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Autore: admin

La telematica sociale

Questo ipertesto si occupa delle risorse informative in lingua italiana sul tema della disabilità presenti in internet. Parleremo soprattutto di internet anche se con telematica si intende qualcosa di più vasto. Internet non è altro che un insieme di reti telematiche interconnesse, ma molte, per motivi diversi, ne rimangono ancora fuori.
E’ questo un modo per parlare anche di telematica sociale.
La telematica sociale assume le nuove tecnologie in modo critico e strettamente connesso alla particolare natura dei temi affrontati: pace, ecologia, emarginazione, volontariato, ma anche politica, economia, differenza nord-sud del mondo. Verso lo strumento tecnologico non vi è innamoramento né valutazioni ingenuamente ottimistiche. L’attenzione ai “rischi” che l’innovazione – fatalmente – induce, è sempre alta e vigile: la democrazia telematica, il diritto alla privacy, il rispetto delle differenze e delle specificità, sono aspetti su cui molto si dibatte anche grazie all’impegno di chi opera nella telematica sociale. Di fronte ad una pubblicistica che veicola un’immagine spettacolare e piena di effetti speciali (e di paure) della telematica, questo testo, come altri citati nella bibliografia finale, tenta di ricondurre questa potentissima opportunità ad una dimensione dove l’aiuto reciproco, il libero scambio di informazioni e di conoscenze ad un fine comune (un pensatore francese, Pierre Levy, parla a questo proposito di “intelligenza collettiva”), sono posti in primo piano.

 No al “telematichese”!

Questo ipertesto vuol essere un mezzo per sensibilizzare e informare le persone, già impegnate nel campo della disabilità e del sociale, rispetto alle potenzialità delle nuove tecnologie. Una particolare cura è stata posta nell’uso delle parole e del linguaggio: come ogni contesto specialistico (e in via di evoluzione veloce), il gergo telematico è imponente ed infarcito di tecnicismi e di parole inglesi che abbiamo tentato di evitare o di tradurre in termini più comprensibili. Il risultato è che alla fine del lavoro non abbiamo sentito il bisogno di fare un piccolo glossario (come capita quasi sempre nei testi come questo).
Il modo in cui è stato fatto questo lavoro è molto coerente con ciò di cui parla; i due autori si sono incontrati una sola volta “fisicamente” e hanno poi sviluppato il lavoro tramite la posta elettronica (email) e i mezzi di comunicazione diretta offerti dalla rete (oltre all’uso indispensabile del telefono). Le stesse interviste realizzate ed altre informazioni sono state raccolte direttamente in rete, tramite la posta elettronica o la navigazione su internet. In alcuni casi qualche capitolo è stato inviato ad un amico perché lo correggesse o lo integrasse. In questo senso siamo debitori a molti come sempre accade a chi fa un lavoro in rete, dove lo stesso concetto di autore di qualcosa comincia a declinare a favore del gruppo.

 Cosa troverete in questo ipertesto

Che cosa si trova sul tema della disabilità in internet in lingua italiana? Quanti e quali sono i siti che se ne occupano, come lo fanno, con quale stile, con quale linguaggio? Queste sono le domande che ci siamo posti all’inizio del nostro lavoro. Siamo, quindi, partiti operando una ricognizione di tutti i siti dedicati al tema handicap che siamo riusciti a reperire tramite le indicazioni dei motori di ricerca di informazione presenti su internet, tramite la navigazione passando da un collegamento (link) all’altro, oppure raccogliendo il suggerimento di un amico o di una delle tante persone che abbiamo incontrato in rete. Terminato il “censimento” (circa 120 siti), è stata avviata la selezione di quei siti che si presentano più ricchi di informazione e di “intenzioni”; fra questi – per motivi si spazio – ne abbiamo scelto solo una trentina. Su questi non era nostra intenzione proporre una veloce recensione del servizio informativo, ma volevamo ricostruirne la storia, le intenzioni, le modalità di rapporto con gli utenti, gli obiettivi informativi, le intenzioni di sviluppo futuro. Tutti i responsabili dei siti hanno risposto ben volentieri e in modo esaustivo al questionario che gli abbiamo sottoposto; anche sulla base delle loro informazioni e commenti è costruito il primo capitolo di questo testo. Nel capitolo successivo sono, per completezza, riportati tutti i i siti censiti suddivisi, per migliorare la consultazione, in aree di interesse. Nel terzo capitolo invece parliamo di Bbs (Bulletin Board System) che possiamo tradurre grossolanamente con la parola “Bacheca elettronica”, un servizio telematico amatoriale indipendente che ha preceduto “storicamente” lo sviluppo del WEB, ma che continua ad essere frequentato e animato. Alcune Bbs italiane sono in parte o totalmente dedicate al tema della disabilità: ne abbiamo raccolto la storia e le problematiche attraverso alcune testimonianze. Gli aspetti più interattivi offerti dalla telematica (le mailing list e i newsgroup) sono proposti nel quarto capitolo sempre tenendo presente il tema della disabilità. Il libro termina con le interviste ad alcuni esperti in campi professionali diversi con domande riguardanti la rilevanza della telematica per le persone disabili.

Ma la telematica è accessibile a tutti i disabili?

Parleremo di risorse informative sul tema della disabilità ma non abbiamo approfondito l’aspetto delle barriere tecnologiche ed economiche che impediscono a chi è disabile di accedere a questa formidabile occasione di autonomia. Ne facciamo ora un breve accenno perché è una problematica comunque decisiva. Vi sono particolari tipi di disabilità per cui occorre trovare delle soluzioni per poter accedere all’uso di un computer, ma dice Roberto Mancin in un suo intervento sulle barriere telematiche, “Non esiste ormai alcun tipo di disabilità fisica o sensoriale che non possa essere ridotta tramite opportuni ausili prevenendo così ogni possibile situazione handicappante. Oggi è possibile leggere ascoltando, con la sintesi vocale e l’OCR (Optical Character Reader), scrivere parlando, grazie al riconoscimento vocale, viaggiare scrivendo con la telematica”. Il problema è che con lo sviluppo tecnologico e soprattutto lo sviluppo della multimedialità (l’uso contemporaneo di immagini, testo, suoni, filmati, animazioni…) nel campo della telematica, le cose si sono notevolmente complicate. Se prima un testo poteva essere letto da un cieco grazie allo screen reader che intercettava le parole scritte sul video traducendole nei suoni corrispettivi (tramite la sintesi vocale), ora con l’avvento della multimedialità questa tecnologia è rimasta arretrata e bisogna trovare nuove soluzioni tecniche per permettere ad un non vedente di poter interpretare una pagina con animazioni e filmati. Così accade anche per i sordi che con l’avvento di file sonori rischiano di perdere quel terreno, in termini di comunicazione, che avevano guadagnato grazie alla telematica “solo testo”. Le stesse pagine web, le pagine su internet, vengono realizzate in modo sempre più sofisticato rendendo la vita difficile alle persone con difficoltà sensoriali. In un suo articolo apparso in rete il 13/8/97 e intitolato “Helping people with disabilities helps everybody”, Bill Gates, proprietario della Microsoft (l’uomo, tanto per intenderci, che decide più di tutti gli sviluppi e gli indirizzi tecnologici del nostro futuro), osservava che, nonostante l’avvento della multimedialità, i disabili non saranno emarginati dal processo tecnologico perché saranno sviluppate innovazioni hardware e software che faranno fronte ai nuovi problemi. È anche vero che queste innovazioni se verranno realizzate dovranno contare su di un fondamento economico cioè un mercato piuttosto ricco che le richiede. “Purtroppo quello degli utenti disabili – lamenta Carlo Gubitosa [Giornale della Natura – nov. 1996] – non è un mercato abbastanza ghiotto per spingere le industrie e le case produttrici di programmi a tener conto di chi non può usare un mouse o di chi non può usare gli elementi multimediali […] il computer e le reti telematiche si trovano ora su una linea di confine; da una parte c’è la telematica degli standard e del mercato, di ciò che si vende di più…dall’altra la telematica a misura d’uomo […]”. E descrivendo la situazione di molti disabili, annota: “Nelle case di molti disabili italiani ci sono computer più o meni nuovi, completamente inusati perché mancano le motivazioni e l’accessibilità: ad un disabile non basta dare un buon computer, ma è necessario che lui capisca perché dovrebbe usarlo e come potrebbe nonostante le sue menomazioni”. Un modo per superare i problemi che comporta la multimedialità è costituito da una serie di raccomandazioni, molto articolate, che riguardano la costruzione delle pagine web; i siti che seguono queste raccomandazioni, che cioè sono leggibili da tutti, si possono fregiare del marchio del web access (l’immagine del logo rappresenta una serratura in un mondo).

 

 

Ma la telematica serve ai disabili?

Abbiamo cercato di rispondere a questa domanda attraverso due interviste,
una ad Andrea Canevaro, direttore del Dipartimento
di Scienze della Formazione dell’Università di Bologna, l’altra
a John Fischetti, dell’ENIL Italia (Movimento
per la vita indipendente)

L’ausilio complesso

Intervista ad Andrea Canevaro

D. La telematica offre ai disabili e alle persone che vivono in situazione di svantaggio, nuove possibilita’ di comunicare e di conoscere: telematica e disabili dunque, cosa ti suggerisce questo binomio?

R. Mi suggerisce due aspetti: il primo riguarda la possibilità di estendere le reti di partecipazione ai disabili ma anche agli operatori, ai tecnici, penso anche ai medici; recentemente sulla rivista dell’associazione emofilici e talassemici di Ravenna ho letto un articolo che si riferiva ai medici e ai giornalisti; stranamente ma giustamente associati, in quanto, se disinformati diventano, nemici pericolosi. Se un giornalista che deve trattare un caso di cronaca avesse l’attenzione a consultare una banca dati, ammesso che ci siano delle banche dati, ma ci sono già, e avesse modo di fare un piccolo excursus in internet o avesse modo, insomma, di informarsi mediante sistemi che sono alla portata, eviterebbe di fare del sensazionalismo a sproposito, di usare linguaggi imprecisi che aprono speranze e poi delle volte, se le speranze sono infondate, è la premessa per arrivare ai drammi. Questo è un aspetto importante. L’altro aspetto, forse anche banale, è quello di ampliare le reti di partecipazione alla produzione culturale e alla produzione lavorativa, al telelavoro. Per quanto riguarda la produzione culturale, un buon esempio è rappresentato dalla rete dei centri di documentazione per l’integrazione dell’Emilia Romagna dotati delle strutture tecnologiche adeguate e quindi in grado di avere banche dati e risorse on line non più legate ai singoli casi ma che vadano un po’ oltre.  

D. Si stanno diffondendo in rete i siti dedicati al tema della disabilita’ e dell’emarginazione e le nuove tecnologie vengono sempre piu’ usate: dal tuo osservatorio, da un Dipartimento di scienze della formazione, ti sei accorto di alcuni cambiamenti? Tesi presentate, progetti che implicano questi mezzi…

R. All’interno del Dipartimento di Scienze della Formazione impieghiamo sempre più le opportunità offerte da internet nell’accrescimento delle competenze; recentemente abbiamo fatto delle prove con insegnanti che hanno avuto la specializzazione per l’handicap e una parte delle prove consisteva nel rintracciare notizie in internet a proposito anche di alcune disabilità comuni ed altre più rare. Si corre anche il rischio di prestare meno attenzione ai contesti materiali rischiando che la conoscenza telematica abbia il sopravvento su una conoscenza basata su un coinvolgimento diretto; d’altra parte non mi va di contrapporre queste due conoscenze, in quanto le considero complementari.   D. Anche da un punto di vista del processo di apprendimento le nuove tecnologie, attraverso la multimedialita’, la formazione a distanza, comportano dei cambiamenti: riferendosi soprattutto a chi opera nel sociale e a chi vive in situazioni di svantaggio, cosa significa questo? Questo implica anche nuove competenze (tecnologiche)? R. Si, certo, ma vorrei leggermente allargare la risposta facendo riferimento al caso del lavoro multiculturale. Non bisogna rendere antagonisti il collegamento multiculturale e le attenzioni alle identità. Ti faccio un esempio diretto; se dobbiamo attivare una cooperazione, come abbiamo attivato, con paesi che escono da conflitti come la Bosnia o il Ruanda, la possibilità è quella di entrare in un contatto che preveda la possibilità di collegamenti telematici e quant’altro. Una operazione del genere è sicuramente più adeguata alle necessità, però è anche vero che un’operazione del genere può costruire delle false realtà, cancellando o meglio distruggendo; la cancellazione non lascia tracce, la distruzione lascia macerie, non so cosa è peggio, ma distruggendo tanti elementi culturali presenti in quelle realtà che solo la nostra ignoranza fa considerare deserte e prive di spessore, allora bisogna stare molto attenti a fare un’operazione che sia avanzata con le tecnologie e avanzata con il rispetto; le due cose non si escludono affatto, come in altri settori vale la regola della cooperazione, quello che ci metto deve essere corrispondente a quello che ci metti tu, se io nella dotazione informatica ci metto cinquanta bisogna fare in modo che anche tu ci metta cinquanta.  

D. Torniamo ai disabili, la natura del cyberspazio tende a rendere invisibili certe differenze, uno spastico in rete non si avverte come tale, cosi’ e’ possibile addirittura costruirsi nuove identita’: queste novita’ cosa possono portare a chi vive in situazioni di svantaggio? A vari livelli, lavorativo, sociale e relazionale…

R. Possono portare a una perdita di contatto con la realtà; la realtà è sempre multipla, un elemento "artificiale", virtuale può essere governato a piacere con una logica di autoreferenzialità. Mi ricostruisco questa realtà e mi dimentico la parola virtuale, me la ricostruisco a mio piacere. La funzione dell’ausilio che dovrebbe essere quella di mediatore con la realtà può essere stravolta per diventare l’ausilio creatore di un realtà virtuale. Questo è un rischio che mi è capitato di notare in alcune situazioni. Comunque piuttosto che cadere nella disperazione può anche valere la pena in certi casi di correre questo rischio. I vantaggi grossi stanno nella possibilità di avere dei mediatori nel rapporto con la realtà molto efficaci, capace di permettere quello che la fisiologia non può permettere. Questa tecnologia oramai è diffusa anche nella quotidianità e non è impossibile pensare che ci sia una conversione della produzione di serie di numerosi oggetti che tenga più conto della diversità; certamente questa produzione non sarà mai capace di raggiungere davvero le necessità del singolo, per cui sarà sempre necessario fare del bricolage, dell’artigianato tecnologico per raggiungere questo scopo. Però ci saranno prodotti già più vicini a soddisfare le esigenze degli anziani, dei disabili.  

D. Diversita’ e differenza da un lato, omologazione dall’altro: internet ha in se’ questo duplice aspetto, di permettere ad ognuno, nella sua diversita’, di esprimersi e rendere nello stesso tempo tutti piu’ simili, perche’ il mezzo tende a uniformare, a semplificare nel virtuale una realta’ ben piu’ complessa sfaccettata: cosa succedera’ secondo te, la diversita’, nella sua accezione positiva, si sviluppera’ o rischiera’ di disperdersi? Come cambiera’?

R. È un po’ difficile rispondere ad una domanda così ampia, io credo che la diversità si potrà anche accentuare, sarà la diversità di chi ha la "dotazione" tecnologica e chi non la ha. La questione dei numeri gioca molto pesantemente a sfavore di una parte del mondo che è molto lontana dal poter accedere a queste risorse. E il numero degli handicappati in questa parte del mondo sono di una quantità enorme soprattutto là dove c’è la guerra, incrementata anche dal fenomeno delle mine antiuomo. L’uniformizzazione data dal mezzo telematico può accentuare anche i conflitti in quanto le diversità sono necessarie e non cancellabili. Un esempio tipico è rappresentato dal mondo islamico. I paesi poveri del mondo – che hanno anche, ripeto, il più alto numero dei disabili – sono quelli che hanno più interessi ad avere tecnologie. Subiranno un bombardamento di nuove tecnologie e questo sarà un elemento sconquassante; in un recente viaggio in Cambogia ho visitato una città come Phnom Pen, una città che non esiste più che è fatta di polvere e traffico; nelle sue vie ho visto delle scatoline tecnologiche, veri e proprie isole ritagliate nella polvere e nel traffico, dei negozietti di pochi metri quadrati; in una di questi mi sono fatto fare gli occhiali nuovi tramite una tecnologia molto sofisticata. La gente che lavora in questi posti quando torna a casa, torna di nuovo nella polvere e nel traffico, in tuguri senza acqua. Questi elementi così scombinati non possono stare insieme, questi scombinamenti portano ad altri scombinamenti, le cose non si aggiustano facilmente; la tecnologia può causare in questo senso disuguaglianze nuove e delle diversità feroci; disuguaglianze anche all’interno della stessa persona che vive una percentuale di vita immerso nell’alta tecnologia e una percentuale di vita di infimo livello, con dei salti difficili da sostenere.  

D. Internet pone al centro anche un’altra questione: la memoria e l’oblio. Tutto quello che non e’ sulla rete, digitalizzato, rischia di non essere conosciuto, ricordato, rischia percio’ di non esistere per chi usa solamente la rete per i suoi bisogni di conoscenza (e questo accadra’ sempre piu’ in futuro). Questo pone parecchi problemi: cosa deve essere messo in rete, chi decide questo… Riferendoci ai temi della disabilita’, non dico cosa metteresti on line, ma con quali criteri bisognerebbe utilizzare questa scelta (visto che tutto non sara’ "ricordato", cosa che e’ gia’ successa comunque)?

R. Quando una persona anziana o una persona che all’improvviso ha perso l’udito viene protesizzata, se non c’è l’educazione alla protesi, una spiegazione anche semplice di come bisogna abituarsi ad averla, la protesi fa un effetto negativo, perché una persona che non sente, risente di nuovo ma senza "filtri", gli arrivano tutti i rumori senza riuscire a trascurare i rumori di fondo; è quello che accade ai protesizzati che sentono "tutto" e non riescono a filtrare fra i rumori che a loro servono e quelli che creano solo disturbo; occorre rieducarli all’uso di questi filtri. Con la "protesi" di internet quello che ascoltiamo non è tutto, ma è quello a cui vogliamo fare attenzione e poi c’è il resto; se noi ci volessimo illudere che la realtà è solo in internet qualcosa ci richiamerà alla ragione, magari solo attraverso uno scalino in cui s’inciampa.

Un’occasione di liberta’  

Intervista a John Fischetti

D. Che cosa puo’ rappresentare la telematica per le persone che vivono in condizioni di svantaggio? L’enfasi eccessiva, in termini positivi, con cui se ne parla non rischia di trasformarsi in un motivo di delusione?

R. Su questo tema sarebbe facile scrivere qualche migliaio di pagine. Un po’ più in sintesi, ritengo che l’aspetto più importante sia l’annullamento della necessità di deleghe. Un numero sempre maggiore di operazioni e attività potrà essere svolto con mezzi e strumenti telematici, liberando così le persone con disabilità dalla dipendenza e restituendo loro privacy e autosufficienza. Non esiste forma di disabilità, per quanto grave, che possa impedire del tutto l’uso dello strumento informatico e telematico. Occorre naturalmente analizzare ogni aspetto, per evitare di cadere nei facili trionfalismi alla Nicholas Negroponte o nei rischi di ulteriore emarginazione insiti ad esempio nel telelavoro, però le possibilità sono talmente numerose e importanti da rendere l’armamentario telematico probabilmente il più rivoluzionario strumento in termini di affermazione ed esercizio di libertà. Tali affermazioni possono apparire esagerate, soprattutto agli occhi di chi non ha gravi disabilità. Queste persone possono però facilmente comprendere l’importanza di quanto affermo se riflettono sulla semplicità con cui compiono gesti quotidiani che sono invece impossibili per chi ha gravi disabilità.  

D. Mi fa qualche esempio pratico di utilizzo telematico da parte di un disabile?

R. Un esempio fra tanti: scegliere e sfogliare un libro o un giornale. Per molte persone con disabilità questo è diventato possibile soltanto grazie agli archivi, alle notizie e ai fornitori di informazioni raggiungibili per mezzo della rete. A questo proposito è necessario affrontare con determinazione i problemi causati alle persone con disabilità dal copyright e dalla protezione dei diritti d’autore. Il non poter rendere accessibili i testi in formato digitale a causa del rischio di duplicazione incontrollata causa grosse limitazioni all’accesso alla cultura da parte delle persone con gravi disabilità, e questo è certamente ingiusto. Ritengo che una soluzione tecnica adeguata possa essere sviluppata e, se questo non fosse possibile, ritengo comunque prevalenti i diritti di accesso ai testi da parte delle persone con disabilità rispetto alla protezione dei diritti d’autore.  

D. Quali sono le notizie essenziali che devono poter essere reperite in rete?

R. Oltre alla cultura e alla letteratura scientifica è senza dubbio fondamentale l’accesso ad informazioni che di solito sono di difficile reperibilità e consultabilità anche per i cittadini "normodotati", cioè le leggi e più in generale informazioni sull’attività dello Stato e delle altre istituzioni. Non bisogna dimenticare che la conoscenza è potere, e che spesso la condizione di dipendenza delle persone con disabilità deriva anche dal fatto che queste persone sono costrette a seguire le indicazioni dei cosiddetti "esperti". Una prima fondamentale libertà offerta dalla telematica è quindi la libertà dall’ignoranza.  

D. Oltre alla liberta’ dall’ignoranza, la telematica permette anche alle persone che vivono in condizione di svantaggio di uscire dall’isolamento in cui spesso cadono.

R. Si, un’altra libertà molto importante è quella che consente di unire la riconquista della privacy con la fine dell’isolamento. Mediante la rete oggi si può comunicare quasi con chiunque. È possibile anche inviare messaggi a chi non è collegato alla rete, mediante i sistemi automatici di invio di fax o il postel. Inoltre è possibile scrivere una lettera e inviarla al destinatario senza coinvolgere altre persone. Fino a pochi anni fa era difficile scrivere in libertà a un amico una lettera sui rapporti con i propri genitori, quando a scrivere e spedire materialmente questa lettera avrebbe dovuto essere il padre o la madre. La libertà dall’isolamento si manifesta anche nella possibilità di partecipare a gruppi di discussione sui più svariati temi. Le conferenze telematiche, le mailing-list, i newsgroup sono formidabili veicoli di diffusione di idee ed esperienze. Da un lato possono contribuire alla conoscenza reciproca, alla messa in comune di idee e soluzioni, dall’altro consentono di sentirsi parte di una comunità, con la forza di esempio e di stimolo che questo può dare alle singole persone. Infine la comunità ha insite potenzialità di azione enormemente superiori: la comunicazione veloce e a basso costo consente di organizzare e organizzarsi, ed è uno strumento di lavoro di cui probabilmente non si è ancora compreso pienamente il valore. È ovvio che ignoranza e solitudine non si possono debellare solo con lo strumento telematico. I rapporti fisici, l’essere insieme e il crescere insieme sicuramente continuano ad essere basilari per ciascuna persona. In questo senso la telematica non deve assolutamente costituire un alibi per costringere le persone a rinunciare alla mobilità; la telematica non deve mai essere descritta come un sostitutivo degli incontri fisici, dei viaggi, dell’esplorazione del mondo. Può però costituire una ottima integrazione, e per chi oggi si vede preclusi gli incontri fisici, i viaggi e l’esplorazione del mondo, la telematica può costituire comunque un enorme passo avanti.  

D. E nella vita pratica di tutti i giorni cosa puo’ significare l’uso di internet per un disabile?

R. II passaggio dai massimi sistemi, dal senso stesso dell’esistere, alla soluzione dei piccoli problemi della quotidianità non è troppo repentino o improprio. Spesso risolvere un problema solo apparentemente piccolo, e risparmiarsi qualche fatica in più costituiscono un ottimo incentivo a meglio considerare il senso stesso della propria vita. Quindi argomenti come gli acquisti effettuati per mezzo della rete e di una carta di credito, l’autogestione del proprio conto corrente o la prenotazione di servizi sono forse aspetti banali ma non certamente disprezzabili o accantonabili. Ecco uno dei motivi per cui è necessario insistere sulle caratteristiche di accessibilità e fruibilità dei siti. Sarebbe davvero una beffa consentire finalmente a una persona con disabilità di accedere per via telematica al proprio conto corrente, e poi renderle impossibile operare a causa della conformazione del sito, ricco magari di immagini animate e di "frame", ma mancante di una semplice paginetta solo testuale, indispensabile per chi usa i sistemi a sintesi vocale.  

D. Il lavoro infine: si e’ tanto parlato delle possibilita’ offerte dal telelavoro per chi abbia difficolta’, ad esempio a muoversi; cosa ne pensi?  

R. Secondo me l’aspetto su cui puntare, telematica o no, non è tanto la possibilità di avere un lavoro, qualunque esso sia, bensì l’opportunità di offrire dei servizi realmente interessanti e competitivi. Entrare nel mercato del lavoro dalla porta principale, insomma, e non da quella di servizio. Le quote riservate diventano, in questo contesto, un male necessario, una soluzione (ma forse non lo è neppure) per chi ha poco da offrire e che non per questo deve essere ulteriormente emarginato e respinto. Per chi invece ha voglia di "mettersi in gioco", la telematica offre opportunità numerose ed interessanti. Spesso, per una azienda che affida parte del proprio lavoro burocratico a personale esterno, connesso con postazioni di telelavoro, avere all’altro capo del filo una persona con disabilità costituisce un vantaggio e non un rischio. Altrettanto spesso, vista l’inesperienza nel settore, l’azienda questa cosa non la sa, non l’immagina neppure. Compito delle organizzazioni di persone con disabilità’ quindi, diventa anche la promozione e la valorizzazione del lavoro che queste persone possono svolgere, se dotate di strumenti adatti. Per chi vuole impegnarsi più a fondo vi sono molte possibilità, di attività di tipo professionale, come la ricerca di informazioni, l’ editoria in rete, la grafica, il settore pubblicitario, la gestione e manutenzione dei siti, le traduzioni, la programmazione, e molte altre. Quel che serve è un po’ di fiducia in se stessi, e aver chiaro in mente di non essere alla ricerca di un lavoro in termini di assistenza, bensì di aver qualcosa di importante da offrire, qualcosa di valore.

Il sesso oltre la cronaca

Sempre più spesso nella mentalità corrente la violenza viene associata alla sessualità, anche se in apparenza sembra prevalere lo sdegno e il rifiuto. In particolar modo gli handicappati sono vittime di una concezione della sessualità che si presta ad essere vissuta nella violenza.

Per tentare di capire qualcosa di più, oltre la facciata della cronaca e della morale comune, abbiamo intervistato il prof. Alessandro Bosi, docente di Sociologia all’Università di Parma e componente del Direttivo nazionale del Centro Italiano di Sessuologia.
Domanda. Dal suo punto di osservazione quale quadro emerge dalla realtà attuale in merito al problema della sessualità e della violenza e di quanto rimane sommerso?
Risposta. Si possono individuare tre ordini di problemi: il primo è dato da un tipo di violenza sessuale che non è dichiarata perché, in forza delle cose, le donne devono tenere nascosta. Alludo a quella perpetrata all’interno del nucleo familiare o da persone al di sopra di ogni sospetto per cui la donna non osa nemmeno denunciarla perché molto probabilmente nessuno le crederebbe.
È un tipo di violenza che possiamo chiamare sommersa perché non riusciamo a collocarla in alcun computo statistico benché, da altre forme di indagini, appaia invece come molto diffusa.
Esistono però almeno altre due categorie di sommerso: la prima deriva da quello che chiamerei vizio di istruzione del problema nel senso che noi siamo soliti collocare la violenza sessuale all’interno della violenza tout court; credo invece che in questo modo si rischi di snaturarla nelle sue particolarità inserendola in un quadro più ampio di problematiche socio-politiche.
La violenza sessuale andrebbe invece inserita nell’ambito della sessualità in modo da essere poi spiegata in base al concetto di sessualità da noi elaborato.
Vi è infine un terzo genere di sommerso che deriva dal fatto che le nostre idee più impronunciabili sulla sessualità diventano una specie di sovrastruttura ideologica che sta alla base di tutte le affermazioni attraverso le quali noi deploriamo la violenza sessuale.
D. Intende dire che nel momento stesso in cui si condanna l’episodio di violenza si fa emergere quel substrato culturale che, in un certo senso, ne crea i presupposti?
R. Mi rendo conto che il concetto può risultare strano e perciò mi spiegherò con un esempio: quando noi affermiamo o pensiamo, cosa che avviene spesso a livello di senso comune, che una donna che ha subito violenza è rovinata, (è un "fiore spezzato" come recitava una canzone che fece scalpore qualche anno fa proprio perché trattava il tema dello stupro) sosteniamo di fatto l’idea di un accadimento mostruoso che segna la fine della possibilità di essere donna. Al di là della deplorazione insita in una affermazione di questo tipo si può ritrovare una sorta di connubio con una concezione maschile e del tutto reazionaria della sessualità e cioè l’idea che parte dal mito della verginità e del possesso della donna.
Quando una donna viene stuprata entra in un territorio proibito che è il territorio dell’altro, in questo caso del mostro e quello che viene violato è, a livello più profondo, il controllo sul corpo femminile da parte dell’uomo; per questo dico che alla base della violenza sessuale troviamo proprio quei costrutti che sostengono la nostra visione della sessualità e perciò se non si affonderà il bisturi in questo terreno si potrà fare ben poca strada a livello di mentalità comune.
D. Dunque questa idea di compassione per la donna stuprata considerata per ciò tagliata fuori, dovrebbe sparire dalla mentalità comune?
R. In un certo senso sì, in quanto in alcun modo si deve pensare che la persona vittima di uno stupro non possa più avere una vita piena sessualmente ed affettivamente; considerarla "rovinata" contribuisce a tenerla prigioniera di un costrutto che non può che essere di tipo maschilista. Certo questo è il terreno più sommerso.
D. Allarghiamo un po’ il discorso: quali connotazioni positive e negative può avere avuto sulle nuove generazioni il mutamento della morale sessuale avviatosi dagli anni ’70 in poi?
R. Di positivo c’è senz’altro il fatto di avere aperto la discussione su alcune questioni spostandole dal terreno privato a quello politico e sociale e questo è sempre un segno di progresso. L’elemento negativo può in parte essere ricavato dal discorso che abbiamo fatto prima: se questo movimento politico mantiene delle incrostazioni concettuali ereditate dalle concezioni contro le quali è diretto, allora le acquisizioni critiche non riescono a fare realmente i conti con la precedente coscienza. Questo è, secondo me, il limite col quale devono fare i conti fino in fondo i movimenti femministi.
D. Si sente spesso parlare di uno scollamento tra sessualità ed affettività che le nuove generazioni avrebbero ereditato proprio dai mutamenti culturali che pure non hanno vissuto in prima persona. Esiste davvero questo rischio?
R. Sì, è stato detto che oggi viviamo il sesso senza amore come in epoche passate si viveva l’amore senza il sesso e questo probabilmente è vero ed è da ascrivere ad una concezione ancora non risolta della nostra corporeità.
La conflittualità col nostro corpo viene resa esplicita dall’esagerazione con cui sono amplificate le nostre zone erogene: questo è dare una dimensione esaltata e dunque pornografica della corporeità ed è un rischio che le nuove generazioni, pur senza fare delle generalizzazioni, corrono in misura particolare.
D. E da questo scollamento può nascere un atteggiamento più violento?
R. Certamente quando i due momenti non sono in un rapporto significativo la violenza ha più possibilità di affermarsi.
D. Veniamo ad un ultimo punto: violenza sessuale ed handicap, quali similarità e quali differenze si possono notare?
R. Premetto che non sto esprimendo un giudizio medico ma vorrei sottolineare un concetto: la nostra idea di sessualità è fondata su un principio prometeico di prestazione e spesso è intrisa di elementi di volgarità e di luoghi comuni espressamente osceni. Tutto questo significa che noi ospitiamo all’interno stesso della nostra cultura l’idea della violenza; perciò si può dire che eventuali soggetti con turbe psichiche o altri problemi che lascio giudicare ad altri, trovino già un terreno predisposto, con un concetto di sessualità che si presta ad essere vissuto nella violenza.
D. E l’altra faccia di questo problema, cioè l’handicappato o handicappata come vittima di violenza?
R. Credo che rappresenti una realtà di fatto; è l’estremizzazione di quello che abbiamo finora detto: se la donna viene concepita come oggetto e quindi passività allora l’azione violenta è quasi legittimata perché la violenza sessuale parte proprio dall’idea che ci sia un soggetto attivo forte, l’uomo col suo principio prometeico di prestazione, e un soggetto debole che la violenza la subisce. La può subire nell’ambito della legittimità e all’interno quindi di rapporti codificati, oppure in condizioni delegittimate.
L’handicappato e il bambino sono all’estremità di questo rapporto in quanto rappresentano il soggetto del tutto indifeso che può risultare ancora più scatenante rispetto ad una "fantasia" definita secondo questo schema. Soggetto-oggetto tanto più indifeso in quanto difficilmente ne prende coscienza e ancor più raramente trova il modo di denunciare questo tipo di atteggiamenti.

Dai diritti ai percorsi

Diversi approcci e diverse intenzioni si ritrovano tra le righe delle tante pubblicazioni che riguardano il tema della sessualità di persone handicappate. Spesso l’impressione che comunque prevale è di una grande problematicità, vissuta con toni e coinvolgimenti differenti se riferita a persone handicappate che vivono sulla propria pelle l’esclusione, la solitudine e i tanti “perché”, oppure se vissuta nella veste di operatore o ancora in quella di genitore.

E la problematicità che comprensibilmente accompagna il tema dellasessualità legata alla disabilità a volte sembra far dimenticare le risorseesistenti: sessualità e handicap sembrano argomenti da trattare a parte, construmenti specifici, con regole ad hoc.
Ma forse è proprio questo il nocciolo: parlando di sessualità diventadifficile parlare di altri senza parlare, tra le righe, anche di se stessi.
Umberto Galimberti in un articolo apparso qualche tempo fa sul Corriere dellaSera sottolinea come ciò che è ai margini è o-sceno, fuori dalla scena, pocoinquadrabile se non proprio perché la sua marginalità lo porta ad essere partedi una categoria simbolo di trasgressione… una doppia vulnerabilità siaffaccia su un tema doppiamente trasgressivo perché avvicina e mette incomunicazione il mondo della diversità, che la disabilità rappresenta, e ilmondo della sessualità.
Se riconosciamo, nonostante la diversità e/o il deficit, anche una appartenenzacomune di desideri, di esperienze, di timori o incertezze, se riusciamo a"metterci nei panni dell’altro", identificandoci quindi nel suo mododi essere, di percepire e cosi via, scatta spesso un conflitto diresponsabilità, nel senso di non sapere in quale misura farsi carico delproblema dell’altro.
A volte può diventare importante, sia per un operatore che per una personahandicappata, non cedere alla tentazione "magica" di attribuire allasessualità la capacita di superare le problematiche e i limiti che un deficitcomporta in una persona disabile ("con il sesso cancello il deficit")oppure non negare la sessualità (in tutti suoi aspetti, anche genitali) comedimensione di una identità che caratterizza ciascuna persona, superando quelconflitto che inconsciamente rende inconciliabili due realtà: quella che ciinduce ad avere della sessualità una rappresentazione che implica espansione,piacere, comunicazione, evoluzione, e così via, contrapposta a quella che ciinduce ad attribuire al deficit, all’handicap il significato di finitezza, dimalattia, di dolore, di incomprensione, di diversità, di ferita, di limite.

Un percorso di comprensione

L’evoluzione che in questi anni ha visto crescere l’interesse e il dibattitosul tema della sessualità, rappresenta in un certo senso anche l’evoluzione delgruppo di lavoro che nel Centro documentazione handicap dell’Aias si occupa diquesto argomento.
Un punto cruciale ci sembra comunque quello di superare, comprendendolo, unatteggiamento rivendicativo, di protesta e affermazione di diritti su un temacosì coinvolgente e profondo.
La storia del nostro gruppo di lavoro può essere schematizzata in tre passaggisuccessivi:
– il primo di informazione e raccolta di materiale bibliografico (inizialmentescarso) unito alla raccolta di esperienze e testimonianze soprattutto di personedisabili, di genitori o di persone che direttamente o indirettamente eranocoinvolti sui temi della sessualità collegata alla disabilità;
– il secondo di costituzione di gruppi di formazione in collaborazione conl’Università di Bologna (Dipartimento di Psicologia, Centro di sessuologia) incui erano presenti persone disabili;
– il terzo caratterizzato da una apertura all’esterno dell’esperienza,strutturando le proposte in stage di formazione e in un lavoro di consulenzaguidati dall’equipe del Centro documentazione handicap e rivolti ad operatori etecnici del settore.
Nove anni del nostro lavoro hanno visto modificare il dibattito attorno al temadella sessualità riferita alla disabilità. I primi tempi era soprattutto lacuriosità e una certa aria di scandalo che accompagnava pubblicazioni o meetingche proponevano l’argomento e molto spesso la contestazione riguardaval’opportunità o meno di sollevare un dibattito pubblico su un argomento cosìsotterraneo. In questi ultimi anni si è assistito ad un aumento di interesseattorno a tema che si è incanalato in una crescente richiesta di consulenza odi formazione. Di fronte
a ciò la domanda che ci poniamo è se esiste qualche ragione ancora poco notache fa sì che della sessualità degli handicappati nessuno più sembra dispostoad ammettere segreti. Perché parlare allora di sessualità? Sessualitàdiversa? Sessualità speciale? Alla domanda di quali bisogni nasconda lanecessita di affrontare il tema della sessualità e dell’handicap potremmorispondere estremizzando con due opposte tendenze.
– il desiderio di comprendere meglio il complesso delle sfaccettature che questotema include, dando ascolto alle proprie ed altrui implicazioni emotive;
– il desiderio di prendere le distanze da un tema troppo coinvolgente ecomplicato da affrontare e quindi la necessita di rafforzare strumenti diconoscenza teorica per padroneggiare il tutto.
Questa seconda tendenza più facilmente porta a soluzioni e decisioni generali egeneriche buone per tutti o per molti, che dividono il problema catalogando isignificati, le emozioni, le manifestazioni sessuali e affettive per tipo dideficit (fisico, mentale, sensoriale), per epoca di insorgenza (congenito,acquisito, prima o dopo l’adolescenza), per età e così via, individuando poisoluzioni standard che catalogano con precisione le reazioni emotive, affettive,erotiche, di ogni individuo disabile.
Occuparci di questo tema ha quindi assunto per il nostro gruppo di lavoro unsignificato paradossale che ci ha permesso di ricollocare la sessualitàall’interno di un ordine più ampio che riguarda l’identità della personadisabile.
L’elaborazione e lo sviluppo di queste riflessioni è avvenuto attraverso unpercorso costruito tramite una serie di iniziative: la prima ha riguardato lacostituzione di gruppi di formazione formati da persone disabili e che hapermesso di mettere in luce come la disabilità influisca sulla propria immaginee sui comportamenti affettivi e sessuali.
In una fase successiva si sono costituiti gruppi di formazione rivolti aeducatori. Questi hanno messo in evidenza quanto la propria rappresentazionedella sessualità e i propri vissuti interferiscano costantemente e spessoinconsapevolmente nella relazione con la persona handicappata.

Soggettività e genitalità

Come frutto della nostra esperienza possiamo dire che in particolare dueaspetti della sessualità legati alla disabilità meritano un approfondimento:da un lato lIa dimensione soggettiva e dall’altro la genialità. La dimensionesoggettiva, personale della sessualità che esiste nella persona in quanto tale,al di là e nonostante l’handicap, non è mai riconosciuta. Riguardo allagenitalità si tende ad esorcizzarla esaltando le manifestazioni non genitali:il linguaggio del corpo, le manifestazioni affettuose, l’amicizia… gli aspettiplatonici di una relazione.
Le ultime considerazioni le riserviamo al nostro lavoro di formazione chetutt’ora prosegue nei confronti del personale che si occupa di personehandicappate: educatori, insegnanti, terapisti della riabilitazione, operatoridi centri di formazione e cooperative. Gli obiettivi più importanti che ciproponiamo durante questi corsi partono dalla possibilità di rendere esplicitaai partecipanti, con una serie di tecniche "attive", quanto il propriogiudizio sulla sessualità, sulle sue regole, sulla sua rappresentazione socialee individuale, abbia una influenza determinante quando ci si rende disponibiliad accogliere richieste di aiuto su questo tema.
In poche parole le proprie convinzioni devono necessariamente essere messe indiscussione se ci si deve occupare, anche in maniera indiretta, dicontraccezione, di educazione sessuale, di masturbazione, di rapporti sessuali.
A questo possiamo collegare l’immagine che generalmente abbiamo dellasessualità di una persona handicappata: un’immagine di poca credibilità, discarsa o nulla soddisfazione, di rifiuto e dolorose circostanze. Un’immaginecomunque di grande separazione tra la "diversità" e la"normalità" che sappiamo invece avere confini molto meno definiti.
L’ultima importante considerazione diventa quella secondo la quale affiancareuna persona con disabilità significa accettare anche il senso di impotenza chea volte deriva dall’accorgersi che nessuna cura potrà completamente cancellarlae che tutto questo vale anche parlando di sessualità, di affetti, di desideri.
Insomma la sessualità non può rappresentare uno strumento di normalizzazione odi riscatto per nessuno, ma non per questo può essere negata o frantumata insignificati estranei alla propria esperienza e a propri sentimenti.

(*) Medico psicologo sessuologa. Gruppo ricerca e formazione "Handicap esessualità", Centro documentazione handicap Aias Bologna.

“Un problema solo nostro”

Nell’esperienza esistenziale di una famiglia in cui vive un handicappato grave (cioè totalmente non autosufficiente rispetto alla sopravvivenza e alla comunicazione), vi è un problema, oggettivo e immaginario che progressivamente si impone ai genitori: che cosa sarà del figlio dopo la loro morte.

Dal punto di vista dell’organizzazione dei servizi si tratta della questioneche viene definita come il "dopo di noi", cioè di programmare erealizzare residenze e centri per accogliere gli handicappati adulti gravi chesono assistiti direttamente dalle famiglie. La carenza di queste strutture edella conoscenza sul loro funzionamento e prestazioni, accentua l’ansia deigenitori che non hanno fiducia nei servizi pubblici e che preferisconoprospettare la costituzione di case protette private, finanziate direttamente,configurate come fondazioni nelle quali affluiscono i patrimoni delle famiglie evi siano garanzie di tutela giuridica dei figli.

Le iniziative di questo tipo finora realizzate sono molto poche e laprospettiva più concreta resta quella dello sviluppo delle residenzesocio?assistenziali analogamente a quanto avviene per gli anziani. Tuttavia nelvissuto dei genitori non sempre l’indicazione di una soluzione pratica e losforzo per costruirla o rivendicarla acquieta l’angoscia di una separazionedefinitiva dal figlio. Ciò vale soprattutto per la madre. Tra la madre e ilfiglio handicappato grave non si verifica quasi mai il normale distaccobiologico e psicologico che inizia nei primi anni di vita del bambino e sicompleta dopo l’adolescenza. Si crea invece uno stretto rapporto di simbiosi chederiva sia dal protrarsi indefinito delle cure materne (nutrire, pulire, curare,difendere), sia dalla mancanza di autonomia del figlio rispetto al comportamentoe alle relazioni. In questo senso il figlio fa parte interamente della vitabiologica e psicologica dei genitori e in questo contesto diventa quasiimpossibile l’idea o il presentimento di un abbandono dovuto alla morte. Lepreoccupazioni per il futuro del figlio dopo la morte vengono razionalizzate eattribuite alla mancanza di adeguate strutture assistenziali: il figlio finiràin un istituto, verrà dimenticato da tutti, nessuno lo capirà più, nessuno locurerà e quindi dovrà soffrire.

Una condanna perpetua

Questa idea sembra caricarsi di ulteriori e più gravi significati.
Una vita intera di fatiche, di rinunce, di umiliazioni, di difficoltà personalie sociali, dedicata giorno dopo giorno, anno dopo anno interamente edesclusivamente ad un possibile progetto di miglioramento e di cambiamento, sidimostra alla fine, per l’immodificabilità delle condizioni del figlio, unfallimento o un compito irrisolto: inoltre questa situazione ha creato unrapporto di appartenenza e di identificazione talmente forte che sembraprotrarsi oltre i limiti della vita stessa e vincolare in un unico destinol’esistenza della madre e del figlio.
Tutto ciò produce una immaginazione di sopravvivenza nella vita del figlioanche dopo la morte e poiché la realtà del figlio è considerata dolorosa enegativa, essa costituisce una specie di condanna perpetua alle sofferenze ealle fatiche già sopportate.
Non è concesso quindi di morire in pace e in diversi casi la "veramorte", intesa come termine delle fatiche, come liberazione dalle angosce edal tempo, richiederebbe la contemporanea morte del figlio handicappato: solocosì è possibile l’accettazione della propria morte.
In generale però si assiste ad una rimozione del problema: "Non vogliopensare a quando non ci sarò più"; "Il dopo di noi è un tarlo checi rode, ma non ci penso".
Ulteriori approfondimenti indicano sostanzialmente le seguenti prospettiveimmaginate dai genitori: la speranza dichiarata che il figlio "muoiaprima"; l’immaginare una soluzione di eutanasia per il figlio o diomicidio, anche violento, collegato spesso col suicidio del genitore; un’estremadifficoltà per l’ipotesi di affidare il figlio handicappato ad un fratello;un’angosciante preoccupazione che il figlio finirà in un ospizio o in unmanicomio dove sarà maltrattato e trascurato.
L’interrogativo che non trova soluzione è: a chi lo lascio?
Soltanto in pochi casi vi è una richiesta di aiuto (prima che sia troppotardi), di istituzioni assistenziali con lo scopo di garantire una vitadignitosa al figlio e di consentire qualche motivo di tranquillità ai genitori.Una madre dice: "Vorrei che venisse ricoverato insieme a me, così quandomuoio il ragazzo si è già abituato".
Sembra di poter concludere che la gestione privata dell’esistenza e dei bisognidel figlio handicappato, l’esclusivo e interminabile impegno della famiglia,abbia fatto sparire dalla coscienza stessa dei genitori l’idea di qualchepossibilità alternativa o diversa. In ogni caso il problema piuttosto che adati oggettivi (mancanza di strutture e di servizi adatti alle quali"consegnare" il figlio) fa riferimento a situazioni di grandesofferenza.

Il buio oltre la siepe

Come i genitori di disabili gravi vivono e immaginano il futuro dei figli. Una serie di testimonianze tratte da una ricerca del Dipartimento di Psicologia dell’Università di Bologna.

Cinque famiglie composte da genitori relativamente anziani e da un figliohandicappato grave. Madri e padri che con le loro testimonianze mettono a nudo,talvolta con estrema crudezza, l’inquietudine per il domani, per quando nonpotranno più prendersi cura del figlio. E la mancanza di prospettive portaanche ad elaborare soluzioni estreme.

L’altro fratello

Madre. Siamo una famiglia serena e normale. Ho il problema di dove lalascerò… Spero che il Signore ci pensi.
Domanda. Avete qualcuno a cui affidarlo in un futuro?
Madre. Nessuno. Noi ogni tanto ci pensiamo però non ci vogliamo pensare,cerchiamo di mandarlo via questo problema.
Padre. Abbiamo un altro figlio e lui dice sempre: "Non vipreoccupate".
Madre. Non vorrei lasciarlo a lui questo problema, è mio, è mio. Lui (ilfratello) ha una sua vita, perché sacrificarli tutti e due? Voglio tanto bene amio figlio, ma voglio tanto bene anche a quell’altro e non voglio lasciargliquesta disgrazia…
Non lo so, non lo so, prego solo Dio che lo faccia morire prima di me.

Non c’è nessuno a cui affidare il figlio; "lasciarlo" al fratellosignificherebbe far soffrire anche lui perché si tratta di una disgrazia, ched’altra parte appartiene esclusivamente alla madre e quindi non può e non deveessere trasferita ad altri. C’è un richiamo alla Provvidenza, ma la vera eunica soluzione consisterebbe nella morte anticipata del figlio. Intanto èmeglio non pensarci.

In mezzo ai vecchi

Madre. Dove andrà questo ragazzo quando noi non ci saremo più? Adesso piùsi va avanti con gli anni più ci pensi: come sarà la sua vita? Non si riesce anon pensarci. Tante volte dico che sono stata brava, con tutto quello che hosopportato, perché ci sono delle donne nella mia situazione che li hannoammazzati. Io non le ho mai condannate perché so che cosa mi frullava per latesta. Bisogna viverle certe cose.
Padre. Il "dopo famiglia" è un grosso problema. Mancano leistituzioni, anche di pronto soccorso. Se il padre o la madre devono andareall’ospedale, è capitato anche a noi, è terribile. Ma ci dobbiamo pensare noia fare qualcosa adesso che siamo al mondo. Conosco una ragazza, alla quale sonomorti i genitori, adesso vive in mezzo ai vecchi che si tirano addosso i piatti,si sputano. Noi dobbiamo pensare ai nostri figli, perché nessuno ci pensa.
Madre. Io non voglio pensare a quel famoso giorno che verrà, perché se nocontinuo a impazzire. Dopo che siamo morti diventano come reclusi o finiscono inmanicomio.

La tensione e l’ansia si intensificano con l’invecchiamento dei genitori.L’idea della propria morte si collega con fantasie di soppressione del figlio.Non c’è nessuna possibilità di liberazione anche dopo la separazione, un’ideache "continua a farci impazzire". Gli esempi di altri handicappatisopravvissuti ai genitori rappresentano un’anticipazione del terribile futurodel proprio figlio.

Non è stata una vita

Madre. Quello del dopo è il problema più grave, non è una cosa che sirisolve dall’oggi al domani. I genitori cominciano ad essere tutti anzianotti,questi ragazzi una volta non vivevano tanto: adesso vivono di più, questo è ilproblema.
Padre. E’ come con i vecchi: si fa vivere un malato in coma per mesi e mesi. Cisono stati dei momenti in cui sembrava (figlio) veramente alla fine invece luisi è sempre ripreso.
Madre. Non ha mai avuto problemi per la scuola, per il lavoro, ma soltantoquello della sopravvivenza. E adesso c’è quello grosso del futuro. Bisognerebbedire la solita frase: "Speriamo che il Signore se lo prenda prima dime". Non sapere a chi lasciarlo, non poter lasciarlo sulle spalle di miafiglia…
Molti genitori, almeno a livello di fantasia, pensano di uccidersi insieme alfiglio; qualche volta l’ho pensato anch’io, soprattutto quando le sue condizionipeggiorano: la tosse, il catarro che non riesce a espellere, le crisiepilettiche e poi la tachicardia e poi qui e poi là. E’ possibile? In queimomenti lì uno dice: "Se avessi il coraggio la farei finita". Poiquel coraggio non lo si ha.
Dopo molti anni un po’ di conforto l’ho trovato nella religione, sono arrivatainsomma a pensare che l’unica speranza è quella. Se io sapessi che per lui conquesta vita è finito tutto, non mi resterebbe che aprire la finestra e buttarmigiù. Perché non è; non è stata una vita. La speranza del domani è datasoltanto dalla fede; per un po’ ho creduto nelle questioni sociali, negli aiutimateriali, ma ci deve essere qualcosa di più, altrimenti…

Il desiderio che il figlio muoia prima, le fantasie di omicidio e disuicidio, l’improbabilità di un tempo futuro, oltre la vita, costringono lamadre ad un’analisi sulla gravità delle condizioni del figlio, sui sacrifici ele fatiche che comportano. La conclusione è: "non è una vitapossibile" La situazione oltrepassa i limiti della ragionevolezza e dellasopportabilità e poiché non si verifica nessuna separazione o decisioneaggressiva, tutto sembra ricomporsi nella prospettiva della fede, un’altra vitache dovrebbe compensare quella già vissuta.

Un "tombino" per mio figlio

Padre. Io conosco una ragazza che è stata messa in un ricovero dove ci sonoi vecchi. L’altro giorno sono andato a trovarla, mi ha detto: "Non hodormito perché ho la pipì e la popò addosso, ancora addosso, non hanno avutoil tempo di venirmi a cambiare". Lei non ha più né babbo, né mamma, nonha nessuno. Non vorrei vedere mio figlio così, piuttosto muore con me. E’sicuro che se io mi accorgo di morire, mio figlio muore un minuto prima, a menoche non riusciamo a organizzare qualche struttura per il dopo?famiglia.
Domanda. Voi non l’affidereste al fratello?
Madre. Non so. Il fratello lo prenderebbe … ma la moglie… lui me loprenderebbe però andrebbe contro sua moglie. Allora io non glielo chiedoneanche. Quando lui (il fratello sano) era giovane mi ha dato dei problemiperché non si voleva sposare e diceva: "Mamma, io sto con miofratello". Almeno fosse stata una femmina… Poi si è sposato con quellalì, è buona però è molto nervosa perché ha avuto un padre che le dava tantebotte. Comunque lui (il fratello) dice: "Mamma, tieni duro ancora 13-14anni, se posso andare in pensione dopo ci penso io".
Padre. Vogliamo vedere cosa fanno per questi handicappati gravi, vogliamo chevenga fuori il "dopo di noi", perché un genitore non sa dove va afinire suo figlio quando non c’è più. Se invece ho la tranquillità di direche ci sarà qualcosa, la chiamino come vogliono "casa protetta","ricovero", "istituto", basta che sia funzionale e umana.Siamo in 80 famiglie e abbiamo costituito una cooperativa per creare una casadove andranno i nostri figli dopo la nostra morte e abbiamo messo fuori deisoldi… adesso siamo più tranquilli perché come uno dice: "Vado acomprare un tombino al cimitero, così io ho cercato un tombino per mio figlioquando non ci sarò più, cioè una casa protetta".

L ‘esempio di handicappati gravi ricoverati in ospizio, gli incidentisuccessi al figlio, la difficoltà di trovare una certezza nella disponibilitàdel fratello sono tutti elementi di una realtà persecutoria che prefigurano ecostituiscono quasi una verifica e una trasformazione di dati immaginari infatti concreti
Tutto ciò provoca stati d’ansietà e fantasie di morte nel senso di morireinsieme e di togliere la vita al figlio poco prima di morire. Anche la struttura"casa protetta" per la quale si opera al fine di garantire il futuroassistenziale del figlio è immaginata in termini di fine e di lutto: come unosi preoccupa di comprarsi una tomba dove "riposare" dopo la morte,così un genitore di un handicappato grave deve pensare a un "posto"dove mettere suo figlio. Di qui scaturisce il lapsus: "io cerco un tombinoper mio figlio"

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Gli scogli a 200 metri da terra

Padre. Mi ricordo che era in periodo estivo e io ero molto stressato, la miamente cominciò a fare dei calcoli, eravamo al mare, c’erano degli scogli a 200metri da terra e dopo gli scogli l’acqua è profonda… Insomma cominciarono agirarmi delle idee per la testa: vado al di là degli scogli, butto giù lui (ilfiglio) e mia moglie… Poi torno a riva e dico: "Aiuto, aiuto" comese fosse stata una disgrazia. Però c’era anche mia figlia e pensavo che dopoquesta ragazzina sarebbe rimasta da sola. Allora bisognava buttarli giù tutti etre! E dopo mi dicevo: "Ammettiamo che la gente ci creda, che mi vadaliscia nel senso che è stata una disgrazia e dopo io sarò un fallito, unverme. Allora cominciai a pensare, concentrandomi a massimo e, sempre aiutatodai medicinali, riuscii a capire che quello che avevo calcolato era una pazzia,una follia e ancora una volta, come era successo in passato, sono riuscito auscirne fuori.
Madre. I momenti di crisi li ho avuti anch’io però non… non per vantarmi, nonmi è mai venuto in mente di sopprimere mio figlio, semmai mi sarei soppressa iostessa, però anche questa era una cosa in partenza da scartare perché miofiglio era lì, dove rimaneva? E’ naturale che questi momenti di crisi li hoavuti, avrei preferito
la morte per me e per mio figlio però li ho superati.
Domanda. E rispetto al futuro che cosa pensate?
Padre. Se sto male e crepo non ci sono problemi nel senso che lei è una donnamolto valida e se la saprebbe cavare. Io da solo cosa faccio, messo come sono,parenti non ne ho, non ho nessuno a cui potermi appoggiare, invece da parte suaci sarebbe grande disponibilità (di parenti). Comunque, per noi genitori diquesti ragazzi, è un problema grande. Se capita qualcosa, lui dove va? Dove lomettono?
Ho già fatto un’esperienza, anni fa, abbiamo fatto una prova per 15 giorni,l’abbiamo portato in un istituto, quando l’abbiamo riportato a casa era pieno dilividi, aveva la cacca secca anche su per la schiena, non gli trovavano più lescarpe; quando aveva delle crisi, gli facevano la puntura, poi lo mettevano aletto e lo legavano, come una bestia…

In questo caso le fantasie di omicidio sembrano trasformarsi in progetti verie concreti. Il confronto fra i genitori dimostra che la madre vive il figliocome una "appartenenza" e quindi, uccidendosi, risolverebbe ogniaggressività, mentre per il padre il figlio rappresenta un oggetto"cattivo "ed è significativo che l’omicidio immaginario debbacoinvolgere anche la moglie. Il futuro, dopo la morte dei genitori, vieneanalogicamente collegato con un’esperienza negativa attraverso la quale èpassato il figlio e che si ripeterebbe però in modo definitivo e irreversibile.

Quando l’affetto non basta più

L’informazione e la raccolta di materiale bibliografico, la costituzione di gruppi di formazione in collaborazione con L’Università di Bologna, l’apertura verso l’esterno. Questi, in sintesi, i passaggi che hanno contraddistinto il lavoro del gruppo su handicap e sessualità del Centro Documentazione Handicap dell’AIAS di Bologna

Otto anni di lavoro che hanno visto alternarsi atteggiamenti di rifiuto e negazione e, all’opposto, un interesse a volte carico di aspettative irreali.
Dal 1983 ad oggi sono cambiate molte cose nei confronti del tema della sessualità riferita alla disabilità: i primi tempi era soprattutto la curiosità e una certa aria di scandalo che accompagnava pubblicazioni o meeting che proponevano l’argomento e molto spesso la contestazione riguardava l’opportunità o meno di sollevare un dibattito pubblico su un argomento così poco esplicito.
In questi ultimi anni ci siamo ritrovati, invece, con un numero sempre maggiore di richieste di consulenze e formazione, di cui dobbiamo ancora ricercare appieno il significato. In fondo ci stiamo chiedendo se esiste qualche ragione ancora poco nota che fa si che della sessualità degli handicappati nessuno più sembra disposto ad ammettere segreti…
Sappiamo di dire queste cose con una certa ironia ma un pericolo che vediamo, nascosto in alcune di queste richieste, è quello di cadere in quell’ordine di idee che trasformerebbe una dimensione fortemente soggettiva e personale, qual’è quella della sessualità, in una schematizzazione preordinata di manifestazioni e attese proprio a causa della presenza di un deficit o di una menomazione. Come se questi aspetti che in fondo costituiscono la disabilità e quindi una diversità, potessero operare una cancellazione della persona e rivestire di sé ogni lato dell’individuo, compresa la propria dimensione sessuale ed emotiva.
"Perché parlare allora di sessualità? Sessualità diversa? Sessualità speciale? Alla domanda su quali bisogni nasconde la necessità di affrontare il tema della sessualità e dell’handicap, potremmo rispondere estremizzando con due opposte tendenze: il desiderio di comprendere meglio il complesso delle sfaccettature che questo tema include, dando ascolto alle proprie ed altrui implicazioni emotive; il desiderio di prendere le distanze da un tema troppo coinvolgente e complicato da affrontare e quindi la necessità di rafforzare strumenti di conoscenza teorica per padroneggiare il tutto.
Questa seconda tendenza più facilmente porta a soluzioni e decisioni generali e generiche buone per tutti o per molti, che dividono il problema catalogando i significati, le emozioni, le manifestazioni sessuali e affettive per tipo di deficit (fisico, mentale, sensoriale), per epoca di insorgenza (congenito, acquisito, prima o dopo lo sviluppo sessuale), per età e così via, individuando poi soluzioni standard che catalogano con precisione le reazioni emotive, affettive, erotiche, di ogni individuo disabile.
Occuparci di questo tema ha quindi assunto per il nostro gruppo di lavoro un significato paradossale che ci ha permesso di ricollocare la sessualità all’interno di un ordine più ampio che riguarda l’identità della persona disabile.
In questo senso, approfondire gli aspetti della sessualità connessi alla disabilità ha lo scopo di riconoscere, senza dimenticare o negare questo tema, la globalità della persona disabile in cui gli aspetti cognitivi, mentali, emotivi, corporei ecc… sono correlati strettamente tra di loro, costituendo un’unità che non ha senso frantumare.
L’elaborazione e lo sviluppo di queste riflessioni è avvenuto attraverso un percorso costruito tramite una serie di iniziative: una di queste riguarda la istituzione di gruppi di formazione in buona parte costituiti da persone disabili e che per questo motivo ha permesso di evidenziare le modalità con cui la disabilità influisce sulla propria immagine e suoi vissuti che la diversità proietta sulla corporeità.
In una fase successiva si sono costituiti gruppi di formazione rivolti a educatori. Questi hanno messo in evidenza quanto la propria rappresentazione della sessualità e i propri sentimenti e pensieri su questo argomento interferiscono costantemente e spesso inconsapevolmente nella relazione con la persona handicappata, distorcendo la reale problematica sentita dalla persona.
Entriamo ora un po’ più dettagliatamente in questi aspetti.
L’immagine più ricorrente, partendo dal dato corporeo, riportata dalle persone disabili è stata quella di un corpo rotto, ferito, che non corrisponde, ma piuttosto si oppone, ai desideri sia in senso strettamente collegato con la motricità, sia anche per quegli aspetti che rendono il corpo il principale e il primo mediatore della relazione con l’Altro.
Come conseguenza di questo, grande interesse ma anche grande ambivalenza ha suscitato nel primo gruppo la discussione sul piacere e il disagio proveniente dalla propria corporeità.
Possiamo dire che, in particolare, due aspetti della sessualità legati alla disabilità meritano un approfondimento: la dimensione soggettiva e la genitalità.
Di questa dimensione soggettiva, personale di ciascuno, non solo nel senso di privata, intima, ma nel significato di appartenente a quel soggetto e quindi non direttamente collegata a una relazione, si è più difficilmente disposti a riconoscerne il valore parlando di handicap.
Riguardo alla genitalità riferita a persone disabili molto spesso si tende ad esorcizzare questo aspetto esaltando le manifestazioni non genitali: il linguaggio del corpo, le manifestazione affettuose, l’amicizia… Gli aspetti platonici di una relazione.
Proprio in contrapposizione con questa visione, quasi a smentirla, è importante riconoscere quelle situazioni in cui il corpo è precocemente investito di significati erotici da parte, ad esempio, di un bambino handicappato, costantemente sottoposto a manipolazioni, attenzioni e cure dovute alla presenza di handicap.

La formazione

Gli obiettivi più importanti che ci proponiamo durante i corsi partono dalla possibilità di rendere esplicito ai partecipanti, con una serie di tecniche "attive", quanto il proprio giudizio sulla sessualità, sulle sue regole, sulla sua rappresentazione sociale e individuale, abbia un’influenza determinante quando ci si rende disponibili ad accogliere richieste di aiuto su questo tema.
In poche parole, le proprie convinzioni saranno necessariamente messe in discussione se ci si dovrà occupare, anche in maniera indiretta, di educazione sessuale, di contraccezione, di masturbazione, di rapporti sessuali.
A questo possiamo collegare l’immagine che generalmente abbiamo della sessualità di una persona handicappata: un’immagine di poca credibilità, di scarsa o nulla soddisfazione, di rifiuto e di dolorose circostanze. Un’immagine comunque di grande separazione tra la "diversità" e la "normalità" che sappiamo invece avere confini molto meno definiti. L’affiancare una persona disabile significa anche accettare il senso di impotenza che a volte deriva dall’accorgersi che nessuna cura potrà completamente cancellarla e che tutto questo vale anche parlando di sessualità, di affetti, di desideri.
Insomma, la sessualità non può rappresentare uno strumento di normalizzazione o di riscatto per nessuno ma non per questo può essere negata o frantumata in significati estranei alla propria esperienza e ai propri sentimenti.

Sintesi della relazione presentata al convegno "Handicap e sessualità" – Progetto Helios Cee, Salonicco 27/28 settembre 1991

(*) Psicologa consulente sessuologa
(**) Medico psicologo sessuologa

“Quella violenza sottile”

“La sessualità? È un problema a prescindere. Hai idea di quanta gente c’è, all’apparenza “normale”, che ha problemi di sesso?”.
Eccola. Abbiamo appena iniziato a parlare, c’è ancora qualche imbarazzo, ma Cinzia è già venuta fuori. Con tutta la sua pacata combattività. Ventotto anni. Da otto collabora con una comunità per il recupero dei tossicodipendenti. Un paziente volontariato e, da poco più di due anni, l’assunzione come operatrice.

"C’è questo senso comune – spiega Cinzia – per cui chi è diverso vede raddoppiati i suoi problemi relativamente ad ogni sfera della vita".
Si insinua così l’idea di una violenza sottile non paragonabile a quella sparata a grandi titoli dai giornali come ad esempio l’handicappata prostituita dalla madre, lo stupro perpetrato dall’insano di mente o magari dall’extracomunitario. La chiamiamo violenza ma non è la giusta definizione. È impercettibile e quindi meno facile da combattere e ha il sapore dell’isolamento, della marginalità, del rifiuto.
"Al termine della terza media – racconta Cinzia – ho subito una operazione alla schiena, dopo la quale mi hanno messo un busto di gesso. Poi ho iniziato le superiori: volevo fare l’analista di laboratorio. Quell’inverno era freddissimo; per andare a scuola dovevo fare lunghi percorsi in corriera e con il busto era tutto più difficile. Dopo un paio di mesi comunque c’è chi mi ha fatto capire che era meglio se lasciavo perdere: ad un’analista di laboratorio è richiesto l’uso perfetto di entrambe le mani e questo non è certo il mio caso.
Un fatto oggettivo – spiega – ma quello che mi ha fatto male è stato soprattutto il modo con cui ml è stato detto".
Cinzia comunque ha reagito, a testa bassa: "Adesso gliela faccio vedere io" si è detta e poiché a perdere l’anno non ci pensava proprio ha preparato e superato l’esame integrativo per accedere alla seconda: liceo scientifico questa volta, portato a termine senza difficoltà.
Finito il liceo, dopo una breve parentesi universitaria, Cinzia ha optato per il mondo del lavoro. Prima un anno e mezzo di volontariato in una comunità per tossicodipendenti, poi un corso di formazione per addetti del settore. "Eravamo in undici a frequentare questo corso – ricorda Cinzia – organizzato da una cooperativa in vista dell’apertura di una comunità.
L’esito fu estremamente positivo per me, grazie anche all’esperienza di volontariato appena fatta.
Quando però arrivò il momento di scegliere i componenti dell’equipe che avrebbe gestito il centro la risposta fu: "Andresti benissimo ma noi abbiamo bisogno di operatori alla pari; non possiamo permetterci qualcuno che non sia in grado di svolgere autonomamente tutte le attività". Quella volta non reagii subito, dapprima ci fu un momento di sbandamento".
Ma non è solo la caparbietà che ha sostenuto Cinzia fino ad oggi: il rapporto equilibrato con la famiglia in primo luogo che non le ha mai fatto pesare il suo handicap. Poi il rapporto con se stessa. "Sto bene con me – dice -, anzi, ad essere sinceri mi piaccio". E veniamo agli affetti.
"Certo – ammette – tutti dobbiamo fare i conti con uno stereotipo di bellezza, sia maschile che femminile, portato agli estremi e figuriamoci chi ha dei problemi a livello fisico: o li neghi e fai l’angelo o trovi dei compromessi e ti costruisci delle modalità che sono tue per accedere alle cose più "normali", come l’amore.
Quando avevo vent’anni – racconta Cinzia – mi nascondevo dicendo che a me non interessava avere dei rapporti. Pensavo anche di essere in fondo fortunata ad essere una donna perché ritenevo che l’uomo non potesse esimersi da certe cose come il farsi avanti o l’avere una certa prestanza fisica.
Poi è successa una cosa fondamentale: mi sono presa una cotta per un mio amico. Mi guardavo bene dal dirlo ma la cosa era evidentissima. Alla fine lui ha fatto in modo da farmelo ammettere e, sebbene non sia successo niente, è stato importante tirarlo fuori. La verbalizzazione di questo sentimento mi ha fatto capire che poi non era così assurdo.
Qualche tempo dopo, sull’ambiente di lavoro, ho conosciuto Andrea. Dapprima siamo diventati amici, abbiamo fatto le vacanze assieme. Al rientro dalle vacanze, era settembre, abbiamo continuato ad uscire; ricordo che ero sempre io ad invitarlo. Poi, fu una cosa normalissima, una di quelle sere ci siamo messi insieme".

Amici sì, amanti mai

Parlare di sesso è diventato fin troppo facile. È stato presentato in tutte le maniere e le depravazioni immaginabili, così da renderlo uno strumento di consumo a livello di massa.
C’è ancora da lottare contro i pregiudizi, non bastano l’integrazione a scuola e sul lavoro. Il rischio è quello degli eterni bambini, lontani da qualunque possibilità di legami sentimentali.

Nell’uomo la sessualità ha un significato estremamente ricco di accenti e di implicazioni psicologiche: essa costituisce un elemento imprescindibile di completezza della persona umana ed è per questo che non può essere vista solo in funzione riproduttiva.
Come abbiamo già accennato, la sessualità è una parte di ogni persona, è un bisogno primario, è un modo essenziale per comunicare con se stessi e con gli altri. Ed è così anche per le persone portatrici di handicap, che restano persone innanzi tutto; vivere la propria sessualità è per loro, come per tutti, necessario e giusto. Non è un caso che se ne parli oggi; fino a ieri l’handicappato è stato negato, rinchiuso, emarginato, e con lui, ovviamente, e forse in modo preminente, è stata negata la sua sessualità.
Ancora oggi il suo stato di emarginazione non è stato superato, ma sempre di più si allarga la lotta condotta spesso in prima persona, per affermare i suoi diritti alla scuola, alla formazione professionale, al lavoro e quindi conseguentemente anche alla sessualità. D’altra parte farlo oggi può essere più facile di una volta. Ormai a tanti "sani" è capitato di incontrare in qualche modo quelli che fino a ieri erano solo i "mostri del Cottolengo". Si va a scuola insieme, sono compagni di lavoro, li si incontra per strada, sul tram. Si è, insomma, iniziato a non averne paura, a conoscerli, a capirli.

Peter Pan per sempre

Le premesse dunque per incontrarsi, anche su un piano più personale, più intimo ci sono, si tratta solo di non buttarle via. Se si realizza un rapporto d’amore tra un handicappato e un "sano", c’è comunque il problema di "cosa pensa la gente". L’atteggiamento in generale è quasi sempre negativo, di condanna. I meccanismi del pietismo e dell’assistenzialismo scattano in pieno. Amici sì, amanti no.
Spesso in questa logica si approvano le amicizie tra normodotati e handicappati; si sottolinea la particolare capacità di comprensione del "diverso", e va tutto bene fino a quando il disabile non avanza diritti e pretese. Quando questo succede, tutto cambia: le richieste sembrano un affronto, il diritto quasi un sopruso e si fa di tutto perché l’unione finisca "per il loro bene".
Molto spesso il normodotato, cosciente di queste cose, non se la sente di affrontare il marchio di "diverso" e preferisce lasciar perdere, oppure accetta un amore nascosto, frettoloso, pieno di tensione e sensi di colpa, destinato a finire piuttosto prima che poi. Vi sono, nonostante tutto, anche esperienze di coppie in cui uno dei due è disabile. Alle volte insorgono atteggiamenti di dipendenza fisica e psicologica nei confronti del partner. Se è necessaria l’indipendenza dagli altri in generale, lo è ancor di più, per quanto possibile, dalla persona con cui un handicappato ha rapporti affettivi e sessuali. Il ruolo di compagno o compagna non si concilia facilmente con quello di infermiere.
E’ opportuno sottolineare l’esigenza che, nel pensare alle difficoltà dell’handicappato, non vengano trascurate quelle meno gravi di chi gli vive accanto.
Fino ad ora abbiamo parlato delle cosiddette "coppie miste". Se invece la coppia è formata da due disabili, si cercherà di convincerli che la loro unione è impossibile, perché non potranno badare a loro stessi, agli eventuali figli. E’ necessario lottare contro queste prese di posizione, queste convinzioni. A volte, è lo stesso disabile a non desiderare una compagna o un compagno nelle sue stesse condizioni, convinto che i propri problemi siano più che sufficienti. Egli, come tutti gli altri, può venire influenzato dai canoni della bellezza e dell’efficienza. Infatti avere un deficit non rende immuni dalla debolezza umana.
E’ difficile quantificare quanto un individuo sia completamente consapevole di se stesso; ma chissà come mai, quando si parla di soggetti con deficit ci si associa sempre l’idea di un’eterna infanzia, di "Peter Pan per sempre", lontani da qualunque possibilità di legami sentimentali.

Il lavoro raccontato

Sfogliandoli distrattamente possono sembrare dei “giornalini” semplici e con poche pretese, ma attenzione, dietro queste pagine a volte strampalate e ricche di immagini si celano storie di persone e di rapporti, progetti di lavoro, montagne di emozioni che interi libri “scientifici” non riuscirebbero a descrivere adeguatamente. Ne parliamo con Andrea Canevaro, direttore del Dipartimento di Scienze dell’Educazione dell’Università di Bologna.

Domanda. Sono ormai diverse le esperienze di piccole riviste, "giornalini" che vengono composti all’interno dei centri per handicappati, esperienze che si possono incontrare in varie parti d’Italia: ma qual è il loro valore educativo?
Risposta. II maggior valore credo che sia quello che riguarda la memoria; ci sono spesso tendenze a ridurre chi ha un deficit molto grave, ridurlo ad una persona che ha giornate sempre uguali, che fa le stesse cose; in questo siamo aiutati anche da una letteratura scientifica che ci racconta che il ritardato mentale grave ha una "viscosità", una ripetitività, ha bisogno di fare le stesse cose. Io penso che abbia bisogno come tutti di avere delle sicurezze, quindi c’è del vero in quello che si dice, però è anche vero che hanno una vita con una dinamica, e questa dinamica bisogna saperla leggere, non dimenticarla e i giornalini possono essere uno strumento utile
per mantenere un’attenzione a un qualcosa che può essere raccontato. La ripetitività fa sì che gli operatori che lavorano all’interno di un centro pensino di non aver niente da raccontare fuori agli altri, mentre il giornale è fatto anche per gli altri. Allora farlo può diventare un impegno con se stessi a scoprire quello che può essere raccontato agli altri e che non è la fotocopia della stessa giornata per 365 giorni all’anno.

D. Queste esperienze hanno un valore molteplice; da una parte hanno un significato interno, nel rapporto tra operatore e utente, dall”altro hanno anche un valore esterno, nel rapporto tra il centro riabilitativo e l’Usl, o il territorio che lo circonda; infine possono avere un valore anche tra i diversi centri e servire come collegamento.
R. Sì, hanno un intreccio di diversi valori; specialmente alcuni "giornalini" quando sono fatti con cura, servono come mediatori di rapporti, come possibilità che il rapporto non si esaurisca nell’assistenzialismo; lasciando una "traccia" e avendo una funzione di mediazione le riviste possono essere molto significative proprio per la qualità della relazione tra operatori e utenti, volendo proprio usare questi termini così burocratici.
Attraverso i giornali c’è inoltre una definizione progressiva, aperta e non imbalsamata dell’identità di un centro. Ecco un’altra utilità, quella di pensare la propria identità in rapporto a quella degli altri centri, ognuno dei quali ha una propria identità.
Fare una rivista per un centro significa allora scoprire la propria identità, mettere in luce le proprie valenze culturali e operative. Ci sono centri che sono legati per la loro storia al cinema, alla scrittura o al teatro, tutte caratteristiche che si riscontrano poi nei "giornalini". Ricordo il caso di un "utente" del Centro Galassia di Lugo di Romagna che da anni s’interessa alla scrittura; ora è possibile che non sia immediatamente una scrittura maggiorenne per un’editoria da grande pubblico, ma potrebbe essere molto importante per un "giornalino", se questo non è riduttivo e non diventa uno strumento da dopolavoro ferroviario, ma diventa un biglietto da visita d’identità che è sempre in farsi. Potrebbe essere giusto allora che ci siano delle vite da raccontare, in modi diversi, attraverso la poesia, la fotografia…
I "giornalini" servono proprio per scoprire la propria identità e metterla in contatto con l’identità degli altri centri e per costruire poi una rete che permetta delle valorizzazioni reciproche.

D. Come si presentano, che tipo di struttura hanno queste esperienze? Hai in mente qualche caso particolare?
R. L’esperienza che conosco meglio è quella di Ravenna; la rivista "Percorsi" ha proprio questa funzione di collegare le diverse identità.
Fatta con mezzi modesti, il "giornalino" esiste orma da una decina di anni e con il
tempo si è affinato, coniugando le esigenze interne con dei fini più alti. "Percorsi" ha cercato di dare dei contributi di grande serietà, evitando di essere noiosa, di avere un tono dimesso, per farsi leggere da un numero maggiore di persone. Prima ho parlato di giornalini da dopolavoro ferroviario, anche con un tono di simpatia, perché hanno il difetto di non raggiungere il lettore esterno, ma hanno un senso più di informazione interna; è proprio ciò che le esperienze di cui stiamo trattando devono evitare. Vorrei ricordare che questi "giornalini" non sono un patrimonio solo del nord Italia, in quanto ricevo continuamente nuove riviste e alcune di queste provengono dal sud.

D. Sei a conoscenza di esperienze analoghe all’estero?
R. Sì, ho visto pubblicazioni simili in Francia, nella Svizzera francofona, in Belgio, nel Canada.

D. Quali sbocchi possono avere queste riviste, come si possono sviluppare per diffondersi meglio o diventare più "raffinate"?

R. Per rispondere a questa domanda bisogna parlare anche dei Centri di documentazione, perché questi materiali sono sicuramente dei materiali fragili che vanno persi, si buttano via.
La funzione maggiore la dovrebbero avere i Centri di documentazione che non sono inerti ma che dovrebbero essere attivi, salvando il materiale prodotto e rendendolo anche consultabile. Poi dovrebbero consentire che qualcuno ogni tanto ci mettesse mano per riorganizzarlo; sarebbe interessante fare delle antologie o delle comparazioni antologiche, mettere insieme il meglio di quanto è stato prodotto. E per non renderli deperibili occorre trasformarli; ad esempio con alcuni numeri di "Percorsi" abbiamo fatto un libro.

Un centro per disabili e giornalisti

Pochi soldi, un grande entusiasmo. I “giornalini” dei centri per disabili nascono dal desiderio di dare memoria alle esperienze, ma anche di lanciare un ponte alle famiglie e al mondo esterno.

Chi stampa millecinquecento copie e chi soltanto cinquanta: ma le cifre non contano, ciò che davvero importa è l’occasione di divertirsi e di creare qualcosa insieme. Qualcuno si arrangia con i finanziamenti del Comune, i più intraprendenti con la pubblicità, ma puntualmente i giornalini compaiono sulla piazza.
Il Centro di Melzo suona "Il clacson" con vivacità. Dodici pagine di giochi e rubriche in cui non manca l’appello alla pace ma nemmeno l’angolo del "buongustaio". E per i più scherzosi, nelle pagine centrali c’è anche il buon vecchio Gioco dell’Oca, che offre l’occasione di "suonare uno strumento" e di "dare un bacio a tutti i compagni di gioco".
Una volta all’anno, trenta utenti e undici educatori, tirano fuori la grinta e si mettono all’opera. E il risultato è delizioso: pur senza colori, le tinte si indovinano attraverso i disegni e le fotografie, gli spartiti musicali "inventati" e le poesie. Così, in questo modo forse un po’ disordinato, ma dove non c’è traccia di abbandono o di malinconia, il Centro socio educativo ha deciso di far sentire la sua voce, o meglio, il suo "clacson".
Mix di esperienze di alcuni centri riabilitativi del Comune di Milano è "Giallo di sera", grande quanto un quaderno ma ricco di contenuti. Al bianco e nero si alternano le pagine colorate, un piccolo "trucco" ideato dagli educatori per aiutare gli utenti durante la fase di fotocopiatura. Così, "’Angolo del sentimento" si tinge di rosa, mentre Babbo Natale si lascia alle spalle il tradizionale costume bianco e rosso per colorarsi di giallo.
"Giallo di sera" esce quattro volte all’anno, ma l’attività di redazione è costante. Due volte alla settimana i gruppi si riuniscono e si confrontano, e ogni volta qualcuno aggiunge un piccolo contributo all’opera. A distribuire la pubblicazione sono gli utenti stessi, che lo portano ai negozianti della zona, ai centri sociali, agli impiegati del Comune e della mensa. Secondo un’educatrice questa fase è della massima importanza: i disabili, pubblicizzando direttamente il frutto del loro lavoro, si guadagnano rispetto e credibilità.
Pensieri, racconti, poesie, e naturalmente foto e disegni. Alle fotografie ci pensano due utenti, l’impaginazione e la fotocopiatura sono lavoro di squadra. Insomma, di "emarginati", alla redazione di "Giallo di sera", non se ne sente proprio parlare.

Venticinque redattori per Vituomo

Da una tesi di una tirocinante del corso educatori del Centro "Zanichelli" di San Lazzaro di Savena (Bologna), tre anni fa ha preso spunto "Vituomo".
Secondo Giuseppe Dell’Elce, educatore, il giornalino è "occasione di mettere nero su bianco esperienze che altrimenti andrebbero disperse" e insieme "importante momento di incontro con gli utenti". E il segretario questa volta è proprio un disabile: agli utenti è dato dunque uno spazio di responsabilità. "La partenza di solito è un po’ stanca – dice Dell’Elce – ma una volta entrati nell’ordine di idee, andiamo avanti con molta energia". Sono in venticinque, quattordici disabili psichici e undici educatori. Di cose da raccontare ne hanno parecchie. Una festa per inaugurare la primavera, il biliardino nuovo, i bambini nati nel centro.
Singolare la rubrica "Graffiti urbani", un collage di messaggi che richiamano alla mente le frasi scolpite sul muri delle città: "Offresi ritagli di tempo a piacenti indaffarati. Tutte", "A.A.A. cercasi sprovveduti millantatori (o viceversa) disposti ad imbastire nuove trame con vecchie ragnatele. Chiedere di Falce e Martello".
Un bel sole disegnato in copertina invoglia a sfogliare "Non ci resta che riposare" del Centro Oasi di Troina, che ospita handicappati mentali. E i disegni di questi adolescenti che festeggiano l’arrivo dell’estate non deludono le aspettative: ombrelloni, fiori, frutti estivi. Roberto Scagliola, psicologo, parla dei suoi ragazzi con molto affetto. "Con questo giornalino – dice – abbiamo voluto fornire agli utenti un supporto materiale sul quale possono organizzare un racconto di quel che accade nel centro. Guardandolo insieme ai genitori hanno un punto di riferimento che li aiuta a comunicare. La curiosità per quello che fanno gli altri gruppi – precisa Scagliola- è un grosso stimolo per i ragazzi". Curiosità che forse, in segreto, accende la miccia della competizione. Chissà.

Corpi in cronaca

C’è una specie di luogo comune che recita pressappoco così: “Le cattive notizie sono buone notizie”. Quindi la notizia di una persona disabile, segregata per anni in un pollaio è proprio ciò che ci vuole per il giornalista a caccia di nuove emozioni; non per sé, si intende, ma per l’amato/odiato lettore, sempre più distratto, sempre più sommerso di messaggi quindi, sempre più sulla difensiva. Ma è sempre così? È sempre vero che quando si tratta di categorie deboli la regola è il sensazionalismo?

Il disabile rifiutato, violentato, nascosto; oppure il disabile eccezionale, laureato, sposato, persino con figli. Quante inesattezze, quante letture parziali. Sono quelle che spesso traspaiono dalle pagine dei giornali, è vero, ma è altrettanto vero che è troppo facile additare i giornalisti come unici responsabili di queste deformazioni. Si rischia di cadere in un altro luogo comune.
Come fruitori di informazioni infatti commettiamo un errore quando facciamo coincidere la notizia di un evento con l’evento stesso. Se da un lato i fatti di cui non abbiamo esperienza diretta esistono solo nel momento in cui ce ne viene data notizia, dall’altro lato non possiamo dimenticare che di quel fatto abbiamo, attraverso i mass media, solo una comunicazione, una rappresentazione.

Alla ricerca del senso comune

Ed eccoci già calati nel senso dell’indagine condotta presso il Centro Documentazione Handicap dell’Aias di Bologna. Due i punti fermi da cui è partito questo lavoro: il primo, il presupposto fondamentale, è che anche la carta stampata contribuisce a creare l’immagine della disabilità che ogni persona possiede e che la "forza" di questa costruzione è maggiore quando non esistono occasioni di conoscenza diretta. Avere a che fare con una persona disabile, per lavoro, per amicizia, o per semplice vicinanza fisica, consente infatti il più delle volte di abbandonare tutta una serie di stereotipi che caratterizzano senza dubbio la nostra cultura. Stereotipi e luoghi comuni che ovviamente anche i mass media assorbono e rilanciano, in un gioco di conferme reciproche che finisce per radicare sempre più le opinioni. A questo poi occorre aggiungere anche la funzionalità che certe immagini hanno nella dinamica di esasperazione dei toni che caratterizza spesso i mass media. Fare audience o aumentare il numero dei lettori significa attirare a sé gli investimenti pubblicitari, significa quindi avere più denaro da investire sul potenziale umano e tecnologico della redazione per potere così essere più competitivi e accrescere l’audience o il numero dei lettori. E così via, in una spirale perversa in cui l’operatore dell’informazione deve andare a caccia dello scoop, del caso eccezionale, emblematico, quello insomma in grado di scuotere le coscienze sempre più assopite del consumatore; e i più deboli a farne le spese.
Alla luce di questi fatti dunque, quale immagine della persona disabile può strutturarsi nell’opinione del "cittadino della strada"? Da cosa può essere caratterizzato, rispetto a questa particolare categoria del disagio sociale (l’handicap è il disagio sociale), l’inafferrabile eppure temibilissimo senso comune? Ecco dunque che ogni singolo item su cui si è imperniata questa ricerca si configura come una lente attraverso cui guardare, o cercare di inferire, le ricadute che nel tempo le immagini proposte dalla stampa possono avere sull’opinione delle persone. Questo naturalmente non può che essere fatto in via ipotetica e con tutti i limiti che comporta il confrontarsi con la soggettività umana.

La struttura dell’indagine

L’obiettivo concreto della ricerca è quello di verificare quanto e come si parla di diversità, partendo da una base di dati piuttosto ampia ed applicando ad essi un criterio di analisi il più scientifico possibile.
II fatto poi che l’indagine si sia sviluppata all’interno del Centro di Documentazione sull’Handicap dell’Aias di Bologna, spiega la scelta della stampa quotidiana e della disabilità quali ambiti di ricerca. Il Centro infatti dispone tra l’altro di un archivio degli articoli pubblicati dal 1983 in poi su una quarantina tra quotidiani e settimanali.
Quali coordinate temporali sono stati prescelti quattro mesi (giugno, luglio, novembre e dicembre) e due anni, il 1990 ed il 1993. Le nove testate su cui si articola la ricerca sono invece state selezionate in base ad un criterio di eterogeneità rispetto alla collocazione territoriale ed ideologica: Avvenire, Gazzetta di Mantova, Gazzetta del Sud, Gazzettino, Piccolo, Stampa, Repubblica, Unità e Unione Sarda; quest’ultima, presente per il 1990 è stata sostituita per l’anno ’93 con il Mattino.
La scelta di due anni tra loro relativamente distanti, il 1990 ed il 1993, risponde dal punto di vista metodologico all’esigenza di verificare se e quanto una serie di eventi abbiano potuto incidere sul rapporto tra l’handicap ed i mass media. Ci riferiamo ad esempio alla carta del doveri del giornalista, ai numerosi dibattiti, alle ricerche promosse dalla Comunità di Capodarco e dai giornalisti del Gruppo di Fiesole, alla legge quadro sull’handicap (L 104/ 91).
Gli articoli pubblicati dalle nove testate nel periodo individuato sono stati schedati secondo una griglia di analisi articolata in 31 item. La prima parte di questi è finalizzata a raccogliere dati di tipo quantitativo (numero totale degli articoli pubblicati e per singola testata, numero di colonne, argomenti trattati).
Altre voci (collocazione del pezzi nelle pagine locali o in quelle nazionali, taglio, settore, genere) si collocano a cavallo tra l’analisi quantitativa e qualitativa. La rilevanza data ai temi è infatti direttamente connessa con l’evidenza fisica all’interno del giornale e della pagina: certe notizie possono avere l’onore di una apertura, altre solo una ventina di righe in taglio basso.
"Categorizzazione" (singolo, gruppo informale o organizzato), "ruolo" (attivo o passivo), "area di significato" (malattia, disagio, riuscita ecc) sono invece item che conducono in modo più specifico all’interno dell’analisi qualitativa.
Un discorso a parte merita invece l’uso dei termini: una persona può essere definita sia disabile che handicappata ma le due parole non sono, contrariamente a quanto si crede, sinonimi. L’item "terminologia" è inoltre un’ottima spia per evidenziare di quali categorie (fisici, psichici, sensoriali) la stampa tende maggiormente ad occuparsi.

Sta davvero finendo la spirale del rumore?

Applicando alla marginalità le logiche generali dell’informazione, quella odierna, così impregnata di mercato, non si può ovviamente evitare di produrre reazioni. Qualche volta si è trattato di polemiche tanto feroci quanto sterili, anch’esse improntate al "chi urla di più"’; qualche altra volta si è trattato invece di un vero e proprio confronto, di un dialogo teso a trovare assieme, operatori dell’informazione e operatori del sociale, nuove strade. I dibattiti, le carte deontologiche, sono solo la superficie sotto cui si muove una crescente attenzione, una sensibilità nuova. C’è poi anche l’impressione che un certo modo di fare giornalismo si stia esaurendo da sé; la spirale del rumore deve necessariamente avere un limite oltre il quale l’informazione azzera se stessa non essendo più credibile in quanto tale. È probabile allora che il mondo giornalistico intraveda nel cambiamento non solo una doverosa forma di rispetto ma anche una necessità.
Si arriva così al secondo punto di questa ricerca, l’ipotesi da verificare: alla luce del dibattito, della presa di coscienza da parte di molti di quanto l’informazione fosse strumentalizzante e talvolta pericolosa, si sono verificati dei cambiamenti? Due anni di distanza sono stati sufficienti per modificare qualcosa nel modo di fare informazione sulla disabilità?

I numeri

L’aspetto quantitativo evoca immediatamente una associazione: "fare notizia". Il personaggio importante quasi sempre fa notizia, di qualunque fatto si renda protagonista, perché "interessa alla gente" e perché è interesse dei giornali dedicargli degli spazi. Il personaggio importante fa notizia "per se"’. Il disabile no. Ci deve essere sempre un qualcosa in più in lui o nelle cose che fa per diventare visibile. Ma questo è normale. Così la relativa sottorappresentazione dell’handicap evidenziata dalla ricerca (612 articoli complessivamente pubblicati, 303 nel 1990 e 309 nel 1993) assume i contorni di un fatto secondario.
Rispetto al dato quantitativo poi i comportamenti delle testate si sono dimostrati molto variegati; c’è chi parla poco di disabilità (la Stampa ad esempio con 41 articoli censiti in due anni) e chi invece ne parla molto (Il Gazzettino con 138 pezzi, sempre in due anni). Poi c’è chi ne parla soprattutto in cronaca locale: l’ambito territoriale, la vicinanza delle persone ai fatti è sicuramente un elemento importante per sensibilizzare, per fare sentire più prossime e meno eccezionali certe realtà. Ma la vocazione localistica di alcuni quotidiani, e la possibilità di fare un lavoro capillare, non si è sempre rivelata sinonimo di attenzione nei confronti di questi temi.
Allo stesso modo la quantità degli interventi non è una garanzia di qualità; ribaltando i termini si può osservare come ad esempio la Stampa, pur occupandosi poco di questi temi, lo faccia poi in modo molto equilibrato e corretto dal punto di vista del contenuti. Qualcun altro invece (Il Gazzettino è il caso più evidente) pubblica una grande quantità di articoli su un evento e non si preoccupa mai di andare a guardare dietro alla facciata delle cose: i problemi, le persone, il significato di quello che viene fatto. Allora, si potrebbe dire, il risultato non è pari allo sforzo (o meglio ancora allo spazio).

D’estate specialmente

Accade spesso che ci siano momenti in cui le notizie sono meno numerose, specialmente in prossimità delle vacanze, sia d’estate che d’inverno. Succede allora che anche temi "dimenticati" facciano comodo in questi frangenti perché comunque le pagine vanno riempite. I mesi prescelti per la rilevazione si avvicinano molto alla tipologia dei periodi di "calma", luglio e dicembre in modo particolare. Il risultato ottenuto sfata però il luogo comune iniziale; soprattutto perché tra un anno e l’altro non ci sono segni di costanza e luglio si rivela effettivamente il mese più prolifico del ’90 ma anche quello meno prolifico del ’93. Novembre è invece alla fine il mese in cui è stato pubblicato di più.
Insomma, almeno per quanto concerne lo spaccato fornito da questa ricerca, non è vero che l’handicap fa notizia quando non c’è niente di meglio e quando, soprattutto, le persone sono assorbite da preoccupazioni ben più grandi: le vacanze, appunto.
"Genere", "taglio", "settore", "immagini"; una serie di item a metà strada tra l’aspetto morfologico e quello connotativo in cui, in definitiva, ciò che conta maggiormente nel tempo è il livello più profondo. Chi legge il giornale non è ovviamente portato a cogliere gli aspetti strutturali ma questo non significa togliere loro importanza. Anzi, quanto più lavorano "all’insaputa" del lettore, tanto più è fondamentale vederli anche come vere e proprie sottolineature.
I termini "articolo" o "notizia breve" sono ovviamente molto generici e constatarne la quantità (rispettivamente il 48,7% ed il 25,2% di quanto pubblicato) non è di per sé molto illuminante. Tutto cambia se però lo si raffronta alle altre categorie, se insomma lo si guarda in negativo; "articolo" non è "inchiesta", non è "intervista", non è "scheda", non è "redazionale" (si tratta di categorie che hanno registrato percentuali pressoché irrisorie). Non è insomma tutto ciò che, almeno dal punto di vista teorico, implica un minimo di approfondimento.
A che serve versare del denaro a favore della ricerca sulla distrofia muscolare se poi non si sa nemmeno cos’è la distrofia muscolare? Se non si sa che cosa cambia nella vita delle persone che, all’improvviso, vedono completamente cambiata la loro vita? E che significato ha il gesto del "cittadino"? A cosa serve se poi davanti ad una carrozzina, quando va bene, non si sa che fare?
Forse anche i giornalisti qualche volta non sanno che differenza c’è tra cerebroleso ed epilettico, tra autistico e dislessico. il problema non è tanto sapersi destreggiare tra gli specialismi (per quelli ci sono le persone che lavorano già nel settore) quanto piuttosto riuscire a dare un’immagine più completa delle cose.
Così è importante ospitare le opinioni dei lettori (è uno del generi più utilizzati dalle testate), dare spazio alle loro idee, ma lo sarebbe anche utilizzare al meglio gli strumenti che il giornalista ha a disposizione per ampliare le conoscenze, anche quelle del disabile che scrive in redazione; il giornalista, proprio per la posizione che occupa, può infatti raccogliere informazioni e interpellare persone molto più di quanto il singolo possa fare. Il che non significa certo promuovere un’inchiesta ogni qualvolta si verifica un caso. Significa invece una maggiore precisione, quella ad esempio che viene riservata a tanti altri temi. Fare il paragone con lo sport, in questi giorni "mondiali", è davvero troppo facile.

L’immagine oscura

L’immagine dovrebbe avere la funzione di aggiungere significato al testo, di rafforzarlo, di amplificarne l’impatto emotivo; oppure dovrebbe servire da alleggerimento. Le foto censite per questa ricerca non sono poche anche in relazione al tipo di quotidiani esaminati; tutti prediligono infatti lo stile sobrio, fatto di titoli ma soprattutto di testo, secondo quella che è poi la tradizione del giornalismo italiano.
Dal punto di vista qualitativo si possono suddividere in due macro-categorie: le immagini di persone e quelle di situazioni. Nel primo il lavoro delle redazioni è caratterizzato da un buon grado di specificità, favorito dalla presenza di un soggetto identificabile e quindi facilmente fotografabile. I problemi emergono invece quando, anziché di una persona, occorrerebbe la foto di un ambiente, di un contesto di vita: allora le immagini diventano generiche, talvolta ripetitive, inefficaci. Quante volte la stessa foto, il disabile di spalle, la carrozzina, vengono utilizzate per documentare fatti molto diversi tra loro? Anche questo concorre a rafforzare gli stereotipi, la percezione dell’handicappato come essere solitario, lontano, imperscrutabile. Il suo mondo è là, ben distinto dal nostro. È fatto di carrozzine, oscure pratiche riabilitative, silenzi. Poco viene fatto per farci avvicinare; le immagini di Marcello Manunza (il ventiseienne di Chiavari uscito dopo tre anni dal coma e la cui vicenda ha avuto un’attenzione grandissima da parte di tutti i quotidiani), esanime, circondato, difeso e quindi anche isolato dalle braccia della madre o dal cordone di volontari che lo assistono è uno degli esempi più forti di questa tendenza.

Oggetto, soggetto o protagonista?

La storia di una notizia è in realtà un gioco a tre: c’è chi la elabora, chi la fruisce, chi ne è (o ne dovrebbe essere) il protagonista. Tra due di questi tre poli si instaura però una dinamica circolare: il giornalista confeziona la notizia per il quotidiano, il telegiornale o il radiogiornale e nel fare questo, oltre che da altri fattori tipici del lavoro di redazione, è condizionato dalla consapevolezza che quella notizia è anche un prodotto "da vendere". Dal fatto si passa cosi a una notizia elaborata secondo criteri che per il giornalista corrispondono ai desideri del lettore. Anche se si tratta di una semplice presunzione, basata sul "fiuto" o su valutazioni professionali, questo meccanismo pone il destinatario in una posizione di forza; egli è l’acquirente che ha diritto alla merce dell’informazione. Elemento debole del "gioco" rischia così di essere il soggetto delle notizie: questo è particolarmente evidente quando si tratta di una persona appartenente alle categorie marginali, una persona cioè incapace di autotutelarsi rispetto all’uso (o abuso) che il meccanismo dell’informazione può fare della sua vicenda.

Imparare a comunicare

I numerosi dibattiti sul rapporto tra mass media e marginalità hanno, fra le altre cose, anche il pregio di far confrontare la "base" con il mondo dell’informazione su piani che non siano solo lo scontro diretto. Servono insomma a scardinare quella metà del meccanismo che ha visto il perdurare di due nicchie: quella dell’informazione da una parte e quella del sociale dall’altra. E in questo il privato sociale, e ancora più il mondo dei servizi, hanno avuto la loro fetta di responsabilità; hanno coltivato la cultura del "fare" e tralasciato quella del "dire" per poi accorgersi, spesso in ritardo, i tempi erano cambiati. L’informazione non è uno specifico ma qualcosa che attraversa in modo trasversale tutta la società; non è il sapere di pochi ma la risorsa, la ricchezza implicita in ogni cosa; oggi non basta fare, occorre anche far sapere. Nel frattempo però il mondo dell’informazione si è appropriato di certi temi e lo ha fatto utilizzando categorie inadeguate. I giornalisti erano e in buona parte continuano ad essere impreparati ad affrontare il disagio e, al tempo stesso, quel disagio ben si presta alle logiche del sensazionalismo, della spettacolarizzazione o dei buoni sentimenti.
Il confronto, e forse un po’ di autocritica, hanno portato il privato sociale ad organizzarsi anche dal punto di vista comunicativo, a curare la propria immagine, a saper dare alle proprie iniziative la veste di eventi o comunque di fatti in grado di interessare un più vasto numero di persone.
I risultati traspaiono solo in parte dai dati raccolti per questa ricerca: il privato sociale ad esempio si configura, soprattutto nella cronaca locale, come un interlocutore sicuro per le notizie; queste ultime poi scaturiscono sempre più di frequente da iniziative o da dichiarazioni (quasi sempre in chiave critica), fatto questo che, se opportunamente valorizzato, può effettivamente portare ad approfondimenti e dibattiti. L’essenziale ancora una volta è che le cose non si fermino alla sfuriata del disabile, dell’associazione o, perché no, dell’amministratore; il rischio infatti è che i problemi vengano perennemente percepiti come distanti, senza attinenza con la propria vita e che la disabilità venga alla fine associata alla difficoltà, all’esclusione, all’ingiustizia.

Così vicini, così lontani

Non è casuale allora che, alla fine, la maggior parte degli articoli esaminati ci rimandi del disabile l’immagine di una persona appartenente ad un gruppo indifferenziato, ovvero, quell’"altro", quel "lontano" da noi, che non ci obbliga a metterci in gioco.
La stessa indefinitezza che si ritrova nell’uso delle parole. Il disabile rimane ragazzo per sempre (il termine "ragazzo" è il più utilizzato dal giornalisti) e quindi difficilmente potrà condurre una vita "normale", avere un lavoro, sposarsi, fare dei figli, andare in vacanza in albergo anziché in colonia. Anche questo è un luogo comune assai più diffuso di quanto si possa credere.
Si tratta infatti di una abitudine diffusa anche tra coloro che lavorano nel settore educativo e che in teoria non dovrebbero cadere nel "tranello"; eppure sono all’ordine del giorno espressioni del tipo "i ragazzi del centro diurno" in riferimento ad adulti magari di 30-40 anni. Lo stesso meccanismo caratterizza talvolta il comportamento dei genitori che sono i primi a non volere i propri figli crescano; finché saranno ragazzi avranno bisogno di cure e loro potranno così espiare fino in fondo la "colpa" di un figlio diverso.
Così va a finire che l’handicappato è ragazzo, giovane o bambino e solo di rado uomo o donna, cittadino (parola che evoca immediatamente diritti e responsabilità), persona.
Anche questo ovviamente finisce per avere un peso così come ce l’ha un’altra forma di indefinitezza: quella rispetto ad un ruolo il più delle volte non esiste. Il disabile rimane sullo sfondo, relegato ad un ruolo di comparsa, di personaggio trasparente sulla cui esistenza, proprio come in famiglia, sono altri ad intervenire.

Handicap e tangenti. L’ombra della crisi

I risultati ottenuti relativamente agli argomenti più trattati hanno evidenziato soprattutto due cose: il differente orientamento dei singoli quotidiani e il legame di fondo tra i temi dell’handicap e quelli più generali del paese.
Rispetto alla prima i dati hanno evidenziato ad esempio una forte attenzione delle testate a vocazione locale soprattutto per il mondo dell’associazionismo e per i servizi; non è un caso quindi che il privato sociale e le istituzioni (Comuni, Unità Sanitarie Locali, Regioni) siano la fonte preponderante delle notizie proprio in cronaca locale. Si potrebbe trattare di un elemento importante per coinvolgere la cittadinanza attorno a temi come l’assistenza, il lavoro educativo, il problema del "dopo di noi". L’impressione però è che l’estrema superficialità con cui si parla di iniziative e problemi non favorisca in realtà un avvicinamento delle persone ad un mondo le cui caratteristiche appaiono molto slegate dal vivere comune.
Altre testate, essenzialmente la Stampa e l’Unità hanno evidenziato invece uno spiccato interesse per gli aspetti scientifici mentre L’Avvenire, coerentemente con la sua impostazione ideologica, ha privilegiato i temi tra spiritualismo e affettività.
Il secondo aspetto, quello che situa i temi legati alla disabilità alle logiche, alle mode, ai problemi più sentiti del paese è sicuramente un fattore positivo, che avvicina, sotto questo profilo, l’handicap alle cose di tutti i giorni. Peccato però che lo faccia, almeno rispetto ai dati di questa indagine, per eventi non certo qualificanti. Gli scandali scoppiati in alcune sezioni siciliane dell’Aias, la vicenda del falsi invalidi, rientrano a pieno titolo nel filone tangentopoli e rispecchiano l’italianissimo malaffare che tutti ben conoscono. Anche qui è giusto e corretto dare notizia di quanto accade ma occorrerebbe fare più attenzione, tanto per cambiare, alla complessità delle cose: la persona che finge di essere invalida per prendere la pensione di invalidità e magari fare anche del lavoro nero è sicuramente condannabile, ma non bisogna dimenticare che dietro ad ogni falso invalido c’è una commissione composta da almeno 4 persone che quella invalidità l’ha riconosciuta. Alcune testate non hanno ovviamente mancato di sottolineare questo aspetto ma altre non l’hanno fatto; il rischio insomma è quello di fornire dei fatti solo la versione più sensazionalistica (fa un certo effetto un cieco che guida un’ambulanza!) coinvolgendo solo le categorie meno protette e contribuendo così a rafforzare stereotipi del tipo "gli invalidi sono tutti ladri", "i meridionali non hanno voglia di lavorare e quindi si fanno passare per handicappati".
Messi da parte gli scandali c’è poi la crisi economica. Il voler risparmiare sulle pensioni di invalidità ne è un segnale a cui se ne accodano tanti altri, tutti visibili in trasparenza dietro ai temi e al cambiamenti che questi hanno subito a due anni di distanza. Di lavoro e formazione professionale per i disabili se ne è parlato sempre poco ma il tema ha il tracollo nel ’93; solo 5 articoli, 2 del quali dedicati ad iniziative del privato sociale che si spreme alla ricerca di soluzioni; il lavoro non c’è per i "sani", figuriamoci per i disabili.
Mancano i soldi e si guarda al concreto: si parla di più di assistenza (lo smantellamento dello stato sociale incombe ma per ora la politica è quella di salvare il salvabile) e crollano le bandiere degli anni ’80; l’autonomia è un lusso ed i temi ad essa legati non a caso si dimezzano. Abbattere le barriere architettoniche non è più di moda nemmeno per le amministrazioni, adesso "conta" la società civile, il volontariato, la solidarietà.

L’importanza degli "sfondi"

Osservando i risultati dell’item "tono", quello finalizzato a rilevare quindi il modo con cui i giornalisti affrontano i singoli articoli, sembra che quasi nulla si sia modificato. Rimane, per fortuna, una predominanza di articoli scritti con un approccio informativo (51,3%) e quelli di denuncia, malgrado gli scandali e i problemi del 1993, rimangono pressoché sullo stesso livello (23,4% il dato complessivo). Diminuiscono addirittura i toni pietistici (dal 7,6% del ’90 al 4,5% del ’93) ma aumentano un po’ quelli che puntano sulla sensazione (dal 10,6% al 18,4%). Ma niente di eccezionale.
La Carta dei Doveri del giornalista contiene un articolo che si intitola "Diritti della persona"; tali diritti consistono nel non vedere pubblicati i propri dati anagrafici in maniera gratuita, quando cioè non servono all’informazione ma solo al colore.
II dato positivo nel modo di dare le notizie è che, a dispetto dei casi sensazionali che comunque si sono verificati, si è registrato un sostanziale rispetto del diritto alla privacy delle persone coinvolte negli eventi; non sono moltissimi infatti gli articoli in cui sono stati forniti i dati anagrafici dei disabili ma ciò che più conta è che quando è stato fatto non si trattava di situazioni negative, tipo violenze sessuali, fisiche o morali, subite o inflitte.
Ciò che invece si coglie come sfondo complessivo in cui gravita il tema handicap è quello della problematicità; anche in questo caso comunque non si può affermare che i quotidiani non rispecchino la realtà. Essere disabili in una società che persegue i valori dell’efficienza e dell’esteriorità non è sicuramente un vantaggio ma, appunto, un handicap.
L’essenziale in ogni caso sarebbe discostarsi una volta per tutte da quell’alone di malattia, di sofferenza e quindi di istintivo allontanamento, che caratterizza troppo spesso la percezione della disabilità da parte delle persone al di fuori da questo ambito. Questo non vuole dire dipingere la disabilità come qualcosa di "bello" (cercare di rendere l’handicappato gradevole a tutti i costi è rischioso e ingiusto quanto renderlo sgradevole) ma sicuramente cercare di attribuire a questa condizione solo le sue effettive caratteristiche, positive o negative esse siano. I mass media in questa direzione possono dare un contributo fondamentale facendo attenzione certamente a quanto e cosa dicono ma soprattutto al come lo dicono. Nel tempo, a parte i casi eclatanti, forti emotivamente, nel ricordo delle persone non rimangono tanto i fatti ed i concetti quanto piuttosto le impressioni, il contorno delle cose. L’associazione prolungata della disabilità a valori deformati rispetto alla realtà non può insomma che generare e moltiplicare visioni distorte.

Brividi in diretta

Da quando i mass media, la tv in testa, hanno scoperto che le storie al limite (della sofferenza, della violenza, della disgrazia e, perché no, anche della pietà)
fanno audience, o lettori, è nata la moda. Quella che andando a pescare nel torbido delle paure, delle curiosità morbose, del desiderio di emozioni senza rischi, del bisogno di commozione ha poi decretato la nascita di trasmissioni come le già citate "Telefono Giallo", "I fatti vostri", "Ultimo minuto" "Chi l’ha visto", o di approcci come quello incalzante, da scoop mozzafiato, di Giovanni Minoli o ancora dell’informazione all’americana, stile morte in diretta (la tragedia di Alfredo Rampi nel pozzo di Vernicino, il buco in diretta di Claudio trasmesso da Canale 5 nel corso di uno "Speciale News" abbinato al film "Fuga di mezzanotte"). E ancora la trasmissione dei processi a Pacciani, a Bobbit, a Hammer.
Storie, uomini e donne di spalle, che si raccontano, che esibiscono il dolore, giornalisti a caccia della dichiarazione della madre a cui hanno appena ammazzato il figlio, del particolare scabroso, del brivido.
Oggi, o al massimo ieri, qualcuno si è accorto che le regole vanno cambiate, che la curva disegnata dal dolore non è un’iperbole bensì una parabola, che è ora di scendere. Qualcuno si è accorto che il sociale può generare prodotto giornalistici senza passare per forza attraverso lo spettacolo. Che, a guardarci bene, il mondo dell’associazionismo e del volontariato sono molto più ricchi di quanto sembrasse.
Così i più sensibili di una parte ed i più "abili" dell’altra hanno iniziato ad interagire, a collaborare. Il "Coraggio di Vivere" ad esempio per tutto il ’93 si è appoggiato a gruppi di volontariato e associazioni che, in tutta Italia, si occupano dei vari aspetti della marginalità sociale. Esperimenti come questo, che fra l’altro proseguirà anche nel ’94, sono una delle strade da percorrere per cambiare il modo di fare informazione sul sociale, per fornire, finalmente, quadri più completi ed equilibrati, per scavare maggiormente (ritmi e formati permettendo), per far sentire al cittadino un po’ inconsapevole la vera voce di "chi non ha voce".

Eroi per caso

Ci sono però anche un paio di rischi nascosti nelle pieghe del nuovo. Il primo è che anche nelle redazioni si crei una nicchia, quella del sociale appunto, o, come è già stata definita, degli "addetti ai disgraziati"; di quelli cioè che per missione o punizione seguono ogni giorno fatti e misfatti della marginalità in una sorta di routine necessaria. Il secondo è quello più grave ed è quello che porta alla nascita di una nuova categoria, quella degli esperti con un piede nel sociale (da cui provengono) e uno nell’informazione (da cui sono ammaliati); se collaborazione ci deve essere è normale che qualcuno si metta in questa posizione intermedia ma il pericolo, già visibile, è che si formi un’altra casta, ristretta, che nel giro di qualche tempo ri-immobilizzi le cose. Che anche costoro si trasformino soprattutto in divi televisivo-giornalistici, con annessi caratteristici comportamenti, e che si deleghi a pochi la gestione del far sapere in un ambito complesso e mutevole come il disagio sociale.
Che insomma dalla stagione degli anti-eroi si passi a quella degli "eroi per caso" evitando di passare per l’altra strada in grado di cambiare il modo di fare informazione ovvero, la formazione dei giornalisti. È su questo che occorre puntare per dare continuità e consistenza ai piccoli ma significativi segnali di cambiamento perché, da fatto ancora troppo estemporaneo e "di moda", l’attenzione al sociale ed il rispetto dei più deboli divenga un fatto di cultura, giornalistica e, magari, della società intera.
La sfida non è di poco conto adesso che si fanno più chiari gli scenari con cui tutti dovremo confrontarci: lo stato sociale sta per lasciare il posto ad altri modelli. Welfare market, welfare mix o welfare society? Oggi è azzardato fare previsioni su quale sistema verrà ad imporsi ma quel che è certo è che ogni cittadino sarà chiamato ad una maggiore responsabilità rispetto alla sicurezza sociale. Che è di tutti e non solo dei più deboli.

Vestire per nascondere o per punire

Una ricerca condotta da due educatori analizza le informazioni che si possono ricavare dall’abbigliamento dei disabili.

"B. ha venticinque anni ed è affetto da sindrome di Down; contribuisce a fare di lui un personaggio il suo particolare abbigliamento. I pantaloni che indossa sono fuori moda, a campana, mai oltre la caviglia e rigorosamente sorretti da un paio di bretelle con asole al posto dei ganci.
Gli indumenti che sono diventati piccoli sono accomodati dalla madre con aggiunte e riporti laterali, spesso di altri colori e di altra stoffa. È importante dire che i suoi genitori vestono alla stessa maniera".
"M. è una ragazza di ventotto anni; ha una grave cerebro-lesione con tetraparesi spastica a causa della quale cammina a fatica. Spesso è vestita inadeguatamente rispetto alla stagione, soprattutto in inverno. I colori dei suoi vestiti sono spesso sgargianti e abbinati con scarso gusto. Questo modo di vestire non è riscontrabile nel resto della famiglia".
"A. ha venticinque anni ed è affetta da sindrome di Down. Questo il suo "look" quotidiano: camicie coloratissime con colli dalle punte esagerate, gonna svasata e corta a ginocchio, pullover aderenti, calzettoni di cotone o calze di filanca bianche, rosa o azzurre. Le scarpe ortopediche di A. sono di colori vari, sempre molto intensi e spesso sono tinte in famiglia. Porta minuscoli occhiali da vista con Topolino sulle aste laterali".
Brevi profili di giovani disabili, tratteggiati da due educatrici professionali del centro diurno in cui sono inseriti. Maria Grazia e Maria Rita sono partite da quella che definiscono una constatazione quotidiana: "I ragazzi con cui abbiamo lavorato e quelli con cui lavoriamo ora – affermano – sono generalmente "vestiti male"". È nata così una riflessione (sotto forma di tesi) con cui le due educatrici, andando a di là del dato ovvio e superficiale, analizzano le informazioni che si possono ricavare dall’abbigliamento delle persone handicappate.
I protagonisti della ricerca condotta da Maria Grazia e Maria Rita sono proprio loro, i "ragazzi" del centro diurno, handicappati gravi con un’età compresa tra i venti e i trent’anni, non autonomi quindi nemmeno nella scelta dei vestiti. Poi i familiari, soprattutto le madri che nel 90% dei casi si occupano del vestiario dei propri figli.
Quali dunque i tratti salienti del vestiario quotidiano? Le educatrici rilevano una vasta gamma di possibilità tra cui l’inadeguatezza rispetto all’età, alla stagione e alla taglia, la qualità spesso scadente, la foggia fuori moda, la scarsa diversificazione rispetto al sesso che, nel caso delle ragazze, si traduce in un vero e proprio occultamento della femminilità.

L’abbigliamento per leggere il rapporto con la famiglia

Le funzioni canoniche, assolte dall’abbigliamento, vengono indubbiamente stravolte nel caso dell’utenza presa in esame. Il coprire ad esempio si estende fino a diventare un vero e proprio nascondere. L’abbellire è molto relativo viste le caratteristiche del vestiario medio. II richiamo sessuale coinvolge la già difficile percezione della sessualità che rispetto alle persone handicappate tende decisamente ad essere negata. La comunicazione del proprio status sociale non può che rispecchiare quella di una categoria "improduttiva", marginale dal punto di vista economico e scarsamente integrata. L’ultima funzione poi, la comunicazione della personalità, è totalmente disattesa visto che, come sottolineano le autrici, "… la personalità dei nostri ragazzi non è così completa e cosciente da permettere loro la scelta, di conseguenza chi li veste lo fa secondo propri schermi".
Ci troviamo insomma di fronte a una comunicazione mediata, filtrata
da idee e rappresentazioni della famiglia; quindi un ottimo strumento per leggere il rapporto di questi disabili con i genitori.
Secondo le due educatrici si possono verificare tre casi. Nel primo la scarsa cura nel vestiario del ragazzo handicappato si riscontra anche negli altri membri della famiglia: c’è quindi una rappresentazione del modello familiare e, "…nei casi presi in esame si riscontra una relazione positiva fra il ragazzo e la famiglia".
Secondo caso è invece quello in cui, pur in assenza di differenziazioni grosse nell’abbigliamento, viene rilevata una negazione dei bisogni del ragazzo. Questa si manifesta ad esempio attraverso il rifiuto di fare indossare al figlio il bavaglino, un accessorio che denota la disabilità. Siamo di fronte, insomma, ad una negazione dell’handicap.
C’è infine il terzo caso, quelle famiglie che mostrano grosse differenziazioni tra l’aspetto esteriore dei membri, molto curato, e quello dell’handicappato.
"L’atteggiamento generalmente riscontrato nella famiglia- sottolineano Maria Grazia e Maria Rita- è un non voler prendere in considerazione i bisogni del ragazzo perché "tanto è handicappato".

Dall’iperprotettività alla punizione

Concludiamo con altri due brevi accenni alle riflessioni contenute nella ricerca. Alcune abitudini riscontrate, ad esempio l’uso di abiti inadeguati all’età anagrafica (calzoncini corti e calzettoni, cappello con paraorecchie anche a trent’anni) o la quantità eccessiva di indumenti, specie in inverno, sono indici di come la madre viva spesso il figlio come eternamente bambino. Il ragazzo infatti non essendo autonomo nel vestirsi dipende totalmente dalla madre la quale, a sua volta, mette in atto atteggiamenti iperprotettivi.
Altro elemento emerso dall’osservazione: l’abbigliamento dei "ragazzi" tende ad essere curato nei periodi in cui sono tranquilli e dimesso quando manifestano crisi e tensioni. Quale il legame con il nucleo familiare? Secondo le autrici queste oscillazioni riflettono le tensioni vissute all’interno della famiglia: quest’ultima si trova infatti nel difficile ruolo di dover sostenere una comunicazione con i figli che, per il contatto anomalo con la realtà, si basa solo sul contenimento delle ansie, dei "fantasmi".
Le educatrici avanzano dunque un’ulteriore ipotesi che, precisano, è di natura interpretativa e personale: "L’abbigliamento – scrivono infatti – potrebbe essere un modo attraverso il quale "punire" il figlio nel momento in cui vive un malessere che per forza di cose è subito da tutta la famiglia".

Un jeans per persone veramente speciali

“Finalmente gli abiti si adattano a noi, non noi agli abiti”; con questo slogan una ditta di abbigliamento in provincia di Padova ha lanciato sul mercato un jeans confezionato appositamente per persone non deambulanti. È un primo passo per garantire al disabile il diritto di vestirsi come vuole.

Finché si è bambini non si fa molto caso a quello che si porta addosso ma, crescendo, uno comincia a chiedersi: "Perché devo sempre andare in giro con la tuta da ginnastica, con la felpa o con la camicia a quadrettoni?". Specialmente per un adolescente diventa difficile capire perché la sua disabilità fisica debba essere accentuata da un modo di vestire diverso dai suoi coetanei. E il problema non cambia crescendo perché, se ogni età ha il suo modo di vestire, per un disabile l’abbigliamento tende a non cambiare con gli anni.
Se in genere le famiglie e la mentalità comune sottovalutano questo problema per far fronte ad altre cose ritenute più importanti, può capitare di incontrare chi non la pensa così. La famiglia Silvestrin ha un figlio che si sposta su una sedia a rotelle a causa della spina bifida e ha la particolarità di lavorare nel campo dell’abbigliamento: "Se fossimo stati dei meccanici ci saremmo impegnati nel miglioramento delle carrozzine – dice Piergiorgio Silvestrin, un altro dei figli – ma, siccome in famiglia siamo tutti sarti e stilisti, ci siamo applicati a ciò che sapevamo fare".
Così l’azienda di abbigliamento a conduzione familiare ha creato un settore che si è specializzato nell’adattamento dei vestiti per disabili in carrozzina.
Per adesso fabbricano su misura solo i jeans: "il pantalone tradizionale è fatto per una persona che sta in piedi, non per uno che sta seduto; i nostri modelli sono più bassi davanti e più alti dietro per renderli più comodi; li confezioniamo con delle cerniere particolari o con le aperture a strappo lungo la coscia; anche per i problemi di incontinenza abbiamo delle soluzioni che mimetizzano l’ausilio".
Insomma la filosofia che sembra ispirare il loro lavoro è che gli abiti si devono adattare alla persona e non viceversa.
La realtà è invece un’altra; un disabile compera quel che trova e non quel che vuole ed è contro questa mancanza di opportunità che si muove l’iniziativa della famiglia Silvestrin. I jeans vengono venduti ad un prezzo che va dalle 60 alle 70 mila lire, un prezzo "sociale" quindi, che mira solo a coprire le spese di fabbricazione non volendo guadagnare nulla in questo settore: "i nostri guadagni – ci tiene a precisare Piergiorgio Silvestrin – non vengono da qua, questo è un discorso personale che portiamo avanti perché crediamo nella sua utilità".
Purtroppo il discorso stenta a decollare perché si scontra con la diffidenza delle associazioni: "In sette mesi di lavoro abbiamo vestito 50 persone, ma il giro si allarga lentamente. I presidenti delle associazioni accolgono con cautela i nostri inviti a diffondere l’iniziativa perché pensano che sia un’operazione commerciale ed anche che in definitiva il problema non sia poi così sentito".
Un modo per diffondere il prodotto potrebbe essere quello di vendere i jeans nei negozi ortopedici e sanitari ma questo porterebbe ad un notevole aumento dei prezzi (oltre le 100 mila lire) e alla perdita del contatto diretto con il cliente disabile.
Altra caratteristica è l’eleganza del prodotto: "Abbiamo applicato
ai nostri jeans le caratteristiche del "made in Italy", mentre all’estero hanno una concezione diversa che presta meno attenzione alla bellezza". Un modo come altri per dare la possibilità al disabile di vestirsi con accuratezza. E la moda? Risponde Piergiorgio Silvestrin: "L’handicappato non concepisce nemmeno
cosa sia la moda perché si veste solo con quel che trova, ma non è giusto che sia così". Se essere alla moda può essere un atteggiamento criticabile, il diritto di poterlo essere non lo è e deve essere garantito. Come? Ad esempio assicurando ai disabili altri capi di vestiario che non siano solo i jeans. Nei progetti della famiglia Silvestrin c’è anche l’intenzione di confezionare camicie e giubbotti adattati; i modelli disegnati ci sono gia, anche il materiale è stato scelto, ma per la loro realizzazione si aspetta di vedere come andrà con i blue jeans; se la loro commercializzazione coprirà le spese allora si potrà andare avanti.
(La ditta della famiglia Silvestrin è la "Taglieria S. Giorgio", loc. Arzercavalli, via Dossi 35 -35020 Terrassa Padovana (Pd). Tel. 049/538.30.14, fax 049/538.31.44)

Specchio delle mie braghe

L’immagine delle persone diverse

Grunge. No, non è verso di disappunto. È la nuova moda. Oddio, diranno quelli che non sanno ancora com’è. (Oddio, ripetono in coro quelli che sanno già com’è). Un po’ stanchi dopo la grande abbuffata di "estetismo a tutti costi" degli anni ’80 eccoci pronti a riciclare abiti ormai dismessi. Accozzaglie di stoffe, colori e fantasie: e le righe a farla da padrone. Le righe, appunto. Nel Medioevo indicavano uno status di diversità, un marchio infamante.
E oggi? Che ne è oggi dei marchi di diversità? Davvero la moda ha omologato tutto e tutti? Oppure ci sta solo provando? Ma soprattutto, la moda, o meglio ancora l’attenzione all’immagine ci interessa ancora? Interessa alle persone che, per definizione in quanto "diverse", non hanno avuto fino ad ora un accesso legittimo in questa sfera?
Alcuni segnali hanno attratto la nostra attenzione: sfilate di moda per donne in carrozzina, corsi di trucco per donne cieche, ausili con una cura particolare per l’aspetto estetico (oltre che per quello funzionale). Tutto, apparentemente, negli ultimi due, tre anni. Ed ecco il dubbio: che stia nascendo una attenzione tardiva (almeno rispetto all’ossessione dell’ultimo decennio) per l’immagine delle persone disabili? E se così fosse, che portata avrebbe?
Ci siamo posti queste domande e, per tutta risposta, ci siamo trovati con altre domande. 0 siamo di fronte ad un problema irrisolvibile o è la semplice prevenzione per tutto ciò che è troppo esteriore o per ciò che rischia di creare nuove differenze nel momento in cui dice di annullarle. Ecco perché abbiamo girato i nostri dubbi ad alcuni interlocutori e ciò che vi presentiamo di seguito sono le loro immediate risposte. Com’era prevedibile le posizioni si sono spaccate in due; "favorevoli e contrari", tanto per non rubare la formula. Le vostre opinioni invece le attendiamo in redazione. (V.B.)

Cristina Lasagni è autrice del video "Non sto parlando di nessun altra; frammenti di vita di donne handicappate". Dirige inoltre il trimestrale d’informazione giuridica "II diritto delle donne".
"Credo sia normale che oggi il mercato si rivolga anche ai disabili. Negli ultimi anni il mondo dell’handicap è uscito dall’ombra, ha fatto dei passi avanti. Testimone ne è anche l’attenzione recentemente dimostrata dai mass media verso questa fascia: ad esempio voglio ricordare la puntata della trasmissione "Milano Italia" di Gad Lerner, dedicata al problema della sessualità dei disabili. È il segnale che qualcosa comincia a modificarsi, anche se lentamente. Ma alla capacità di parola è legata anche l’affermazione sul piano economico, che è quella che al mercato interessa. La stessa cosa è successa negli anni ’50, quando il settore dell’abbigliamento ha deciso di produrre anche per gli adolescenti, fino ad allora ignorati perché privi di un’autonomia economica. Con questo non voglio dire che dietro a questa proposta del mercato non ci sia una riflessione, ma certamente non è quella ad avviare il motore della produzione.
L’idea del corso di trucco per donne cieche mi piace. Credo che per ogni donna sia piacevole fare qualcosa che la faccia sentire più carina. Una donna cieca non potrà vedersi allo specchio, ma è probabile che amici, parenti e conoscenti le riconoscano un aspetto più gradevole. Quasi tutte le donne si truccano, perché a una donna cieca dovrebbe essere negato? F allora una donna che ci vede poco poco può truccarsi o no? Insomma, dov’è il limite? In una società conformista come la nostra, dove per sentirti parte di un gruppo devi essere vestito, pettinato e truccato in un certo modo, per una persona che ha gia problemi in più rispetto agli altri questo può essere un modo per sentirsi un po’ più integrati. Lo stesso vale per gli ausili colorati. E’ giusto dare una possibilità di scelta. Starà poi ai singoli decidere se utilizzare una carrozzina grigio-ospedale o rosa confetto.
Più perplessa mi lascia invece l’idea di una sfilata per donne handicappate o a cui parteciperebbero anche donne handicappate. Soprattutto, mi chiedo quanto servano altre proposte, magari rivolte a chi è su una carrozzina. A queste persone servono abiti larghi, che si possano sfilare facilmente. Forse che il mercato già non li propone?".

Daniela Bas, politologa, è specializzata in tematiche di sviluppo sociale.
"Innanzitutto per me "fa moda e immagine" chi è naturale, disinvolto, spregiudicato, ma soprattutto chi mostra originalità: l’importante è che qualcuno riesca ad essere diverso dagli altri. Ecco perché negli anni ’90 tutto e tutti possono essere "moda e immagine". Le persone con handicap, considerate da sempre i diversi, hanno a propria disposizione dei punti di originalità in più se riescono ad aggiungere un tocco di naturalezza, disinvoltura, accettazione di sé ed anche orgoglio per come si è. Mi sembra logico che le persone con handicap colgano questo momento favorevole e si inseriscano sempre più in tutti i settori della vita dove l’immagine ha un ruolo: moda, ausili tecnici, mondo artistico… Chi diventa handicappato nel corso della propria vita si trova a doversi ricostruire un’identità, a confrontare il sé passato con quello presente. Si trova soprattutto con una nuova identità corporale, penalizzata, soprattutto finché è ancora in ospedale a fare
riabilitazione, da quel tipico abbigliamento grigio e informe, consono, appunto, al suo nuovo status fisico. Chi riesce ad attuare una riorganizzazione interiore, a trovare una immagine positiva di sé divenendo consapevole dei propri nuovi bisogni, può allora dare agli altri una immagine positiva. Chi acquisisce un handicap vede soprattutto colpita la propria desiderabilità. L’abbigliamento può diventare allora lo strumento per manifestare ciò che si è, è la libertà di sentirsi bene ed esprimere il proprio io attraverso l’io esteriore.
Sarebbe interessante rovesciare il concetto secondo cui gli anni ’80 hanno avuto una influenza anche sul mondo dei detentori di handicap che ora, con dieci anni di ritardo, hanno deciso di mettersi alla pari. Al contrario è la società che ora è cresciuta e inizia ad apprezzare ciò che è diverso se questa diversità si distingue per la sua originalità. Prima la forza di rigetto della massa della società era troppa. Oggi le porte, anche se solo quelle di servizio, sono aperte e ci si può fare conoscere e riconoscere come uguali nella diversità".

Cristina Pesci, medico psicologo sessuologa, fa parte del gruppo ricerca e formazione Handicap e sessualità dell’Aias di Bologna.
"Un corso di trucco per donne cieche e il lancio di ausili colorati mi pare un modo ipocrita per abbellire qualcosa che non è piacevole.
Un modo perché la società possa mettersi il cuore in pace, perché si senta sollevata dal senso di colpa. Invece preferisco l’idea che a un corso di trucco per normodotate possa partecipare anche una donna cieca, che probabilmente si sentirebbe molto più integrata di quanto non possa sentirsi in uno spazio "a parte", creato apposta per lei. Aborrisco l’idea di una sfilata per donne disabili. Sarebbe come negare una parte dolorosa, alla quale, se si potesse scegliere, si rinuncerebbe volentieri."

Antonio Guidi, neuropsichiatra infantile, e attualmente responsabile dell’Osservatorio per i diritti della Cgil di Roma
"Sicuramente da qualche anno a questa parte si assiste ad una maggiore attenzione relativamente all’immagine delle persone handicappate. Però nel frattempo assistiamo ad un rallentamento delle forme di estetica esasperata che hanno contraddistinto gli anni ottanta. Una caduta del mito del super-bello che comunque non è attribuibile ad una maturazione culturale, ad una presa di coscienza che nel culto dell’estetismo finiamo per essere tutti spettatori di una realtà aliena. Siamo in un periodo di normalizzazione in cui la bellezza e l’efficienza non sono negati perché elementi di devianza ma piuttosto perché troppo di lusso. E’ insomma una specie di risparmio.
Se ci fosse stato un vero superamento dell’ideologia non saremmo in una società frammentata in cui ognuno pensa di essere parte di una minoranza. Abbiamo infatti messo da parte i miti del bello, dei blocchi contrapposti, dell’abbuffata reaganiana ma non ci troviamo in una società più unita; oggi prevale una visione pessimistica e l’incremento del 400% nell’uso degli psicofarmaci è uno dei tanti segnali. In questa specie di cappa che opprime i valori si infiltrano però delle novità come ad esempio il coniugare efficienza ed estetica negli ausili. Avere una carrozzina migliore sotto entrambi i profili motiva sicuramente a sfruttarla at meglio.
Poi c’è un altro fatto molto importante: la sessualità, l’affettività delle persone handicappate, che una volta erano un diritto, oggi sono diventate un fatto fisiologico, naturale. Ecco la maturazione: la voglia di vestirsi e truccarsi come gli altri (di mettersi la Lacoste anziché la tutina) è un diritto e il segno di un salto di qualità.
Credo infine che per le case produttrici di pronto moda il settore handicap rappresenti un ambito di possibile sviluppo. L’importante è che la produzione di abiti su misura, con particolari accorgimenti per adattarsi ad esigenze diverse, non si trasformi in strumentalizzazione. Spero insomma che questi vestiti non costino cinque volte di più."