorni che il processo venga confuso con la sostanza, le relazioni con i predicati e la qualità con la quantità." (Von Foertster)
Il dibattito sul disagio nella scuola superiore ha prodotto una molteplicità in proposte e di nuove sperimentazioni didattiche. E in questo nuovo clima che è nata una nuova terminologia. Una terminologia però che si presta ad equivoci.
Di questi equivoci voglio trattarne qui alcuni che mi sembrano significativi nell’ambito del nostro discorso.
Un primo aspetto di questo nuovo linguaggio riguarda la ridefinizione della finalità di questa istituzione scolastica.
La scuola, si sostiene, deve riorganizzarsi secondo criteri di efficienza indicati dal modello di conduzione aziendale.
La proposta di questo modello può essere così sintetizzata: le informazioni sono la merce, gli insegnanti i produttori, e/o distributori del prodotto e gli allievi i clienti, o consumatori.
Questa terminologia compare in modo più o meno esplicito in molti articoli di stampa, in circolari ministeriali nonché in discussioni dentro e fuori le mura scolastiche.
Così si assiste alla comparsa di un nuovo lessico pedagogico mutuato dalla tradizione dell’economia liberistica. Si Parla infatti sempre più frequentemente di: "qualità totale", "offrire un prodotto adeguato all’attuale situazione del mercato del lavoro", "necessità di creare una scuola più competitiva", "preparare i giovani ad assumersi dei rischi e ad essere competitivi", ecc… Tale impostazione pare però non avverta il fatto che nell’uso di questa terminologia vengono rimossi i valori e i presupposti storici di cui si fa portatore quella corrente di pensiero.
Se la scuola offre un prodotto mi pare rilevante, in questo contesto, chiarire il senso di questa particolare merce dai molti nomi: informazione, metodologia, competenza, abilità, ecc.
Ma questa merce definita anche "saperi" è realmente una merce?
Sostenere che educare sia uno scambio di merci significa considerare l’apprendimento un’attività conoscitiva che attinge qualcosa dal magazzino del sapere accumulato nel corso del tempo e che questo prodotto,, opportunamente trattato e strutturato in linguaggi settoriali, possa essere venduto.
Carlo Magno, il metabolismo, la termodinamica, la trigonometria la sintassi, ecc. sono cose? O piuttosto sono da intendersi dei processi?
Le informazioni sono luoghi di lavoro, works in process; non sono dati ma spazi dove si esperimentano modalità di significazione e di comunicazione; in conclusione luoghi di attività di ricerca inconclusa.
Io non so se un processo possa essere messo in vendita ma so come insegnante che ogni anno verifico che lo stesso argomento trattato e lo stesso metodo adottato alla fine del corso presentano aspetti, problemi e difficoltà originali proprio in virtù del fatto che i risultati del lavoro didattico non sono sostanze, o cose che si possono scambiare ma processi indefiniti di apprendimento.
Il secondo campo di equivoci riguarda il nuovo linguaggio della valutazione.
Molto si è dibattuto su come superare la soggettività, o l’impressionismo, dei criteri di valutazione dei ragazzi; e si è affermata una nuova concezione che prevede la costruzione di una scheda composte da indicatori con la quale ci si propone di misurare con oggettività, comportamenti e capacità acquisite degli allievi.
In questa scheda gli indicatori, dovrebbero svolgere quelle funzioni che per la meteorologia svolgono il termometro, l’igrometro, il barometro, ecc. i quali permettono di ricavare dall’atmosfera lo stato e gli sviluppi del tempo. Se ciò è vero si è tenuto conto poco del fatto che gli strumenti, anche i più raffinati, non permettono di formulare previsioni certe. L’indicatore della scheda di valutazione non definisce una qualche abilità dello studente ma ha un carattere autoreferenziale perché definisce il tipo di relazione che l’insegnante ha deciso di stabilire con il suo studente; così come per la meteorologia quegli strumenti di decodifica dello stato dell’atmosfera ci dicono molto di più sul paradigma scientifico del tecnico che li usa piuttosto che sul tempo che farà domani.
Così quando valutiamo la preparazione di un ragazzo con il giudizio, "lo studente non è in possesso della terminologia disciplinare", o se ci esprimiamo riguardo lo stesso studente in un linguaggio colloquiale come, "questo ragazzo studia poco", ci dice molto sull’insegnante e molto poco sul ragazzo valutato. Di fatto questa modalità di giudizio che cerca un oggettività nella valutazione feticizza, o se si preferisce ipostatizza, il sistema valutativo e reifica le relazioni così come avviene nei processi di mercificazione.
Il terzo equivoco che qui considero si riferisce al vistoso fenomeno che si sta verificando nella totalità degli istituti superiori: si tratta del moltiplicarsi di proposte educative extracurricolari. Teatro, filmologia, canzone d’autore, danza, informatica, ecc. Questi che sono solo alcuni dei percorsi didattici extracurricolari, istituiti dai collegi docenti, vengono realizzati per soddisfare i presunti nuovi bisogni dei ragazzi.
A meno che non si ritenga valida la legge engelsiana della conversione della quantità in qualità io penso che il problema del senso del lavoro educativo non si risolva nella creazione di un arcobaleno di interessanti contenuti ma lo si debba trovare nella difficile rielaborazione della proposta culturale complessiva della scuola scavando nelle radici qualitative del disagio.

Il doppio sistema relazionale

"Dobbiamo considerare che secondo la presente economia del mondo il corso della natura, per quanto si supponga regolare ai nostri occhi, tuttavia non appare così. Molti avvenimenti sono incerti e ingannano la nostra attesa". (Hume)
In questo lavoro intendo affrontare solo qualche aspetto del disagio. Si tratta di quegli aspetti che concernono le relazioni docente/studente.
Se osserviamo la vita di una scuola nel suo svolgimento quotidiano ci appare come una struttura regolata da una legge d’ordine che si perpetua nella quotidianità e nel corso degli anni.
Il caos di ogni mattina dei ragazzi davanti all’entrata della scuola, poi la loro entrata e quindi il differenziarsi della fila secondo la sezione e la classe di appartenenza.
Così per i docenti che in sala insegnanti dopo le chiacchiere del mattino si avviano nelle loro rispettive classi.
Suona la campana dell’inizio delle lezioni e il confuso vociare si attenua fino a diventare brusio.
Potrei continuare a tratteggiare le oscillazioni acustiche e i movimenti spaziali e il succedersi alterno dell’ordine e del disordine che scandiscono il ritmo della vita scolastica.
La ciclicità di questo ritmo è l’espressione del regolamento di istituto, la norma che stabilisce il carattere delle relazioni fra gli allievi e insegnanti e questo regolamento sancisce anche la ripetibilità dei comportamenti giorno dopo giorno e anno dopo anno.
Questa alta prevedibilità dei comportamenti scolastici è necessaria per il buon funzionamento dell’istituzione. Insegnanti e allievi hanno necessità di conoscere anticipatamente le tappe del loro lavoro per organizzare lo sforzo per la realizzazione delle finalità previste dall’istituzione stessa.
Ma la vita scolastica si riduce solo a relazioni codificate?
Campana, aule contrassegnate da lettere e numeri, registri, compiti in classe interrogazioni, ecc. sono da considerarsi la struttura relazionale prevalente nel processo educativo? O vi sono altre relazioni che sottostanno a questi fenomeni più appariscenti e predeterminati?
Quest’ordine relazionale visibile e codificato dal sistema giuridico/scolastico mi pare possa essere paragonato a quel sistema della fisica galileo-newtoniana che riconduce il movimento di tutti i corpi naturali entro un unico principio: quello della reversibilità del tempo. O se si preferisce, entro la legge dell’isocronia del pendolo. Il movimento oscillatorio del pendolo infatti risulta regolato nelle due direzioni dal medesimo principio. Anche le relazioni allievo/insegnante sono regolate secondo il principio di reversibilità del tempo per cui si possono prevedere gli eventi scolastici come in astronomia un’eclissi lunare. Ma la fisica dell’ottocento e del novecento ci suggerisce anche l’esistenza di altri movimenti, seppure non altrettanto regolari e prevedibili del primo. Se noi osserviamo le microrelazioni che avvengono tra studenti e insegnanti, possiamo riscontrare una molteplicità caotica di fenomeni relazionali difficilmente codificabili secondo un principio d’ordine. Così come nella fisica delle particelle microscopiche il mondo, diversamente da quello della macrofisica, ci appare un insieme disordinato di relazioni imprevedibili, catturabili solo con modelli statistici.
Nel campo delle relazioni scolastiche possiamo dunque rilevare accanto ai fenomeni relazionali regolari, determinati dalla struttura giuridico-burocratica , anche un brulicare di movimenti divergenti e convergenti che però si verificano, a differenza dei primi, secondo la variabile dell’irreversibilità del tempo, ossia secondo variabili situazionali, o di contesto.
Ogni sistema classe dunque presenta due tipologie di relazione, la prima caratterizzata da rapporti ripetibili all’infinito e l’altra si presenta, invece, come un succedersi indeterminato di relazioni lungo un solo verso del tempo in cui le relazioni non si duplicano mai.
La realtà scolastica, da questo punto di vista, ci offre due modelli di approccio al sistema relazionale insegnante/allievo. Il primo si può definire modello digitale/discreto, l’altro analogico/continuo. Il primo si propone di orientare e finalizzare i comportamenti in termini inequivoci, secondo una logica binaria (verifiche, valutazioni, ecc.); il secondo tiene conto dei comportamenti residuali non codificabili in norme e dunque soggettivi (emozioni, valori morali, concezioni religiose, ecc).
Tali modelli comunque non sono da considerare alternativi, bensì complementari perché le due modalità considerano il medesimo oggetto ma da punti di vista diversi, che però convivono anche nello stesso lavoro didattico. Così come in fisica la concezione newtoniana e la fisica di Planc non si elidono, anche il registro, che prevede una modalità relazionale burocratizzata, convive con le relazioni personali e particolari che quell’insegnante instaura con quella determinata classe e con quello specifico studente.
Ora, queste due strutture relazionali trovano il loro punto di incontro e di mediazione nei contenuti dei programmi ministeriali. Infatti al centro del lavoro in classe è l’insieme delle discipline stabilite e sancite per legge dallo Stato, che rappresentano in ultima analisi le scelte politiche compiute dalla comunità nel campo dei contenuti educativi.
Va notato comunque che queste stesse scelte, formalizzate fuori dalla scuola, diventano il medium, o il luogo in cui si incontrano e si scontrano le aspettative, le paure, i sogni di coloro che partecipano al processo formativo.
Perciò è necessario tener presente la bivalenza della natura dei programmi ministeriali per capire i meccanismi del doppio sistema relazionale. Infatti, i programmi ministeriali da un lato, sono l’oggetto delle lezioni e delle valutazioni e dall’altro, sono il punto da cui scaturiscono relazioni personali e originali che pure appartengono al tessuto dei processi formativi dei ragazzi.

Il doppio disagio

"Cercare di impegnare la forza di volontà è come cercare di sollevarsi tirandosi su con i lacci delle scarpe." (Bateson)
Chi si occupa di educazione spesso sente parlare degli studenti in questi termini: "manca di volontà…dovrebbe impegnarsi di più…se si impegnasse di più non incontrerebbe queste difficoltà nello studio" e si potrebbero aggiungere molte altre locuzioni su questo tono. Ciò mi fa pensare alla frase di Nietzsche quando scrive: "un pensiero viene quando è lui a volerlo e non quando io lo voglio".
Noi insegnanti attribuiamo spesso al termine volontà, a proposito dell’impegno dei nostri studenti, un potere taumaturgico. Crediamo cioè che gli studenti possano piegare la loro volontà alla nostra, o se si preferisce, a quella dei programmi ministeriali.
La psicologia ci insegna che la volontà è un processo attentivo in cui il soggetto reagisce ad uno stimolo e, nello stesso tempo, inibisce gli altri.
Si tratta di esaminare se gli studenti, nel loro lavoro scolastico, sono nelle condizioni di isolare gli stimoli relativi ai contenuti scolastici e di inibire tutti gli altri, o quasi.
Veniamo ora al nostro specifico problema didattico/relazionale per verificare se in questo campo possiamo trovare qualche ragione sostenibile per spiegare il malessere a scuola.
Ho sostenuto prima che le relazioni educative all’interno della scuola sono determinate da due processi comunicativi: la struttura giuridico-burocratica da una parte e la struttura soggettiva-qualitativa delle relazioni dall’altra. Questa doppia tipologia relazionale, ho detto anche, che è mediata dai programmi ministeriali. Ora, se il luogo delle relazioni insegnante/allievo è il programma ministeriale, si tratta di evidenziare il meccanismo psico-sociale che si innesta in questa relazione, che dà luogo a quel disagio di cui qui si parla.
L’insegnante è in possesso di due strumenti per convincere i suoi allievi a seguirlo nel suo percorso didattico: 1) persuadere gli studenti del valore della sua proposta culturale; 2) minacciare lo studente con l’arma della valutazione predisposta dal sistema giuridico-burocratico. Ciò significa che l’insegnante instaura due sistemi di relazione che convivono, seppure in modo conflittuale.
Vi sono insegnanti che privilegiano il primo modello di convinzione, altri il secondo. Comunque sia, però, l’insegnante non può sottrarsi al carattere paradossale di questa situazione.
Questa situazione relazionale può essere così ulteriormente descritta: l’insegnante invia un messaggio allo studente, mediante espressioni dirette o indirette, trasparenti o ambigue, di questo tipo: "Ciò che ti propongo è estremamente interessante. E’ interessante per me e ne sono sicuro che lo riconoscerai pure tu. Ti assicuro che se farai attenzione lo potrai verificare".
Ma contemporaneamente lo stesso insegnante invia allo studente un altro messaggio, con le stesse modalità di prima ma di questo tenore: "Se tu non svolgerai questo lavoro io sono costretto a darti una valutazione negativa. E se perseverai nei risultati negativi io sono costretto a respingerti".
Questo duplice messaggio contraddittorio può essere sintetizzato ancora nell’espressione paradossale "Lavorare a scuola ti deve interessare". Dove però ‘dovere’ e ‘interesse’ risultano una ingiunzione paradossale, un nodo drammatico sia per lo studente che per l’insegnante, in quanto lo studente è costretto, che gli piaccia o no, a sottostare all’ingiunzione paradossale. Ma anche l’insegnante non si trova in una situazione migliore, in quanto gli esiti del suo lavoro presentano il marchio di una relazione non trasparente, contraddittoria, in quanto non può definire la natura del risultato del lavoro, ossia non è in grado di valutare se le prove dello studente sono il frutto di un atteggiamento sincero nei contenuti proposti o, invece, sono l’esito di una coercizione.
Gli studenti possono cercare di sfuggire all’ingiunzione paradossale accogliendo la prima parte del messaggio, rimuovendo con imbarazzo la seconda, oppure possono rifiutare l’ambiguità ponendosi nei confronti dell’insegnante in una posizione di conflitto o di falsità.
Con la definizione di queste due tipologie di comportamento non intendo classificare gli studenti ma semplicemente descriverli; perché si può verificare anche il caso che entrambe le tipologie si riscontrino nello stesso studente, e la cosa è meno frequente di quanto si creda.
Anche gli insegnanti si trovano, come abbiamo visto, nella medesima situazione relazionale paradossale, però, in posizione simmetrica e complementare.
Anche in questo caso l’insegnante può evitare il dilemma. Può rifiutare di sottostare a questo meccanismo relazionale cercando di sottrarsi agli obblighi della burocrazia scolastica, in modo più o meno mascherato, evitando le valutazioni, apponendo sul registro giudizi fittizi. Ma ciò mi pare una pura illusione. Ammesso che il non valutare sia pedagogicamente positivo, all’interno della scuola istituzionale ciò è comunque impossibile. Anche l’astensione mascherata della valutazione alla fine dell’anno scolastico deve tradursi nella consegna del registro, e l’insegnante deve rendere formalmente conto alla struttura burocratica delle valutazioni formulate sui ragazzi. E, se i giudizi sono fittizi non lo saranno né per l’istituzione né tanto meno per lo studente e la sua famiglia.
L’insegnante può tenere anche un’altro comportamento, affidandosi alla presunta oggettività del sistema di valutazione, garantito dalla tradizione e avvallata dall’amministrazione scolastica, adottare il criterio minaccioso del merito e della selezione. Però, in questo caso deve rimuovere il fatto che ogni valutazione presenta un carattere autoreferenziale, come abbiamo visto sopra.
Va tenuto conto comunque che anche nel caso della situazione dell’insegnante, come per quello dello studente, non si tratta di stabilire una classificazione degli insegnanti attraverso il loro comportamento, perché anche qui si può riscontrare nello stesso insegnante entrambi gli atteggiamenti.
Il paradosso di Epimenide lo si può riscontrare dunque anche nella relazione insegnante/studente. Dovere e piacere appartengono a domini e logiche diversi non conciliabili. La coscienza non può sottostare a entrambi gli universi. Freud a questo proposito ha chiarito molto bene questo problema, quando constata che l’io è costretto nello stesso tempo a dar retta a due istanze, a quelle provenienti dal super io e a quelle dall’inconscio, provocando un dilemma senza soluzione. L’aspetto sociale e quello individuale del nostro agire muovono da motivazioni fra loro in contrasto e costringono l’io a barcamenarsi in una difficile e irrisolvibile mediazione.
Lo studente non può non scegliere la Divina Commedia, il calcolo degli integrali, la grammatica inglese, la metafisica di Aristotele, che il sistema educativo gli propone ma è una scelta che sottostà, usando la terminologia di Bateson, a un’ingiunzione paradossale, a un doppio vincolo: "lo studio ti deve interessare".
La scelta di andare a ballare al sabato sera con gli amici da parte dei ragazzi non è condizionata da un imperativo categorico. Parlo qui di imperativo categorico in quanto la scuola promuove un impegno incondizionato, indipendentemente dal valore motivante che può rappresentare per lo studente.
Questo meccanismo relazionale, non riguarda solo la scuola di oggi, si riscontra pure nella realtà scolastica precedente all’"irruzione delle masse" nella scuola media superiore.
Ma questo stesso meccanismo opera ora in una condizione storico-sociale assai diversa. I programmi ministeriali non rappresentano più il necessario cursus onorum per la promozione sociale. Il campo motivazionale di coinvolgimento dei ragazzi viene ridotto e l’ingiunzione paradossale acuisce il suo potenziale patologico.
Analoga e irrisolvibile contraddizione la vive comunque anche l’insegnante; sempre più impigliato nella situazione paradossale, stretto tra il suo obbligo di lavoro contratto con lo Stato e la libera adesione ai contenuti della sua disciplina, non trova una conciliazione nella situazione storica attuale per la perdita di autorità del suo ruolo.

Una strategia della contraddizione

"Un’idea forte comunica un po’ della sua forza al contraddittore. Partecipando del valore universale degli spiriti, essa s’insinua, s’innesta nella mente di colui che ha confutato, in mezzo a idee adiacenti con il cui aiuto questi, riprendendo un po’ di vantaggio la completa, la rettifica; così che la sentenza finale risulta in qualche modo opera delle due persone che discutevano." (Proust)
L’autore di questa osservazione suggerisce una strategia percorribile anche per affrontare il problema in questione. Si tratta cioè di verificare se la contraddittorietà, riscontrata nel rapporto fra insegnante e studente, può contribuire all’individuazione di un nuovo ruolo per la cultura della scuola e i suoi attori.
Sopra ho sostenuto che i contenuti dei programmi ministeriali hanno perso autorevolezza presso la comunità e così per osmosi anche i ruoli educativi sono stati corrosi.
Se lo studente nella scuola secondaria di élite, per un processo mimetico, era portato ad attribuire valore a ciò che leggeva sui testi scolastici e a ciò che ascoltava dal suo insegnante, così oggi, per lo stesso processo mimetico, lo studente non riesce, o fatica, a comprendere il senso di ciò che fa a scuola.
Non si tratta, allora, di guardare con nostalgia al passato e parlare di un’età d’oro della cultura, come certi colleghi malinconicamente vanno predicando; ma neppure si tratta di rincorrere altri miti del presente o del futuro.
Perché provare rammarico per la perdita di autorità del ruolo dell’insegnante?
E perché sostenere i valori liberistici della competizione e della concorrenza nei processi educativi?
La prima prospettiva concepisce, o concepiva, un rapporto educativo di tipo complementare, in cui la gerarchia sociale era rappresentata in classe dal professore. La seconda prevede invece una dinamica relazionale di tipo simmetrico in cui studenti e insegnante concorrono a qualificare il prodotto didattico-culturale in una dinamica di mercato.
Entrambe le posizioni comunque hanno in comune l’istituzione di rapporti di dominio. Uno fondato sull’accettazione dello statu quo del sistema di potere; l’altro fondato invece su rapporti di aggressività.
Se la cultura scolastica ha perso credibilità si può perseguire lo scopo di trovarne una nuova evitando però di incorrere nell’instaurazione di rapporti di dominio?
Il patrimonio culturale rappresentato dall’insegnante può ancora avere uno spazio significativo nella formazione dei giovani?
La classe, innanzitutto, può ancora, mi pare, rappresentare una importante opportunità di incontro tra il mondo degli adulti e quello dei giovani, dove si possono confrontare i diversi sistemi di valore e dove la tradizione culturale può giocare la sua possibilità di diventare significativa anche per le nuove generazioni.
La Divina Commedia di Alighieri, il calcolo degli integrali, Il ritratto di Dorian Gray di Wilde, il metabolismo, l’ elettromagnetismo, le idee platoniche, ecc. sono, o possono essere, territori di indagine dove il sistema classe, cioè l’insieme del complesso relazionale studenti/insegnante, verifica l’effettiva loro possibilità di senso. La credibilità, l’autorevolezza della tradizione non è un a priori e non può che essere il frutto di un work in process.
Lo storico E. Carr a proposito dei fatti storici e della loro interpretazione ha scritto: "Il fatto che una montagna assuma forme diverse a seconda dei punti di vista dell’osservatore non implica che essa non abbia alcuna forma oggettiva, oppure un’infinità di forme." Così nell’ambito del nostro discorso, possiamo dire, che il programma ministeriale sottoposto ad analisi può essere lo spazio di un gioco ermeneutico dove il senso non è scontato, ma deve essere istituito e verificato mediante il confronto dei punti di vista espressi dal sistema classe. Si tratta di perseguire quella che Gadamer chiama "fusione degli orizzonti".
La prospettiva di un’ermeneutica educativa fa dei programmi ministeriali, articolati in discipline, il "testo", e del sistema classe, l’"interprete" con il compito di attualizzarlo, o di verificarne la possibilità.
Studenti e insegnante saranno interpellati dai programmi scolastici sulla loro potenzialità di senso e viceversa secondo quel processo definito "circolo ermeneutico".
In questa prospettiva non può essere né il passato, né il presente, né il futuro ad offrirne una gerarchia, o un criterio privilegiato di attribuzione di senso. Solo il sistema classe percorrendo l’orizzonte linguistico offerto dalla tradizione può trovare un senso. Gadamer scrive: "In una reale comunità linguistica non si stabilisce mai un accordo. Ci si trova già sempre d’accordo. L’accordo è qualcosa di già avvenuto… Ciò su cui si cerca l’accordo è il mondo che si presenta a noi nella vita associata e che tutto racchiude". Cercare un senso è cercare socraticamente dunque un accordo sul mondo. E questa ricerca si deve sviluppare nella temporalità in cui quella tradizione, e lo stesso sistema classe, sono impigliati. Il filosofo in un altro luogo della stessa opera aggiunge: "gli ascoltatori dell’altro ieri e di dopodomani sono pur sempre anch’essi da annoverare fra i contemporanei ai quali uno si rivolge. Dove si dovrà fissare il limite temporale che separa i destinatari originari dagli altri? Chi sono i contemporanei? Che cos’è la pretesa di verità di un testo rispetto a questo vario mischiarsi di ieri e di domani?".
Armellini, in un suo saggio di qualche anno fa, "Il mestiere dell’insegnante" ha sintetizzato il possibile futuro per la scuola in questa tesi: "Se l’insegnante non viene concepito come un operatore-osservatore esterno che agisce unilateralmente sulla classe per cambiarne i comportamenti ma come una parte del sistema sul/nel quale agisce, è impensabile che i suoi obiettivi e i suoi programmi possano diventare gli obiettivi e i programmi dell’intero sistema classe".

Bibliografia

Bourdieu, "Critica sociale del gusto", Il Mulino, Bologna 1983.
Gabriele: citato in G Armellini "Come e e perché insegnare letteratura" Zanichelli Bologna 1988.
G. Armellini: "Inventare la letteratura "Le domande legittime" e l’imprevisto nell’educazione letteraria" in P. Bertolini a cura di "Sulla didattica", La Nuova Italia, Milano , 1994.
G. Armellini, "La qualità della scuola è la qualità totale?", in "La terra vista dalla luna" 15 maggio 1996.
G. Armellini, "La smania della valutazione" in "La terra vista dalla luna), marzo 1995.

Le stelle rare

E’ opportuno lasciarsi andare a qualche riflessione intorno alla funzione dell’insegnante di sostegno ed al suo ruolo educativo? Può essere utile tentare di farlo in rapporto al processo di integrazione?
Mi piace pensare che di tanto in tanto si possa promuovere una discussione dedicata a questi temi a partire dal sentire e dall’essere degli insegnanti

Incertezza, dubbio, esitazione, atteggiamento di ricerca, disponibilità al sogno professionale, non sono che alcune delle utopiche stelle che raramente risplendono sul cielo spesso rannuvolato delle nostre scuole.
Esitare per un istante prima di rimettere in moto sempre la stessa antiquata macchina, dubitare della fondatezza di convinzioni fin troppo cementate e sorrette dall’esile impalcatura dell’abitudine, ascoltare la salutare musica dell’incertezza, sostare, fermarsi per un attimo a pensare, ripensare, rivedere, fantasticare.
Giocare con i punti di vista, condurre lo sguardo oltre il confine della punta delle proprie scarpe. So bene di essere un poco provocatoria, ma fare scuola è un’avventura carica di imprevisti che finiscono spesso per essere negati e spenti, in favore del rassicurante circuito del già noto, del prevedibile.
Fare scuola è un privilegio. Suppongo che sia scandaloso affermarlo, ma azzardo ancora di più: le professioni che, come la nostra si stringono intorno ai rapporti umani sono un privilegio, far corona con l’infanzia e l’adolescenza ne aumenta la posta in gioco.
Fare scuola, dunque, scotta, brucia, provoca conflitti, sommuove emozioni, anche di segno negativo: non c’è molto di facile nel nostro mestiere, due più due non fa quasi mai quattro, le buone occasioni perdute si sprecano, eppure, incredibile ma vero, spesso la scuola riesce a diventare noiosa.

I ramificati destini dell’integrazione

La questione si fa ancor più delicata se ci inoltriamo nel territorio delle differenze.
I destini dell’integrazione si stanno facendo sempre più ramificati ed articolati in molteplici direzioni: ci cimentiamo quotidianamente con partite assai difficili da giocare e davvero diverse fra di loro: le esigenze dei bambini stranieri sono altre rispetto a quelle dei ragazzini con difficoltà di apprendimento, ed altri ancora sono i bisogni di chi è disabile.
Il clima in cui la scuola opera tende prevalentemente ad una sorta di stato di emergenza continuo, alimentato dall’ansia di fornire risposte immediate e lineari, -vale a dire ben incasellate nel sistema dell’esistente-, a situazioni altrimenti complesse, variegate e per noi sovente nuove e sconosciute.
Ma per quanto possa apparire limitante, e senza dubbio lo è, dedicherò prevalentemente lo spazio di questo contributo ad interrogarmi intorno alla funzione degli insegnanti si sostegno, figure tendenti all’indefinitezza e contemporaneamente alla tuttologia.
Chi opera in ambito educativo sa bene che vi sono tanti modi di vestire il ruolo professionale dell’insegnante quanti sono gli insegnanti stessi, e ciò vale egualmente per chi "fa sostegno".
Tuttavia, perché negarlo, perché non dichiararlo, "fare sostegno" è tutta un’altra cosa!
Il punto di vista di questi insoliti adulti che dedicano più tempo e più energie ad alcuni allievi piuttosto che ad altri è spostato al di qua della cattedra, non al di là.
O almeno così dovrebbe essere, a mio parere.

Che cos’è il "sostegno"?

Ma il "sostegno" è una materia? E se non è una materia, cos’è? Forse un incarico istituzionale? Visto che non sembra questa la risposta, bisogna cambiare strada.
Ed è una strada che, come per qualunque altro docente, conduce diritta alla percezione di se. Penso, sostanzialmente, che il modo di vestire un ruolo professionale e di svolgere le funzioni legate a quel ruolo, dipenda in gran parte dall’immagine di sé, dal proprio percepirsi in rapporto al contesto in cui si opera.
Aggiungo ancora un ingrediente che considero determinante: è importante credere nel senso, nella problematicità, nella versatilità ed anche nella gratuità del proprio mestiere.
Lo sguardo di chi sta a volte al di qua della cattedra e si muove ad altezza di scolaro assomiglia a quello di un regista che cerca il particolare, il dettaglio, il non visto dal passante frettoloso: si tratta di uno sguardo che, se allenato, può cogliere tanto di ciò che va purtroppo perduto nel tran tran scolastico.
L’integrazione degli sguardi e delle capacità di ascolto può costituire un prezioso contributo all’integrazione dei saperi e delle competenze: non sarà isolandosi fuori dalle classi, seppur armati delle migliori intenzioni, che si realizzerà l’incontro, lo scambio, non solo fra gli allievi, ma anche fra questi ultimi ed i docenti; non sarà certo con la tuttologia che si riaprirà il dialogo riguardo all’apporto educativo e conoscitivo.
Il ruolo del docente che "fa" sostegno sembrerebbe pertanto delinearsi attraverso competenze soprattutto relazionali da un lato e poi metodologiche dall’altro, senza mai dimenticare che c’è anche la formazione disciplinare!
Ma se l’insegnante di sostegno lavora principalmente in un certo ambito disciplinare, offrendo le proprie competenze-passioni-conoscenze, si rende riconoscibile e maggiormente decifrabile come figura educativa, definisce uno spazio relazionale meno ambiguo per tutti gli allievi ed in primo luogo per coloro che segue più da vicino.
Sapere con chi si ha a che fare è importante in ogni relazione, a maggior ragione in quella educativa.
Ma chi sono gli insegnanti di sostegno?
In quanti se lo chiedono? In quanti poi attribuiscono alla scuola il compito di dire loro chi sono, sempre nel senso specifico del ruolo educativo? Quanti, invece trovano in se stessi, nel proprio percorso formativo, nelle motivazioni personali, le risposte, seppure non definitive, a tali domande?
Ritorniamo allora a quelle stelle rare cui ho già accennato: incertezza, dubbio, esitazione, ricerca, sogno professionale!

Incertezza, dubbio, esitazione…

Incertezza: contrapporre l’incertezza alla certezza è pressoché indispensabile per chi opera con bambini e ragazzi in situazione di disabilità fisica e psichica, ed anche per chi incontra altre condizioni culturali e sociali connotate dalla differenza e dalla diversità, mai assimilabili a modelli confusi e livellanti: visto che le specificità sono esemplari, le storie cariche di unicità, l’incertezza si fa accezione positiva poiché donatrice di dubbio.
Il dubbio costringe ad osservazioni più attente, a rivisitazioni di precedenti punti di vista, ad atteggiamenti di prudente esitazione.
Esitare, per chi sta nel bel mezzo di relazioni così complesse, non significa fare il re Tentenna, bensì suggerisce forse nuovi approcci alla realtà: esitare relativamente a propri comportamenti può servire a chiedersi dove si stia andando…
E andando si cerca.
Reintroduco così la componente della gratuità del mestiere dell’insegnante e a maggior ragione del far sostegno: non vi è nulla di garantito, non vi sono risultati sicuri, non sono previste ricompense, non c’è premio, bensì ricerca di intrecci nuovi di emozioni, la scoperta di altri modi di esistere e sentire, sconcertanti e sommersi. Compaiono sorprese, quelle sì!
Vorrei sfruttare un gioco di parole, cercando si impara. Si impara a dirsi chi si è con l’aiuto degli allievi e delle loro richieste.
I bambini ed i ragazzi imparano a saper chiedere certe cose a certe persone, sta a noi insegnanti aiutarli anche in questo. E’ indispensabili giocare in prima persona e farsi riconoscere. Dalla richiesta al sogno, il passo è breve.

Il sogno professionale

Di quest’ultima stella dirò brevemente. Il sogno professionale rappresenta, a mio parere, il collante che tutto tiene. Se si parte pensando amaramente che la partita è persa in partenza si gioca malissimo, si sta chiusi in difesa, ci si annoia, si perde, appunto.
Per quanto sia indispensabile compiere un attento e puntuale esame di realtà, esso risulterà la base di partenza per tenere un palloncino appeso al filo, e i palloncini volano, volano e conducono verso lo sconosciuto, verso l’imprevedibile, verso un ignoto che spesso si rivela inaspettatamente ricco e colorato!
Il sogno è una risorsa indispensabile ad affrontare le spaventose difficoltà del nostro lavoro (quello che tutti gli insegnanti svolgono ogni giorno in una scuola che ricorda un pianeta in costante metamorfosi, pur sforzandosi assurdamente, di non mutare i propri contorni); il sogno aiuta gli adulti a mantenere in vita quel pizzico di entusiasmo che li tiene svegli e pronti a carpire i suggerimenti che provengono dai bambini e dai ragazzi.
Infine, non bisogna dimenticare che non si vive di solo pane. Per quanto possa apparire ancora utopico, credo vada considerato il grado di interesse, di piacere e di divertimento che ogni insegnante trae dal proprio operare.
Integrazione è parole grande. Se ne parla da anni. La si vive, forse. La si costruisce un po’ per giorno, e anche la si disfa. Tutti gli educatori, gli insegnanti vi sono implicati.
Di tanto in tanto fa bene chiedersi a quale gioco si stia giocando e chissà, divertirsi a ridefinirne i contorni e le regole.

Integrare tutti

Fare il punto dell’integrazione scolastica oggi in Italia sarebbe stato un obiettivo forse troppo pretenzioso, anche se oggi questa sensazione di dover tirare le somme, gettare uno sguardo d’insieme, viene avvertita da più parti; dagli specialisti, dagli insegnanti, dalle famiglie. I motivi di questa riflessione sullo stato d’integrazione sono diversi, ne ricordiamo alcuni. Le situazioni di disagio a scuola, in classe, si sono profondamente trasformate negli ultimi 10-15 anni, ramificandosi, assumendo forme inattese e ponendo gli insegnanti di fronte a situazioni e a domande nuove. Chi è il soggetto da integrare? Solo quello munito di un foglio in A4 chiamato certificato o esistono emergenze che sono iscritte, in maniera drammatica e dolorosa, al di là di quel margine di carta? E chi pone, chi deve porre lo sguardo al di là del solito? Mai come oggi si avverte, proprio per quello che abbiamo appena accennato, come sia povera di prospettive la riduzione del processo di integrazione alla fetta dei disabili presenti in un sistema scolastico. "L’integrazione è una prospettiva complessiva", dice Andrea Canevaro, direttore del Dipartimento di Scienze dell’Educazione a Bologna, in un intervento che troverete su questa rivista. Forse l’equivalenza integrazione/handicappato non tiene conto del fatto che tutti gli studenti hanno bisogno di essere integrati, particolarmente oggi in un contesto sociale così complesso e disgregato. A tutto ciò si aggiunge un altro fattore, quello economico che in questa inchiesta però non tratteremo: i tagli al "sociale", nel senso onnicomprensivo, la riduzione dello spazio del Welfare State non può che porre altre domande sul dove si vuole andare. Con questi interventi non abbiamo voluto fare il punto della situazione, abbiamo semplicemente ascoltato le voci di alcune persone (un insegnante di scuola media superiore, un insegnante di sostegno, un pedagogista) che pongono al centro del loro lavoro la questione dell’integrazione, che viene così raccontata da tre angolazioni diverse. Un discorso comunque appena iniziato, da proseguire.

Un giornalista come gli altri?

Intervista a Franco Bomprezzi, giornalista disabile: mass media e disabili in Italia

Franco Bomprezzi (nato a Firenze il 1/8/52) è attualmente direttore di ‘Freely’, periodico bimestrale della qualità della vita delle persone disabili e ‘guida al mondo possibile’, e di ‘Therme Europa’, il periodico mensile italiano del termalismo.
Inizia nel 1976 la collaborazione della redazione di Padova de Il Resto del Carlino, occupandosi prevalentemente di cronaca bianca. Cura l’edizione quotidiana del Telecarlino, notiziario televisivo a diffusione regionale con notizie fornite da Il Resto del Carlino e gestito dall’emittente locale Rtr.
Divenuto giornalista professionista nel 1984, lavora presso il Mattino di Padova fino al 1995.
Dal 1995 assume la direzione di ‘Freely’, intendendo dedicarsi a tempo pieno all’informazione in favore dei disabili e per l’affermazione di una ‘cultura della normalita’. E’ direttore responsabile di ‘DM – Distrofia Muscolare’, periodico della Uildm (Unione Italiana alla Distrofia Muscolare).
E’ affetto fin dalla nascita da una rara malformazione congenita, l’Osteogenesis Imperfecta.

L’intervista

Dal punto di vista della sua professione di giornalista l’attenzione dei media nei confronti dell’handicap ha subìto una evoluzione?

L’attenzione riservata dai media al tema della disabilità ha vissuto nella storia italiana tre fasi.
La prima arriva fino ai primi anni Ottanta.
E’ una fase che, sostanzialmente, si può definire di totale disinteresse: non esiste una terminologia che circoscriva il campo d’indagine, esiste l’invalidità come concetto generale, non esistono forme di rappresentazione della parte debole della società a livello di mezzi di comunicazione.
La seconda fase ha inizio con il 1981, proclamato dalle Nazioni Unite Anno Internazionale dell’handicappato.
Per la prima volta si affronta in termini corretti il problema che appare grave ed esteso, preoccupandosi di restituire dignità e dare voce a una realtà che, stando alle stime dell’Organizzazione Mondiale della Sanità, riferite a tutto il mondo Occidentale, comprende l’8% della popolazione e in Italia arriva a 3, 5/4 milioni di persone con disabilità media, cioè con handicap fisico e sensoriale o mentale.
Evidentemente da questo momento in poi, da quando a livello di media, i termini ‘handicap’, ‘barriere architettoniche’, ‘integrazione scolastica’, ‘integrazione lavorativa’ ottengono visibilità, si vive un clima di euforia, con iniziative di grande interesse e valore, in un meccanismo di comunicazione analogo a quello che potremmo ricordare legato al femminismo.
La concezione dell’handicap, in questa fase, presenta una certa somiglianza al movimento femminista e studentesco nel loro carattere di rivendicazione.
Per l’handicap ciò significa riscatto da una situazione di disagio e pressione per la riconsiderazione delle potenzialità dei cittadini disabili.
Depurato degli eccessi che sempre si accompagnano a tali situazioni, il trattamento riservato al tema dai mezzi di comunicazione ha favorito la nascita delle leggi più interessanti in Italia, relative all’abbattimento delle barriere architettoniche, all’integrazione scolastica, tanto da fare collocare l’Italia legislativamente quasi all’avanguardia rispetto al resto dell’Europa.
Sfumata questa fase ne è subentrata un’altra più pericolosa e inquietante che arriva fino alla fine degli anni Ottanta, determinata dalla crescita dell’importanza della televisione nei sistemi di comunicazione, dal passaggio del dominio della carta stampata a quello dell’informazione televisiva amplificata dal fenomeno dalla concorrenza fra emittenza pubblica e privata.
La spettacolarizzazione dell’informazione come presupposto della comunicazione, ha comportato che anche il tema dell’handicap rientrasse in questa logica.
Nasce così la cosiddetta ‘TV del dolore’, risvolto negativo di un’intuizione giusta: che si possa fare comunicazione anche televisiva di buon livello parlando di disabilità.
Una scorciatoia dettata in parte da pigrizia mentale, in parte da ragioni di audience tout court.
Basandosi sul soddisfacimento di un’esigenza di protagonismo, di narcisismo e di riscatto dell’emarginazione vissuta in chiave personalistica, ha avuto la conseguenza di evitare di affrontare i problemi di fondo, risolvendo, spesso soltanto in termini di raccolta fondi, singole questioni o situazioni, grazie alla capacità emozionale dei programmi.
In tal modo è risultato vanificato il precedente lavoro di analisi meno spettacolare e più attenta che aveva portato almeno all’esatta comprensione dei termini del problema, all’uso di una terminologia abbastanza corretta e in qualche modo al rispetto della privacy dei soggetti.
A questa fase un po’ selvaggia sta corrispondendo, negli ultimi anni un ripensamento in termini abbastanza positivi e una maggior attenzione alle notizie di servizio.
La televisione comincia ad inserire in fasce orarie e situazioni diverse, argomenti legati alla disabilità, visti in funzione di interessi generali.

Il clima culturale che Lei ha presentato ha avuto una influenza positiva nella sua esperienza di giornalista in condizione di disabilità?

La mia esperienza di giornalista "normale" ha avuto inizio nel 1984 in un quotidiano, Il mattino di Padova, dopo anni di apprendistato alla redazione veneta de Il Resto del Carlino ed è terminata nel 1995.
Nel lavoro giornalistico devo dire di non aver incontrato nessuna limitazione determinata dall’handicap. Si può essere bravi o cattivi giornalisti e lo si è indipendentemente dal vivere una condizione di disabilità. Devo tuttavia ammettere che mi sono sempre sforzato di dare il meglio e il massimo delle mie capacità, ho vissuto un certo bisogno di dimostrare di essere meglio degli altri, dal momento che, in ambito lavorativo, permane ancora una certa sensazione di essere giudicati perché disabili.
Questo tipo di atteggiamento ha portato a uno spreco di energie e a un lavoro molto intenso, ma anche a delle grandi soddisfazioni personali, ricoprendo incarichi di notevole responsabilità nel contesto di un quotidiano locale appartenente a un gruppo molto forte, quello de Il Mattino di Padova (tredici testate in Italia di proprietà del Gruppo FINEGIM-Caracciolo).
Da questa esperienza è maturato il convincimento che, nel campo della comunicazione, la disabilità porta a un maggior attenzione al rispetto della dignità della persona umana.
Nel mio lavoro ho sempre cercato di tenere conto delle esigenze reali del lettore, evitando di intervenire artatamente, non solo nel racconto dei fatti, ma anche nel ruolo che, all’interno di tale racconto, rivestono le singole situazioni personali.
Un tale tipo di attenzione quando si fa cronaca con i ritmi di lavoro del quotidiano, è sempre molto difficile perché manca il tempo per la verifica della notizia che viene fatta a posteriori.
L’atteggiamento che ho cercato di esercitare implica la correzione dell’errore e l’intervento nel corso del resoconto della vicenda per operare un racconto onesto dei fatti.

Quali aspetti sottolineerebbe della sua seconda ‘avventura’ professionale come direttore di DM, la rivista dell’Unione Italiana Lotta alla Distrofia Muscolare?

Avevo accettato di dirigere "DM" già dai primi anni Ottanta, richiesto da Federico Miclovich, fondatore dell’associazione, con l’intento di trasferire l’esperienza che stavo vivendo in una dimensione più strettamente legata all’handicap.
L’obiettivo era quello di ‘rinfrescare’ un po’ la rivista di un’associazione ormai storica, nata nel 1962.
A questo scopo ho proceduto ad una revisione grafica, creando un’impostazione più moderna, più agile per la lettura, scandita nelle sue sezioni interne e ho adottato il formato tabloid.
Tutto ciò con lo sforzo di uscire da un’ottica della rivista di associazione, che pure assolve la funzione molto importante di collante della vita associativa.
DM è sempre stata considerata strumento autorevole e rigoroso di informazione, riferendo anche notizie del ‘mondo esterno’, attraverso la voce dei disabili stessi, pur non essendo necessariamente redatta da persone disabili, discriminazione nella discriminazione.
Credo molto poco a situazioni in cui siano solo i disabili protagonisti di se stessi, in quanto esiste un problema di comunicazione che va risolto in problemi generali e non in un’ottica di categoria che diventa corporativa.
Dall’esperienza di DM è rimasto negli anni il dubbio che fosse comunque una rivista di associazione lo strumento più idoneo per creare un dialogo con la società esterna.

E’ questo il motivo che l’ha spinta a fondare "Freely – Guida al mondo possibile"?

Nel 1994 mi è stato chiesto di collaborare a una iniziativa di tipo fieristico nella città di Verona, AbilExpo, per la diffusione della cultura degli ausili per la vita quotidiana, partecipando al coordinamento per la comunicazione dell’iniziativa che nasceva rivolta ai disabili.
Con la mia presenza nell’ufficio stampa ho cercato di imprimere una connotazione estremamente positiva, allegra, piacevole, al lavoro di comunicazione, usando criteri di normalità.
Sulla scia di tale iniziativa nasce "Freely", rivista che ora dirigo.

Quali sono le caratteristiche di questa pubblicazione?

Si tratta di un genere di pubblicazione che non esisteva, il cui obiettivo è la diffusione della ‘cultura della normalità’, affermazione di una serie di valori comprensibili a tutti, legati al diritto a vivere la diversità, la situazione nella quale ci si trova, come una situazione di normalità.
Da queste considerazioni nasce l’intuizione del bisogno di una iniziativa editoriale che racconti il ‘mondo possibile’, una serie di situazioni piacevoli, proiettate nel futuro, alla portata di tutti, trattate con taglio giornalistico e non specialistico.
Parlare di turismo, cultura in senso generale, mobilità, ausili, comunicazione, televisione, nuove forme di tecnologie informatiche, con un largo uso di immagini e fotografie a colori.
Scegliere il colore vuole dire significare andare contro alla più comune rappresentazione dell’handicap in bianco e nero, modalità che emargina, anche se si vorrebbe dettata da un gusto dell’immagine vissuta come più artistica, ottenendo un effetto di accentuazione della diversità e separatezza dal mondo dei ‘normali’.
Pubblicando immagini di persone in carrozzina impegnate in attività quotidiane, spero, nel lungo periodo, di far passare questo valore come cosa routinaria, di cui si tenga conto con assoluta tranquillità.
Attualmente la rivista è diffusa per abbonamento in 20.000 copie, raggiunge categorie professionali quali fisiatri e terapisti della riabilitazione, disabili, associazioni legate alla mobilità e tutte quelle che abbiano tra i valori l’autonomia e la vita indipendente.
Un’altra scelta che vogliamo portare avanti è di rendere la rivista internazionale.
Ormai la dimensione nazionale è troppo ‘stretta’ per qualsiasi ragionamento attorno alla disabilità, è necessario pensare alle grandi opportunità di integrazione sociale e culturale che può offrire l’Europa, al confronto, sicuramente positivo e di stimolo, sulla disabilità che può avvenire tra l’Italia e gli altri Paesi europei.
Già dal prossimo anno è in progetto un’edizione bilingue, o per lo meno una serie di numeri in lingua inglese, con lo scopo di avviare un circuito di scambio e di comunicazione e informazione, per ora relegate nel ristretto ambito di seminari e incontri di studio.

La presenza di tante riviste che trattano di handicap ha un ruolo positivo nella promozione della cultura della disabilità?

No, a mio avviso la parcellizzazione della comunicazione in piccole consorterie rappresenta uno dei problemi maggiori all’interno del mondo della disabilità.
In tutto ciò la logica fondamentale è mantenere le notizie e le informazioni utili all’interno della propria organizzazione.
Questo avviene da una parte per fare attribuire come merito delle associazioni la soluzione di singoli problemi, dall’altra è determinato da una situazione statale in cui la logica dei contributi è stata quella dello scambio politico.
Ora, invece, sono maturi i tempi per cui i servizi vengano vissuti come diritti e non atti di liberalità dall’alto.
Il problema fondamentale dell’informazione sul tema dell’handicap, perciò, sarà quello di assumere un ruolo di ‘sentinella’ nei confronti delle iniziative pubbliche, secondo criteri di trasparenza e completezza, andando a fondo nella valutazione dei progetti e nella verifica dei risultati.
Altro elemento da sottolineare che le decisioni in materie di handicap e, di riflesso, l’informazione su di essi, sono state per lungo tempo delegate soggetti ‘altri’.
Ora invece, come si evidenzia dalla lettura di molte riviste ‘di settore’, i disabili sono sempre di più protagonisti di se stessi, anche se nella maggior parte dei casi mancano di cultura, di preparazione professionale, di opportunità di lavoro e del necessario desiderio di affermazione sociale in tutti i campi, autoprecludendosi determinate prospettive di integrazione.
Io credo che la grande scommessa sia di combattere questa pigrizia mentale perché solo così si renderà possibile un futuro di grande libertà che potrà stimolare un vero cambiamento della cultura e della comunicazione.

Diversi, non inferiori

Tra cooperante e controparti vi è una distribuzione critica del potere, il primo è fonte di denaro, il secondo conosce la mappa della realtà. Le soluzioni dei latino-americani per i loro problemi sono sicuramente migliori…”. L’esperienza di un educatore che è partito con un progetto del Mlal di Verona per lavorare in Nicaragua.

Era l’agosto del 1990, un pomeriggio caldissimo, avevo passato la mattinata da solo senza pensare a niente in particolare; in quel periodo lavoravo come coordinatore di una ricerca epidemiologica, molto seria, importante e ben finanziata. Era una occupazione prestigiosa e remunerata come si deve. Credo che sia di molti l’esperienza di un filo di inquietudine che coglie poco dopo l’adolescenza, una volta terminati studi e obblighi sociali vari (servizio di leva, per esempio), e che, una volta sentito il sapore dell’età adulta, porta molte persone a confrontare le passioni, le eresie, le speranze, il senso di giustizia di pochi anni prima, e ancora fresco nella propria coscienza, con il realismo che invece tende a imperare una volta presa la decisione di essere diventati grandi. Quel giorno, forse a causa del caldo, forse di qualcos’altro, il realismo si fece per un attimo da parte, e quel filo di inquietudine ebbe il tempo di trasformarsi prima in pensiero e poi in progetto: perché non darsi ancora un po’ di tempo per vedere il mondo, magari in un modo più interessante che da turista, in modo più approfondito e certamente più economico: perché non provare a inserirsi in un progetto di cooperazione internazionale? Dal progetto alla realizzazione passarono esattamente tre anni: uno per stabilire un contatto solido con una ONG (Mlal, Movimento laici america latina, di Verona), altri due di orientamento, selezione, e formazione. Questi tre anni furono la misura della motivazione, ovvero della solidità di quel filo di inquietudine, che resistette alla prova non solo del tempo, ma anche di un figlio che giunse nel frattempo e delle tante cose cominciate in Italia e quindi da interrompere, da me e dalla persona con cui condividevo il progetto.

L’esperienza del Mlal

L’orientamento fu una esperienza importante da molti punti di vista: non solo mi aiutò a fare la riflessione fondamentale sulle mie personali motivazioni (cosa che chi pensa di aiutare gli altri dovrebbe sempre fare con molta onestà), ma, grazie ad un atteggiamento di rara professionalità del Mlal, mi aprì la mente al grande universo della gruppalità e del lavoro di gruppo, cosa che, sia nell’esperienza che poi avrei fatto, sia in seguito sarebbe stata determinante. La selezione fu severa, sia dal punto di vista emotivo, sia dal punto di vista del funzionamento mentale e relazionale richiesto: si trattava di stare per tre giorni all’interno di un gruppo composto da altri undici candidati e due selezionatori, nel quale bisognava affrontare dei compiti (per esempio: quali competenze deve avere un volontario? Preparazione di un progetto di intervento,….) in una situazione del tutto destrutturata. La formazione era costituita da incontri, sempre residenziali, sulla realtà socioeconomica, storica, e culturale dell’America Latina, sull’atteggiamento politico e pedagogico del Mlal, sulle tecniche e le strategie specifiche per i vari settori, nel mio caso l’educazione popolare, la comunicazione con le comunità e il territorio, i vari temi che investono i problemi di ordine sociosanitario, soprattutto nel settore materno infantile (che è uno di quelli selezionati in genere per gli interventi di cooperazione). I contenuti della formazione erano di buona qualità, molta attenzione era dedicata alle metodologie didattiche; ma al termine di ogni seminario la cosa più importante era sempre l’intreccio con i percorsi umani degli altri candidati, alcuni ex-cooperanti o ex-volontari, altri alla prima esperienza come me: da un lato si andava a definire con sempre maggior chiarezza e precisione delle aspettative rispetto alla realtà che avremmo incontrato, dall’altro lato si andava formando una identità di volontario-internazionale, o meglio del volontario internazionale del Mlal. Solo questa esperienza era ricca e importante. Il Mlal aveva una connotazione politica pronunciata: in Italia era individuabile come l’incontro tra il settore critico e di base della chiesa cattolica, e il settore radicale e impegnato della sinistra, in particolare del PCI. Forte e chiara era la connotazione latinamericana: il Mlal era collegato a doppio filo, attraverso persone, idee e fatti, alle comunità di base della teologia della liberazione. Non a caso la storia del Mlal è la storia di un gruppo missionario della diocesi di Verona che, ad un certo punto, più di una ventina d’anni fa, sulla base di una profonda riflessione critica e autocritica, decide di far nascere una realtà di missionariato laico a tutti gli effetti. Questi due anni furono anni di frequenti spostamenti a Verona, a Brescia, a Vicenza, cioè nei luoghi di svolgimento degli incontri (si trattava sopratutto di conventi e seminari), senza avere mai la certezza che l’effettiva partenza si sarebbe mai realizzata, perché i primi anni ’90 furono gli anni della grande crisi della cooperazione italiana, durante la quale molte ONG storiche finirono strangolate dall’assenza o dai ritardi dei finanziamenti, e comunque tutte dovettero ridurre drasticamente le partenze.

La partenza per il Nicaragua

L’abbinamento al progetto avvenne nella primavera del ’93, dalle prime notizie si trattava di andare in Nicaragua all’interno di un progetto di salute materno-infantile in qualità di operatore sociale e sociologo, a lavorare nella formazione di educatori sanitari e nella produzione di materiali didattici. La partenza era prevista per l’estate, e in quei mesi mi parve logico approfondire il progetto, quello approvato dal ministero, e studiare tutto il materiale possibile relativo ai compiti che mi si chiedeva di svolgere. A Verona feci il corso intensivo di spagnolo, ricevetti un’altra dose di formazione, specifica per i volontari in partenza. Anche in questo caso il fatto realmente più importante era condividere con altri l’esperienza di quel particolarissimo momento. Ricordo con grande affetto altre famiglie in partenza per il Perù, in un progetto di lavoro con bambini di strada, una infermiera, schizzinosa e igienista, che avrebbe passato due anni della sua vita in mezzo alla foresta amazzonica con un gruppo di indios, dove si sarebbe potuta nutrire solo di gamberetti di fiume, e ad un giorno di barca dal primo avamposto di civiltà; ricordo anche un sindacalista della CGIL in crisi con la sua organizzazione, che stava per andare in Cile a offrire know how e a sostenere le prime forme di organizzazione sindacale dei minatori cileni, e un agronomo sardo che stava per andarsene in Venezuela con la moglie boliviana conosciuta e sposata in un precedente viaggio di cooperazione. Partire voleva dire, tra le altre cose, preparare una quantità inimmaginabile di documenti (tra cui la dichiarazione di uno psichiatra di sanità mentale), affidare la casa a qualcuno, chiedere (e fortunatamente ottenere) l’aspettativa dal lavoro, salutare gli amici e i familiari, sospendere tutti i progetti e le fantasie legate all’Italia, e vivere il disorientamento di non poter ancora sostituirle con progetti e fantasie legate all’altrove in cui si sta per andare, perché è questo stesso altrove ad essere un progetto o una fantasia. Vivere, quindi, uno spaesamento.
All’aeroporto di Managua fummo accolti dai nostri colleghi, il capo progetto, il coordinatore del Mlal in Nicaragua, l’ostetrica con cui avrei lavorato. La sensazione di avere la necessità di un cordone ombelicale a cui aggrapparsi, dopo venti ore di viaggio con un bimbo di un anno, era fortissima, e avevamo talmente bisogno di essere rassicurati da quelle persone che non avevamo mai visto prima, che tutte ci davano un senso fortissimo di familiarità: erano sconosciuti di cui avevamo bisogno come di fratelli. Il viaggio in auto dall’aeroporto all’albergo che ci avrebbe ospitati per i primi tre giorni non fu traumatico solo perché ci era già capitato di sbarcare in una capitale latinamericana. Ma Managua, come tante altre capitali di paesi poveri, è veramente l’immagine dello scandalo e dell’ingiustizia storica e antropologica in cui versa il pianeta. Managua porta intatti i segni del terremoto del ’72, dei bombardamenti aerei ordinati da Somoza nel ’78, e della povertà e della violenza delle politiche di "aggiustamento strutturale" imposte dal Banco Mondiale e Fondo Monetario Internazionale ai paesi latinoamericani dall’epoca di Reagan. Dunque al primo momento il sentimento più forte fu la dipendenza dai nostri compagni del Mlal, il senso di pericolo e precarietà nell’ambientamento a Managua, il senso di abbandono rispetto a tutte le nostre abitudini, alle nostre certezze, al nostro paesaggio.
A Managua da ogni punto della città si vede l’orizzonte, non esistono indirizzi, ma, come in quasi tutta l’America Latina, per trovare un recapito è necessario avere un punto di riferimento specifico (un monumento, una chiesa, una piazza) e da questa contare gli isolati (cuadras) orientandosi con i punti cardinali (o, per esempio, proprio a Managua, un lago, o il mare, o una montagna). Per esempio un recapito può essere così: de la catedral de S.Ilario dos cuadras abajo y tres al lago).
All’arrivo ci sentivamo deboli e fragili, la razionalità, la progettualità in quel momento non contavano niente, contava moltissimo essere in compagnia di persone rassicuranti. Dopo tre giorni arrivammo a Leon, la città dove avrei lavorato, fummo accompagnati nella casa che avevano preparato per noi, nel giro di un paio di settimane avrei dovuto migliorare il mio spagnolo e poi, dopo qualche altra settimana avrei potuto cominciare e pensare al progetto vero e proprio. In qualche giorno ci ambientammo (nel senso che cominciavamo a capire dove comprare il latte o la verdura, o come si prendevano gli autobus e come si faceva per pagare il biglietto, come erano organizzati i tragitti), e scoprimmo la straordinaria importanza che assumeva per noi la relazione col vicinato (si, proprio i vari vicini di casa, che non erano colleghi del progetto, ma famiglie nicaraguensi), anche a causa del nostro bimbo di un anno per il quale desideravamo che potesse giocare con altri bimbi, ma non solo per questo.

Si inizia a lavorare

Dopo la fatica del viaggio, dopo il profondo disorientamento subito in quelle primissime settimane, appena arrivato un attimo di calma, cresceva il desiderio di fare, cioè di cominciare a lavorare mantenendo fede al progetto che mi era stato presentato in Italia. Naturalmente la cosa più grande era la voglia di mettersi in gioco e iniziare. Così, in questo stato fui presentato alla controparte: il vicecoordinatore del Movimiento Comunal di Leon e il direttore del Ministerio de Salud di Leon. Il Movimiento Comunal è una organizzazione volontaria che aveva avuto un ruolo fondamentale sia durante la rivoluzione sandinista, sia durante il decennio di governo sandinista, era considerata la base militante, ma in realtà, da subito dopo la sconfitta elettorale era composto anche da volontari di altre provenienze politiche. Si occupava di vertenze relative alla proprietà della terra e della casa (problema storico fondamentale del Nicaragua legato al passaggio da Somoza ai sandinisti prima, e da Ortega alla Chamorro poi), relative all’allacciamento degli acquedotti, delle linee elettriche e telefoniche negli insediamenti occupati, e si occupava anche di educazione sanitaria. Per quanto riguarda il Ministerio di Salud, il Nicaragua, su indicazione dell’OMS (Organizzazione Mondiale della Sanità), si è organizzato in modo decentrato, quindi la mia controparte era paragonabile ad una nostra AUSL.
Il primo elemento degno di nota è dunque il seguente: il volontario internazionale appena giunto sul posto (nella fattispecie, io) viene presentato e ha come interlocutori le massime cariche sanitarie e sociali della seconda città del Nicaragua. Dopo pochi giorni venni presentato ai promotores de salud (gli educatori sanitari) che avrei dovuto formare alle metodologie didattiche e di comunicazione,e insieme ai quali avrei dovuto produrre materiali didattici. Parlando con loro mi resi conto che non avevano una minima idea del progetto (quello scritto, stilato dai dirigenti del Movimiento Comunal insieme a quelli del Mlal e ai volontari che precedentemente avevano lavorato lì), non avevano la minima idea di che cosa ci stessi a fare io in quella situazione, erano però gentili, spaventosamente accondiscendenti, davano per scontato che sarei stato per molto tempo con loro, e si dimostravano desiderosi di imparare da me qualunque cosa avessi voluto insegnargli. Così ebbi la curiosità di approfondire la storia del progetto in sé: non la storia della sua realizzazione (che non era ancora avvenuta), ma quella della sua formulazione e approvazione. Ecco com’era andata (più o meno): durante il decennio sandinista il Mlal si era distinto in Nicaragua per l’eccellente rapporto col Frente, i suoi volontari lavoravano dentro i ministeri a Managua e svolgevano mansioni importanti (l’informatizzazione di alcuni ministeri, per esempio), i volontari Mlal in Nicaragua erano stati fino a trentacinque. Con la vittoria della Chamorro, le cose cambiarono, il Frente perse molta della sua capacità di mantenere relazioni con la cooperazione, e, anche a causa della crisi italiana, la presenza del Mlal declinò rapidamente. Ad ogni modo, nell’89 il Mlal decise di mantenere impegni strategici, e quindi puntò tutto sul Movimiento Comunal che rappresentava certamente la parte più sana e dalle prospettive migliori del movimento sandinista. Così, nel ’90 il Mlal presentò un progetto di sostegno complessivo al Movimiento Comunal in tutto il Nicaragua del valore di 1.000.000 di dollari, che prevedeva interventi in tre città diverse (Managua, Matagalpa, Leon) su diversi settori: edilizia, salute materno-infantile, educazione popolare. La filosofia era quella di sostenere un processo di autorganizzazione e autopromozione su larga scala, che stava allora cominciando. Nel 1993 il progetto terminò l’iter previsto dal ministero degli Affari Esteri, e venne finanziato per meno di un quarto. In quegli anni intanto l’autorganizzazione aveva fatto alcuni passi: in alcuni casi positivi, in altri semplicemente di dissoluzione dei soggetti con i quali si era costruito il progetto. Immediatamente il Mlal selezionò le parti di progetto che si potevano realizzare con quel finanziamento e con i soggetti rimasti in campo, e cominciò a cercare il personale previsto: un epidemiologo, un pediatra, un infermiere. Dopo diversi mesi l’epidemiologo non saltava fuori, e in Italia c’era un sociologo, che aveva esperienza di ricerca epidemiologica, che stava aspettando di partire, in più nel progetto originale era richiesto un operatore sociale che si doveva occupare del settore edile. Il settore edile non c’era più, ma la figura poteva ancora venire buona, così in Nicaragua arrivai io. Non ero un epidemiologo ma ero in grado di lavorare sulle metodologie didattiche e di comunicazione con i promotores. Il problema era che i promotores stavano aspettando un medico. Per la cronaca neanche il pediatra si trovò, e giunse al suo posto una neuropsichiatra, e l’infermiere fu vantaggiosamente sostituito da una ostetrica. Sta di fatto, che giunto sul posto mi resi conto che in tutti i modi il progetto era da rielaborare. Ma con chi?, e perché? Questa situazione e queste domande fanno parte del 99% delle storie dei volontari e dei cooperanti, non solo italiani, ma di tutti i paesi che fanno cooperazione.

Le motivazioni di un volontario

Nel mio caso decisi di partire dal basso: mi misi al livello dei promotores, in ufficio con loro, a passare il tempo seguendoli nei loro talleres (seminari), e con loro cercai di identificare dei bisogni formativi, o più semplicemente il tipo di contributo che potevo offrirgli. Ma la domanda relativa al "Perché" era più difficile da rispondere. Il perché dei soldi che guadagnavo (mille dollari al mese, compresi i familiari a carico) era il progetto, al limite la domanda già espressa dalla controparte, ma qual’era il senso di accordarmi con la controparte rispetto a dei bisogni o delle domande che potevano essere espresse fondamentalmente in relazione a me, quasi per gratificarmi? Ecco allora, in quella fase, assumere una importanza fondamentale la coscienza che quella esperienza era una esperienza di conoscenza prima che di aiuto, di curiosità esistenziale, di solidarietà sì, ma non nei confronti di un popolo svantaggiato, in via di sviluppo, no, era una solidarietà diretta a esseri umani diversi, con i quali confrontarsi, scambiare qualcosa, con i quali fare insieme un po’ di strada. Va pagata dallo stato questo tipo di solidarietà? Non lo so, più avanti, forse, ci sarà qualche elemento in più per rispondere.
Questo periodo durò circa tre mesi (ricordavo l’insegnamento di un ex che diceva: per tutto il primo anno il volontario dovrebbe starsene zitto zitto e buono buono, far niente e guardare solo), da una parte c’era il timore e l’ansia di non aver nulla da fare lì, dall’altra finalmente ero nella condizione di soddisfare il mio desiderio di conoscere: andavo nei villaggi rurali, parlavo con persone che vivevano in capanne, scoprivo la dignità di un popolo, la distanza abissale che c’è tra la nostra idea di povertà, o via di sviluppo, e il gusto di vivere, il senso della festa, che è qualcosa che in Occidente si è completamente perso, scoprivo la straordinaria capacità di tirare avanti senza soldi, vidi l’economia del baratto (el troque), mi abituai ai buoi e gli asini per strada, cominciai ad accettare che la gente si relazionasse con me solo nella speranza di ottenere qualcosa (soldi sostanzialmente) e intanto qualcuno, dei più conosciuti finalmente cominciava a riorientare le sue aspettative nei miei confronti. Decisi comunque che non avrei fatto niente di niente fino a quando non mi fosse esplicitamente richiesto da qualcuno della controparte. La mia decisione era rischiosa, in teoria avrei potuto stare senza far niente per due anni. D’altra parte mille volontari intorno a me si arrabattavano a inventarsi attività e occupazioni importantissime e fondamentali che servivano solo a placare la loro disperazione per quel senso di girare a vuoto di cui subito avevo avvertito la vertigine. E questo problema ce lo avevano proprio quelli che concepivano il loro volontariato come aiuto, non essendo capaci di accettare qualcosa in cambio da quella esperienza. Nel frattempo, seguendo il consiglio che mi era stato dato da due o tre persone (tra cui una pedagogista brasiliana che lavora in Italia), avevo iniziato a fare un lavoro di analisi del Movimiento Comunal dal punto di vista della sua organizzazione: lo avrei proposto ad una rivista italiana su richiesta di un suo redattore. Finalmente, forse incuriositi dal fatto che mi vedevano scrivere al computer tutti i giorni qualcosa di ignoto, a cui ogni tanto i dirigenti davano un’occhiata veloce, i promotores mi chiesero di aiutarli su problemi specifici: il modo di impostare un seminario, come coinvolgere i partecipanti, che quantità di informazioni dare, come darle, come organizzare i tempi, come sistematizzare il lavoro, come utilizzare i cartelloni. Allo stesso tempo la direttrice di uno dei tre distretti sanitari della città, che mi conosceva indirettamente attraverso una cooperante austriaca, mi chiese di tenere un corso di relazioni umane per il personale a causa di problemi nel rapporto con i pazienti nelle zone rurali. Nel primo caso, insieme ai promotores stessi organizzai alcuni seminari (sia di formazione, rivolti a loro, sia di educazione sanitaria, col loro, ma rivolti direttamente alle popolazioni), mentre con la direttrice del distretto sanitario vi fu una vera e propria contrattazione formativa nella quali io proposi di organizzare e condurre una serie di incontri tra personale sanitario (medici e infermieri) e popolazioni (gli abitanti dei villaggi); e dove, alla fine, decidemmo di organizzare prima gli incontri di preparazione tra medici e infermieri, e poi in un secondo momento quelli con le popolazioni. L’approccio sarebbe stato quello della ricerca-intervento. L’aspetto più importante di questa fase, che mi confortò profondamente, era dato dal fatto che se esisteva un clima nel quale poteva aver senso un contrattazione, allora quella era la prova che nei miei confronti vi era una domanda di competenze e non semplicemente un riflesso automatico di lusinga al ricco straniero portatore di dollari. A quel punto, gli stessi dirigenti delle due parti, quelli che mi erano stati presentati all’inizio, mi chiesero di collaborare per migliorare la qualità del coordinamento tra gli operatori ministeriali e quelli dei volontari (e questo era un altro degli obiettivi del progetto originale), e così organizzammo un grosso seminario (di circa un centinaio di persone) sul problema, al quale partecipò il grosso del numero delle persone interessate. Il mio lavoro di analisi dell’organizzazione proseguiva, e man mano che andava avanti l’interesse dei dirigenti verso quel lavoro cresceva. Passati altri cinque o sei mesi mi chiesero un maggior impegno come consulente dell’organizzazione su problemi più interni connessi alle dinamiche della leadership. Di fronte a tutte queste persone, promotores, medici, infermieri, dirigenti del Movimiento Comunal, con le quali ero finalmente riuscito a stabilire una relazione di lavoro seria e reciprocamente capace di critica, ebbi la possibilità di rendermi conto della complessità del tipo di situazione che si crea tra il cooperante e le sue controparti, cercherò di esporle in forma schematica, avvertendo che si tratta di un modo molto sintetico di comunicare qualcosa di elaborato con l’esperienza, la riflessione e la discussione con altri, ma soprattutto con molta fatica, sofferenza e anche qualche soddisfazione.

Quale relazione di aiuto tra cooperante e controparte

– Tra cooperante e controparti vi è una distribuzione critica del potere: il cooperante è fonte di denaro e di risorse materiali, qualche volta anche di competenze, la controparte conosce la mappa di realtà, domina il territorio, in senso concreto e in senso metaforico. Alle controparti interessa il denaro, al cooperante interessa, in genere, far vedere quanto è utile agli altri, la situazione che si crea, di conseguenza, è di grande precarietà.
– Le società tradizionalistiche, come quelle latinoamericane, si muovo all’interno di una realtà in cui le competenze più importanti sono la memoria e la conoscenza specifica di tecniche cose e persone, noi occidentali, invece, siamo abituati a concepire il lavoro in termini di astrazione, e definizione di funzioni aspecifiche. Il concetto di ruolo è difficilmente concepibile da un latinoamericano, così come non ha molto senso parlare di metodologie, quando data la particolarità del contesto latinoamericano è possibile al massimo riflettere su qualche abitudine. Deve essere chiaro, che non sto parlando di una supposta inferiorità dei latinamericani: i latinamericani non sono in via di sviluppo, essi sono già sviluppatissimi, come tutti gli altri, solo che sono sviluppati in modo differente, probabilmente la causa della diversità va cercata nella storia, nelle caratteristiche ambientali, nell’attuale organizzazione sociopolitica mondiale, ma è di diversità che stiamo parlando, e non di inferiorità; in genere, diciamo quasi sempre, le soluzioni che i latinamericani trovano per i loro problemi sono migliori di quelle che può trovare un occidentale proiettato lì dalla sua voglia di aiutare, il problema è che quest’ultimo dispone delle risorse economiche, il latinoamericano no.
– In linea di principio il cooperante può avere qualcosa da insegnare alle sue controparti, può anche essere utile, ma la condizione perché lo possa fare è che apprenda da loro almeno altrettanto, e che si renda conto che il suo compito non può essere di incidere sulla realtà locale a prescindere da quello che la realtà locale gli dice o gli chiede; – Detto tutto questo, l’esperienza di collaborazione tra un italiano, europeo occidentale ricco, e un nicaraguense, latinoamericano tradizionalista povero, è meravigliosa, formativa, e comunque di straordinaria umanità.

La fine di un progetto

Dopo sette-otto mesi avevo finalmente trovato una collocazione gratificante; fui scelto dal Mlal come capoprogetto, dal momento che quello precedente era rientrato in Italia. Il lavoro andava bene, e il Nicaragua è un paese centramericano caratterizzato da due oceani, laghi e vulcani, bellissimo da visitare nelle condizioni di vantaggio nelle quali noi ci trovavamo in quanto ricchi stranieri, potendo disporre di buoni mezzi di trasporto e amici locali e che ci consigliavano le situazioni più interessanti. In quel periodo però per due volte fummo visitati dai ladri, e la seconda ci rendemmo conto che facevano sul serio dal momento che non fuggirono di fronte ai colpi di pistola di un vicino (noi eravamo in casa, e loro nel nostro patio). Il Nicaragua, d’altra parte, con tutta la sua bellezza, è un paese che viene da vent’anni di guerra, e le armi che circolano ancora sono pari alla quantità di violenza. Un giorno, di ritorno da una gita al mare, un individuo in divisa militare, ci sparò addosso con un AKA (il famoso kalashnikov) e con un arma che serviva a sfondare i blindati, per fortuna non ci colpì, ma la paura fu tanta, non saremmo stati certo i primi cooperanti a subire gravi conseguenze per quella situazione. Scoprimmo poi che l’individuo era un giovane con problemi psichiatrici in preda ad una crisi di panico, gli furono tolte le armi e la divisa, e al padre fu raccomandato di stare più attento al figlio. La situazione ambientale era dunque complessa, ma ancora più complessa era la situazione della cooperazione: i finanziamenti che dovevano servire a sostenere il nostro progetto (per pagare il personale locale, gli strumenti medico-sanitari, altre cose) non arrivavano, e dai fondi circolanti si riuscivano a ottenere solo gli stipendi per i volontari. La cosa per me era piuttosto imbarazzante, perché man mano che si andava avanti il paradosso emergeva con sempre maggiore chiarezza: nessuno metteva in discussione i nostri stipendi, ma noi stavamo lì e un po’ alla volta il progetto rallentava, fino ad essere vicino a fermarsi, tranne che relativamente ai nostri compiti, che però, almeno teoricamente, dovevano procedere insieme a quelli del personale locale. Queste due questioni, messe insieme al fatto che aspettavamo il secondo figlio, ci fecero decidere che dopo un anno di cooperazione potevamo anche tornare a casa. A casa scoprimmo tre cose: 1) eravamo cambiati, non eravamo più le persone che erano partite, 2) il cambiamento era irreversibile: noi non eravamo più italiani o europei semplicemente come lo eravamo stati prima, né certamente eravamo diventati latinamericani. Non lo saremmo più stati, l’essere entrati in contatto con l’altro di un altra cultura ci aveva come disincantati rispetto all’appartenenza culturale, 3) la nostra esperienza era incomunicabile (tranne che agli altri volontari rientrati), non solo sapevamo di non poterla spiegare, ma, soprattutto, a nessuno interessava. Rispetto a quest’ultimo punto capimmo di aver operato una sorta di tradimento affettivo e culturale nei confronti delle persone che ci erano vicine, e al ritorno eravamo trattati come traditori (questa è un’iperbole, s’intende). La mia analisi organizzativa del Movimiento Comunal venne pubblicata in Italia, ma soprattutto fu utilizzata dal Movimiento Comunal per rileggersi e rivedersi da un punto di vista esterno, e questa fu una grossa gratificazione. La ricchezza più grande che ci è rimasta di quella esperienza sono state comunque le persone, le voci, gli sguardi, gli odori, i gesti, l’intelligenza, l’umorismo, la tristezza e la gioia, la povertà, la disperazione, la rabbia, il coraggio, la forza, il merengue, le processioni, il sapore dei cibi, lo spirito rivoluzionario, la retorica rivoluzionaria, la dignità di un popolo.